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Autore: Yoko Hogawa    03/04/2012    36 recensioni
Subito dopo la violenta frenata, John si sentì staccare dal sedile. Non vedeva nulla a causa delle oscillazioni e delle scosse, tutto tremava compreso lui stesso, nelle orecchie aveva solo il terribile suono stridente e le urla dei passeggeri che viaggiavano con lui; le luci elettriche del vagone tremolarono insieme al convoglio, spegnendosi del tutto quando, con un rumore simile ad un risucchio nel vuoto, gli venne a mancare la terra sotto i piedi e si trovò per aria, la mano fermamente attaccata al palo di ferro accanto al sedile su cui si era inizialmente accomodato.
Si sentì sbalzare contro il soffitto, sentì un dolore sordo al fianco e chiuse gli occhi per istinto, aspettando la fine di tutto, o l’inizio del “dopo”.
[Johnlock][Potrebbe esserci del linguaggio un po' colorito]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note: ormai sono sempre quelle, ma già che ci siamo...

Quest’ultimo capitolo è ambientato per la maggior parte in ospedale. Come ormai sarete stanchi di leggere – perché l’ho ripetuto quasi in ogni capitolo finora XD – tutte le cose mediche che vengono dette qui non sono farina del mio sacco. Vengono da Dr. House e da Wikipedia.

Tanto per dire: potrei anche scrivere una marea di boiate. Voi ricordate che è sempre licenza poetica ;D

 

Ringraziamenti: perché nell’ultimo capitolo ci vogliono.

Quando cominciai a guardare Sherlock – si sta parlando del dicembre 2011 – mi ero ripromessa di non scriverci sopra.

Eh. Si vede com’è finita.

Che dire? Inizialmente “All we can do (is keep breathing)” doveva essere una shortfic di 3 capitoli. Alla fine ne sono usciti 5 per un mio difetto congenito dell’essere prolissa, ma ammetto che non mi è dispiaciuto affatto allungarla, potendo così approfondire qualche altro aspetto dei personaggi.

E, a discapito del fatto che ci sono degli original character, e che la trama si snoda quasi tutta su di un cliché da Action movie di serie B, sono anche felice che sia piaciuta.

Davvero. Mi sono arrivate recensioni che mi hanno fatto sorridere come un’ebete davanti al pc per ore intere. Tutte parole che sento di non meritare ma che, e sarebbe bugiardo da parte mia negarlo, mi hanno fatto davvero molto piacere.

Perciò ringrazio tutti coloro che hanno letto, innanzi tutto, poi coloro che hanno recensito; ma anche chi ha semplicemente letto e messo nei preferiti, o nelle seguite, o nelle ricordate... o chi l’ha segnalata per le storie scelte del sito, con mia enorme gioia e sorpresa. Grazie.

Sono felice che abbiate apprezzato la fanfic e, dal profondo del cuore e come ogni ficwriter, spero di avervi lasciato qualcosa, fosse anche solo un bel ricordo.

 

Con queste mie parole, infine, apro l’ultimo capitolo.

Grazie per essere arrivati fin qui.

Buona lettura

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Passing Afternoon

 

 

 

Lestrade, appoggiato con la schiena al muro di quel piccolo spazio d’attesa, teneva le braccia incrociate ed il mento attaccato al petto. Indossava il suo impermeabile blu scuro stropicciato e aveva gli occhi fissi sulla punta della proprie scarpe. Non pensava a niente.

Mycroft Holmes, elegantemente seduto su uno dei seggiolini in plastica poco distanti da Greg, gambe accavallate ed inseparabile ombrello al fianco, teneva gli occhi socchiusi fissi su di un punto morto del pavimento. L’unico movimento che si dava pena di compiere era quello di passarsi fra le dita delle mani l’orologio da taschino, fermamente agganciato al gilet grigio con una catenina d’oro tirata a lucido. Non pensava a niente nemmeno lui.

Harriett Watson, capelli di una tonalità chiara di castano ed occhi di una particolare sfumatura oltremare, se ne stava seduta dalla parte opposta a Mycroft, scomoda in quei sedili di plastica così maledettamente tipici delle sale d’attesa.

Indossava una tuta grigia messa di fretta ed una giacca a vento maschile. Teneva un ginocchio piegato al petto e l’altra gamba abbandonata oltre il seggiolino, distesa con il tallone a terra. Anche lei non pensava affatto.

Molly Hooper, arrivata correndo dal Barts non appena aveva ricevuto la notizia, era in tenuta da lavoro, dunque indossava il camice. Turno di notte, probabilmente. Teneva le mani di mrs. Hudson, seduta al suo fianco fra Mycroft ed Harriett. Non sapeva a cosa pensare, dunque nemmeno lei se ne dava pena.

La signora Hudson indossava uno dei suoi abiti più belli, si era accotonata i capelli ed aveva messo persino i gioielli. Probabilmente, nella sua mentalità un po’ antica, l’eleganza era una sorta di rispetto, motivo per cui aveva perso qualche minuto in più a scegliere come vestirsi, per potersi presentare al meglio. Anche lei aveva la mente sgombra da ogni pensiero.

Sherlock li trovò così quando salì le scale del reparto, di ritorno dal pronto soccorso. Si presentò nel corridoio deserto a passo strascicato, le braccia abbandonate lungo i fianchi, un cerotto bianco che spuntava dai riccioli scuri umidi ed odoranti di shampoo.

Per poterlo curare gli infermieri del pronto soccorso gli avevano imposto prima una doccia. Lui l’aveva fatta nel minor tempo possibile, in silenzio, osservando per qualche istante l’acqua divenire scura a causa della quantità di sporcizia che aveva attaccata alla pelle, per poi sparire negli scarichi.

Gli avevano dato un accappatoio, lo avevano fatto sedere su di un lettino e gli avevano applicato cinque punti sul taglio, corredati con una dose generosa di antidolorifici che non migliorarono affatto lo stato catatonico in cui versava. Mycroft aveva poi provveduto a fargli avere dei vestiti di ricambio.

I soliti. Pantaloni neri, camicia bianca. C’erano anche calzini scuri e scarpe, così come la giacca del completo, ma Sherlock non li aveva indossati.

Era scalzo, infatti, sul pavimento freddo dell’ospedale semi-vuoto e silenzioso.

Silenzioso come lo era il piccolo manipolo di persone nell’altrettanto piccola saletta appositamente adibita per l’attesa di amici e parenti, dalle mura di un rivoltante color crema. I loro volti, cinerei e ansiosi, si voltarono quasi in sincrono quando comparve.

Sherlock non fece niente. Non salutò, non parlò, non respirò.

Aveva desiderato di addormentarsi. Di passare dormendo, per una volta seriamente, il tempo che lo separava dalla fine dell’operazione di John.

Così da non dover aspettare. Di nuovo.

Aveva già aspettato abbastanza, quel giorno. Tutto quel giorno. E l’attesa era stata ripagata.

Ma ora?

Ora arrivava una seconda punizione, voluta chissà da chi e chissà perché; doveva attendere di nuovo, un’attesa claustrofobica, circondata da muri di pietra ed odore di disinfettante.

Non appena fece un passo in avanti, dopo minuti interi passati in piedi appena oltre la porta dell’ascensore, mrs. Hudson scattò in piedi e gli si avvicinò a passo svelto, circondandogli prima il viso con le mani e poi tirandolo direttamente a sé, costringendolo a piegarsi per riuscire ad abbracciarlo.

Sussurrò al suo orecchio qualcosa che Sherlock non capì pienamente, ma che suonava molto come una serie di “andrà tutto bene” e “si salverà” e “tornerà sicuramente a casa” e “non preoccuparti”.

Holmes chiuse gli occhi, prendendo delicatamente le braccia di mrs. Hudson per sciogliere l’abbraccio in cui l’aveva stretto. Strinse per un attimo le mani raggrinzite della donna fra le sue, guardandola negli occhi per una frazione di secondo – trovandoli lucidi e bagnati di calde lacrime a stento trattenute – per poi lasciarla e sorpassarla a passo lento, andandosi a posizionare esattamente al centro della stanza, davanti a tutti quanti, gli occhi sulla porta dalla quale era appena entrato.

Diede le spalle ai presenti e, con un movimento stanco, si sedette a terra, i piedi incrociati e le ginocchia strette al petto.

Nessuno glielo impedì, o sottolineò quanto fosse inelegante.

Non sapeva come doveva sentirsi, né come effettivamente si sentiva. La mente continuava a dirgli che non avrebbe dovuto distruggersi in quel modo, che gli serviva riposo (o un antidolorifico più potente, magari morfina? Come da vecchie abitudini?(2)), che John Watson era solo un coinquilino. Ok, magari un amico, ma aveva comunque fatto il suo tempo. Continuava a spiegarli, con argomenti scientifici e logici, che sarebbe stato male a causa della perdita forse per le prime due settimane, perché lui era veloce ad elaborare il lutto, e dunque non gliene sarebbero servite di più. Gli diceva che John Watson non era tutta questa specialità, non era rilevante, era... sacrificabile. Sostituibile.

Di contro, ogni battito lento di cuore che sentiva esplodergli nelle orecchie – quel cuore neonato, ancora incapace di provare una sensazione definendo anche quale fosse – portava con sé parole del tutto diverse: calde e rassicuranti a volte, paurose e tese altre.

Gli sussurrava che era importante, restare lì. Che doveva farlo perché lo doveva a John. Che sarebbe dovuto rimanere fino alla fine, sveglio, presente, per poterne vedere il risultato, qualunque fosse.

Per potergli dare il bentornato se avesse riaperto gli occhi, o per potergli dire addio se non li avesse riaperti mai più.

Mormorava quietamente l’importanza del dottor Watson direttamente nel suo orecchio, facendogli presente come si sentisse ogni volta che riceveva un complimento sincero da quella voce umana, o quando il medico si lamentava a vuoto dei suoi esperimenti sparsi nel frigorifero ed in giro per la cucina.

Gli faceva ricordare ogni fremito che le corde del proprio cuore avevano percepito in tutto il tempo passato assieme; quando John faceva qualcosa di gentile per lui, si preoccupava per lui, sorrideva per lui.

Le occhiate e gli sguardi con cui capivano esattamente cosa l’altro volesse dire senza aver bisogno di parlare. Quegli attimi in cui Watson capiva, solo da una sua piccola e lieve occhiata, il bisogno che aveva di un tè – uno dei suoi tè, buoni in un modo che solo John sapeva fare, con quantità perfette di zucchero e limone – e qualche complimento, o di un pubblico che ascoltasse un suo ragionamento particolarmente brillante.

I momenti in cui John si addormentava sulla poltrona dopo essere rimasto sveglio per 72 ore di fila, seguendolo su e giù per Londra durante la risoluzione di un caso. Gli stessi momenti in cui Sherlock, mosso dai fili di qualche marionettista dal cuore tenero, si alzava dal divano in silenzio e lo copriva con la coperta, rimanendo poi seduto di fianco alla sua poltrona con l’unico scopo di ascoltarne il respiro regolare.

Le notti in cui, nonostante l’altro dormisse, Sherlock si metteva a suonare il violino. E John scendeva in punta di piedi le scale e si fermava dietro la porta chiusa del salotto, la schiena appoggiata al legno, e lo ascoltava suonare.

E allora Sherlock cambiava melodia, suonando qualcosa di dolce che sapeva piacere a John, facendo scivolare l’archetto sulle corde a creare note come il miele e facevano entrambi finta: Sherlock faceva finta di non essersi accorto di John, e John fingeva che Sherlock non si fosse accorto della sua presenza.

Tutte quelle circostanze in cui Sherlock si era sentito bene, meglio. Occasioni in cui aveva sorriso con affetto a qualcuno che non fosse se stesso, o a qualcosa che non fosse una sua deduzione o il teschio sul caminetto.

Sherlock Holmes cominciava a capire, e capire faceva male. Il suo cuore finalmente a pieno regime soffriva per l’emozione e la paura di ciò che provava mentre il suo cervello, testardo fino alla fine, continuava ad attivare meccanismi di difesa razionalizzanti, non facendo altro che confonderlo ancora di più.

Era nauseante.

E quella maledetta attesa non migliorava affatto la situazione.

 

 

 

Aprì gli occhi di scatto, sussultando.

Un sentimento di paura, forse di angoscia. La sensazione di cadere che è capace di svegliare una persona in piena notte e dal suo sonno più profondo.

In realtà, un po’ si sentiva esattamente così. Una persona svegliata nel cuore della notte.

Ma si guardò intorno, John, ed il posto in cui si ritrovò non aveva niente a che fare con la realtà.

Pareti bianche, pavimenti bianchi, tappeti bianchi, mobili bianchi, libri dai frontespizi bianchi come le relative pagine. Si ritrovò seduto su di una poltrona bianca, indossando vestiti bianchi – un paio di pantaloni larghi di cotone leggero, molto simili a quelli di un pigiama, e una maglietta bianca a maniche corte, semplicissima – e circondato in ogni dove da cose bianche. Anche la luce, che filtrava da una finestra con le tende bianche e dava su di uno spazio bianco uniforme, era bianca.

Si guardò meglio intorno. Le uniche note di colore erano un teschio sulla mensola sopra il camino, osso invecchiato, grigio sporco. Uno smile giallo sulla parete all’estrema destra. Un violino dalle venature marroni appoggiato sul divano.

Era famigliare, quel posto. Abitudinario. Gli dava una sensazione di calore, d’affetto, di protezione, di...

« Casa ».

Si irrigidì nel sentire una voce che non gli apparteneva e, ora completamente in allerta, girò velocemente il capo verso la sua fonte, fin troppo vicina per pensare che non fosse nella stanza già da prima.

Come aveva fatto a non notarla?

Di fronte a lui, su di una poltrona posizionata esattamente di dirimpetto a quella su cui era seduto, una ragazza era intenta a leggere un libro dalla copertina bianca e dalle pagine vuote. Non vi era scritto nulla eppure lei leggeva, attenta, concentrata.

Indossava un tailleur bianco a pantalone, elegante, con una camicia altrettanto bianca. La pelle era lievemente olivastra, i capelli corti e neri, scalza. Lo erano entrambi, in realtà. Era seduta a gambe incrociate.

La conosceva. Sapeva chi era.

« Joy? » domandò infatti.

Quella, alzando gli occhi su di lui, sorrise appena. « Più o meno » rispose, chiudendo piano il libro ed appoggiandosi allo schienale della poltrona.

Chissà perché, John sentiva che era strana l’immagine di lei su quella poltrona. Sbagliata.

Ma non ricordava perché.

Aggrottò le sopracciglia nell’osservarla, senza scostare i propri occhi dai suoi. « Sei morta » affermò poi.

Quella annuì.

« Io sono morto? » domandò allora, facendo un’associazione di idee.

Lei fece spallucce, negando con il capo. « Non lo so » disse poi.

Sorpresa. Smarrimento. « Non lo sai? » domandò John: « cioè, se tu sei qui... e io sono qui... » ipotizzò, ma lei lo interruppe.

« E queste due condizioni danno per forza come risultato la tua dipartita? » domandò lei con un sorrisetto ad inclinarle le labbra: « non potremmo semplicemente essere qui perché sì? Perché è così che deve essere? » continuò, senza mai smettere di guardarlo.

John inarcò un sopracciglio. Una voce nella coscienza gli sussurrò una frase.

Le coincidenze non esistono, John.

La ripeté ad alta voce: « le coincidenze non esistono » disse.

Quella roteò gli occhi, ma sorrideva ancora. « Come sei puntiglioso... » lasciò cadere, per poi ritornare a guardarlo: « rispondi a questa domanda, allora: dov’è “qui”? ».

Al dottor Watson scappò una risatina, una di quelle supponenti che poche volte gli avevano inclinato le labbra. « Beh, qui siamo... » cominciò, ma si fermò a poche parole dall’inizio della frase, bloccato.

Distogliendo lo sguardi da lei, osservò di nuovo ciò che lo circondava: tutto quell’insieme di oggetti bianchi contro pareti bianche su mobili bianchi nella luce bianca.

Riconosceva il posto, eppure non riusciva a dire dove fosse. Si sentiva a casa, eppure non riusciva a spiegarsi perché.

Sentiva che mancava qualcosa, qualcosa di importante, ma non sapeva spiegarsi cosa. No, qualcuno. Qualcuno. Ma non sapeva ricordare chi.

Non ricordava niente.

« Dove... dove...? » boccheggiò, ancorandosi con le mani ai braccioli della poltrona nel tentativo di non cedere al panico che stava lentamente montando nel suo petto.

Joy, sempre appollaiata sull’altra poltrona, intervenne appena in tempo: « rilassati, John. Non è grave. Sei qui apposta » gli disse, facendogli segno con la mano destra di calmarsi un poco.

Watson, finalmente consapevole delle parole, riportò gli occhi su di lei. La guardò in silenzio per qualche istante, attimi in cui lei si lasciò osservare.

« Cosa intendevi prima con “più o meno”? E cosa vuol dire che sono qui apposta? » domandò l’uomo, calmando a fatica i battiti accelerati del proprio cuore smarrito.

Il sorrisetto sulle labbra di lei si allargò. « “Più o meno” vuol dire che sono Joy, ma al contempo non lo sono. In realtà, John, non lo sono affatto. Io sono solo una proiezione del tuo subconscio che il tuo cervello ha deciso di associare alla figura di una povera ragazza morta proprio sotto al tuo naso. Suppongo che si sia ispirato all’ultimo trauma subito per ricreare quest’immagine, niente di così originale... » spiegò, ma John la interruppe all’improvviso.

« Frena, frena, rallenta! » esclamò, portandosi istintivamente la mano sinistra sugli occhi, massaggiandoseli: « mi stai dicendo che tu sei me? » chiese.

Lei annuì. « Ai minimi termini, sì » rispose.

« E quindi sto parlando con me stesso? » aggiunse l’uomo.

L’altra annuì di nuovo.

« Ah. Mh... bene. Ok » balbettò John, cercando con tutto se stesso di non dare a vedere la sorpresa e la stranezza che tutto quello gli provocava. Non ce la fece poi molto: « Cristo, non può essere reale... » sussurrò.

« Oh, avanti John! Cosa ti sembra reale, qui? » esclamò la ragazza, aprendo le braccia in modo da indicare l’ambiente attorno a loro: « cerchiamo di concentrarci, ti va? Devi dirmi dove sei, John. Fa parte della scelta » disse.

Watson, ancora con la mano posata sugli occhi, trattenne il fiato. « “Scelta”? Quale scelta? » domandò, distogliendo le mano dai propri occhi e tornando a guardarla. « Anzi, non hai ancora risposto ad una delle mie domande: cosa vuol dire che sono qui apposta? » chiese, sempre più stranito e perplesso.

Joy – o la presunta tale – prese un grosso sospiro e si massaggiò le tempie con le dita. Trovò una sorta di concentrazione, di equilibrio emotivo tutto suo, poi finalmente prese parola.

« Non è la prima volta che ci vediamo noi due, sai? ».

John sembrò sorpreso dell’affermazione, lei annuì di nuovo.

« Qualche anno fa ti hanno sparato, ricordi? Spalla sinistra. Non ti hanno colpito il cuore ma hanno rischiato di farti fuori comunque » una piccola pausa: « ...in quell’occasione sei stato molto vicino alla morte, e ti è stata data la stessa scelta che ti viene offerta ora. Ci siamo incontrati lì, io e te. Certo, all’epoca non avevo questa faccia » disse, indicandosi con entrambe le mani: « però il concetto di base è quello » terminò.

Il medico rimase in silenzio, catalogando e mettendo in ordine le informazioni appena ricevute. Aveva deciso di fidarsi, ad un certo punto del racconto, perché la situazione gli sembrava troppo assurda ed irreale per non credere alle sue parole. Ovviamente non si ricordava del fantomatico incontro, però...

« Non puoi » disse lei all’improvviso.

« Come, scusa? » domandò John, ridestandosi dai propri pensieri.

« Non puoi ricordartene » precisò lei: « sarebbe come ricordare un sogno, o meglio, una visione. Questo luogo non si ricorda mai, è destinato a rimanere un punto disperso nel tempo infinito di uno spazio inesistente » spiegò.

Non si stupì più di tanto che potesse leggergli nel pensiero, se veramente era il suo subconscio. Anzi, era una sorta di prova del nove, in fondo.

« Quindi mi stai dicendo... » cominciò lui, convinto di essere arrivato ad una sorta di soluzione: « ...che questo posto è una specie di corridoio di passaggio per la gente che rischia di morire ma non è ancora morta. Dico bene? » domandò, cercando conferma.

Quella, lasciandosi scivolare di lato fino a stendersi di traverso sulla poltrona, annuì con uno sbadiglio. « Il termine più corretto è “limbo”. Hai ragione, nella realtà sei a tanto così... » e mostrò una distanza irrisoria con l’indice ed il pollice della mano destra « ...dalla morte. Sei qui perché devi scegliere cosa fare e sei uno dei pochi fortunati che possono permetterselo. Io gioirei se fossi in te, se mi passi la battuta » disse quella, ridacchiando piano.(3)

John ignorò lo squallore dell’ironia, preferendo concentrarsi sui particolari importanti. « E cosa devo scegliere? » domandò.

« Se restare o andare » rispose semplicemente l’altra, ed il significato era ovvio.

Così semplice? « Resto » pronunciò.

« Perché? » chiese allora l’altra.

« Come “perché”? » esclamò allora John, stranito. « Se chiedi ad una persona di vivere o morire è logico che risponderà “vivere”, no? » disse, quasi stizzito da quella domanda a suo parere scontata.

« Ah sì? » cominciò però Joy, guardandosi le dita dei piedi nudi mentre le muoveva: « eppure hai pensato tante volte di voler morire, John. Tante. Anche l’ultima volta che ci siamo visti. Ci ho messo molto tempo per convincerti, quella volta » disse.

John prese fiato per risponderle, ma non lo fece. Le sue parole erano vere, e lo sapeva lui così come lo sapeva lei.

No. Effettivamente non era una domanda scontata.

« Ma il fatto che tu sia intenzionato a tornare alla vita mi rincuora, almeno siamo un passo avanti » aggiunse poi, rimettendosi seduta a gambe incrociate con un movimento fluido ed agile. « Allora John, dove siamo? » domandò di nuovo, guardandolo in attesa di una risposta.

Risposta che non arrivò. Non subito, almeno.

« Non me lo ricordo » ammise Watson.

« Però lo sai » sostenne lei.

« Come fai a dirlo? » domandò ancora John.

« Perché so che lo sai » rispose ancora Joy.

John cominciava a spazientirsi. « E tu lo sai, dove siamo? » domandò allora, cambiando strategia.

Joy negò con il capo.

« Ma come? Tu non sei me? » sbottò il medico, al limite della pazienza.

« Giusto. Ma vedi, io sono una parte diversa di te. Sono quella parte senza regole e senza costrizioni. Sono quella parte che esce fuori nel sonno, dove le catene delle inibizioni sociali mi vengono tolte e io posso giocare con i tuoi sogni facendoti vedere la verità su molte cose che ti ostini a negare. Che ti ostini a non fare. Sono quella parte di te che esce fuori quando hai troppo alcool in corpo, o quando sei su di giri, o quando anche la stronzata più assurda ti sembra una buona idea. Dunque sì, è vero, sono te. Ma sei tu quello con il cervello, non io: io sono solo istinto » puntualizzò, ammaliante e suadente.

A vederla dall’esterno, avrebbe dubitato che quella ragazza così disinibita potesse realmente essere una parte di lui, seppur minima.

« Ho studiato Freud » la apostrofò: « devo dedurne che ho il piacere di parlare con il mio Es? ».(4)

Quella gli fece un piccolo applauso, un sorriso di plastica sulle labbra. « Bravo! » esultò: « è un piacere, davvero. Di solito non godo di tutta questa libertà, con quell’accidenti di Io militarizzato che ti ritrovi! » aggiunse poi, sproloquiando apposta per farlo arrabbiare ancora di più.

Gesù, nemmeno Sherlock riusciva a farlo irritare così!

Trattenne il fiato, serrando improvvisamente le labbra. Joy, di fronte a lui, si calmò ed esibì un sorrisetto sornione.

Sherlock? Perché aveva pensato a quel nome? Chi era Sherlock?

Al solo pensarci, una sensazione strana gli esplodeva nel petto. Un sentimento di ammirazione misto ad agitazione, paura, ma anche calore, e tanto, tanto affetto. Importanza. Qualcuno di importante.

Ma non riusciva ad associare un volto a quel nome, una storia a quel nome, ricordi a quel nome.

Niente, a quel nome. Solo un nome.

“Sherlock”.

« Devi dirmi dove sei, John » intervenne Joy, ripetendogli per l’ennesima volta quella richiesta. La voce calma, seria, composta.

« Perché? » soffiò lui, confuso, scombussolato.

« Perché non te lo ricordi. Ed è importante per te farlo ».

« ...perché? » sussurrò di nuovo, questa volta più piano, più indeciso.

« Perché hai smarrito la strada di casa.  E se non ti aiuto a trovarla non riuscirai più a tornare indietro ».

 

 

 

Erano passate quattro ore e mezza.

Infinite. Viscose. Appiccicose.

Avevano sentito sulla pelle ogni minuto, ogni secondo, ogni ticchettio d’orologio. Si erano voltati ad ogni passo, sussultato ad ogni sospiro, guardato i rispettivi orologi all’incirca ogni quarto d’ora convinti che fossero passati almeno quaranta minuti – ogni volta.

Mai il tempo era stato così lento, mai l’attesa così angosciante.

Relativismo. Tutto cambia a seconda dei punti di vista. Per questo motivo il tempo sembra lento o veloce, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.

Oggettivamente, il tempo era sempre lo stesso. Scorreva sempre alla stessa velocità.

Soggettivamente, ognuno di loro aveva la sensazione di essere seduto in quella sala d’attesa da un giorno intero, quando invece era lì solamente da quattro ore e trentatre minuti.

L’orologio segnava le cinque meno nove e fuori nemmeno albeggiava. Era ancora notte. C’era ancora buio e silenzio, all’esterno, lo stesso che aleggiava pesante in quella stanza illuminata di luce artificiale, abbastanza fioca da far venire sonno a chi era stanco ma altrettanto violenta da non permettere a nessuno di addormentarsi veramente.

Lestrade, seduto sul sedile accanto a Mycroft, faceva ciondolare il capo ogni volta che un attacco di sonno se ne approfittava e lo trovava con gli occhi chiusi.

A sua volta, Mycroft teneva gli occhi puntati sulla schiena del fratello, scostandoli solo di tanto in tanto per fare attenzione che Greg non perdesse l’equilibrio sulla sedia o si facesse male al collo.

Molly, ancora accanto a mrs. Hudson, si era appisolata sulla testa della donna, che a sua volta aveva appoggiato la fronte alla spalla della giovane senza tuttavia dormire. Languiva in una sorta di dormiveglia agitato, ansiogeno, respirando a tratti veloce, a tratti profondamente.

Harry Watson, invece, seduta ci era stata solo per la prima ora. Si era poi avvicinata alla finestra e aveva guardato il buio dall’altra parte del vetro per le rimanenti tre ore e mezza. In silenzio, immobile, persa.

Sherlock, d’altro canto, non si era mai mosso da dove si era seduto. Non aveva cambiato posizione, modo di stare seduto, non si era alzato per sgranchirsi le ossa... niente. Non aveva parlato, ancora, il che era molto peggio.

Chissà perché, il silenzio profondo in cui Sherlock si era rinchiuso si ripercuoteva sugli altri presenti come un’onda d’urto. In realtà come un buco nero, perché aveva trascinato tutti con sé in una situazione pesante come piombo in cui sembrava addirittura un crimine pronunciare anche solo una parola.

Ne erano tutti consapevoli e, forse per paura di spezzare chissà quale prezioso equilibrio, nessuno fiatava.

Nell’assoluto silenzio che veniva così a crearsi, si sentiva tutto. E Sherlock era sempre il primo a percepire qualsivoglia suono, soprattutto dall’interno dell’ospedale, ancora più precisamente all’interno del reparto in cui si trovavano.

Passi in lontananza, Sherlock alzava il capo dalle braccia appoggiate sulle ginocchia piegate al petto.

Fruscii, i muscoli della schiena di Sherlock si tendevano, in attesa di scattare.

Respiri... sì, probabilmente Sherlock sentiva anche quelli.

Sembrava che tutto, lì dentro, facesse ormai parte di Sherlock. Parte integrante.

Sherlock era nelle pareti, nei pavimenti, nei sistemi antincendio. Sherlock era nell’acqua, nell’aria e anche nelle intenzioni.

Talmente assuefatto, deformato, stravolto da quella situazione che sembrava ormai catatonico, completamente isolato in una bolla di protezione assoluta, immerso talmente tanto nella realtà che essa aveva cominciato a fondersi con i brandelli della sua pelle.

Attendeva. Aspettava i passi diretti in loro direzione che gli avrebbero finalmente detto cos’avrebbe dovuto fare della propris vita.

E questo, lo sapevano tutti. Tutti sapevano che per Sherlock Holmes non era la stessa cosa aspettare in quel posto, paziente, muto. Per lui era diverso perché là dentro c’era John, e John era colui che poteva essere la sua fortuna o la sua rovina.

Ora John rischiava la vita, e Sherlock era perso. Si era ritrovato a gestire un cuore con cui non era abituato a trattare e gli effetti erano, purtroppo, palesi.

Non sarebbe riuscito a proteggersi ancora per molto. Ad un certo punto la paura avrebbe spinto i sentimenti a prendere il sopravvento, complice la chimica dell’organismo umano, e probabilmente l’unico consulting detective del mondo sarebbe crollato.

E in quel momento, doveva esserci John a rimettere insieme i pezzi. Doveva.

 

 

 

« Dove sei John? »

« Non lo so. »

« Dove sei, John? »

« Non lo so. »

« John, dove sei?! »
« NON LO SO! »

L’urlo del medico risuonò ovattato fra le pareti bianche, che assorbirono la frustrazione di quelle parole come se fossero fatte di spugna.

Joy roteò gli occhi, guardandolo con astio malcelato. « Smetti di dire che non lo sai e mettiti in testa che lo sai! » esclamò, battendo con rabbia le mani sui braccioli della poltrona.

John la fissò iracondo. « Smettila tu di assillarmi con questa storia e dì qualcosa che abbia del senso, una volta ogni tanto! » sbottò.

Sbuffò, risentita. « John, stai facendo ostruzionismo » ammise, fissandolo male.

Lui restituì lo sguardo con un grado addirittura maggiore di risentimento. « Io non ostruisco proprio niente, se non lo so, non lo so » disse, sottolineando con la voce le ultime parole, duro.

« Oh, Cristo! » imprecò la ragazza, piantandosi esasperata i palmi delle mani sugli occhi. « Quante volte dovremo ricominciare questo discorso? Quante volte, prima che tu ti convinca che ti stai dando la zappa sui piedi da solo senza nemmeno accorgertene? » domandò retoricamente, le mani ancora a coprire gli occhi.

Watson sospirò pesantemente, massaggiandosi l’attaccatura del naso fra le sopracciglia.

Era una cosa completamente inutile. Inutile.

Aveva guardato quel maledetto posto per minuti interi, ore probabilmente, senza riuscire a capire altro se non che si trovava in un salotto. Poltrone, divano, un caminetto... sì, su quello non vi erano dubbi.

Ma non aveva comunque la più pallida idea di dove fosse. Sapeva solo che si sentiva bene, in pace, a casa, ma queste sensazioni non lo aiutavano, se mai lo confondevano ancora di più.

Gli facevano venire il dubbio che, se le aveva, magari lui doveva per forza sapere che tipo di posto fosse, quel salotto. Altrimenti non si sarebbero spiegate. Il che lo portava, a sua volta, ad una sola conclusione:

Se ne era dimenticato.

Passarono in silenzio alcuni attimi che sembrarono non finire più. Poi, prendendo un lungo respiro, fu la ragazza ad interrompere la stasi.

« Si può sapere perché vuoi morire? »

La domanda sorprese non poco il medico, che si tolse la mano da davanti agli occhi e la guardò.

« Io non voglio morire » le rispose, come se la cosa fosse ovvia.

« Non mi pare » ribatté però subito quella.

John sentì una nuova ondata di rabbia montargli in petto, ma resistette per il bene dei suoi nervi.

Dio, non credeva che il suo subconscio fosse un tale dito in culo.

« E perché? Perché non mi ricordo dove sono? » domandò retorico.

Si aspettava una reazione piccata, magari una frase intricata e cosparsa di ossimori, ma non avvenne. La ragazza si limitò semplicemente a guardarlo, fisso, le labbra chiuse e lo sguardo concentrato.

« Cosa c’è... ? » chiese allora Watson, facendosi avanti per primo.

« Sto cercando di capire » disse quella.

Si fissarono negli occhi per altri lunghi istanti, John con la testardaggine di chi non vuole abbassare lo sguardo per primo e Joy con una sorta di interesse scientifico misto a rassegnazione.

« Non c’è scelta » disse infatti poco dopo, puntellando le mani sui braccioli e sedendosi sullo schienale della poltrona, i piedi nudi ben fissi sul sedile della stessa: « devo metterti davanti alla realtà dei fatti. Avrei preferito non forzarti, ma tu sei talmente cocciuto che non mi dai altre possibilità! » si lamentò.

Ecco. Ora era totalmente ed incommensurabilmente irritato dal suo io interiore, che a quanto pareva provava una sorta di perverso piacere nel torturarlo mentalmente.

« Ora sono io che voglio sapere una cosa » la interruppe però John, impedendole di pronunciare la frase per la quale aveva appena aperto bocca: « per quale accidenti di motivo ti sta così tanto a cuore che io viva, mh? » domandò, serio.

Il sopracciglio di Joy si alzò come dotato di vita propria. « Ma dico, mi stai prendendo in giro? » domandò retorica, senza nemmeno dargli il tempo di rispondere (o di pensare di farlo): « John Hamish Watson, cosa del concetto “io sono te” non ti penetra in testa? Ok, forse come io irrazionale sono molto diverso dall’io razionale, ma fatto sta che “abitiamo” nello stesso corpo. Se crepi tu crepo anche io » disse, indicandosi con gli indici di entrambe le mani: « e, senza offesa, ma ci sono un paio di cose che desidero fare – o meglio, farti fare – prima di morire » concluse.

Il medico, stringendo le labbra per non dare voce ed epiteti poco adatti ad un inglese bene educato, non fece altro se non scuotere il capo negativamente.

Prese fiato per esprimere tutto il suo disappunto, ma una dolorosissima scossa al torace gli bloccò la voce in gola, lasciando che si esprimesse solo tramite un gemito sorpreso di dolore.

Istantaneamente, si portò la mano al petto, trattenendo il fiato. Sembrava come se gli fosse passato un fiotto di energia elettrica attraverso la gabbia toracica, localizzato, da parte a parte.

Poi un’altra, e un’altra ancora. Quattro, cinque volte.

Si fermarono.

Joy, dalla sua posizione sopraelevata, lo guardò con espressione preoccupata ma consapevole, senza fiatare.

John attese qualche istante senza respirare – aspettando forse che il dolore si ripetesse ancora una volta – ma poi decise di prendere finalmente fiato.

« Cos’era? » domandò allora, la mano destra a stringere la maglietta bianca all’altezza dello sterno. « Si può sentire dolore qui? » chiese subito dopo, guardandosi intorno per sottolineare che si riferiva al luogo in cui si trovavano.

Joy negò con il capo.

« Quello, John, era un rintocco d’orologio » disse: « il tuo tempo sta scadendo ».

 

 

 

Il fruscio dei suoi capelli ricci e scuri sul colletto umido della camici riempì il silenzio come uno squillo di tromba.

Sherlock Holmes aveva alzato lo sguardo sulla porta d’ingresso e, solamente dopo che quel movimento aveva

attirato l’attenzione dei presenti, anche tutti gli altri poterono sentire un rumore di passi in avvicinamento.

Scattò in piedi, seguito a ruota da tutti i presenti. Sei paia di sguardi si fissarono in una stessa direzione.

L’orologio di Lestrade scoccava le cinque del mattino ed il cielo all’esterno cominciava ad avere una sfumatura più chiara, preparandosi per accogliere prima l’aurora, poi l’alba.

Dopo qualche istante che sembrò infinito, un medico fece il suo ingresso nella sala d’attesa.

Niente camice, notò Sherlock: veniva dalla sala operatoria. Indossava uno dei coordinati ospedalieri verde, maniche corte, calzini bianchi e ciabatte di plastica. A giudicare dalle suole pulite delle calzature si era appena cambiato e, dati i segni degli elastici del camice sui polsi e i lievi residui di talco sotto le unghie – lasciati dai guanti di lattice – si poteva capire che non era un infermiere, ma un medico.

Carnagione olivastra, capelli rossicci, occhi marroni, naso un po’ rotondo, sguardo fermo, abituato. La mente vola ad una pagina di una rivista sfogliata una volta in cui compare il volto di quest’uomo come contorno ad un articolo sulla chirurgia cardio-vascolare. Medico famoso.

L’ha chiamato Mycroft.

Il cervello di Sherlock aveva già capito tutto persino prima che l’uomo si presentasse, o aprisse del tutto bocca. Fu infatti lo stesso Holmes ad impedirgli di farlo, tagliando subito i convenevoli e passando a ciò che più gli premeva: « come sta John? » domandò, velocemente, urgentemente.

Quello, osservandolo, richiuse la bocca. « Lei è un parente? » chiese.

Sherlock sbuffò. Procedure standard di condivisione delle informazioni solo con coniugi o parenti, salvo altra indicazione.

Lanciò un’occhiata al fratello maggiore che, per tutta risposta, negò leggermente con il capo. Contatto oculare per dirgli che no, non poteva farci niente, quello era segreto professionale dei medici. Lui era il Governo, ma anche se aveva l’autorità di farsi dire praticamente tutto non aveva ragioni o motivazioni abbastanza importanti per farlo in quel momento.

Il fratello minore dovette arrendersi e ammutolì, senza tuttavia distogliere lo sguardo. Al che il medico posò gli occhi sulle altre persone presenti, domandando: « la signorina Harriett Watson? ».

Harry, che non si era spostata da accanto alla finestra, gli fece un cenno con il capo. Non si avvicinò al medico, non abbandonò la sua posa ermetica con le braccia incrociate al petto e, in definitiva, fece persino fatica a staccare gli occhi dal panorama esterno alla finestra. Non gli diede tempo a sua volta di presentarsi, esibendosi in un: « lo dica pure ad alta voce, le persone qui presenti sono tutte fidate » dando il permesso al dottore di parlare alla presenza di tutti.

Quello annuì, sospirando pesantemente.

« Il dottor Watson aveva un’emorragia interna del cavo peritoneale, probabilmente dovuta al trauma » cominciò: « gli abbiamo praticato un taglio, abbiamo drenato il sangue e siamo riusciti ad individuare e richiudere la ferita che l’ha scatenata » disse.

La signora Hudson, le mani strette l’una nell’altra in una morsa, sospirò sollevata. Così fece Molly, che si lasciò andare in un lieve sorriso.

« Ma? » intervenne però Sherlock, che guardava il chirurgo con occhi attenti e famelici – non si sapeva se di informazioni o di sangue, considerando l’intensità di quello sguardo.

Il medico sbuffò, portandosi una mano sul collo dolorante, massaggiandoselo. « Ma... l’emorragia ha avuto due conseguenze: la prima è una lieve insufficienza renale, che ha bloccato il lavoro dei reni per qualche ora. La seconda, è una tachicardia continua causata dall’abbassamento della pressione arteriosa » disse.

 « In poche parole, il cuore del dottor Watson ha battuto troppo in fretta per troppo a lungo. E dato che i suoi reni avevano smesso di funzionare, il sangue che non ha perso si è riempito di tossine » spiegò poi.

La signora Hudson trattenne rumorosamente in fiato, così come Greg e Mycroft lo fecero silenziosamente. Harry sembrava non respirare già da molti minuti mentre Sherlock, esattamente di fronte al chirurgo, sgranò un poco gli occhi.

Il suo cervello volò alle possibili cure, ai rimedi, alle analisi e alle conseguenze mediche di ogni singola parola.

A ciò che sarebbe potuto andare bene, male, a come si sarebbe trasformata la vita di John – la loro vita – se una di quelle anomalie avesse avuto conseguenze permanenti sull’altro, invalidanti magari.

Il suo respiro aumentò, ma la voce del medico che riprendeva il discorso nascose agli altri quel piccolo particolare.

« Avremmo dovuto mettere il dottor Watson in dialisi, per ripulirgli il sangue, ma non potevamo prima di aver fermato l’emorragia. Una volta fatto i reni hanno ripreso la loro funzione e non sembra che siano stati danneggiati. Così è anche per il cuore: le analisi mostrano che, nonostante la tachicardia, il cuore non ha subito danni... tuttavia, durante l’intervento ha avuto un arresto cardiaco » rivelò.

E fu il cuore di Sherlock, questa volta, a perdersi un battito per strada. Lo avvertì dolorosamente, lo avvertì sentendosi anche mancare il respiro, lo avvertì vergognandosi di se stesso e di quella debolezza che stava mostrando di possedere.

Lo sapeva già da prima. Lo aveva scoperto poco prima che Moriarty glielo dicesse con quel sorrisetto mellifluo sulle labbra.

Un cuore lo aveva. E faceva male.

Avrebbe tanto voluto strapparselo dal petto seduta stante.

Il medico continuò: « lo abbiamo rianimato con il defibrillatore, ci sono voluti quasi due minuti. Non ci sono stati problemi, ma ha rischiato il tracollo cardiaco altre due volte nonostante abbia ricevuto trasfusioni di sangue, e per non rischiare lo abbiamo messo in coma farmacologico e abbiamo applicato, per la durata dell’intervento, un bypass. Gli è già stato tolto ed il cuore batte con una frequenza normale, ma per evitare eventuali stress abbiamo deciso di mantenerlo in coma farmacologico anche per tutta la durata della dialisi » prese una pausa, finalmente al termine della sua “relazione”, guardando i presenti uno ad uno: « adesso è in terapia intensiva. Potete andare a vederlo » terminò del tutto.(5)

Sherlock non aspettò nemmeno un istante. Il suo corpo si muoveva da solo in direzione del reparto di terapia intensiva, ovviamente consapevole di dove fosse, dato che si era studiato la pianta dell’ospedale mentre un tirocinante gli applicava i punti in testa.

Entrò a passo svelto nel reparto deserto, cercando con occhio vigile il nome di John sulle targhette accanto alle varie porte. Superò a passo deciso la parte con le stanze in comune, poiché essendo raccomandato da Mycroft Holmes quasi sicuramente gli avevano dato una stanza tutta sua.

Lo trovò, infatti, in una delle camere singole in fondo al corridoio. Il nome “Watson, John H.” era stato scritto con un pennarello a punta fine che aveva sbavato in ultimo. Probabilmente lo avevano fatto di fretta, quasi sicuramente lo aveva fatto una donna, e poteva scommettere che fosse stata l’infermiera che lo aveva guardato allarmata quando si era precipitato lì a piedi nudi.

Davanti a quella porta, però, ebbe improvvisamente paura.

Dall’altra parte, steso in un letto dalle lenzuola bianche, incosciente e collegato come minimo a due macchinari – che potevano essere anche di più – c’era John. Il suo John. Lo stesso John che di solito era sempre accanto a lui, in ogni momento, sveglio e vigile e sorridente e ammirante e vivo.

Resistette all’impulso di fare dietro front e mettersi a correre per uscire dall’ospedale.

Lo sapeva, Sherlock, che non era morto. Che non sarebbe morto. Ma non poteva fare a meno di figurarselo disteso su quel letto come se fosse stato disteso sul tavolo di un obitorio. Deformazione professionale, forse. Probabilmente.

A due centimetri dalla maniglia della porta, ritirò le dita e chiuse la mano a pugno, incapace di aprirla. Si morse il labbro dalla frustrazione per quella sua mancanza terrificante, per quel buco delle sue infallibili facoltà intellettive che prendeva il nome di “cuore”.

« Maledizione... » sussurrò a se stesso, facendo qualche passo indietro ed appoggiandosi con la schiena alla parete di dirimpetto alla dannata porta chiusa e rimasta tale.

Gli altri lo raggiunsero, ed entrarono uno ad uno. Sherlock li guardò in faccia, uno ad uno, ma non seguì all’interno nessuno di loro.

Rimase fuori, nel corridoio, a fissare la maniglia di una porta che all’improvviso aveva una fottuta paura d’aprire.

 

 

 

In una stanza completamente bianca, le uniche cose che stonavano – le uniche macchie di colore – erano principalmente tre. John le aveva osservate e fissate per almeno un’ora senza nemmeno aprire bocca per poi sospirare rassegnato.

C’erano uno smile giallo sulla parete, un violino ed un teschio.

Sapeva alcune cose di quegli oggetti, alcuni aneddoti. Uno nascondeva qualcosa, uno era incompleto e l’altro non aveva senso.

In realtà, sapeva veramente molto poco. Mettendosi le mani nei corti capelli biondo cenere, lasciò andare un pesante sospiro affranto.

« Potresti mettere al corrente anche me dei tuoi ragionamenti? » domandò la ragazza – altro sé, alter ego, Es – dalla poltrona sulla quale si era accomodata – e che a John dava sempre più fastidio, che fosse seduta proprio lì, ma anche quella era una delle cose che non sapeva spiegarsi.

Senza alzare lo sguardo, si massaggiò la fronte con la mano sinistra. « Sto pensando che siamo fottuti, dato che non riesco a cavare un ragno dal buco » le disse.

Quella, seduta con le gambe ancorate allo schienale e la testa a penzoloni verso il basso, fece una faccia a metà fra il dubbio ed un assenso. « Possibile. Forse anche un po’ probabile » disse: « spero non diventi sicuro, però. Sarebbe davvero pietoso » aggiunse.

John, tornando ad accomodarsi meglio sulla propria poltrona, la guardò stranito. Allo sguardo di richiesta che la ragazza gli inviò da quella sua posizione sottosopra, si decise a parlare.

« Lo smile giallo sulla parete... » cominciò Watson.

« Ti ascolto » lo incoraggiò Joy.

« So che è disegnato con un tipo particolare di vernice, usata dalla mafia cinese per contrabbando di merci importate illegalmente e poi rivendute all’asta a cifre astronomiche. E dovrebbe essere crivellato di colpi di proiettile, lo so, anche se non so il perché. So che il teschio sul caminetto... » ed indicò il cranio in bella mostra: « ...nasconde un pacchetto di sigarette. E quel violino... » John fece una pausa, indicando con la mano aperta lo strumento in questione: « ...non ho la minima idea di cosa ci faccia qui e a cosa mi serva, dato che non so suonarlo. So solo che mi piace sentirlo suonare, ma non essendo io un amante di musica classica mi sfugge seriamente il perché » concluse, ancora più seccato di quando aveva cominciato.

Joy, che stava sottosopra senza risentirne minimamente, lo guardò ridacchiando. « Fuochino » lo sfotté.

Il dottore cominciava seriamente a provare l’istinto, alquanto criminale, di sgozzare il suo subconscio.

Intuendo il suo pensiero, la ragazza si rialzò con agilità e si rimise seduta composta, le gambe accavallate e lo sguardo improvvisamente serio.

Aveva gli stessi occhi dei suoi ufficiali comandanti in Afghanistan ogni volta che gli comunicavano una missione, che la maggior parte delle volte dava l’idea di essere più un martirio che altro. Oppure lo stesso sguardo che aveva avuto Harry quando gli aveva comunicato, attraverso una video-chat, che aveva intenzione di lasciare Clara nonostante si fossero appena sposate.

Come conseguenza di quegli occhi fissi sui suoi, John si fece serio a sua volta.

Poi, le parole che uscirono dalla bocca di Joy ebbero il potere di far esplodere qualcosa dentro di sé.

« Chi è Sherlock Holmes? » domandò lei, fissandolo.

John boccheggiò, improvvisamente incapace di spiaccicare parola. L’eco di quel nome aveva fatto sì che il proprio cuore si contraesse dolorosamente e battesse più rumorosamente; ne sentiva il battito nelle orecchie e nella gola, un tamburo veloce ed assordante.

« Io... Io non... » balbettò, ma fu interrotto.

« Sì che lo sai » disse lei, piccata. « Non sei stato tu a sparare a quel muro. Hai nascosto tu le sigarette sotto quel teschio ma non per te, tu non fumi. Non sei tu che suoni il violino, non sei capace, ma hai ragione nel dire che ti piace ascoltarlo. Anzi, ti piace vederlo suonare il che è una cosa essenzialmente diversa » aggiunse, sporgendosi verso l’altro con fare quasi serpentino, viscido. « John... chi è Sherlock Holmes? » gli ripeté la domanda.

La testa di John Watson era un completo disastro. Sembrava che gli fosse esplosa una bomba a qualche centimetro dall’orecchio o che lo avessero preso a pugni dopo essersi scolato una bottiglia di Jack Daniels.

Si portò le mani alle orecchie, improvvisamente preda di un fortissimo fischio continuo che sembrava volergli bucare il timpano e risalire fino al cervello al momento sotto sforzo. Trattenne il fiato nell’inconscio tentativo di far sparire tutti quei fastidi, ma inutilmente, anzi; sembravano peggiorare, trasformarsi. Da fischio... in voci, immagini, eco lontane di ricordi cancellati per chissà quale motivo.

« Cosa mi sta succedendo?! » sbottò allora Watson, tenendosi forte la testa e piegandosi su se stesso.

« È la transizione » gli disse Joy.

« Vuoi dire che sto morendo?! NO! » urlò il dottore, ancora piegato in due da quella confusione che aveva in testa.

La ragazza negò con la testa. « Tutto l’opposto. Te lo avevo detto che sarebbe stato meglio se avessi fatto da solo, se ti fossi impegnato a ricordarti le tue ragioni di vita con calma, ma tu non mi hai dato scelta. Come sempre sono costretta a forzarti i ricordi nella mente. Sei un idiota, John Watson! » esclamò quella, tuttavia il suo tono si mantenne pacato.

John gemette alla comparsa di un dolore sordo alla tempia destra, e subito serrò gli occhi con forza, imprecando a mezza voce.

Nella sua testa, immagini di un treno della metropolitana. Urla, lacrime. Poi una strada, il Tamigi, un ufficio di New Scotland Yard, la sua insegna rotante davanti all’entrata. Simboli gialli su un muro di fianco a dei binari, una pistola puntata alla testa, una brughiera infinita, gli occhi rossi di un mastino ringhiante, una voce che diceva di non avere amici (plurale), ma uno solo (singolare). E ancora un frustino da fantino, una donna completamente nuda, una cassaforte, Buckingham Palace, un ombrello nero, una jeep, lucine di Natale, un I-phone dalla cover rosa, un paio di scarpe, bombe, una piscina, una voce: “è un Westwood”. E momenti, tanti, passati in un appartamento così simile a quello solo con più colori. Notti passate sul divano, davanti al pc, a mettere bende su di una pelle diafana ferita, a curare ferite su se stesso; il salotto pieno di fogli sparsi a terra, la cucina ricolma di alambicchi, 38 ore di veglia ininterrotta, una partita indicibile a Cluedo, bollette da pagare e una testa nel frigorifero.

« Continua così, John. Stai andando bene. Fra poco finirà tutto » disse Joy.

Una figura slanciata, dita affusolate, pelle candida. Vestito elegante nero, camicia viola o bianca o azzurrina a righe, tutte buone, tutte costose. Un cappotto lungo, una sciarpa blu. Capelli scuri in morbidi riccioli, zigomi ridicolmente alti, occhi azzurro ghiaccio dalle incredibili sfumature verdi sotto la luce forte del sole.

Una voce profonda.

“Io sono Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”

Il dolore cessò così com’era venuto, riportando alla normalità sia il battito del cuore che la respirazione.

John alzò il viso dalle proprie mani con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse in un moto d’incredulità. Si guardò attorno, posando gli occhi su di ogni superficie candida che lo circondava, riuscendo ad immaginarsela del proprio colore originario. Riuscendo a ricordarsela.

Come aveva potuto dimenticarsi di lui? Come aveva potuto dimenticarsi della persona che lo aveva letteralmente travolto con la sua presenza, restituendogli la vita che era convinto di aver perso? Come aveva potuto dimenticarsi le avventure, i casi da risolvere, la piscina, James Moriarty, le deduzioni e tutti i momenti che avevano passato insieme, giorno dopo giorno, anche solo parlando del più e del meno o facendo colazione insieme alla signora Hudson?

Ancora smarrito, perso in una calma irreale dopo una tempesta, puntò gli occhi su quelli scuri di Joy, ancora protesa verso di lui ma immobile sulla poltrona.

La poltrona di Sherlock. Era per questo che gli dava fastidio, vederla seduta lì.

« È normale, qui... » disse lei: « ...dimenticarsi dei motivi per cui vogliamo restare in vita, che ci spingono a sopravvivere. È normale quando si arriva in questo limbo. Vieni messo alla prova. Avresti dovuto ricordartene da solo, ma io non potevo lasciare che tu ti arrendessi e morissi, perché sapevo che per te sarebbe stato difficile richiamare quei ricordi, nonostante la loro intensità. Perché tu hai scoperto, e questo lo sappiamo benissimo entrambi, che ciò che provi per Sherlock Holmes va oltre un’amicizia normale. Non sai cos’è, non sai definirlo, oppure lo sai ma non lo vuoi ammettere, hai paura di pronunciare quel verbo associato alla figura del caro sociopatico ad alta funzionalità. Il vostro rapporto si sta trasformando e, purtroppo, te ne sei reso conto quando la tua vita è arrivata per la seconda volta al punto di non ritorno: te ne sei accorto sul vagone di quella metropolitana » gli disse, pacata.

John, chiudendo gli occhi, assorbì quelle parole come se fossero acqua nel deserto.

Sospirò poi, ritrovando la calma.

« Allora, John... » riprese Joy, alzandosi dalla poltrona e posizionandosi di fronte a lui: « ...dove sei? » gli chiese.

Questa volta, Watson non ebbe dubbi: « 221B di Baker Street. Casa mia. Casa nostra, mia e di Sherlock ».

Lei annuì. « E chi è Sherlock Holmes? » domandò di nuovo.

« La ragione per cui devo tornare » rispose lui, alzando lo sguardo.

Lei, ancora ammantata in quel suo completo bianco elegante, gli sorrise. « Andiamo » aggiunse, allungando la mano verso di lui.

 

 

 

Erano passati alcuni minuti, forse dieci, quando la porta della camera di John si aprì, facendone uscire Harry Watson.

Sembrava provata, anche se sugli occhi aveva la maschera della donna forte ed impassibile. Sherlock poteva notarlo da un piccolo accenno di sudore freddo e dal pallore innaturale della pelle del viso rispetto a quella del collo.

Non lo guardò. Nemmeno un’occhiata. Semplicemente fece due passi per spostarsi e, appoggiandosi con la schiena al muro, si lasciò scivolare lentamente a terra.

Il silenzio calò nel corridoio e fra i due. Erano quasi l’una di fronte all’altro, Sherlock ancora in piedi nella sua indecisione, Harry abbandonata sul pavimento con una mano a massaggiarsi la fronte e gli occhi chiusi.

Fu la donna a rompere il silenzio.

« Perché non entri? » domandò, continuando a non guardarlo.

Sherlock le riservò uno sguardo lungo dieci secondi. Poi, sospirando, decise che parlare in modo sincero con la sorella maggiore dell’uomo oltre la porta poteva avere una sua logica. Contorta, ma poteva averla.

Dopotutto, c’era tanto di Harry che gli ricordava John. Forse non il colore dei capelli o degli occhi, ma il naso aveva la stessa forma, e il taglio delle labbra era molto simile.

E sotto sotto, molto in fondo, nascosta dai vari strati di durezza con cui Harriett aveva deciso di proteggersi per sopravvivere al resto del mondo, c’era anche la stessa, incredibile forza di volontà.

I fratelli Watson erano, nonostante le imperfezioni e gli errori di entrambi, parte di uno stesso disegno genetico che li portava ad ubbidire prima al cuore, poi alla logica. E Sherlock aveva provato sulla pelle l’esperienza di stare accanto ad un uomo simile.

La verità era qualcosa che doveva loro.

« Penso di non volerlo vedere » rivelò, breve e conciso.

Harry non si arrabbiò e non ne rimase per nulla colpita, o comunque turbata in qualche modo. Continuava semplicemente a massaggiarsi la testa, ora con entrambe le mani, tenendo gli occhi chiusi e sospirando ogni tanto.

« Perché? » soffiò infine, quando ormai sembrava che non avesse più intenzione di aprire bocca.

Holmes, che si aspettava la domanda ma non era comunque abbastanza preparato a riceverla, socchiuse gli occhi.

« Non credo di saperlo... » si ritrovò a dire, a sussurrare, in direzione della donna.

Aveva sempre creduto che affidandosi alla logica e alla ragione sarebbe riuscito a superare qualsiasi difficoltà. La vita era come un libro di algebra: man mano che vai avanti i problemi da risolvere diventano più difficili, ma se si hanno le basi logiche e conoscitive adeguate tutte le difficoltà finiscono per diventare semplici rompicapi da risolvere.

Sono solo numeri.

Lui aveva sempre amato l’algebra. Lo metteva alla prova come nessun’altra materia riusciva a fare. Enigmi sempre più difficili, nodi sempre più intrigati, giochi di logica e di abilità che erano in grado di assorbirlo completamente. Non erano i numeri che sfidavano lui, ma lui che sfidava i numeri.

Ogni cosa della sua vita era sempre stata sotto controllo, intuibile, intelligibile.

Dopotutto, se sai perfettamente quali possono essere le possibili conseguenze di una tua azione, quando esse si manifestano non possono di certo coglierti alla sprovvista.

Erano sempre stati solo numeri.

Il dispiacere di sua madre quando lasciò l’università? Prevedibile. Una costante aritmetica che si era ripetuta lungo il corso di tutta la sua vita, si stava ripetendo in quel momento e si sarebbe ripetuta anche dopo. Come il valore del greco: quello era, quello sarebbe rimasto.

La droga? Un calcolo fin troppo banale. Una volta letta su di un manuale la soglia massima raggiungibile per non incorrere nei fastidiosi contraccolpi dell’assunzione di sostanze psicotrope – abbastanza da sparargli il cervello al massimo dei giri senza distruggerlo o stare troppo male – controllarne l’assunzione fu un gioco da ragazzi.

I casi da risolvere? Indovinelli che avevano sempre una causa ed una conseguenza, esperimenti scientifici capaci di evitare al suo cervello la metastasi. C’è sempre una vittima, a volte anche un colpevole, a volte la vittima ed il colpevole sono la stessa persona. Ci sono indizi, ci sono cose da vedere, ci sono intrecci logici da dedurre.

Pura matematica. Solo numeri.

Poi, John.

John era stato un giochino di matematica solo per i primi cinque minuti. Solo il tempo necessario per capire chi fosse, da dove venisse, cos’avesse fatto. Cinque minuti che, di fronte ad un anno e mezzo di completa allegoria dell’impossibile, impallidivano miseramente.

John non si era rivelato un enigma irrisolvibile. Ogni volta che Sherlock arrivava ad una soluzione – o comunque pensava di averlo fatto – John faceva qualcosa per cui quella cifra si rivelava errata o incompleta.

John era un mistero che Holmes non aveva mai risolto e, con il tempo, semplicemente si era dimenticato di risolvere, convenendo faticosamente con se stesso che Watson era interessante proprio perché senza soluzione, e forse non ne prevedeva nemmeno una.

Per questo motivo tutto ciò che lo riguardava non faceva parte di una costante, non era prevedibile. Forse era per questo che Sherlock non riusciva ad accettare tutte le variabili in gioco, preferendo chiudere la mente.

Perché sapeva che John avrebbe potuto sopravvivere, e allora la sua vita sarebbe lentamente ritornata alla normalità, ma poteva anche morire... ed in quel caso il suo sguardo si perdeva in un universo infinito di possibili scelte che però perdevano di colore, di calore, di lucentezza.

Un universo probabile e non impossibile davanti al quale, però, Sherlock Holmes preferiva chiudere gli occhi.

Lo fece anche in quel momento, davanti alla porta chiusa di quella camera d’ospedale: chiuse gli occhi.

La voce di Harriett ruppe di nuovo un silenzio che non sapeva per quanto poteva essersi prolungato.

« Io credo che tu dovresti entrare » gli disse a bruciapelo.

Sherlock riaprì gli occhi di scatto. « No » si impuntò.

« Perché? » domandò ancora lei.

« Perché non tu? » rispose allora il detective, attaccandola.

La donna, osservandolo di sottecchi, sorrise amaramente. « Sai, io e John abbiamo stipulato una sorta di patto di non aggressione. A dire il vero non so nemmeno quando, perché non è stato detto a parole... ma il succo è uno sterile “vivi e lascia vivere” » gli disse, piegando entrambe le ginocchia ed appoggiandosi sopra le braccia.

« Noi ci facciamo favori non facendoci dei favori. Io bevo e lui non dice niente, e io non lo biasimo, anzi. Lui se ne va in Afghanistan ed io non dico niente, e so che lui non mi ha biasimato, anzi. Io mi sposo e divorzio subito dopo e lui trattiene dentro di sé la delusione e non dice niente e Dio, Dio, solo Dio sa quanto l’ho ringraziato per averlo fatto, quando praticamente tutti gli altri non sono stati in grado di fare la stessa cosa. E poi... » una piccola pausa, finalmente gli occhi della donna che si posano su Sherlock: « ...poi lui va ad abitare con un pazzo che non fa altro che fargli rischiare la vita ma io non dico niente, e so che me ne è grato, che io non dica niente. Fra di noi funziona così » spiega, gli occhi che vanno al soffitto a malapena illuminato dalla fioca luce dell’aurora ancora lontana.

Un sospiro. « Sono sua sorella maggiore, è logico che io mi preoccupi per lui più di quanto lui si preoccupi per me. È scritto nel nostro DNA... ».

Il cervello di Holmes creò per un istante l’immagine fastidiosa di Mycroft, salvo poi archiviarla subito dopo.

« Però essere in quella stanza non cambierà niente, non per me. Perché non è me che vuole al suo fianco, e non sono nemmeno tutte quelle persone là dentro. Lui vuole l’unico che è riuscito a farlo sorridere di nuovo in un periodo della sua vita in cui niente sembrava andare per il verso giusto. È per questo che devi alzare il culo ed attraversare quella porta, Sherlock Holmes » gli disse, tornando a fissarlo con decisione.

Al detective, tutto sommato, non serviva altro che una spinta. Qualcuno che gli dicesse che stava facendo la cosa sbagliata, aspettando lì fuori. Qualcuno che ammettesse ad alta voce che lui era parte della vita di John così come John era ormai parte imprescindibile della sua.

Osservò Harriett ancora per qualche prezioso istante poi, guardandosi mani, si diede – per la prima volta in completa autonomia – dell’idiota.

Anche John trovava sempre il modo di dirgli che era un idiota. E ci riusciva solo John. Era prerogativa sua, riuscire a dare dell’idiota ad uno come Sherlock Holmes.

Annuì in silenzio, staccandosi dalla parete e coprendo in due passi la distanza che lo separava dalla porta. Appoggiò la mano destra sulla maniglia e, facendo forza, finalmente entrò nella stanza.

Le pareti erano di due colori, e questa fu la prima cosa che notò. La metà superiore ed il soffitto erano bianchi, la metà inferiore di un verde pastello che doveva forse sembrare rilassante, ma che gli dava solo la classica sensazione d’ospedale. Era una camera ampia, pulita, con una finestra coronata di tendine bianche.

Al centro della stanza c’era il letto su cui giaceva John, circondato di persone silenziose o che singhiozzavano compostamente.

Mycroft e Lestrade erano in disparte, un po’ distanti dal letto. Quando entrò suo fratello gli fece un cenno con il capo, mentre Greg distolse semplicemente lo sguardo, tornando a fissare il letto con espressione vuota.

Al capezzale di John, mrs. Hudson si asciugava gli occhi con il fazzolettino bianco ricamato e, alle sua spalle, Molly lasciava che calde e mute lacrime le cadessero dagli occhi, rigandole le guance. Tratteneva il respiro a tratti, osservò Sherlock, che non aveva ancora trovato il coraggio necessario a posare lo sguardo sul suo migliore amico.

Lo fece in quel momento.

Si fermò ai piedi del letto, immobile, le mani abbandonate lungo i fianchi ed in viso un’espressione sospesa, a metà fra la voglia repressa di urlare e quella di chiudere gli occhi e fingere che fosse tutto un brutto sogno.

John era disteso supino sul letto; le lenzuola bianche gli arrivavano al torace e gli coprivano il petto lasciando però fuori le spalle nude, sulla sinistra delle quali era chiaramente visibile la cicatrice lasciata dal proiettile che lo aveva colpito di Afghanistan.

Distese lungo i fianchi stavano le sue braccia, nude anch’esse: al braccio destro erano collegate le due estremità del macchinario per la dialisi – il suo sangue che correva all’interno dei tubi trasparenti al momento tinti di rosso – mentre nel braccio sinistro penetrava l’ago di una flebo di barbiturici, ovvero ciò che manteneva John in coma farmacologico.

Sul volto campeggiava una mascherina d’ossigeno che gli prendeva bocca e naso e le labbra, dischiuse sotto di essa, erano testimoni di un respiro debole e stentato, ma presente.

Sherlock non sapeva cosa fare. Ancora combatteva l’irrazionale sensazione di girarsi ed andarsene, mettersi a correre per tornare a casa e buttarsi sul divano lasciando fuori il resto del mondo con quella situazione al limite del surreale; dall’altra percepiva il suo corpo come paralizzato e, di conseguenza, era incapace di muoversi. Teneva gli occhi azzurri fissi su John ma, nonostante fosse così vicino, gli sembrava lontano, distante anni luce da quella stanza, in un posto tutto suo in cui Sherlock non riusciva ad entrare per costringerlo ad aprire gli occhi, a dimostrargli che fosse ancora vivo e non solo uno spauracchio messo lì per ritardare un’eventualmente certa dipartita.

Voleva sfiorarlo, toccargli un piede, ma  di tutto il movimento necessario per farlo riuscì a muovere solamente un dito.

Un dito e nient’altro.

Fu Molly, fra tutti, quella che capì ogni cosa.

Chissà perché le bastava guardare Sherlock in faccia per intuire cosa provasse, e nonostante fosse ormai sopraffatta dalla tristezza per le condizioni di John, fu l’unica in grado di curarsi anche di Sherlock, che soffriva in un modo tutto suo chiuso in una mente per molti impenetrabile.

Tranne che per John. E, a volte, raramente e più che altro casualmente, anche per Molly Hooper.

In silenzio si mosse verso il detective, facendo il giro del letto e arrivandogli al fianco. Allungò la mano verso la sua, prendendo le dita sottili ed affusolate di Sherlock fra le sue calde, e con delicatezza fece qualche passo indietro, tirandolo a sé in direzione di John.

Holmes, guardandola senza un particolare cambiamento d’espressione, seguì il movimento.

Si ritrovò, guidato da Molly, esattamente accanto a John. Mrs. Hudson gli posò una mano sulla spalla, lasciandoci piccole pacche, poi a sua volta si fece indietro.

Sherlock osservò il volto di John in silenzio, le labbra schiuse ed il respiro quasi inudibile. Lo guardava dormire un sonno innaturale che lo proteggeva dal dolore e, pensandoci, non poteva fare a meno di dirsi che sarebbe stato meglio vederlo soffrire, piuttosto che guardarlo giacere immobile come se fosse morto.

Solo il continuo ronzare dell’ossigeno e i battiti regolari dell’elettrocardiogramma dicevano a gran voce il contrario.

Dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma nulla gli uscì. La sua voce faticava a formarsi nella bocca e, comunque, non avrebbe saputo davvero cosa dire.

Rimase così, immobile nel silenzio teso dei presenti, senza mai staccare lo sguardo dagli occhi chiusi dell’unica persona al mondo che era riuscita a guadagnarsi un posto nella sua vita.

Lentamente, appoggiò la mano sinistra su quella inerte di John, sfiorandone il palmo con i polpastrelli delle dita.

 

 

 

Le aveva preso la mano, alzandosi dalla poltrona e seguendola.

Joy aveva attraversato la soglia dell’appartamento, guidandolo giù dai diciassette scalini, arrivando in un numero ben preciso di passi alla porta che dava su Baker Street.

Sempre mano nella mano.

John avrebbe potuto pensare che fosse strano, tenere e farsi tenere la mano da una persona morta, o ancora peggio dal proprio subconscio. Tuttavia si era anche detto che pensare come le persone razionali in quel mondo non aveva molto senso, così aveva semplicemente seguito la ragazza, fiducioso che lei sapesse cosa fare.

Davanti alla porta, lei si girò e gli sorrise incoraggiante. Lui sorrise a sua volta, annuendo, come per dirle silenziosamente di essere pronto ad andare ovunque l’avesse portato.

Quella, annuendo a sua volta, appoggiò la mano destra sulla maniglia e la spinse, aprendo l’anta bianca su di uno scenario ancora più candido... che però non era Baker Street.

Attraversando la soglia, John si trovò davanti a quello che aveva tutta l’aria di un atrio. Non era eccessivamente ampio, ma era lungo, e non appena cominciarono a camminare per attraversarlo, poté notare sulla loro sinistra le tipiche postazioni dei bigliettai della metropolitana.

Alzò gli occhi e, attaccata ad una porta di vetro bianca come tutto ciò che li circondava, la scritta “Waterloo Underground Station” troneggiava sull’unica nota di colore presente: un lungo e sottile cartello blu.

« Questa è... » fece fatica a trovare le parole giuste per cominciare il discorso, rompere il silenzio: « ...la stazione della metropolitana di Waterloo? » domandò allora, sicuro di ciò che stava dicendo ma smanioso di sentirselo dire da Joy.

Quella, continuando a guidarlo per mano fino alle scale in discesa nel ventre della terra, annuì distrattamente.

Non c’era niente intorno a loro, né persone né suoni. Il silenzio, che faceva da padrone incontrastato, veniva spezzato solamente dai loro respiri e dai loro passi nudi sui gradini.

Watson sentiva la mano calda di Joy stringere la sua in una morsa gentile, e chissà perché non tentò nemmeno di liberare la presa nonostante la strada da percorrere fosse ormai abbastanza ovvia. La presenza della ragazza al suo fianco, la mano stretta nella sua, dal momento in cui si era ricordato tutto aveva smesso di essere strana ed inquietante ed era divenuta quantomeno rassicurante.

Joy lo fece scendere fino alla fine, addentrandosi nei corridoi sotterranei a passo sicuro. Di nuovo, solo i loro piedi nudi sulle piastrelle del pavimento emettevano l’unico rumore udibile.

A colpo sicuro, Joy lo guidò sulla banchina per i treni in direzione Paddington. Arrivata ai binari, con le dita dei piedi a sfiorare la linea gialla a terra – l’unica cosa colorata, anche in quel caso – si fermò. Entrambi lo fecero.

« Cosa stiamo facendo? » chiese John, la voce ridotta ad un sussurro per non rischiare di rompere troppo violentemente il silenzio quasi totale.

« Aspettiamo » rispose lei.

Fin qui c’era arrivato. « Cosa? » chiese dunque John, accigliato.

« Il treno, naturalmente » gli rispose quella, gli occhi incollati di fronte a sé.

John, per un attimo, la guardò come si guarda un pazzo. Poi rammentò che era il suo Es, quello, e diede del pazzo a se stesso per diretta conseguenza. « Naturalmente... » ripeté in un soffio, fissando uno sguardo vacuo e decisamente interdetto sui binari sotto di loro.

Non ce la fece a stare in silenzio.

« Sì... ma perché Waterloo? » chiese di nuovo, tornando a guardarla.

Lei non fece una piega ma si dipinse un lieve sorriso sulle labbra che, da quando si era ricordato tutto, era ormai onnipresente. Si voltò semplicemente di qualche grado in sua direzione.

« Devi riprendere il viaggio da dove lo hai lasciato » gli disse solo, tornando con lo sguardo davanti a sé.

Guardava tutto e non guardava niente, in realtà, e John lo aveva intuito. Strinse la sua mano nella propria, ricevendo in cambio una stretta simile.

Contrariamente alle sue aspettative, fu Joy a riprendere parola.

« Io non verrò con te, John » gli disse, la voce limpida e tranquilla, come se parlassero del tempo.

« No, cos...? » balbettò John: « perché? » chiese poi, guardandola con negli occhi una lieve punta di panico.

Quella sospirò, aspettandosi la reazione. « Perché io ho fatto ciò che dovevo fare. Ti sto mostrando la strada di casa, ma quest’ultimo pezzo è qualcosa che devi affrontare da solo, senza aiuti » gli spiegò.

John si sforzò di ritrovare la calma ed annuì. « In cosa consiste? » domandò poi, cominciando a rendere tangibile nella propria mente l’idea che da lì in poi se la sarebbe cavata da solo.

« Il treno che prenderai non sarà vuoto » cominciò a spiegargli: « è tanta, la gente che si perde qui. Persone che smarriscono la strada, che non sanno dove andare, cosa fare. Tutti trovano l’aiuto che serve loro, alcuni riescono a tornare a casa. Altri... beh, altri si perdono di nuovo. Rimangono intrappolati in questo mondo senza possibilità di uscirne » spiegò, tornando poi a guardare John negli occhi: « come avrai notato, le persone tendono a dimenticare le ragioni per cui vale la pena tornare a vivere. Più passa il tempo, più la memoria svanisce. Molto presto finiscono per dimenticare anche la loro identità e allora stanno semplicemente ferme, immobili, a fissare oggetti e paesaggi che fanno parte di loro ma che non riconoscono » una pausa, il sorriso che svanisce pian piano: in lontananza, il rumore sulle rotaie di un convoglio in arrivo.

« Sul treno su cui salirai ora ci saranno molte anime perdute, John. Alcune molto vecchie. Probabilmente non tenteranno di parlarti, ma tu non devi distrarti: ascolta sempre le fermate e, quando arrivi alla tua, scendi senza guardarti indietro. La maggior parte di queste persone non può più essere aiutata... » sussurrò infine, lasciandogli la mano.

Nel momento in cui lo fece, un treno bianco della metropolitana arrivò e rallentò piano, lasciando che una delle porte si fermasse proprio di fronte a lui. Quando quella si aprì, e John si voltò per vedere Joy un’ultima volta, quella era già sparita.

Deglutì, facendo un passo avanti ed entrando. Le porte si richiusero subito dietro di lui.

Il convoglio riprese la sua corsa, esattamente come avrebbe fatto un treno della metropolitana nella realtà.

Come aveva detto la ragazza, il vagone non era vuoto. Una serie di persone tra le più disparate, vestite tutte di bianco e tutte a piedi scalzi, erano sedute sui sedili; alcune guardavano a terra, altre fuori dal vetro, altre ancora la mappa delle fermate presente sopra ogni porta automatica.

Mentre il treno prendeva velocità, John andò a sedersi nel primo posto disponibile, ovvero fra una signora di mezz’età fasciata in quella che sembrava una camicia da notte ed un signore compito con indosso un abito d’inizio novecento ed una tuba.

Non rivolse loro la parola e, così come gli aveva detto Joy, nemmeno loro lo fecero con lui.

In pochi minuti, la voce metallica dello all’altoparlante annunciò la fermata successiva.

“Prossima fermata: Enbankment. Siamo in arrivo a Enbankment.”

Enbankment. A sentire il nome della stazione successiva, John drizzò la schiena e guardò automaticamente fuori dai finestrini.

Avevano superato il punto dello scontro, a quanto sembrava. Lui non aveva notato niente nei tunnel bui nei quali sfrecciavano a bordo di quel treno candido; non aveva sentito rallentamenti, sobbalzi o qualsiasi altra cosa che avesse anche potuto far pensare a qualche detrito, i binari sconnessi, o anche solo un segno che gli avesse suggerito qualcosa come “questo è il punto in cui sei quasi morto, ma fatti coraggio, stai andando avanti, stai proseguendo, stai ancora respirando”.

Vedeva la stazione di Enbankment fuori dal vetro e, così come il treno si era fermato, ora ripartiva con la stessa calma di una routine disarmante.

« Lei è una delle persone dell’incidente ferroviario? ».

La domanda giunse inaspettata per John, che trasalì. Nella mente gli passò per un secondo il consiglio di Joy – “non ti distrarre, ascolta le fermate” – ma quella frase era stata pronunciata con una voce ed un tono così gentili, che il suo animo inglese protestò quando la prima intenzione fu quella di non rispondere affatto.

Si voltò alla sua sinistra, dove l’uomo vestito in abiti d’inizio ventesimo secolo lo stava guardando in attesa di una risposta. Era palese che fosse stato lui a prendere parola, e l’attenzione di John rimase per un attimo catturata dai suoi baffi voluminosi.

« S-Sì... » confermò, accompagnando la voce con il capo.

Quello annuì a sua volta, tornando a fissare un punto qualsiasi del buio oltre al finestrino. « Non è il primo che passa da queste parti, ultimamente. Dev’essere stato proprio un brutto incidente. Fra Waterloo ed Enbankment, dico bene? Siete saliti tutti in quel punto » disse, pacato.

John lo osservò per un istante, decidendosi poi a seguire l’istinto e a parlargli. Sarebbe comunque stato attento alle fermate, dato che venivano dette all’altoparlante, ma poteva benissimo passare quei minuti che lo separavano dalla sua fermata chiacchierando con una di quelle persone “sperdute”. Soprattutto perché, al contrario delle altre, l’uomo al suo fianco sembrava essere pienamente cosciente di dove fosse.

« Immagino di sì » disse dunque, appoggiandosi meglio con la schiena al sedile: « ma non lo so con certezza... ».

« È logico supporlo » aggiunse l’uomo, sembrando lieto di poter fare conversazione con qualcuno: « se si trova qui, molto probabilmente non è ancora riuscito a sapere quali siano effettivamente le dimensioni del disastro. Ma le posso assicurare che siete transitati in parecchi, dunque può tranquillamente aspettarsi qualcosa di grave. A proposito, dove scende lei? » gli domandò, tornando a guardarlo.

“Prossima fermata: Charing Cross. Siamo in arrivo a Charing Cross.”

Watson trattenne sorpreso le parole, ancora scombussolato. « Baker Street » disse poi, portando automaticamente gli occhi alla mappa. Cosa che fece anche l’altro.

« Oh, capisco. Cinque fermate quindi » considerò abbastanza frivolmente: « lei è il primo che si ferma così vicino; mi è capitato di parlare con una signorina un po’ spaventata che doveva scendere a Willesden Junction, mentre un anziano, pensi, doveva percorrere l’intera linea fino a Harrow & Wealdstone » gli spiegò.

John era sempre più perplesso, e nel suo tentare di non darlo a vedere ne era il ritratto perfetto. Probabilmente l’uomo lo notò, perché si limitò a sorridergli con occhi gentili, accavallando una gamba sull’altra con fare elegante.

« Deve sapere, caro signore, che più tempo si passa qui e più è probabile che ci si dimentichi dove si deve andare. Non è la prima persona che vedo fallire, e io sono uno di quelli rimasti qui troppo a lungo, purtroppo » gli disse, usando una pacatezza ed una leggerezza espressiva che lo lasciarono basito.

« Cosa le è successo? Sempre se non le dispiace che glielo chieda... » gli domandò Watson, ormai incuriosito dal modo di parlare e di vestire dell’uomo, entrambi palesemente vecchio stile.

Quello, sorridendogli di nuovo, negò con il capo e si dimostrò disponibile ai convenevoli della chiacchierata.

« Oh, amico mio, sono stato assassinato! » rivelò, John trasalì. « O meglio, suppongo che l’intento di mio cognato fosse quello, quando mi ha spinto davanti ad un convoglio in arrivo. Purtroppo credo che non gli sia andata bene, considerando che sono qui, ma... beh, è successo moltissimo tempo fa. Credo che fosse il 1910... no, il 1909. Purtroppo mi sono ricordato troppo tardi perché dovessi tornare alla mia vita, e ho perso la fermata... adesso mi impegno a fare in modo che persone come lei non dimentichino dove devono scendere » raccontò.

“Prossima fermata: Piccadilly Circus. Siamo in arrivo a Piccadilly Circus.”

Il medico lo guardò con un’espressione a metà fra il sorpreso e il dispiacere cortese, cosa che l’uomo sembrò apprezzare dato che gli diede una piccola pacca sulla spalla. Disse qualcosa di simile a “è passato molto tempo ormai” e, togliendosi della polvere invisibile dalla manica della giacca, tornò a rivolgergli la parola.

« E lei, se non sono indiscreto, si ricorda ancora perché vuole tornare in vita? » gli chiese.

John capiva qual’era lo scopo di quell’interrogatorio, così come era consapevole delle buone intenzioni della persona al suo fianco; tuttavia parlare delle sue scoperte in quel campo era e rimaneva leggermente imbarazzante.

« C’è... beh, c’è una persona che voglio rivedere, ecco... » rivelò, pronunciando la frase più semplice del mondo senza nemmeno rendersene conto.

Serviva forse una spiegazione filosofica per ciò che voleva davvero fare? Il suo desiderio di rivedere Sherlock, qualsiasi fosse il motivo scatenante, era così carente dal lato morale?

Ogni persona ha un motivo per voler continuare a vivere, e forse la causa che aveva portato tutti gli altri individui in quel vagone a rimanere lì seduti in eterno, dimentichi dei loro sentimenti, era proprio perché avevano avuto il dubbio che le ragioni per vivere non fossero abbastanza, agli occhi degli altri.

L’uomo al suo fianco, di fatti, annuì comprensivo. « È sempre la miglior ragione » gli rispose.

“Prossima fermata: Oxford Circus. Siamo in arrivo a Oxford Circus.”

« E... questa persona è la sua fidanzata? » domandò l’uomo, assottigliando le labbra sotto i baffi in uno di quei sorrisetti indagatori.

John deglutì, e forse arrossì un poco. Non seppe dirlo con certezza.

« N-No... cioè... no. Proprio no » balbettò, indeciso su cosa rispondere.

L’altro, davanti al suo dubbio, continuò la sua indagine: « però vorrebbe che lo fosse? » domandò, indiscreto.

Watson fu costretto a deglutire di nuovo, cercando in qualsiasi anfratto della sua testa una risposta da dare che corrispondesse al meglio alla situazione in cui versavano lui e Sherlock. Ma quel pensiero si mescolava un po’ troppo con le proprie, personali prospettive per un futuro di cui sapeva ancora poco o niente, perciò non era nemmeno sicuro che la risposta che avrebbe finito per dargli sarebbe stata, oggettivamente, corretta o meno.

« È una persona a cui tengo molto, e a cui voglio molto bene. Però non so se... cioè, non ho mai preso in considerazione al possibilità che... » iniziò, trovando subito difficoltà ad esprimersi.

L’uomo, guardandolo con un sorriso, alzò una mano come per fermarlo e risparmiargli la fatica. « Mi perdoni se la metto alle strette, ma ha appena ammesso che questa persona è il motivo per cui vorrebbe continuare a vivere... » gli disse: « ...io credo che la sua importanza sia abbastanza scontata, una volta detto questo. Cosa potrebbe essere, dunque, per lei, un passo in più come il fidanzamento, se parte già da una premessa di assoluta dipendenza da essa? » domandò, usando quell’inflessione un po’ antica per cui le relazioni amorose sfociavano subito nel fidanzamento.

A parte quel piccolo particolare, però, l’osservazione dell’uomo aveva un senso. Ed era giusta.

Ormai Sherlock era parte della propria vita, e anzi... ne era direttamente il fulcro.

E più ci pensava, più Watson sentiva che non era importante dare una definizione socialmente accettabile al loro rapporto; probabilmente, finché avesse avuto la possibilità e l’occasione di stare al fianco di Sherlock, gli sarebbe andato bene anche così.

Watson gli sorrise, annuendo. « Sì... dopotutto non ha tutti i torti » asserì.

“Prossima fermata: Regent’s Park. Siamo in arrivo a Regent’s Park.”

Il treno si fermò e ripartì di nuovo nel silenzio calato fra i due uomini.

Un silenzio complice e sollevato, che portava a John più benefici che malesseri e che cancellava i dubbi dalla sua mente uno ad uno. Non si sarebbe dimenticato qual’era il motivo per cui stava tornando indietro, per cui decideva ancora una volta di affrontare la vita e tutti i problemi che, impietosa, gli aveva messo davanti e, ne era sicuro, con cui avrebbe continuato a disseminare il suo cammino fino al giorno in cui sarebbe definitivamente morto.

Voleva vedere Sherlock. Voleva sorridergli, parlargli, sedere con lui nel salotto del 221B bevendo un tè ed ascoltando l’ennesimo, prolisso sproloquio su qualche caso d’importanza nazionale che Mycroft aveva avuto l’ardire di proporgli, oppure che lui aveva accettato e poi risolto nel giro di qualche ora.

E se avesse potuto passare il resto della sua vita così... invecchiare fra le pareti famigliari e piene di fori di proiettile del loro appartamento, fra il sempre maggiore disordine del loro salotto, con provette a riempire ogni angolo della cucina e qualche testa mozzata nel frigorifero ogni tanto, beh... gli sarebbe stato bene.

Anzi, forse non chiedeva di meglio.

“Prossima fermata: Baker Street. Siamo in arrivo a Baker Street.”

« Credo che sia la sua fermata, amico mio » gli disse il signore al suo fianco, sorridendogli incoraggiante.

John annuì, alzandosi e posizionandosi davanti alla porta in mezzo agli sguardi vuoti ma incuriositi delle persone del vagone.

La fine del tunnel, poi una stazione piena di luce.

Il treno rallentò e si fermò. Le porte si aprirono.

In un respiro, John attraversò la soglia, consapevole che non appena avrebbe aperto gli occhi nella realtà – nella realtà vera – avrebbe dimenticato ogni cosa di quel limbo bianco e luminoso, terra di passaggio per chi si era perso fra la vita e la morte.

Chiuse gli occhi e, con un sorriso e molte aspettative, si lasciò andare alla luce.

 

 

 

Era mezzogiorno del 4 marzo, e John dormiva.

I medici erano venuti quattro ore dopo l’inizio del trattamento per staccarlo dal macchinario per la dialisi, che ormai aveva completato la sua funzione di ripulitura del sangue. Avevano controllato le pulsazioni, l’elettroencefalogramma, l’elettrocardiogramma, le ferite e il taglio chirurgico fatto in sala operatoria; era risultato tutto nella norma e, ormai convinti che tenerlo in coma fosse superfluo, avevano rimosso anche la flebo di barbiturici.

Il medico era lo stesso che era venuto a parlare con loro in sala d’attesa prima dell’alba.

Con un sorriso sollevato aveva detto loro che andava tutto bene, e che John si sarebbe svegliato una volta smaltiti i medicinali. Siccome i barbiturici erano farmaci che limitavano l’accesso di sangue al cervello – di modo da “disattivarlo” se non per le funzioni principali, quali respirare e fare battere il cuore – ci sarebbe voluto un po’ prima che riuscisse a recuperare in pieno tutte le sue facoltà, ma nel giro di ventiquattrore sarebbe tornato la persona di sempre.

Nell’udire quelle parole, mrs. Hudson era scoppiata in lacrime. Aveva ringraziato Dio cinque o sei volte, il medico che aveva parlato con loro altre tre o quattro, poi si era limitata ad asciugarsi gli occhi con un sorriso tenero tutto per John.

Lestrade aveva sospirato pesantemente, sentendosi improvvisamente crollare addosso tutta la stanchezza accumulata durante la giornata. Nonostante sorridesse era palese che non si sentisse bene e, a sorpresa un po’ di tutti, era stato Mycroft a sorreggerlo, tenendolo per le spalle finché non si era accomodato su di una sedia nelle vicinanze. Dopotutto erano le nove del mattino e Gregory non aveva chiuso occhio dalle sette del mattino precedente – e la giornata non era stata una delle più leggere, ovviamente.

Harry, con la spalla appoggiata allo stipite della porta, si era limitata ad un sorriso sollevato. Non aveva detto niente, né aggiunto alcunché a parole; semplicemente aveva chiuso gli occhi ed era tornata dov’era rimasta fino a quel momento, seduta in sala d’attesa nel posto accanto alla finestra. La sua convinzione nel non voler entrare in camera del fratello non le impediva, però, di rimanere nelle vicinanze finché non si fosse definitivamente svegliato.

Molly si era lasciata andare in una risata liberatoria e aveva incrociato le mani sotto al mento con uno schiocco. Aveva poi rivolto un sorriso radioso a Sherlock, il quale però non l’aveva guardata; teneva gli occhi fissi su John, sempre al suo fianco su di una scomodissima sedia d’acciaio con la seduta in plastica, e nonostante ascoltasse tutto ciò che veniva detto nella stanza non gli aveva staccato di dosso lo sguardo nemmeno per un istante.

Cosa che stava facendo anche in quel momento, quando ormai l’orologio al suo polso segnò le dodici passate.

Sherlock non aveva dormito, non aveva mangiato, non aveva nemmeno bevuto qualcosa che non fosse qualche sorso d’acqua dalla bottiglia che Mycroft gli aveva portato verso le otto del mattino. Aveva un taglio in testa che pulsava come l’inferno, era sotto antibiotici e antidolorifici per la stessa ragione e, in più, arrivava da una giornata ancora più pesante di quella che aveva infine steso l’ispettore Lestrade, ormai arrivato a casa.

Molly era tornata al Barts, la signora Hudson faceva la spola fra la camera di John e la sala d’attesa mentre Mycroft era dovuto tornare al lavoro, facendosi comunque promettere di essere chiamato non appena John avesse ripreso conoscenza.

Il guaio, però, era che non lo aveva ancora fatto.

Vero era che il tempo di metabolizzazione dei farmaci era diverso da persona a persona, e che probabilmente il fisico di John, già inizialmente debilitato, ci avrebbe messo un po’ di più del solito... tuttavia Sherlock non riusciva a levarsi dalla testa il pensiero che tre ore fossero troppe.

Cominciò a pensare che la causa potesse essere un’altra. Non c’erano segni che mostrassero la caduta di John in un coma naturale, però rimanevano sempre cause di tipo psicologico.

E se John non avesse desiderato svegliarsi? Era possibile controllare quella condizione con la mente? Dopotutto non era questo il processo logico dietro al dolore psicosomatico?

E se John non si fosse più svegliato perché semplicemente non voleva farlo? Perché riteneva, magari, di non avere niente per cui aprire gli occhi? Niente che meritasse la sua presenza nel mondo della veglia?

Sherlock era confuso e la stanchezza che alla fine aveva bussato anche alla sua porta non lo aiutava. Nonostante le buone notizie non riusciva a tranquillizzarsi. Probabilmente sarebbe stato a suo agio solamente quando John avesse aperto gli occhi, avesse parlato, gli avesse sorriso.

In poche parole, solamente davanti alla prova empirica ed oggettiva che stesse bene.

Chiudendo gli occhi si chinò sul letto, appoggiando la braccia incrociate sul materasso e la testa su di esse, a contatto con la coscia di John. Osservando ad occhi socchiusi la mano immobile del migliore amico a pochi centimetri dal proprio volto, allungò le dita a sfiorarle, afferrando il suo indice e tenendolo stretto.

L’indice. Solo l’indice. Un minimo contatto per capacitarsi che fosse caldo, che qualcosa vivesse ancora, in John Watson. Che niente era perduto e che tutto sarebbe ritornato com’era stato appena trenta ore prima.

Chiuse gli occhi giusto un attimo, cercando inconsciamente di sincronizzare il proprio respiro con quello di John.

Un attimo, ecco il lasso di tempo in cui tutto accadde.

Sherlock Holmes sentì un fruscio, poi una lieve carezza sulle dita della mano.

Spalancò gli occhi. Li tenne fissi sulle loro mani, aspettando che quel fenomeno si ripetesse, così da poter convincere se stesso che non se l’era immaginato, che non era frutto della sua immaginazione.

Che quelle dita si erano mosse davvero contro le sue.

Avvenne. Questa volta vide la lieve carezza che il dito medio di John depositò sul dorso delle sue, muovendosi con fatica ma volontariamente.

Si drizzò di scatto, puntando subito gli occhi azzurri verso il volto di John, un groppo in gola che si disciolse solo quando vide le iridi blu dell’amico sotto le ciglia socchiuse e percepì il lieve sorriso che gli tendeva le labbra sotto la mascherina per l’ossigeno.

Gli sembrò di riprendere a respirare dopo una notte passata sott’acqua, in apnea, chiuso su se stesso in una pozza d’acqua sporca e cupa in cui i suoni arrivavano attutiti e rimbombavano come tamburi stonati.

Scattò in piedi, lasciando che la sedia cadesse rumorosamente a terra. Si chinò sull’amico con il busto, occhi negli occhi, e solo allora si accorse di quanto fosse agitato: le mani, bloccate a mezz’aria nell’intento puramente istintivo di circondare il volto di John, gli tremavano leggermente, senza controllo.

Lui stesso non era padrone della sua paura, del suo sollievo, dell’esplosione di gioia e dei battiti accelerati del proprio cuore e mescolava tutte quelle emozioni in una sorta di soluzione chimica ormai satura; la sua mente non riusciva a disciogliere tutte quelle emozioni e così le lasciava sedimentare, creando solo caos, panico immotivato.

John lo notò subito. Si era appena svegliato ma aveva già intuito le condizioni in cui versava Sherlock.

Lo aveva letto nei suoi occhi indecisi e sgranati, spaventati dalla confusione, brillanti della stessa luce che gli aveva visto a Baskerville quando, per una notte, ogni sua sicurezza era crollata ad effetto domino.

Cercò di parlare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo. Cercò allora di sollevare la mano ma nemmeno il movimento degli arti sembrava concepibile, in quel momento. L’unica cosa che riuscì a fare, grazie alla vicinanza fra loro, fu afferrargli il lembo della camicia e tirare il tessuto, di modo da trasmettergli in quel misero gesto ciò che con le parole non era ancora in grado di dirgli.

Calmati, Sherlock. Va tutto bene. Sono qui, va tutto bene.

Sherlock avvertì la presa sulla sua camicia e, trattenendo il respiro, cercò dentro di sé la calma. Il suo cervello si ridestò dal trauma e dalla sorpresa, riprendendo a fare il suo lavoro, concedendo al detective di respirare finalmente la sua aria, il suo ossigeno: quello fatto di pensieri e ragionamenti.

Deglutì, e fu soltanto la voce a tradire un lieve tremore, questa volta. Le mani, tornate immobili, si posarono finalmente sul viso di John, i polpastrelli bollenti delle proprie dita a sfiorare le guance tiepide dell’altro.

« H-Hai avuto un’emorragia interna » cominciò, lo sguardo incatenato a quello di John, che non aveva la minima intenzione di scostare i suoi occhi da quelli di Sherlock: « l’emorragia ti ha provocato un’insufficienza renale lieve. Ti hanno messo in dialisi ma in sala operatoria il tuo cuore ha ceduto e... » deglutì: « ...hanno deciso di metterti in coma farmacologico. È per questo che non riesci a parlare o a muoverti » gli spiegò, tornando gradualmente lo Sherlock Holmes di sempre. Il suo sguardo si era stabilizzato, la sua mente aveva ripreso il controllo della situazione.

John era sveglio, e sorrideva. Andava tutto bene. Tutto bene.

Fece scivolare via le mani dalle gote del medico, appoggiandosi con le mani sul cuscino ai lati della sua testa. Continuò a guardarlo fisso negli occhi ma questa volta con una punta di rabbia, unita forse a qualche rimasuglio di ansia.

« Non farlo mai più » soffiò il detective.

John continuò a guardarlo, impossibilitato a fare altro.

« Non farlo mai più... questo. Mai più. Tu non c’eri e io non sapevo cosa fare. Non farlo mai più » disse – ordinò.

Watson, socchiudendo gli occhi, annuì.

Dopotutto... era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.

 

 

Dopo essere stato visitato dai medici, avere conosciuto il chirurgo che lo aveva operato, avere ricevuto un abbraccio in lacrime da sua sorella, uno stritolatore da mrs. Hudson e avere assistito a come quest’ultima convinceva Sherlock a dormire almeno qualche ora – rigorosamente sulla poltrona della camera, dato che tutti i tentativi della donna di farlo tornare con lei a Baker Street erano andati in pezzi contro la cocciutaggine del detective – John si era addormentato di nuovo, concedendo al proprio corpo tutto il riposo di cui aveva bisogno.

Quando si risvegliò era ormai il tramonto, Sherlock dormiva ancora e qualcuno aveva ritenuto opportuno rimuovergli la mascherina d’ossigeno. A quanto pareva, respirava bene anche senza.

Si guardò intorno e puntò sul comodino alla propria destra il telecomando del piccolo televisore a parete.

Prima di prenderlo, però, fece un controllo generale di quanto il suo cervello avesse giovato del riposo concessogli. Mosse prima le dita delle mani, tutte e dieci, cercando di non forzare troppo la destra per non spostare la flebo di fisiologica che gli avevano inserito nella vena sul dorso della mano. Alzò poi entrambe le braccia parallelamente, notando con piacere di riuscirci. Mosse infine le dita dei piedi sotto le coperte e girò la testa a destra e a sinistra, constatando che tutto sembrava essere tornato al proprio posto.

Avrebbe tentato anche di parlare, probabilmente, ma aveva paura di svegliare Sherlock. Per quei pochi minuti che lo aveva visto gli era sembrato tremendamente stanco e non voleva assolutamente privarlo del sonno a cui si era infine arreso.

Allungando il braccio quindi – e sentendo i punto su fianco tirare quando si mosse per accompagnare il movimento – afferrò il piccolo aggeggio e rimase per un attimo a fissare il comodino.

A quanto pare era venuta della gente mentre dormiva, perché una piantina di primule gialle aveva trovato posto accanto alla caraffa dell’acqua e al relativo bicchiere. Sul biglietto, scritto a mano, un “rimettiti presto (ci servi per tenere a bada il geniaccio)! Anderson - S. Donovan” lo fece ridacchiare silenziosamente.

Accanto alla piantina c’era poi una confezione che conosceva bene, proveniente dal pub in cui ogni tanto si rifugiavano lui e Greg quando decidevano di passare una serata a bere birra, mangiare panini e a lamentarsi di Sherlock. Sulla carta marrone, con una penna a sfera era stato scritto un “so quanto fa schifo il cibo dell’ospedale. Goditelo. Greg”.

Un pacchettino di cioccolatini era quello che aveva lasciato Molly, invece, con un bigliettino allegato che diceva semplicemente un “rimettiti presto! Ti voglio bene. Molly”.

Mrs. Hudson non aveva lasciato biglietti, ma l’odore dolce della sua torta di mele gli colpì piacevolmente il naso non appena tirò su un lembo della carta che la ricopriva.

Non avrebbe mai ringraziato abbastanza quella donna, lo sapeva.

Mycroft non aveva portato niente di nuovo, ma si era premurato di fare irruzione nel loro appartamento – ma più probabilmente lo aveva fatto entrare mrs. Hudson – e gli aveva portato il suo notebook, su cui era stato lasciato un biglietto scritto in un’eccepibile grafia: “Sarebbe perso senza il suo blogger. Mycroft Holmes”.

Gli sorse spontaneo un sorriso. Fratelli maggiori, non cambiavano mai.

Interiormente grato per tutti quei pensieri lasciati per lui, prese il telecomando e lo puntò verso la televisione, togliendogli la voce non appena si accese. Girò qualche canale poi, trovato quello che gli interessava, guardò le immagini che il telegiornale stava passando.

Il solo pensiero di essere stato all’interno di quel groviglio di acciaio gli faceva salire la nausea. Il cameraman stava mostrando l’interno del tunnel, accompagnato dai vigili del fuoco, ed il giornalista incaricato di fare il reportage indicava freneticamente i vagoni distrutti del treno, parlando di cosa non riusciva a capirlo, dato che nel leggere il labiale non era mai stato bravo. Ne guardò qualche altro minuto poi, semplicemente, spense il televisore.

Vedere da fuori quello che lui aveva provato sulla pelle lo infastidiva troppo. Gli chiudeva lo stomaco in una morsa e gli troncava il respiro nei polmoni. Probabilmente la sua analista ci sarebbe andata a nozze.

« Probabilmente sì ».

Sussultò nel sentire la voce di Sherlock tagliare in due il silenzio, leggendogli come al solito nella mente ed indovinando perfettamente ciò che stava pensando.

Lo guardò alzarsi dal divano, i ricci neri spettinati ma gli occhi vigili e riposati come li aveva visti ogni mattina da quasi due anni a quella parte.

Gli si avvicinò a grandi passi, fermandosi a fianco del letto ed osservandolo indagatore, nel tentativo di percepire ogni piccolo segnale, segno o chissà cos’altro potesse indicare al detective le sue condizioni di salute. John glielo lasciò fare.

« Perché sono sempre io quello che finisce all’ospedale? » scherzò, riuscendo pian piano a ritrovare la capacità di parola. Prova voce: superata!

Ma Sherlock non era in vena di scherzi.

John incatenò lo sguardo ai suoi occhi azzurri, cercando – inutilmente – la causa di quell’espressione contrita. « Cosa c’è, Sherlock? » chiese poi, serio.

L’altro sospirò, chiudendo gli occhi un secondo per poi riaprirli di nuovo.

« Ho un cuore, John » gli disse poi, tono grave, voce bassa. Come se si vergognasse. Come se se ne pentisse. Come se lo rifiutasse.

Lo stomaco di John si contrasse di nuovo, ma lui lo nascose bene. Voleva fare una cosa ma non sapeva se Sherlock sarebbe stato d’accordo, se si sarebbe scostato, se gliel’avrebbe permesso o meno.

Nel silenzio, decise di rischiare. A qualche passo dalla morte le prospettive cambiano ed i dubbi calano di dimensioni come iceberg che si sciolgono nel lungo viaggio verso l’equatore.

Alzò la mano sinistra – quella libera dalla flebo – e la poggiò delicatamente sul petto di Sherlock. Quello non si mosse, lasciandolo fare senza il minimo imbarazzo o dubbio.

John sentì il battito del cuore di Sherlock contro il palmo della mano, e sorrise. « Lo sapevo già » disse.

« ...fa male » gli rispose Sherlock: « voglio strapparlo via ».

John chiuse gli occhi e negò con il capo. « Non farlo... » mormorò. « Dallo... dallo a me. Me ne prenderò cura per te » aggiunse, gli occhi incapaci di incontrare di nuovo quelli azzurri dell’altro.

Almeno finché la mano di Sherlock non raggiunse la sua, appoggiata ancora sul suo petto. Solo allora John alzò di nuovo gli occhi sull’altro, oceano nel ghiaccio, in attesa di una risposta che avrebbe potuto renderlo l’uomo più felice del mondo o un animale malmenato che si lecca le ferite in un angolo.

Sherlock strinse con la propria mano quella di John, intrecciando le dita a quelle del medico.

« È tuo » gli rispose.

John non poté far altro che sorridergli.

Poté quasi giurare, sentendolo con la mano, che il cuore di Sherlock – ora suo – avesse appena perso un battito.

 

 

 

 

 

Epilogo • un mese dopo

221B Baker Street

 

 

Quando riaprì gli occhi alla luce del nuovo giorno, il letto accanto a sé era sfatto ma vuoto.

John sospirò in un sorriso, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la mano sulle lenzuola stropicciate, trovandole fredde. Sherlock doveva essersi alzato già da un pezzo, come la maggior parte delle volte.

Trovando la forza di alzare la testa dal morbido cuscino che aveva ospitato il suo sonno per l’intera nottata, prese visione della sveglia sul comodino, scoprendo che erano le nove meno un quarto del mattino. Sbadigliò e, finalmente cosciente di sé, si mise a sedere.

Subito il fianco si fece sentire. John vi portò sopra la mano, massaggiando i muscoli intorno al taglio chirurgico ancora in via di guarigione nel tentativo di scioglierli. Si rilassò un poco quando smise di fare male e, finalmente, si alzò in piedi, recuperò le ciabatte ed uscì dalla propria camera  dirigendosi giù per le scale, obiettivo cucina.

Fu lì che trovò Sherlock, seduto al tavolo con le gambe accavallate a leggere il giornale.

Indossava la vestaglia blu e solo quella, John ne era sicuro. A volte, i livelli di pigrizia del suo coinquilino – avrebbe dovuto cominciare a chiamarlo “compagno”, d’ora in poi? – sfioravano quelli di Mycroft, ma si era sempre guardato bene dal farglielo notare.

« Buongiorno » salutò entrando.

« Mh... » fu l’onnicomprensiva risposta di Sherlock. John sorrise, gli scostò i capelli dalla fronte con una mano e vi posò le labbra in un piccolo bacio fugace.

Holmes non si distrasse dalla lettura ma John non se ne curò affatto. Il detective e le dimostrazioni d’affetto non erano termini adatti a stare nella stessa frase, ma andava comunque bene così.

Dopotutto, era Sherlock Holmes. Non riusciva a pensare a qualcosa di diverso dalla stramba quotidianità affettiva ancora in via di costruzione.

« Hai già fatto colazione? » chiese John dirigendosi ai fornelli.

« Solo tè per me » rispose il moro mentre John afferrava tutto il necessario per preparare il tè e metteva in tavola fette biscottate e marmellata.

« Trovato qualcosa di interessante? » domandò poi al detective, riferendosi al quotidiano. Per una persona che non conosceva nemmeno il nome dell’attuale Primo Ministro, la lettura del giornale significava che c’era un caso interessante, dunque probabile lavoro in arrivo.

« La mia camera è più spaziosa ».

Watson si accigliò. « Prego? ».

« Sono sicuro che la tua roba ci entrerebbe senza problemi » continuò imperterrito Sherlock, ignorando la domanda implicita dell’altro.

John non poté fare a meno di nascondere un sorriso soddisfatto. « Ed è tutto scritto sul giornale? » ironizzò, mettendo in infusione due bustine di tè direttamente nella teiera.

Se Sherlock ebbe intenzione di rispondere, probabilmente gli fu impedito dal doppio suono del campanello. Il postino, decifrò John, che con un “vado io” – abbastanza scontato, in realtà, dato che Sherlock non si sarebbe comunque sprecato ad alzarsi per andare alla porta – John scese velocemente le scale, salutando il portalettere e ricevendo la solita montagna di posta.

Ritornando al piano superiore, la scorse velocemente. A parte le bollette da pagare, praticamente immancabili, una cartolina da Dublino attirò la sua attenzione. La girò, e nel leggere la calligrafia infantile con cui era stata scritta sorriso rincuorato; Alice era alla sua prima gita scolastica fuori porta e, a quanto diceva, aveva scelto per lui la cartolina più bella del negozio.

Avrebbe dovuto ringraziarla, magari telefonandole.

Continuò a scorrere le buste, incontrandone una che portava lo stemma della British Army. La aprì alla bene e meglio.

Insieme ad una lettera scritta a mano che lesse solo sommariamente vi era la fotografia di un gruppo di soldati, tra i quali spiccava Edward Miller. Era appena tornato al reggimento e aveva chiesto esplicitamente di essere trasferito al 5th Northumberland Fusiliers; richiesta accettata, considerando che il plotone apparteneva a quella compagnia. Lo informava inoltre di essere appena rientrato dall’infortunio, che la spalla stava benone e che aveva rinunciato a partire. Lui e la sua ragazza avevano parlato di matrimonio, dunque voleva rimanere in Inghilterra per farsi una vita, magari una carriera nell’esercito.

Sorrise di nuovo, arrivando nel frattempo al piano superiore. Finché non si trovò fra le mani una busta strana, con l’effige di una... culla?

« Sherlock? » chiamò dall’ingresso, chiudendo la porta dietro di sé con aria decisamente allibita.

« John? » si sentì rispondere dalla voce profonda dell’altro, segno che lo stava ascoltando.

« Nella posta di oggi c’è l’invito ad un... battesimo? » borbottò stranito, leggendo velocemente il biglietto di cartoncino: « ...un battesimo fra quattro mesi, per giunta. Chi è Nicholas Ryder? » domandò.

Sherlock, alzatosi per spegnere il bollitore del tè, sorrise appena nel versarlo in due tazze.

« Sherlock, perché il pargolo si chiamerà “John Sherlock”? » chiese John, alzando gli occhi dal biglietto quando dall’altro non venne risposta: « Sherlock? ».

« Cosa ti fa pensare che io ne sappia qualcosa, John? » ironizzò il detective con un sorrisetto furbo, avvicinandosi all’altro e porgendogli una delle due tazze di tè.

Watson lo guardò con un sopracciglio sollevato: « preferisci che ti risponda prima di mandarti al diavolo o posso togliermi subito la soddisfazione? ».

Sherlock nascose un sorrisetto divertito sul bordo della propria tazza, bagnandosi le labbra con il tè. Davanti allo sguardo di John che non ammetteva silenzi programmati o cambi repentini di discorso, alla fine capitolò.

« Beh, trovo che sia una scelta di nomi oculata. Oltre che lusinghiera, certo. “John S. Ryder” suona bene » commentò, impedendo con la frase successiva la risposta che John aveva già sulle labbra: « e poi, l’alternativa era Marcus » disse, sottolineando il nome con una sorta di scherzoso disprezzo.

John, ormai conscio di essere entrato nella tana del lupo con tutto il braccio e non solo con la mano, semplicemente lasciò perdere. Bevve qualche sorso di tè, appoggiò tazza e posta sul tavolo di fianco al detective e, approfittando della vicinanza dell’altro per rubargli un bacio, si diresse a passo svelto verso camera sua.

« Dove stai andando? » domandò Sherlock.

« Beh, la mia roba non traslocherà da sola ».

 

 

 

 

 

~ the END.

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1. "Passing Afternoon" è il titolo di una canzone di Iron & Wine. È la OST di chiusura dell'episodio 4x16 di Dr. House ("Il Cuore di Wilson") e, da quando l'ho rivisto per raccogliere ispirazione, anche di diritto la OST ufficiale di questo capitolo.

 

2. Sherlock Holmes, nei lavori originali di Doyle, è un drogato. Nella serie della BBC il duo Mofftis ha deciso di fargli superare la dipendenza, ma tracce del fatto che comunque lo fosse sono visibili in "Uno Studio in Rosa" (quando Lestrade è nel loro appartamento con la scusa di una retata antidroga) e anche nell'episodio pilota mai andato in onda (in cui è lo stesso Sherlock ad ammettere che il vizio di drogarsi gli era passato da poco).

In particolare, Sherlock (di Doyle) era solito cadere in profondi stati depressivi quando era senza casi da risolvere, e riusciva ad iniettarsi in vena dosi di cocaina e/o morfina anche 3 volte al giorno.

 

3. È un gioco di parole con il significato del nome "Joy", che significa "gioia"

 

4. Brevemente: Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi, divise la mente umana in tre parti principali, ovvero "Es", "Io" e "Super-Io".

Mentre il Super-Io è l'interiorizzazione delle regole morali apprese dai genitori durante lo sviluppo (distinzione fra giusto e sbagliato, buono e cattivo...), e l'Io è una sorta di "sistema di controllo" che permette all'individuo di bilanciare la propria personalità in relazione alla realtà e alle regole sociali, l'Es è la parte del subconscio completamente slegata dalla logica; è puro impulso primitivo, che secondo Freud si libera del tutto durante il sonno (perché nel sonno si è soggetti ad un minor controllo razionale ed inibitorio).

 

5. A scuola di Medicina (da Zia Wikipedia e con la gentile partecipazione del dr. House).

- la Dialisi è un macchinario che ripulisce il sangue. Vengono applicati due aghi sul braccio del paziente, uno per il sangue in entrata e uno per quello in uscita; il sangue passa in questo macchinario che ne separa i componenti, pulendolo dalle scorie, per poi "ricomporlo" e rimandarlo in circolo nel corpo.

- il Bypass aorto-coronarico non è altro che una circolazione extra corporea del sangue per escludere il cuore. Vengono collegati dei "tubicini" alle due principali arterie del cuore (Aorta e Coronaria) e questo continua la sua circolazione senza passare dal cuore grazie ad una macchina che ne mima la funzione. Il cuore, in quel lasso di tempo, ovviamente non batte.

- Il coma indotto (o farmacologico, o famaco-indotto) è uno stato di coma provocato dai medicinali. L'attività del cervello è ridotta, durante il periodo di coma, e teoricamente non dovrebbe esserci fase REM, dunque niente sogni. Ma non ho raccolto abbastanza dati sull'argomento, dunque prendetelo come necessità di trama ;D

   
 
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