Note:
ormai sono sempre quelle, ma già che ci siamo...
Quest’ultimo capitolo è
ambientato per la maggior parte in ospedale. Come ormai sarete stanchi di
leggere – perché l’ho ripetuto quasi in ogni capitolo finora XD – tutte le cose
mediche che vengono dette qui non sono farina del mio sacco. Vengono da Dr.
House e da Wikipedia.
Tanto per dire: potrei
anche scrivere una marea di boiate. Voi ricordate che è sempre licenza poetica ;D
Ringraziamenti:
perché
nell’ultimo capitolo ci vogliono.
Quando cominciai a
guardare Sherlock – si sta parlando
del dicembre 2011 – mi ero ripromessa di non scriverci sopra.
Eh. Si vede com’è finita.
Che dire? Inizialmente “All we can do (is keep breathing)”
doveva essere una shortfic di 3 capitoli. Alla fine
ne sono usciti 5 per un mio difetto congenito dell’essere prolissa, ma ammetto
che non mi è dispiaciuto affatto allungarla, potendo così approfondire qualche
altro aspetto dei personaggi.
E, a discapito del fatto
che ci sono degli original character,
e che la trama si snoda quasi tutta su di un cliché da Action
movie di serie B, sono anche felice che sia piaciuta.
Davvero. Mi sono arrivate
recensioni che mi hanno fatto sorridere come un’ebete davanti al pc per ore intere. Tutte parole che sento di non meritare
ma che, e sarebbe bugiardo da parte mia negarlo, mi hanno fatto davvero molto
piacere.
Perciò ringrazio tutti
coloro che hanno letto, innanzi tutto, poi coloro che hanno recensito; ma anche
chi ha semplicemente letto e messo nei preferiti, o nelle seguite, o nelle
ricordate... o chi l’ha segnalata per le storie scelte del sito, con mia enorme
gioia e sorpresa. Grazie.
Sono felice che abbiate
apprezzato la fanfic e, dal profondo del cuore e come
ogni ficwriter, spero di avervi lasciato qualcosa,
fosse anche solo un bel ricordo.
Con queste mie parole,
infine, apro l’ultimo capitolo.
Grazie per essere arrivati
fin qui.
Buona lettura ♥
______________________________________________________________________________________________________
Passing Afternoon
Lestrade,
appoggiato con la schiena al muro di quel piccolo spazio d’attesa, teneva le
braccia incrociate ed il mento attaccato al petto. Indossava il suo impermeabile
blu scuro stropicciato e aveva gli occhi fissi sulla punta della proprie
scarpe. Non pensava a niente.
Mycroft Holmes, elegantemente seduto su uno dei
seggiolini in plastica poco distanti da Greg, gambe accavallate ed inseparabile
ombrello al fianco, teneva gli occhi socchiusi fissi su di un punto morto del
pavimento. L’unico movimento che si dava pena di compiere era quello di
passarsi fra le dita delle mani l’orologio da taschino, fermamente agganciato
al gilet grigio con una catenina d’oro tirata a lucido. Non pensava a niente
nemmeno lui.
Harriett Watson, capelli di una tonalità chiara di
castano ed occhi di una particolare sfumatura oltremare, se ne stava seduta
dalla parte opposta a Mycroft, scomoda in quei sedili
di plastica così maledettamente tipici delle sale d’attesa.
Indossava
una tuta grigia messa di fretta ed una giacca a vento maschile. Teneva un
ginocchio piegato al petto e l’altra gamba abbandonata oltre il seggiolino,
distesa con il tallone a terra. Anche lei non pensava affatto.
Molly
Hooper, arrivata correndo dal Barts
non appena aveva ricevuto la notizia, era in tenuta da lavoro, dunque indossava
il camice. Turno di notte, probabilmente. Teneva le mani di mrs.
Hudson, seduta al suo fianco fra Mycroft ed Harriett. Non sapeva a cosa pensare, dunque nemmeno lei se
ne dava pena.
La
signora Hudson indossava uno dei suoi abiti più belli, si era accotonata i
capelli ed aveva messo persino i gioielli. Probabilmente, nella sua mentalità
un po’ antica, l’eleganza era una sorta di rispetto, motivo per cui aveva perso
qualche minuto in più a scegliere come vestirsi, per potersi presentare al
meglio. Anche lei aveva la mente sgombra da ogni pensiero.
Sherlock
li trovò così quando salì le scale del reparto, di ritorno dal pronto soccorso.
Si presentò nel corridoio deserto a passo strascicato, le braccia abbandonate
lungo i fianchi, un cerotto bianco che spuntava dai riccioli scuri umidi ed
odoranti di shampoo.
Per
poterlo curare gli infermieri del pronto soccorso gli avevano imposto prima una
doccia. Lui l’aveva fatta nel minor tempo possibile, in silenzio, osservando
per qualche istante l’acqua divenire scura a causa della quantità di sporcizia
che aveva attaccata alla pelle, per poi sparire negli scarichi.
Gli
avevano dato un accappatoio, lo avevano fatto sedere su di un lettino e gli
avevano applicato cinque punti sul taglio, corredati con una dose generosa di
antidolorifici che non migliorarono affatto lo stato catatonico in cui versava.
Mycroft aveva poi provveduto a fargli avere dei vestiti
di ricambio.
I
soliti. Pantaloni neri, camicia bianca. C’erano anche calzini scuri e scarpe, così
come la giacca del completo, ma Sherlock non li aveva indossati.
Era
scalzo, infatti, sul pavimento freddo dell’ospedale semi-vuoto e silenzioso.
Silenzioso
come lo era il piccolo manipolo di persone nell’altrettanto piccola saletta
appositamente adibita per l’attesa di amici e parenti, dalle mura di un
rivoltante color crema. I loro volti, cinerei e ansiosi, si voltarono quasi in
sincrono quando comparve.
Sherlock
non fece niente. Non salutò, non parlò, non respirò.
Aveva
desiderato di addormentarsi. Di passare dormendo, per una volta seriamente, il
tempo che lo separava dalla fine dell’operazione di John.
Così
da non dover aspettare. Di nuovo.
Aveva
già aspettato abbastanza, quel giorno. Tutto
quel giorno. E l’attesa era stata ripagata.
Ma
ora?
Ora
arrivava una seconda punizione, voluta chissà da chi e chissà perché; doveva
attendere di nuovo, un’attesa claustrofobica, circondata da muri di pietra ed
odore di disinfettante.
Non
appena fece un passo in avanti, dopo minuti interi passati in piedi appena
oltre la porta dell’ascensore, mrs. Hudson scattò in
piedi e gli si avvicinò a passo svelto, circondandogli prima il viso con le
mani e poi tirandolo direttamente a sé, costringendolo a piegarsi per riuscire
ad abbracciarlo.
Sussurrò
al suo orecchio qualcosa che Sherlock non capì pienamente, ma che suonava molto
come una serie di “andrà tutto bene” e “si salverà” e “tornerà sicuramente a
casa” e “non preoccuparti”.
Holmes
chiuse gli occhi, prendendo delicatamente le braccia di mrs.
Hudson per sciogliere l’abbraccio in cui l’aveva stretto. Strinse per un attimo
le mani raggrinzite della donna fra le sue, guardandola negli occhi per una
frazione di secondo – trovandoli lucidi e bagnati di calde lacrime a stento
trattenute – per poi lasciarla e sorpassarla a passo lento, andandosi a
posizionare esattamente al centro della stanza, davanti a tutti quanti, gli
occhi sulla porta dalla quale era appena entrato.
Diede
le spalle ai presenti e, con un movimento stanco, si sedette a terra, i piedi
incrociati e le ginocchia strette al petto.
Nessuno
glielo impedì, o sottolineò quanto fosse inelegante.
Non
sapeva come doveva sentirsi, né come effettivamente si sentiva. La mente continuava
a dirgli che non avrebbe dovuto distruggersi in quel modo, che gli serviva
riposo (o un antidolorifico più potente, magari morfina? Come da vecchie
abitudini?(2)), che John Watson era solo un coinquilino. Ok, magari
un amico, ma aveva comunque fatto il suo tempo. Continuava a spiegarli, con
argomenti scientifici e logici, che sarebbe stato male a causa della perdita
forse per le prime due settimane, perché lui era veloce ad elaborare il lutto,
e dunque non gliene sarebbero servite di più. Gli diceva che John Watson non
era tutta questa specialità, non era rilevante, era... sacrificabile. Sostituibile.
Di
contro, ogni battito lento di cuore che sentiva esplodergli nelle orecchie –
quel cuore neonato, ancora incapace di provare una sensazione definendo anche
quale fosse – portava con sé parole del tutto diverse: calde e rassicuranti a
volte, paurose e tese altre.
Gli
sussurrava che era importante, restare lì. Che doveva farlo perché lo doveva a
John. Che sarebbe dovuto rimanere fino alla fine, sveglio, presente, per
poterne vedere il risultato, qualunque fosse.
Per
potergli dare il bentornato se avesse riaperto gli occhi, o per potergli dire
addio se non li avesse riaperti mai più.
Mormorava
quietamente l’importanza del dottor Watson direttamente nel suo orecchio,
facendogli presente come si sentisse ogni volta che riceveva un complimento
sincero da quella voce umana, o quando il medico si lamentava a vuoto dei suoi
esperimenti sparsi nel frigorifero ed in giro per la cucina.
Gli
faceva ricordare ogni fremito che le corde del proprio cuore avevano percepito
in tutto il tempo passato assieme; quando John faceva qualcosa di gentile per
lui, si preoccupava per lui, sorrideva per lui.
Le
occhiate e gli sguardi con cui capivano esattamente cosa l’altro volesse dire
senza aver bisogno di parlare. Quegli attimi in cui Watson capiva, solo da una
sua piccola e lieve occhiata, il bisogno che aveva di un tè – uno dei suoi tè, buoni in un modo che solo John
sapeva fare, con quantità perfette di zucchero e limone – e qualche
complimento, o di un pubblico che ascoltasse un suo ragionamento
particolarmente brillante.
I
momenti in cui John si addormentava sulla poltrona dopo essere rimasto sveglio
per 72 ore di fila, seguendolo su e giù per Londra durante la risoluzione di un
caso. Gli stessi momenti in cui Sherlock, mosso dai fili di qualche
marionettista dal cuore tenero, si alzava dal divano in silenzio e lo copriva
con la coperta, rimanendo poi seduto di fianco alla sua poltrona con l’unico
scopo di ascoltarne il respiro regolare.
Le
notti in cui, nonostante l’altro dormisse, Sherlock si metteva a suonare il
violino. E John scendeva in punta di piedi le scale e si fermava dietro la
porta chiusa del salotto, la schiena appoggiata al legno, e lo ascoltava
suonare.
E
allora Sherlock cambiava melodia, suonando qualcosa di dolce che sapeva piacere
a John, facendo scivolare l’archetto sulle corde a creare note come il miele e
facevano entrambi finta: Sherlock faceva finta di non essersi accorto di John,
e John fingeva che Sherlock non si fosse accorto della sua presenza.
Tutte
quelle circostanze in cui Sherlock si era sentito bene, meglio. Occasioni in
cui aveva sorriso con affetto a qualcuno che non fosse se stesso, o a qualcosa
che non fosse una sua deduzione o il teschio sul caminetto.
Sherlock
Holmes cominciava a capire, e capire faceva male. Il suo cuore finalmente a
pieno regime soffriva per l’emozione e la paura di ciò che provava mentre il
suo cervello, testardo fino alla fine, continuava ad attivare meccanismi di
difesa razionalizzanti, non facendo altro che confonderlo ancora di più.
Era
nauseante.
E
quella maledetta attesa non migliorava affatto la situazione.
Aprì
gli occhi di scatto, sussultando.
Un
sentimento di paura, forse di angoscia. La sensazione di cadere che è capace di
svegliare una persona in piena notte e dal suo sonno più profondo.
In
realtà, un po’ si sentiva esattamente così. Una persona svegliata nel cuore
della notte.
Ma
si guardò intorno, John, ed il posto in cui si ritrovò non aveva niente a che
fare con la realtà.
Pareti
bianche, pavimenti bianchi, tappeti bianchi, mobili bianchi, libri dai
frontespizi bianchi come le relative pagine. Si ritrovò seduto su di una
poltrona bianca, indossando vestiti bianchi – un paio di pantaloni larghi di
cotone leggero, molto simili a quelli di un pigiama, e una maglietta bianca a
maniche corte, semplicissima – e circondato in ogni dove da cose bianche. Anche
la luce, che filtrava da una finestra con le tende bianche e dava su di uno
spazio bianco uniforme, era bianca.
Si
guardò meglio intorno. Le uniche note di colore erano un teschio sulla mensola
sopra il camino, osso invecchiato, grigio sporco. Uno smile giallo sulla parete
all’estrema destra. Un violino dalle venature marroni appoggiato sul divano.
Era
famigliare, quel posto. Abitudinario. Gli dava una sensazione di calore,
d’affetto, di protezione, di...
« Casa ».
Si
irrigidì nel sentire una voce che non gli apparteneva e, ora completamente in
allerta, girò velocemente il capo verso la sua fonte, fin troppo vicina per
pensare che non fosse nella stanza già da prima.
Come
aveva fatto a non notarla?
Di
fronte a lui, su di una poltrona posizionata esattamente di dirimpetto a quella
su cui era seduto, una ragazza era intenta a leggere un libro dalla copertina
bianca e dalle pagine vuote. Non vi era scritto nulla eppure lei leggeva,
attenta, concentrata.
Indossava
un tailleur bianco a pantalone, elegante, con una camicia altrettanto bianca.
La pelle era lievemente olivastra, i capelli corti e neri, scalza. Lo erano
entrambi, in realtà. Era seduta a gambe incrociate.
La
conosceva. Sapeva chi era.
« Joy? » domandò infatti.
Quella,
alzando gli occhi su di lui, sorrise appena. « Più o meno » rispose,
chiudendo piano il libro ed appoggiandosi allo schienale della poltrona.
Chissà
perché, John sentiva che era strana l’immagine di lei su quella poltrona.
Sbagliata.
Ma non ricordava
perché.
Aggrottò
le sopracciglia nell’osservarla, senza scostare i propri occhi dai suoi. « Sei morta » affermò poi.
Quella
annuì.
« Io sono morto? » domandò allora,
facendo un’associazione di idee.
Lei
fece spallucce, negando con il capo. « Non lo so » disse poi.
Sorpresa.
Smarrimento. « Non lo sai? » domandò John: « cioè, se tu sei
qui... e io sono qui... » ipotizzò, ma lei
lo interruppe.
« E queste due
condizioni danno per forza come risultato la tua dipartita? » domandò lei con
un sorrisetto ad inclinarle le labbra: « non potremmo semplicemente essere qui
perché sì? Perché è così che deve essere? » continuò, senza mai smettere di
guardarlo.
John
inarcò un sopracciglio. Una voce nella coscienza gli sussurrò una frase.
Le coincidenze non
esistono, John.
La
ripeté ad alta voce: « le coincidenze
non esistono » disse.
Quella
roteò gli occhi, ma sorrideva ancora. « Come sei puntiglioso... » lasciò cadere,
per poi ritornare a guardarlo: « rispondi a questa domanda, allora: dov’è “qui”? ».
Al
dottor Watson scappò una risatina, una di quelle supponenti che poche volte gli
avevano inclinato le labbra. « Beh, qui siamo... » cominciò, ma si fermò a poche parole
dall’inizio della frase, bloccato.
Distogliendo
lo sguardi da lei, osservò di nuovo ciò che lo circondava: tutto quell’insieme
di oggetti bianchi contro pareti bianche su mobili bianchi nella luce bianca.
Riconosceva
il posto, eppure non riusciva a dire dove
fosse. Si sentiva a casa, eppure non riusciva a spiegarsi perché.
Sentiva
che mancava qualcosa, qualcosa di importante, ma non sapeva spiegarsi cosa. No, qualcuno. Qualcuno. Ma non
sapeva ricordare chi.
Non ricordava
niente.
« Dove... dove...? » boccheggiò,
ancorandosi con le mani ai braccioli della poltrona nel tentativo di non cedere
al panico che stava lentamente montando nel suo petto.
Joy,
sempre appollaiata sull’altra poltrona, intervenne appena in tempo: « rilassati, John.
Non è grave. Sei qui apposta » gli disse, facendogli segno con la mano destra di
calmarsi un poco.
Watson,
finalmente consapevole delle parole, riportò gli occhi su di lei. La guardò in
silenzio per qualche istante, attimi in cui lei si lasciò osservare.
« Cosa intendevi
prima con “più o meno”? E cosa vuol dire che sono qui apposta? » domandò l’uomo,
calmando a fatica i battiti accelerati del proprio cuore smarrito.
Il
sorrisetto sulle labbra di lei si allargò. « “Più o meno” vuol dire che sono Joy, ma
al contempo non lo sono. In realtà, John, non lo sono affatto. Io sono solo una
proiezione del tuo subconscio che il tuo cervello ha deciso di associare alla
figura di una povera ragazza morta proprio sotto al tuo naso. Suppongo che si
sia ispirato all’ultimo trauma subito per ricreare quest’immagine, niente di
così originale... » spiegò, ma John
la interruppe all’improvviso.
« Frena, frena,
rallenta! » esclamò,
portandosi istintivamente la mano sinistra sugli occhi, massaggiandoseli: « mi stai dicendo
che tu sei me? » chiese.
Lei
annuì. « Ai minimi
termini, sì » rispose.
« E quindi sto
parlando con me stesso? » aggiunse l’uomo.
L’altra
annuì di nuovo.
« Ah. Mh... bene. Ok » balbettò John, cercando con tutto se
stesso di non dare a vedere la sorpresa e la stranezza che tutto quello gli
provocava. Non ce la fece poi molto: « Cristo, non può essere reale... » sussurrò.
« Oh, avanti John! Cosa ti sembra reale, qui? » esclamò la
ragazza, aprendo le braccia in modo da indicare l’ambiente attorno a loro: « cerchiamo di
concentrarci, ti va? Devi dirmi dove sei, John. Fa parte della scelta » disse.
Watson,
ancora con la mano posata sugli occhi, trattenne il fiato. « “Scelta”? Quale
scelta? » domandò,
distogliendo le mano dai propri occhi e tornando a guardarla. « Anzi, non hai
ancora risposto ad una delle mie domande: cosa vuol dire che sono qui apposta? » chiese, sempre
più stranito e perplesso.
Joy
– o la presunta tale – prese un grosso sospiro e si massaggiò le tempie con le
dita. Trovò una sorta di concentrazione, di equilibrio emotivo tutto suo, poi
finalmente prese parola.
« Non è la prima
volta che ci vediamo noi due, sai? ».
John
sembrò sorpreso dell’affermazione, lei annuì di nuovo.
« Qualche anno fa
ti hanno sparato, ricordi? Spalla sinistra. Non ti hanno colpito il cuore ma
hanno rischiato di farti fuori comunque » una piccola pausa: « ...in
quell’occasione sei stato molto vicino alla morte, e ti è stata data la stessa
scelta che ti viene offerta ora. Ci siamo incontrati lì, io e te. Certo,
all’epoca non avevo questa faccia » disse, indicandosi con entrambe le mani: « però il concetto
di base è quello » terminò.
Il
medico rimase in silenzio, catalogando e mettendo in ordine le informazioni
appena ricevute. Aveva deciso di fidarsi, ad un certo punto del racconto, perché
la situazione gli sembrava troppo assurda ed irreale per non credere alle sue
parole. Ovviamente non si ricordava del fantomatico incontro, però...
« Non puoi » disse lei
all’improvviso.
« Come, scusa? » domandò John,
ridestandosi dai propri pensieri.
« Non puoi
ricordartene » precisò lei: « sarebbe come
ricordare un sogno, o meglio, una visione. Questo luogo non si ricorda mai, è
destinato a rimanere un punto disperso nel tempo infinito di uno spazio
inesistente » spiegò.
Non
si stupì più di tanto che potesse leggergli nel pensiero, se veramente era il
suo subconscio. Anzi, era una sorta di prova del nove, in fondo.
« Quindi mi stai
dicendo... » cominciò lui,
convinto di essere arrivato ad una sorta di soluzione: « ...che questo
posto è una specie di corridoio di passaggio per la gente che rischia di morire
ma non è ancora morta. Dico bene? » domandò, cercando conferma.
Quella,
lasciandosi scivolare di lato fino a stendersi di traverso sulla poltrona,
annuì con uno sbadiglio. « Il termine più
corretto è “limbo”. Hai ragione, nella realtà sei a tanto così... » e mostrò una
distanza irrisoria con l’indice ed il pollice della mano destra « ...dalla morte.
Sei qui perché devi scegliere cosa fare e sei uno dei pochi fortunati che
possono permetterselo. Io gioirei se
fossi in te, se mi passi la battuta » disse quella, ridacchiando piano.(3)
John
ignorò lo squallore dell’ironia, preferendo concentrarsi sui particolari
importanti. « E cosa devo
scegliere? » domandò.
« Se restare o
andare » rispose
semplicemente l’altra, ed il significato era ovvio.
Così
semplice? « Resto » pronunciò.
« Perché? » chiese allora
l’altra.
« Come “perché”? » esclamò allora
John, stranito. « Se chiedi ad una
persona di vivere o morire è logico che risponderà “vivere”, no? » disse, quasi
stizzito da quella domanda a suo parere scontata.
« Ah sì? » cominciò però
Joy, guardandosi le dita dei piedi nudi mentre le muoveva: « eppure hai
pensato tante volte di voler morire, John. Tante. Anche l’ultima volta che ci
siamo visti. Ci ho messo molto tempo per convincerti, quella volta » disse.
John
prese fiato per risponderle, ma non lo fece. Le sue parole erano vere, e lo
sapeva lui così come lo sapeva lei.
No.
Effettivamente non era una domanda scontata.
« Ma il fatto che
tu sia intenzionato a tornare alla vita mi rincuora, almeno siamo un passo avanti
» aggiunse poi,
rimettendosi seduta a gambe incrociate con un movimento fluido ed agile. « Allora John, dove
siamo? » domandò di nuovo,
guardandolo in attesa di una risposta.
Risposta
che non arrivò. Non subito, almeno.
« Non me lo ricordo
» ammise Watson.
« Però lo sai » sostenne lei.
« Come fai a dirlo?
» domandò ancora
John.
« Perché so che lo
sai » rispose ancora
Joy.
John
cominciava a spazientirsi. « E tu lo sai, dove siamo? » domandò allora,
cambiando strategia.
Joy
negò con il capo.
« Ma come? Tu non
sei me? » sbottò il medico,
al limite della pazienza.
« Giusto. Ma vedi,
io sono una parte diversa di te. Sono quella parte senza regole e senza
costrizioni. Sono quella parte che esce fuori nel sonno, dove le catene delle
inibizioni sociali mi vengono tolte e io posso giocare con i tuoi sogni
facendoti vedere la verità su molte cose che ti ostini a negare. Che ti ostini
a non fare. Sono quella parte di te che esce fuori quando hai troppo alcool in
corpo, o quando sei su di giri, o quando anche la stronzata più assurda ti
sembra una buona idea. Dunque sì, è vero, sono te. Ma sei tu quello con il
cervello, non io: io sono solo istinto » puntualizzò, ammaliante e suadente.
A
vederla dall’esterno, avrebbe dubitato che quella ragazza così disinibita potesse
realmente essere una parte di lui, seppur minima.
« Ho studiato Freud
» la apostrofò: « devo dedurne che
ho il piacere di parlare con il mio Es? ».(4)
Quella
gli fece un piccolo applauso, un sorriso di plastica sulle labbra. « Bravo! » esultò: « è un piacere,
davvero. Di solito non godo di tutta questa libertà, con quell’accidenti di Io
militarizzato che ti ritrovi! » aggiunse poi, sproloquiando apposta per farlo
arrabbiare ancora di più.
Gesù, nemmeno
Sherlock riusciva a farlo irritare così!
Trattenne
il fiato, serrando improvvisamente le labbra. Joy, di fronte a lui, si calmò ed
esibì un sorrisetto sornione.
Sherlock?
Perché aveva pensato a quel nome? Chi era Sherlock?
Al
solo pensarci, una sensazione strana gli esplodeva nel petto. Un sentimento di
ammirazione misto ad agitazione, paura, ma anche calore, e tanto, tanto
affetto. Importanza. Qualcuno di importante.
Ma
non riusciva ad associare un volto a quel nome, una storia a quel nome, ricordi
a quel nome.
Niente,
a quel nome. Solo un nome.
“Sherlock”.
« Devi dirmi dove
sei, John » intervenne Joy,
ripetendogli per l’ennesima volta quella richiesta. La voce calma, seria,
composta.
« Perché? » soffiò lui,
confuso, scombussolato.
« Perché non te lo
ricordi. Ed è importante per te farlo ».
« ...perché? » sussurrò di
nuovo, questa volta più piano, più indeciso.
« Perché hai
smarrito la strada di casa. E se non ti
aiuto a trovarla non riuscirai più a tornare indietro ».
Erano
passate quattro ore e mezza.
Infinite.
Viscose. Appiccicose.
Avevano
sentito sulla pelle ogni minuto, ogni secondo, ogni ticchettio d’orologio. Si
erano voltati ad ogni passo, sussultato ad ogni sospiro, guardato i rispettivi
orologi all’incirca ogni quarto d’ora convinti che fossero passati almeno
quaranta minuti – ogni volta.
Mai
il tempo era stato così lento, mai l’attesa così angosciante.
Relativismo.
Tutto cambia a seconda dei punti di vista. Per questo motivo il tempo sembra
lento o veloce, il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto.
Oggettivamente,
il tempo era sempre lo stesso. Scorreva sempre alla stessa velocità.
Soggettivamente,
ognuno di loro aveva la sensazione di essere seduto in quella sala d’attesa da
un giorno intero, quando invece era lì solamente da quattro ore e trentatre
minuti.
L’orologio
segnava le cinque meno nove e fuori nemmeno albeggiava. Era ancora notte. C’era
ancora buio e silenzio, all’esterno, lo stesso che aleggiava pesante in quella
stanza illuminata di luce artificiale, abbastanza fioca da far venire sonno a
chi era stanco ma altrettanto violenta da non permettere a nessuno di
addormentarsi veramente.
Lestrade,
seduto sul sedile accanto a Mycroft, faceva
ciondolare il capo ogni volta che un attacco di sonno se ne approfittava e lo
trovava con gli occhi chiusi.
A
sua volta, Mycroft teneva gli occhi puntati sulla
schiena del fratello, scostandoli solo di tanto in tanto per fare attenzione
che Greg non perdesse l’equilibrio sulla sedia o si facesse male al collo.
Molly,
ancora accanto a mrs. Hudson, si era appisolata sulla
testa della donna, che a sua volta aveva appoggiato la fronte alla spalla della
giovane senza tuttavia dormire. Languiva in una sorta di dormiveglia agitato,
ansiogeno, respirando a tratti veloce, a tratti profondamente.
Harry
Watson, invece, seduta ci era stata solo per la prima ora. Si era poi
avvicinata alla finestra e aveva guardato il buio dall’altra parte del vetro
per le rimanenti tre ore e mezza. In silenzio, immobile, persa.
Sherlock,
d’altro canto, non si era mai mosso da dove si era seduto. Non aveva cambiato
posizione, modo di stare seduto, non si era alzato per sgranchirsi le ossa... niente. Non aveva parlato, ancora, il
che era molto peggio.
Chissà
perché, il silenzio profondo in cui Sherlock si era rinchiuso si ripercuoteva
sugli altri presenti come un’onda d’urto. In realtà come un buco nero, perché
aveva trascinato tutti con sé in una situazione pesante come piombo in cui
sembrava addirittura un crimine pronunciare anche solo una parola.
Ne
erano tutti consapevoli e, forse per paura di spezzare chissà quale prezioso
equilibrio, nessuno fiatava.
Nell’assoluto
silenzio che veniva così a crearsi, si sentiva tutto. E Sherlock era sempre il
primo a percepire qualsivoglia suono, soprattutto dall’interno dell’ospedale,
ancora più precisamente all’interno del reparto in cui si trovavano.
Passi
in lontananza, Sherlock alzava il capo dalle braccia appoggiate sulle ginocchia
piegate al petto.
Fruscii,
i muscoli della schiena di Sherlock si tendevano, in attesa di scattare.
Respiri...
sì, probabilmente Sherlock sentiva anche quelli.
Sembrava
che tutto, lì dentro, facesse ormai parte di Sherlock. Parte integrante.
Sherlock
era nelle pareti, nei pavimenti, nei sistemi antincendio. Sherlock era
nell’acqua, nell’aria e anche nelle intenzioni.
Talmente
assuefatto, deformato, stravolto da quella situazione che sembrava ormai
catatonico, completamente isolato in una bolla di protezione assoluta, immerso
talmente tanto nella realtà che essa aveva cominciato a fondersi con i brandelli
della sua pelle.
Attendeva.
Aspettava i passi diretti in loro direzione che gli avrebbero finalmente detto
cos’avrebbe dovuto fare della propris vita.
E
questo, lo sapevano tutti. Tutti sapevano che per Sherlock Holmes non era la
stessa cosa aspettare in quel posto, paziente, muto. Per lui era diverso perché
là dentro c’era John, e John era colui che poteva essere la sua fortuna o la
sua rovina.
Ora
John rischiava la vita, e Sherlock era perso. Si era ritrovato a gestire un
cuore con cui non era abituato a trattare e gli effetti erano, purtroppo,
palesi.
Non
sarebbe riuscito a proteggersi ancora per molto. Ad un certo punto la paura
avrebbe spinto i sentimenti a prendere il sopravvento, complice la chimica
dell’organismo umano, e probabilmente l’unico consulting detective del mondo
sarebbe crollato.
E
in quel momento, doveva esserci John a rimettere insieme i pezzi. Doveva.
« Dove sei John? »
« Non lo so. »
« Dove sei, John? »
« Non lo so. »
« John, dove sei?! »
« NON LO SO! »
L’urlo
del medico risuonò ovattato fra le pareti bianche, che assorbirono la
frustrazione di quelle parole come se fossero fatte di spugna.
Joy
roteò gli occhi, guardandolo con astio malcelato. « Smetti di dire
che non lo sai e mettiti in testa che lo sai! » esclamò, battendo con rabbia le
mani sui braccioli della poltrona.
John
la fissò iracondo. « Smettila tu di
assillarmi con questa storia e dì qualcosa che abbia del senso, una volta ogni
tanto! » sbottò.
Sbuffò,
risentita. « John, stai
facendo ostruzionismo » ammise,
fissandolo male.
Lui
restituì lo sguardo con un grado addirittura maggiore di risentimento. « Io non ostruisco
proprio niente, se non lo so, non lo so
» disse,
sottolineando con la voce le ultime parole, duro.
« Oh, Cristo! » imprecò la
ragazza, piantandosi esasperata i palmi delle mani sugli occhi. « Quante volte
dovremo ricominciare questo discorso? Quante volte, prima che tu ti convinca che
ti stai dando la zappa sui piedi da solo senza nemmeno accorgertene? » domandò
retoricamente, le mani ancora a coprire gli occhi.
Watson
sospirò pesantemente, massaggiandosi l’attaccatura del naso fra le sopracciglia.
Era
una cosa completamente inutile. Inutile.
Aveva
guardato quel maledetto posto per minuti interi, ore probabilmente, senza
riuscire a capire altro se non che si trovava in un salotto. Poltrone, divano,
un caminetto... sì, su quello non vi erano dubbi.
Ma
non aveva comunque la più pallida idea di dove fosse. Sapeva solo che si
sentiva bene, in pace, a casa, ma queste sensazioni non lo aiutavano, se mai lo
confondevano ancora di più.
Gli
facevano venire il dubbio che, se le aveva, magari lui doveva per forza sapere che tipo di posto fosse, quel salotto.
Altrimenti non si sarebbero spiegate. Il che lo portava, a sua volta, ad una
sola conclusione:
Se ne era
dimenticato.
Passarono
in silenzio alcuni attimi che sembrarono non finire più. Poi, prendendo un
lungo respiro, fu la ragazza ad interrompere la stasi.
« Si può sapere
perché vuoi morire? »
La
domanda sorprese non poco il medico, che si tolse la mano da davanti agli occhi
e la guardò.
« Io non voglio
morire » le rispose, come
se la cosa fosse ovvia.
« Non mi pare » ribatté però
subito quella.
John
sentì una nuova ondata di rabbia montargli in petto, ma resistette per il bene
dei suoi nervi.
Dio, non credeva
che il suo subconscio fosse un tale dito in culo.
« E perché? Perché
non mi ricordo dove sono? » domandò retorico.
Si
aspettava una reazione piccata, magari una frase intricata e cosparsa di
ossimori, ma non avvenne. La ragazza si limitò semplicemente a guardarlo,
fisso, le labbra chiuse e lo sguardo concentrato.
« Cosa c’è... ? » chiese allora
Watson, facendosi avanti per primo.
« Sto cercando di
capire » disse quella.
Si
fissarono negli occhi per altri lunghi istanti, John con la testardaggine di
chi non vuole abbassare lo sguardo per primo e Joy con una sorta di interesse
scientifico misto a rassegnazione.
« Non c’è scelta » disse infatti
poco dopo, puntellando le mani sui braccioli e sedendosi sullo schienale della
poltrona, i piedi nudi ben fissi sul sedile della stessa: « devo metterti
davanti alla realtà dei fatti. Avrei preferito non forzarti, ma tu sei talmente
cocciuto che non mi dai altre possibilità! » si lamentò.
Ecco.
Ora era totalmente ed incommensurabilmente irritato dal suo io interiore, che a
quanto pareva provava una sorta di perverso piacere nel torturarlo mentalmente.
« Ora sono io che
voglio sapere una cosa » la interruppe
però John, impedendole di pronunciare la frase per la quale aveva appena aperto
bocca: « per quale
accidenti di motivo ti sta così tanto a cuore che io viva, mh?
» domandò, serio.
Il
sopracciglio di Joy si alzò come dotato di vita propria. « Ma dico, mi stai
prendendo in giro? » domandò retorica,
senza nemmeno dargli il tempo di rispondere (o di pensare di farlo): « John Hamish Watson, cosa del concetto “io sono te” non ti
penetra in testa? Ok, forse come io irrazionale sono molto diverso dall’io
razionale, ma fatto sta che “abitiamo” nello stesso corpo. Se crepi tu crepo
anche io » disse,
indicandosi con gli indici di entrambe le mani: « e, senza offesa, ma ci sono un
paio di cose che desidero fare – o meglio, farti fare – prima di morire » concluse.
Il
medico, stringendo le labbra per non dare voce ed epiteti poco adatti ad un
inglese bene educato, non fece altro se non scuotere il capo negativamente.
Prese
fiato per esprimere tutto il suo disappunto, ma una dolorosissima scossa al
torace gli bloccò la voce in gola, lasciando che si esprimesse solo tramite un
gemito sorpreso di dolore.
Istantaneamente,
si portò la mano al petto, trattenendo il fiato. Sembrava come se gli fosse
passato un fiotto di energia elettrica attraverso la gabbia toracica,
localizzato, da parte a parte.
Poi
un’altra, e un’altra ancora. Quattro, cinque volte.
Si
fermarono.
Joy,
dalla sua posizione sopraelevata, lo guardò con espressione preoccupata ma
consapevole, senza fiatare.
John
attese qualche istante senza respirare – aspettando forse che il dolore si
ripetesse ancora una volta – ma poi decise di prendere finalmente fiato.
« Cos’era? » domandò allora,
la mano destra a stringere la maglietta bianca all’altezza dello sterno. « Si può sentire
dolore qui? » chiese subito
dopo, guardandosi intorno per sottolineare che si riferiva al luogo in cui si
trovavano.
Joy
negò con il capo.
« Quello, John, era
un rintocco d’orologio » disse: « il tuo tempo sta
scadendo ».
Il
fruscio dei suoi capelli ricci e scuri sul colletto umido della camici riempì
il silenzio come uno squillo di tromba.
Sherlock
Holmes aveva alzato lo sguardo sulla porta d’ingresso e, solamente dopo che
quel movimento aveva
attirato
l’attenzione dei presenti, anche tutti gli altri poterono sentire un rumore di
passi in avvicinamento.
Scattò
in piedi, seguito a ruota da tutti i presenti. Sei paia di sguardi si fissarono
in una stessa direzione.
L’orologio
di Lestrade scoccava le cinque del mattino ed il cielo all’esterno cominciava
ad avere una sfumatura più chiara, preparandosi per accogliere prima l’aurora,
poi l’alba.
Dopo
qualche istante che sembrò infinito, un medico fece il suo ingresso nella sala
d’attesa.
Niente
camice, notò Sherlock: veniva dalla sala operatoria. Indossava uno dei coordinati
ospedalieri verde, maniche corte, calzini bianchi e ciabatte di plastica. A
giudicare dalle suole pulite delle calzature si era appena cambiato e, dati i
segni degli elastici del camice sui polsi e i lievi residui di talco sotto le
unghie – lasciati dai guanti di lattice – si poteva capire che non era un
infermiere, ma un medico.
Carnagione
olivastra, capelli rossicci, occhi marroni, naso un po’ rotondo, sguardo fermo,
abituato. La mente vola ad una pagina di una rivista sfogliata una volta in cui
compare il volto di quest’uomo come contorno ad un articolo sulla chirurgia cardio-vascolare.
Medico famoso.
L’ha
chiamato Mycroft.
Il
cervello di Sherlock aveva già capito tutto persino prima che l’uomo si
presentasse, o aprisse del tutto bocca. Fu infatti lo stesso Holmes ad
impedirgli di farlo, tagliando subito i convenevoli e passando a ciò che più
gli premeva: « come sta John? » domandò,
velocemente, urgentemente.
Quello,
osservandolo, richiuse la bocca. « Lei è un parente? » chiese.
Sherlock
sbuffò. Procedure standard di condivisione delle informazioni solo con coniugi
o parenti, salvo altra indicazione.
Lanciò
un’occhiata al fratello maggiore che, per tutta risposta, negò leggermente con
il capo. Contatto oculare per dirgli che no, non poteva farci niente, quello
era segreto professionale dei medici. Lui era il Governo, ma anche se aveva
l’autorità di farsi dire praticamente tutto non aveva ragioni o motivazioni
abbastanza importanti per farlo in quel momento.
Il
fratello minore dovette arrendersi e ammutolì, senza tuttavia distogliere lo
sguardo. Al che il medico posò gli occhi sulle altre persone presenti,
domandando: « la signorina Harriett Watson? ».
Harry,
che non si era spostata da accanto alla finestra, gli fece un cenno con il
capo. Non si avvicinò al medico, non abbandonò la sua posa ermetica con le
braccia incrociate al petto e, in definitiva, fece persino fatica a staccare
gli occhi dal panorama esterno alla finestra. Non gli diede tempo a sua volta
di presentarsi, esibendosi in un: « lo dica pure ad alta voce, le persone qui
presenti sono tutte fidate » dando il permesso al dottore di parlare alla presenza
di tutti.
Quello
annuì, sospirando pesantemente.
« Il dottor Watson
aveva un’emorragia interna del cavo peritoneale, probabilmente dovuta al trauma
» cominciò: « gli abbiamo
praticato un taglio, abbiamo drenato il sangue e siamo riusciti ad individuare
e richiudere la ferita che l’ha scatenata » disse.
La
signora Hudson, le mani strette l’una nell’altra in una morsa, sospirò
sollevata. Così fece Molly, che si lasciò andare in un lieve sorriso.
« Ma? » intervenne però
Sherlock, che guardava il chirurgo con occhi attenti e famelici – non si sapeva
se di informazioni o di sangue, considerando l’intensità di quello sguardo.
Il
medico sbuffò, portandosi una mano sul collo dolorante, massaggiandoselo. « Ma... l’emorragia
ha avuto due conseguenze: la prima è una lieve insufficienza renale, che ha
bloccato il lavoro dei reni per qualche ora. La seconda, è una tachicardia
continua causata dall’abbassamento della pressione arteriosa » disse.
« In poche parole, il cuore del dottor
Watson ha battuto troppo in fretta per troppo a lungo. E dato che i suoi reni avevano
smesso di funzionare, il sangue che non ha perso si è riempito di tossine » spiegò poi.
La
signora Hudson trattenne rumorosamente in fiato, così come Greg e Mycroft lo fecero silenziosamente. Harry sembrava non
respirare già da molti minuti mentre Sherlock, esattamente di fronte al
chirurgo, sgranò un poco gli occhi.
Il
suo cervello volò alle possibili cure, ai rimedi, alle analisi e alle
conseguenze mediche di ogni singola parola.
A
ciò che sarebbe potuto andare bene, male, a come si sarebbe trasformata la vita
di John – la loro vita – se una di
quelle anomalie avesse avuto conseguenze permanenti sull’altro, invalidanti
magari.
Il
suo respiro aumentò, ma la voce del medico che riprendeva il discorso nascose
agli altri quel piccolo particolare.
« Avremmo dovuto
mettere il dottor Watson in dialisi, per ripulirgli il sangue, ma non potevamo
prima di aver fermato l’emorragia. Una volta fatto i reni hanno ripreso la loro
funzione e non sembra che siano stati danneggiati. Così è anche per il cuore: le
analisi mostrano che, nonostante la tachicardia, il cuore non ha subito
danni... tuttavia, durante l’intervento ha avuto un arresto cardiaco » rivelò.
E
fu il cuore di Sherlock, questa volta, a perdersi un battito per strada. Lo
avvertì dolorosamente, lo avvertì sentendosi anche mancare il respiro, lo
avvertì vergognandosi di se stesso e di quella debolezza che stava mostrando di
possedere.
Lo
sapeva già da prima. Lo aveva scoperto poco prima che Moriarty
glielo dicesse con quel sorrisetto mellifluo sulle labbra.
Un
cuore lo aveva. E faceva male.
Avrebbe tanto
voluto strapparselo dal petto seduta stante.
Il
medico continuò: « lo abbiamo
rianimato con il defibrillatore, ci sono voluti quasi due minuti. Non ci sono
stati problemi, ma ha rischiato il tracollo cardiaco altre due volte nonostante
abbia ricevuto trasfusioni di sangue, e per non rischiare lo abbiamo messo in
coma farmacologico e abbiamo applicato, per la durata dell’intervento, un
bypass. Gli è già stato tolto ed il cuore batte con una frequenza normale, ma
per evitare eventuali stress abbiamo deciso di mantenerlo in coma farmacologico
anche per tutta la durata della dialisi » prese una pausa, finalmente al termine
della sua “relazione”, guardando i presenti uno ad uno: « adesso è in
terapia intensiva. Potete andare a vederlo » terminò del tutto.(5)
Sherlock
non aspettò nemmeno un istante. Il suo corpo si muoveva da solo in direzione
del reparto di terapia intensiva, ovviamente consapevole di dove fosse, dato
che si era studiato la pianta dell’ospedale mentre un tirocinante gli applicava
i punti in testa.
Entrò
a passo svelto nel reparto deserto, cercando con occhio vigile il nome di John
sulle targhette accanto alle varie porte. Superò a passo deciso la parte con le
stanze in comune, poiché essendo raccomandato da Mycroft
Holmes quasi sicuramente gli avevano dato una stanza tutta sua.
Lo
trovò, infatti, in una delle camere singole in fondo al corridoio. Il nome
“Watson, John H.” era stato scritto con un pennarello a punta fine che aveva
sbavato in ultimo. Probabilmente lo avevano fatto di fretta, quasi sicuramente
lo aveva fatto una donna, e poteva scommettere che fosse stata l’infermiera che
lo aveva guardato allarmata quando si era precipitato lì a piedi nudi.
Davanti
a quella porta, però, ebbe improvvisamente paura.
Dall’altra
parte, steso in un letto dalle lenzuola bianche, incosciente e collegato come
minimo a due macchinari – che potevano essere anche di più – c’era John. Il suo John. Lo stesso John che di solito
era sempre accanto a lui, in ogni momento, sveglio e vigile e sorridente e
ammirante e vivo.
Resistette
all’impulso di fare dietro front e mettersi a correre
per uscire dall’ospedale.
Lo
sapeva, Sherlock, che non era morto. Che non sarebbe morto. Ma non poteva fare
a meno di figurarselo disteso su quel letto come se fosse stato disteso sul
tavolo di un obitorio. Deformazione professionale, forse. Probabilmente.
A
due centimetri dalla maniglia della porta, ritirò le dita e chiuse la mano a
pugno, incapace di aprirla. Si morse il labbro dalla frustrazione per quella
sua mancanza terrificante, per quel buco delle sue infallibili facoltà
intellettive che prendeva il nome di “cuore”.
« Maledizione... » sussurrò a se
stesso, facendo qualche passo indietro ed appoggiandosi con la schiena alla
parete di dirimpetto alla dannata porta chiusa e rimasta tale.
Gli
altri lo raggiunsero, ed entrarono uno ad uno. Sherlock li guardò in faccia,
uno ad uno, ma non seguì all’interno nessuno di loro.
Rimase
fuori, nel corridoio, a fissare la maniglia di una porta che all’improvviso
aveva una fottuta paura d’aprire.
In
una stanza completamente bianca, le uniche cose che stonavano – le uniche
macchie di colore – erano principalmente tre. John le aveva osservate e fissate
per almeno un’ora senza nemmeno aprire bocca per poi sospirare rassegnato.
C’erano
uno smile giallo sulla parete, un violino ed un teschio.
Sapeva
alcune cose di quegli oggetti, alcuni aneddoti. Uno nascondeva qualcosa, uno
era incompleto e l’altro non aveva senso.
In
realtà, sapeva veramente molto poco. Mettendosi le mani nei corti capelli
biondo cenere, lasciò andare un pesante sospiro affranto.
« Potresti mettere
al corrente anche me dei tuoi ragionamenti? » domandò la ragazza – altro sé, alter ego,
Es – dalla poltrona sulla quale si era accomodata – e
che a John dava sempre più fastidio, che fosse seduta proprio lì, ma anche
quella era una delle cose che non sapeva spiegarsi.
Senza
alzare lo sguardo, si massaggiò la fronte con la mano sinistra. « Sto pensando che
siamo fottuti, dato che non riesco a cavare un ragno dal buco » le disse.
Quella,
seduta con le gambe ancorate allo schienale e la testa a penzoloni verso il
basso, fece una faccia a metà fra il dubbio ed un assenso. « Possibile. Forse
anche un po’ probabile » disse: « spero non diventi
sicuro, però. Sarebbe davvero pietoso » aggiunse.
John,
tornando ad accomodarsi meglio sulla propria poltrona, la guardò stranito. Allo
sguardo di richiesta che la ragazza gli inviò da quella sua posizione
sottosopra, si decise a parlare.
« Lo smile giallo
sulla parete... » cominciò Watson.
« Ti ascolto » lo incoraggiò
Joy.
« So che è
disegnato con un tipo particolare di vernice, usata dalla mafia cinese per
contrabbando di merci importate illegalmente e poi rivendute all’asta a cifre
astronomiche. E dovrebbe essere crivellato di colpi di proiettile, lo so, anche
se non so il perché. So che il teschio sul caminetto... » ed indicò il
cranio in bella mostra: « ...nasconde un
pacchetto di sigarette. E quel violino... » John fece una pausa, indicando con la
mano aperta lo strumento in questione: « ...non ho la minima idea di cosa ci
faccia qui e a cosa mi serva, dato che non so suonarlo. So solo che mi piace
sentirlo suonare, ma non essendo io un amante di musica classica mi sfugge
seriamente il perché » concluse, ancora
più seccato di quando aveva cominciato.
Joy,
che stava sottosopra senza risentirne minimamente, lo guardò ridacchiando. « Fuochino » lo sfotté.
Il
dottore cominciava seriamente a provare l’istinto, alquanto criminale, di
sgozzare il suo subconscio.
Intuendo
il suo pensiero, la ragazza si rialzò con agilità e si rimise seduta composta,
le gambe accavallate e lo sguardo improvvisamente serio.
Aveva
gli stessi occhi dei suoi ufficiali comandanti in Afghanistan ogni volta che gli
comunicavano una missione, che la maggior parte delle volte dava l’idea di
essere più un martirio che altro. Oppure lo stesso sguardo che aveva avuto
Harry quando gli aveva comunicato, attraverso una video-chat, che aveva
intenzione di lasciare Clara nonostante si fossero appena sposate.
Come
conseguenza di quegli occhi fissi sui suoi, John si fece serio a sua volta.
Poi,
le parole che uscirono dalla bocca di Joy ebbero il potere di far esplodere
qualcosa dentro di sé.
« Chi è Sherlock
Holmes? » domandò lei,
fissandolo.
John
boccheggiò, improvvisamente incapace di spiaccicare parola. L’eco di quel nome
aveva fatto sì che il proprio cuore si contraesse dolorosamente e battesse più
rumorosamente; ne sentiva il battito nelle orecchie e nella gola, un tamburo veloce
ed assordante.
« Io... Io non... » balbettò, ma fu
interrotto.
« Sì che lo sai » disse lei,
piccata. « Non sei stato tu
a sparare a quel muro. Hai nascosto tu le sigarette sotto quel teschio ma non
per te, tu non fumi. Non sei tu che suoni il violino, non sei capace, ma hai
ragione nel dire che ti piace ascoltarlo. Anzi, ti piace vederlo suonare il che è una cosa essenzialmente diversa » aggiunse,
sporgendosi verso l’altro con fare quasi serpentino, viscido. « John... chi è
Sherlock Holmes? » gli ripeté la
domanda.
La
testa di John Watson era un completo disastro. Sembrava che gli fosse esplosa
una bomba a qualche centimetro dall’orecchio o che lo avessero preso a pugni
dopo essersi scolato una bottiglia di Jack Daniels.
Si
portò le mani alle orecchie, improvvisamente preda di un fortissimo fischio
continuo che sembrava volergli bucare il timpano e risalire fino al cervello al
momento sotto sforzo. Trattenne il fiato nell’inconscio tentativo di far
sparire tutti quei fastidi, ma inutilmente, anzi; sembravano peggiorare,
trasformarsi. Da fischio... in voci, immagini, eco lontane di ricordi
cancellati per chissà quale motivo.
« Cosa mi sta
succedendo?! » sbottò allora
Watson, tenendosi forte la testa e piegandosi su se stesso.
« È la transizione » gli disse Joy.
« Vuoi dire che sto
morendo?! NO! » urlò il dottore,
ancora piegato in due da quella confusione che aveva in testa.
La
ragazza negò con la testa. « Tutto l’opposto. Te lo avevo detto che sarebbe stato
meglio se avessi fatto da solo, se ti fossi impegnato a ricordarti le tue
ragioni di vita con calma, ma tu non mi hai dato scelta. Come sempre sono
costretta a forzarti i ricordi nella mente. Sei un idiota, John Watson! » esclamò quella,
tuttavia il suo tono si mantenne pacato.
John
gemette alla comparsa di un dolore sordo alla tempia destra, e subito serrò gli
occhi con forza, imprecando a mezza voce.
Nella
sua testa, immagini di un treno della metropolitana. Urla, lacrime. Poi una
strada, il Tamigi, un ufficio di New Scotland Yard, la sua insegna rotante
davanti all’entrata. Simboli gialli su un muro di fianco a dei binari, una
pistola puntata alla testa, una brughiera infinita, gli occhi rossi di un
mastino ringhiante, una voce che diceva di non avere amici (plurale), ma uno
solo (singolare). E ancora un frustino da fantino, una donna completamente
nuda, una cassaforte, Buckingham Palace, un ombrello nero, una jeep, lucine di
Natale, un I-phone dalla cover rosa, un paio di
scarpe, bombe, una piscina, una voce: “è un Westwood”.
E momenti, tanti, passati in un appartamento così simile a quello solo con più
colori. Notti passate sul divano, davanti al pc, a
mettere bende su di una pelle diafana ferita, a curare ferite su se stesso; il
salotto pieno di fogli sparsi a terra, la cucina ricolma di alambicchi, 38 ore
di veglia ininterrotta, una partita indicibile a Cluedo,
bollette da pagare e una testa nel frigorifero.
« Continua così,
John. Stai andando bene. Fra poco finirà tutto » disse Joy.
Una
figura slanciata, dita affusolate, pelle candida. Vestito elegante nero,
camicia viola o bianca o azzurrina a righe, tutte buone, tutte costose. Un
cappotto lungo, una sciarpa blu. Capelli scuri in morbidi riccioli, zigomi
ridicolmente alti, occhi azzurro ghiaccio dalle incredibili sfumature verdi
sotto la luce forte del sole.
Una
voce profonda.
“Io sono Sherlock
Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street.”
Il
dolore cessò così com’era venuto, riportando alla normalità sia il battito del
cuore che la respirazione.
John
alzò il viso dalle proprie mani con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse in
un moto d’incredulità. Si guardò attorno, posando gli occhi su di ogni
superficie candida che lo circondava, riuscendo ad immaginarsela del proprio
colore originario. Riuscendo a ricordarsela.
Come
aveva potuto dimenticarsi di lui? Come aveva potuto dimenticarsi della persona
che lo aveva letteralmente travolto con la sua presenza, restituendogli la vita
che era convinto di aver perso? Come aveva potuto dimenticarsi le avventure, i
casi da risolvere, la piscina, James Moriarty, le
deduzioni e tutti i momenti che avevano passato insieme, giorno dopo giorno,
anche solo parlando del più e del meno o facendo colazione insieme alla signora
Hudson?
Ancora
smarrito, perso in una calma irreale dopo una tempesta, puntò gli occhi su
quelli scuri di Joy, ancora protesa verso di lui ma immobile sulla poltrona.
La poltrona di
Sherlock.
Era per questo che gli dava fastidio, vederla seduta lì.
« È normale, qui...
» disse lei: « ...dimenticarsi
dei motivi per cui vogliamo restare in vita, che ci spingono a sopravvivere. È
normale quando si arriva in questo limbo. Vieni messo alla prova. Avresti
dovuto ricordartene da solo, ma io non potevo lasciare che tu ti arrendessi e
morissi, perché sapevo che per te sarebbe stato difficile richiamare quei
ricordi, nonostante la loro intensità. Perché tu hai scoperto, e questo lo
sappiamo benissimo entrambi, che ciò che provi per Sherlock Holmes va oltre
un’amicizia normale. Non sai cos’è, non sai definirlo, oppure lo sai ma non lo
vuoi ammettere, hai paura di pronunciare quel verbo associato alla figura del
caro sociopatico ad alta funzionalità. Il vostro rapporto si sta trasformando
e, purtroppo, te ne sei reso conto quando la tua vita è arrivata per la seconda
volta al punto di non ritorno: te ne sei accorto sul vagone di quella
metropolitana » gli disse,
pacata.
John,
chiudendo gli occhi, assorbì quelle parole come se fossero acqua nel deserto.
Sospirò
poi, ritrovando la calma.
« Allora, John... » riprese Joy,
alzandosi dalla poltrona e posizionandosi di fronte a lui: « ...dove sei? » gli chiese.
Questa
volta, Watson non ebbe dubbi: « 221B di Baker Street. Casa mia. Casa nostra, mia e di
Sherlock ».
Lei
annuì. « E chi è Sherlock
Holmes? » domandò di nuovo.
« La ragione per
cui devo tornare » rispose lui,
alzando lo sguardo.
Lei,
ancora ammantata in quel suo completo bianco elegante, gli sorrise. « Andiamo » aggiunse,
allungando la mano verso di lui.
Erano
passati alcuni minuti, forse dieci, quando la porta della camera di John si
aprì, facendone uscire Harry Watson.
Sembrava
provata, anche se sugli occhi aveva la maschera della donna forte ed
impassibile. Sherlock poteva notarlo da un piccolo accenno di sudore freddo e
dal pallore innaturale della pelle del viso rispetto a quella del collo.
Non
lo guardò. Nemmeno un’occhiata. Semplicemente fece due passi per spostarsi e,
appoggiandosi con la schiena al muro, si lasciò scivolare lentamente a terra.
Il
silenzio calò nel corridoio e fra i due. Erano quasi l’una di fronte all’altro,
Sherlock ancora in piedi nella sua indecisione, Harry abbandonata sul pavimento
con una mano a massaggiarsi la fronte e gli occhi chiusi.
Fu
la donna a rompere il silenzio.
« Perché non entri?
» domandò,
continuando a non guardarlo.
Sherlock
le riservò uno sguardo lungo dieci secondi. Poi, sospirando, decise che parlare
in modo sincero con la sorella maggiore dell’uomo oltre la porta poteva avere
una sua logica. Contorta, ma poteva averla.
Dopotutto,
c’era tanto di Harry che gli ricordava John. Forse non il colore dei capelli o
degli occhi, ma il naso aveva la stessa forma, e il taglio delle labbra era
molto simile.
E
sotto sotto, molto in fondo, nascosta dai vari strati
di durezza con cui Harriett aveva deciso di
proteggersi per sopravvivere al resto del mondo, c’era anche la stessa,
incredibile forza di volontà.
I
fratelli Watson erano, nonostante le imperfezioni e gli errori di entrambi,
parte di uno stesso disegno genetico che li portava ad ubbidire prima al cuore,
poi alla logica. E Sherlock aveva provato sulla pelle l’esperienza di stare
accanto ad un uomo simile.
La
verità era qualcosa che doveva loro.
« Penso di non
volerlo vedere » rivelò, breve e
conciso.
Harry
non si arrabbiò e non ne rimase per nulla colpita, o comunque turbata in
qualche modo. Continuava semplicemente a massaggiarsi la testa, ora con
entrambe le mani, tenendo gli occhi chiusi e sospirando ogni tanto.
« Perché? » soffiò infine,
quando ormai sembrava che non avesse più intenzione di aprire bocca.
Holmes,
che si aspettava la domanda ma non era comunque abbastanza preparato a
riceverla, socchiuse gli occhi.
« Non credo di
saperlo... » si ritrovò a
dire, a sussurrare, in direzione della donna.
Aveva
sempre creduto che affidandosi alla logica e alla ragione sarebbe riuscito a
superare qualsiasi difficoltà. La vita era come un libro di algebra: man mano
che vai avanti i problemi da risolvere diventano più difficili, ma se si hanno
le basi logiche e conoscitive adeguate tutte le difficoltà finiscono per
diventare semplici rompicapi da risolvere.
Sono
solo numeri.
Lui
aveva sempre amato l’algebra. Lo metteva alla prova come nessun’altra materia
riusciva a fare. Enigmi sempre più difficili, nodi sempre più intrigati, giochi
di logica e di abilità che erano in grado di assorbirlo completamente. Non
erano i numeri che sfidavano lui, ma lui che sfidava i numeri.
Ogni
cosa della sua vita era sempre stata sotto controllo, intuibile, intelligibile.
Dopotutto,
se sai perfettamente quali possono essere le possibili conseguenze di una tua
azione, quando esse si manifestano non possono di certo coglierti alla sprovvista.
Erano sempre stati
solo numeri.
Il
dispiacere di sua madre quando lasciò l’università? Prevedibile. Una costante
aritmetica che si era ripetuta lungo il corso di tutta la sua vita, si stava
ripetendo in quel momento e si sarebbe ripetuta anche dopo. Come il valore del pì greco: quello era, quello sarebbe rimasto.
La
droga? Un calcolo fin troppo banale. Una volta letta su di un manuale la soglia
massima raggiungibile per non incorrere nei fastidiosi contraccolpi
dell’assunzione di sostanze psicotrope – abbastanza da sparargli il cervello al
massimo dei giri senza distruggerlo o stare troppo male – controllarne
l’assunzione fu un gioco da ragazzi.
I
casi da risolvere? Indovinelli che avevano sempre una causa ed una conseguenza,
esperimenti scientifici capaci di evitare al suo cervello la metastasi. C’è
sempre una vittima, a volte anche un colpevole, a volte la vittima ed il
colpevole sono la stessa persona. Ci sono indizi, ci sono cose da vedere, ci
sono intrecci logici da dedurre.
Pura
matematica. Solo numeri.
Poi,
John.
John
era stato un giochino di matematica solo per i primi cinque minuti. Solo il
tempo necessario per capire chi fosse, da dove venisse, cos’avesse fatto.
Cinque minuti che, di fronte ad un anno e mezzo di completa allegoria dell’impossibile,
impallidivano miseramente.
John
non si era rivelato un enigma irrisolvibile. Ogni volta che Sherlock arrivava
ad una soluzione – o comunque pensava di averlo fatto – John faceva qualcosa
per cui quella cifra si rivelava errata o incompleta.
John
era un mistero che Holmes non aveva mai risolto e, con il tempo, semplicemente
si era dimenticato di risolvere, convenendo faticosamente con se stesso che
Watson era interessante proprio perché senza soluzione, e forse non ne
prevedeva nemmeno una.
Per
questo motivo tutto ciò che lo riguardava non faceva parte di una costante, non
era prevedibile. Forse era per questo che Sherlock non riusciva ad accettare
tutte le variabili in gioco, preferendo chiudere la mente.
Perché
sapeva che John avrebbe potuto sopravvivere, e allora la sua vita sarebbe
lentamente ritornata alla normalità, ma poteva anche morire... ed in quel caso
il suo sguardo si perdeva in un universo infinito di possibili scelte che però
perdevano di colore, di calore, di lucentezza.
Un
universo probabile e non impossibile davanti al quale, però, Sherlock Holmes
preferiva chiudere gli occhi.
Lo
fece anche in quel momento, davanti alla porta chiusa di quella camera
d’ospedale: chiuse gli occhi.
La
voce di Harriett ruppe di nuovo un silenzio che non sapeva
per quanto poteva essersi prolungato.
« Io credo che tu
dovresti entrare » gli disse a
bruciapelo.
Sherlock
riaprì gli occhi di scatto. « No » si impuntò.
« Perché? » domandò ancora
lei.
« Perché non tu? » rispose allora il
detective, attaccandola.
La
donna, osservandolo di sottecchi, sorrise amaramente. « Sai, io e John
abbiamo stipulato una sorta di patto di non aggressione. A dire il vero non so
nemmeno quando, perché non è stato detto a parole... ma il succo è uno sterile
“vivi e lascia vivere” » gli disse,
piegando entrambe le ginocchia ed appoggiandosi sopra le braccia.
« Noi ci facciamo
favori non facendoci dei favori. Io
bevo e lui non dice niente, e io non lo biasimo, anzi. Lui se ne va in
Afghanistan ed io non dico niente, e so che lui non mi ha biasimato, anzi. Io
mi sposo e divorzio subito dopo e lui trattiene dentro di sé la delusione e non
dice niente e Dio, Dio, solo Dio sa
quanto l’ho ringraziato per averlo fatto, quando praticamente tutti gli altri non sono stati in grado
di fare la stessa cosa. E poi... » una piccola pausa, finalmente gli occhi
della donna che si posano su Sherlock: « ...poi lui va ad abitare con un pazzo che
non fa altro che fargli rischiare la vita ma io non dico niente, e so che me ne
è grato, che io non dica niente. Fra di noi funziona così » spiega, gli occhi
che vanno al soffitto a malapena illuminato dalla fioca luce dell’aurora ancora
lontana.
Un
sospiro. « Sono sua sorella
maggiore, è logico che io mi preoccupi per lui più di quanto lui si preoccupi
per me. È scritto nel nostro DNA... ».
Il
cervello di Holmes creò per un istante l’immagine fastidiosa di Mycroft, salvo poi archiviarla subito dopo.
« Però essere in
quella stanza non cambierà niente, non per me. Perché non è me che vuole al suo
fianco, e non sono nemmeno tutte quelle persone là dentro. Lui vuole l’unico
che è riuscito a farlo sorridere di nuovo in un periodo della sua vita in cui
niente sembrava andare per il verso giusto. È per questo che devi alzare il
culo ed attraversare quella porta, Sherlock Holmes » gli disse,
tornando a fissarlo con decisione.
Al
detective, tutto sommato, non serviva altro che una spinta. Qualcuno che gli
dicesse che stava facendo la cosa sbagliata, aspettando lì fuori. Qualcuno che
ammettesse ad alta voce che lui era parte della vita di John così come John era
ormai parte imprescindibile della sua.
Osservò
Harriett ancora per qualche prezioso istante poi,
guardandosi mani, si diede – per la prima volta in completa autonomia –
dell’idiota.
Anche
John trovava sempre il modo di dirgli che era un idiota. E ci riusciva solo
John. Era prerogativa sua, riuscire a dare dell’idiota ad uno come Sherlock
Holmes.
Annuì
in silenzio, staccandosi dalla parete e coprendo in due passi la distanza che
lo separava dalla porta. Appoggiò la mano destra sulla maniglia e, facendo
forza, finalmente entrò nella stanza.
Le
pareti erano di due colori, e questa fu la prima cosa che notò. La metà
superiore ed il soffitto erano bianchi, la metà inferiore di un verde pastello
che doveva forse sembrare rilassante, ma che gli dava solo la classica
sensazione d’ospedale. Era una camera ampia, pulita, con una finestra coronata
di tendine bianche.
Al
centro della stanza c’era il letto su cui giaceva John, circondato di persone
silenziose o che singhiozzavano compostamente.
Mycroft e Lestrade erano in disparte, un po’
distanti dal letto. Quando entrò suo fratello gli fece un cenno con il capo,
mentre Greg distolse semplicemente lo sguardo, tornando a fissare il letto con
espressione vuota.
Al
capezzale di John, mrs. Hudson si asciugava gli occhi
con il fazzolettino bianco ricamato e, alle sua spalle, Molly lasciava che
calde e mute lacrime le cadessero dagli occhi, rigandole le guance. Tratteneva
il respiro a tratti, osservò Sherlock, che non aveva ancora trovato il coraggio
necessario a posare lo sguardo sul suo migliore amico.
Lo
fece in quel momento.
Si
fermò ai piedi del letto, immobile, le mani abbandonate lungo i fianchi ed in
viso un’espressione sospesa, a metà fra la voglia repressa di urlare e quella
di chiudere gli occhi e fingere che fosse tutto un brutto sogno.
John
era disteso supino sul letto; le lenzuola bianche gli arrivavano al torace e
gli coprivano il petto lasciando però fuori le spalle nude, sulla sinistra
delle quali era chiaramente visibile la cicatrice lasciata dal proiettile che
lo aveva colpito di Afghanistan.
Distese
lungo i fianchi stavano le sue braccia, nude anch’esse: al braccio destro erano
collegate le due estremità del macchinario per la dialisi – il suo sangue che
correva all’interno dei tubi trasparenti al momento tinti di rosso – mentre nel
braccio sinistro penetrava l’ago di una flebo di barbiturici, ovvero ciò che
manteneva John in coma farmacologico.
Sul
volto campeggiava una mascherina d’ossigeno che gli prendeva bocca e naso e le
labbra, dischiuse sotto di essa, erano testimoni di un respiro debole e
stentato, ma presente.
Sherlock
non sapeva cosa fare. Ancora combatteva l’irrazionale sensazione di girarsi ed
andarsene, mettersi a correre per tornare a casa e buttarsi sul divano
lasciando fuori il resto del mondo con quella situazione al limite del
surreale; dall’altra percepiva il suo corpo come paralizzato e, di conseguenza,
era incapace di muoversi. Teneva gli occhi azzurri fissi su John ma, nonostante
fosse così vicino, gli sembrava lontano, distante anni luce da quella stanza,
in un posto tutto suo in cui Sherlock non riusciva ad entrare per costringerlo
ad aprire gli occhi, a dimostrargli che fosse ancora vivo e non solo uno
spauracchio messo lì per ritardare un’eventualmente certa dipartita.
Voleva
sfiorarlo, toccargli un piede, ma di
tutto il movimento necessario per farlo riuscì a muovere solamente un dito.
Un
dito e nient’altro.
Fu
Molly, fra tutti, quella che capì ogni cosa.
Chissà
perché le bastava guardare Sherlock in faccia per intuire cosa provasse, e
nonostante fosse ormai sopraffatta dalla tristezza per le condizioni di John,
fu l’unica in grado di curarsi anche di Sherlock, che soffriva in un modo tutto
suo chiuso in una mente per molti impenetrabile.
Tranne
che per John. E, a volte, raramente e più che altro casualmente, anche per
Molly Hooper.
In
silenzio si mosse verso il detective, facendo il giro del letto e arrivandogli
al fianco. Allungò la mano verso la sua, prendendo le dita sottili ed
affusolate di Sherlock fra le sue calde, e con delicatezza fece qualche passo
indietro, tirandolo a sé in direzione di John.
Holmes,
guardandola senza un particolare cambiamento d’espressione, seguì il movimento.
Si
ritrovò, guidato da Molly, esattamente accanto a John. Mrs. Hudson gli posò una
mano sulla spalla, lasciandoci piccole pacche, poi a sua volta si fece
indietro.
Sherlock
osservò il volto di John in silenzio, le labbra schiuse ed il respiro quasi
inudibile. Lo guardava dormire un sonno innaturale che lo proteggeva dal dolore
e, pensandoci, non poteva fare a meno di dirsi che sarebbe stato meglio vederlo
soffrire, piuttosto che guardarlo giacere immobile come se fosse morto.
Solo
il continuo ronzare dell’ossigeno e i battiti regolari dell’elettrocardiogramma
dicevano a gran voce il contrario.
Dischiuse
le labbra per dire qualcosa, ma nulla gli uscì. La sua voce faticava a formarsi
nella bocca e, comunque, non avrebbe saputo davvero cosa dire.
Rimase
così, immobile nel silenzio teso dei presenti, senza mai staccare lo sguardo
dagli occhi chiusi dell’unica persona al mondo che era riuscita a guadagnarsi
un posto nella sua vita.
Lentamente,
appoggiò la mano sinistra su quella inerte di John, sfiorandone il palmo con i
polpastrelli delle dita.
Le
aveva preso la mano, alzandosi dalla poltrona e seguendola.
Joy
aveva attraversato la soglia dell’appartamento, guidandolo giù dai diciassette
scalini, arrivando in un numero ben preciso di passi alla porta che dava su
Baker Street.
Sempre
mano nella mano.
John
avrebbe potuto pensare che fosse strano, tenere e farsi tenere la mano da una
persona morta, o ancora peggio dal proprio subconscio. Tuttavia si era anche
detto che pensare come le persone razionali in quel mondo non aveva molto
senso, così aveva semplicemente seguito la ragazza, fiducioso che lei sapesse
cosa fare.
Davanti
alla porta, lei si girò e gli sorrise incoraggiante. Lui sorrise a sua volta,
annuendo, come per dirle silenziosamente di essere pronto ad andare ovunque
l’avesse portato.
Quella,
annuendo a sua volta, appoggiò la mano destra sulla maniglia e la spinse,
aprendo l’anta bianca su di uno scenario ancora più candido... che però non era
Baker Street.
Attraversando
la soglia, John si trovò davanti a quello che aveva tutta l’aria di un atrio.
Non era eccessivamente ampio, ma era lungo, e non appena cominciarono a
camminare per attraversarlo, poté notare sulla loro sinistra le tipiche
postazioni dei bigliettai della metropolitana.
Alzò
gli occhi e, attaccata ad una porta di vetro bianca come tutto ciò che li
circondava, la scritta “Waterloo Underground Station” troneggiava sull’unica
nota di colore presente: un lungo e sottile cartello blu.
« Questa è... » fece fatica a
trovare le parole giuste per cominciare il discorso, rompere il silenzio: « ...la stazione
della metropolitana di Waterloo? » domandò allora, sicuro di ciò che stava
dicendo ma smanioso di sentirselo dire da Joy.
Quella,
continuando a guidarlo per mano fino alle scale in discesa nel ventre della
terra, annuì distrattamente.
Non
c’era niente intorno a loro, né persone né suoni. Il silenzio, che faceva da
padrone incontrastato, veniva spezzato solamente dai loro respiri e dai loro passi
nudi sui gradini.
Watson
sentiva la mano calda di Joy stringere la sua in una morsa gentile, e chissà
perché non tentò nemmeno di liberare la presa nonostante la strada da
percorrere fosse ormai abbastanza ovvia. La presenza della ragazza al suo fianco,
la mano stretta nella sua, dal momento in cui si era ricordato tutto aveva
smesso di essere strana ed inquietante ed era divenuta quantomeno rassicurante.
Joy
lo fece scendere fino alla fine, addentrandosi nei corridoi sotterranei a passo
sicuro. Di nuovo, solo i loro piedi nudi sulle piastrelle del pavimento emettevano
l’unico rumore udibile.
A
colpo sicuro, Joy lo guidò sulla banchina per i treni in direzione Paddington. Arrivata ai binari, con le dita dei piedi a
sfiorare la linea gialla a terra – l’unica cosa colorata, anche in quel caso –
si fermò. Entrambi lo fecero.
« Cosa stiamo
facendo? » chiese John, la
voce ridotta ad un sussurro per non rischiare di rompere troppo violentemente
il silenzio quasi totale.
« Aspettiamo » rispose lei.
Fin
qui c’era arrivato. « Cosa? » chiese dunque
John, accigliato.
« Il treno,
naturalmente » gli rispose
quella, gli occhi incollati di fronte a sé.
John,
per un attimo, la guardò come si guarda un pazzo. Poi rammentò che era il suo Es, quello, e diede del pazzo a se stesso per diretta
conseguenza. « Naturalmente... » ripeté in un
soffio, fissando uno sguardo vacuo e decisamente interdetto sui binari sotto di
loro.
Non
ce la fece a stare in silenzio.
« Sì... ma perché
Waterloo? » chiese di nuovo,
tornando a guardarla.
Lei
non fece una piega ma si dipinse un lieve sorriso sulle labbra che, da quando
si era ricordato tutto, era ormai onnipresente. Si voltò semplicemente di
qualche grado in sua direzione.
« Devi riprendere
il viaggio da dove lo hai lasciato » gli disse solo, tornando con lo sguardo
davanti a sé.
Guardava
tutto e non guardava niente, in realtà, e John lo aveva intuito. Strinse la sua
mano nella propria, ricevendo in cambio una stretta simile.
Contrariamente
alle sue aspettative, fu Joy a riprendere parola.
« Io non verrò con
te, John » gli disse, la
voce limpida e tranquilla, come se parlassero del tempo.
« No, cos...? » balbettò John: « perché? » chiese poi,
guardandola con negli occhi una lieve punta di panico.
Quella
sospirò, aspettandosi la reazione. « Perché io ho fatto ciò che dovevo fare.
Ti sto mostrando la strada di casa, ma quest’ultimo pezzo è qualcosa che devi
affrontare da solo, senza aiuti » gli spiegò.
John
si sforzò di ritrovare la calma ed annuì. « In cosa consiste? » domandò poi,
cominciando a rendere tangibile nella propria mente l’idea che da lì in poi se
la sarebbe cavata da solo.
« Il treno che
prenderai non sarà vuoto » cominciò a
spiegargli: « è tanta, la gente
che si perde qui. Persone che smarriscono la strada, che non sanno dove andare,
cosa fare. Tutti trovano l’aiuto che serve loro, alcuni riescono a tornare a
casa. Altri... beh, altri si perdono di nuovo. Rimangono intrappolati in questo
mondo senza possibilità di uscirne » spiegò, tornando poi a guardare John
negli occhi: « come avrai
notato, le persone tendono a dimenticare le ragioni per cui vale la pena
tornare a vivere. Più passa il tempo, più la memoria svanisce. Molto presto
finiscono per dimenticare anche la loro identità e allora stanno semplicemente
ferme, immobili, a fissare oggetti e paesaggi che fanno parte di loro ma che
non riconoscono » una pausa, il
sorriso che svanisce pian piano: in lontananza, il rumore sulle rotaie di un
convoglio in arrivo.
« Sul treno su cui
salirai ora ci saranno molte anime perdute, John. Alcune molto vecchie.
Probabilmente non tenteranno di parlarti, ma tu non devi distrarti: ascolta
sempre le fermate e, quando arrivi alla tua, scendi senza guardarti indietro.
La maggior parte di queste persone non può più essere aiutata... » sussurrò infine,
lasciandogli la mano.
Nel
momento in cui lo fece, un treno bianco della metropolitana arrivò e rallentò
piano, lasciando che una delle porte si fermasse proprio di fronte a lui.
Quando quella si aprì, e John si voltò per vedere Joy un’ultima volta, quella
era già sparita.
Deglutì,
facendo un passo avanti ed entrando. Le porte si richiusero subito dietro di
lui.
Il
convoglio riprese la sua corsa, esattamente come avrebbe fatto un treno della
metropolitana nella realtà.
Come
aveva detto la ragazza, il vagone non era vuoto. Una serie di persone tra le
più disparate, vestite tutte di bianco e tutte a piedi scalzi, erano sedute sui
sedili; alcune guardavano a terra, altre fuori dal vetro, altre ancora la mappa
delle fermate presente sopra ogni porta automatica.
Mentre
il treno prendeva velocità, John andò a sedersi nel primo posto disponibile,
ovvero fra una signora di mezz’età fasciata in quella che sembrava una camicia
da notte ed un signore compito con indosso un abito d’inizio novecento ed una
tuba.
Non
rivolse loro la parola e, così come gli aveva detto Joy, nemmeno loro lo fecero
con lui.
In
pochi minuti, la voce metallica dello all’altoparlante annunciò la fermata
successiva.
“Prossima fermata:
Enbankment. Siamo in arrivo a Enbankment.”
Enbankment. A sentire il nome della stazione
successiva, John drizzò la schiena e guardò automaticamente fuori dai
finestrini.
Avevano
superato il punto dello scontro, a quanto sembrava. Lui non aveva notato niente
nei tunnel bui nei quali sfrecciavano a bordo di quel treno candido; non aveva
sentito rallentamenti, sobbalzi o qualsiasi altra cosa che avesse anche potuto
far pensare a qualche detrito, i binari sconnessi, o anche solo un segno che
gli avesse suggerito qualcosa come “questo è il punto in cui sei quasi morto,
ma fatti coraggio, stai andando avanti, stai proseguendo, stai ancora
respirando”.
Vedeva
la stazione di Enbankment fuori dal vetro e, così
come il treno si era fermato, ora ripartiva con la stessa calma di una routine
disarmante.
« Lei è una delle
persone dell’incidente ferroviario? ».
La
domanda giunse inaspettata per John, che trasalì. Nella mente gli passò per un
secondo il consiglio di Joy – “non ti distrarre, ascolta le fermate” – ma
quella frase era stata pronunciata con una voce ed un tono così gentili, che il
suo animo inglese protestò quando la prima intenzione fu quella di non
rispondere affatto.
Si
voltò alla sua sinistra, dove l’uomo vestito in abiti d’inizio ventesimo secolo
lo stava guardando in attesa di una risposta. Era palese che fosse stato lui a
prendere parola, e l’attenzione di John rimase per un attimo catturata dai suoi
baffi voluminosi.
« S-Sì... » confermò, accompagnando la voce con il capo.
Quello
annuì a sua volta, tornando a fissare un punto qualsiasi del buio oltre al
finestrino. « Non è il primo
che passa da queste parti, ultimamente. Dev’essere
stato proprio un brutto incidente. Fra Waterloo ed Enbankment,
dico bene? Siete saliti tutti in quel punto » disse, pacato.
John
lo osservò per un istante, decidendosi poi a seguire l’istinto e a parlargli.
Sarebbe comunque stato attento alle fermate, dato che venivano dette all’altoparlante,
ma poteva benissimo passare quei minuti che lo separavano dalla sua fermata
chiacchierando con una di quelle persone “sperdute”. Soprattutto perché, al
contrario delle altre, l’uomo al suo fianco sembrava essere pienamente
cosciente di dove fosse.
« Immagino di sì » disse dunque,
appoggiandosi meglio con la schiena al sedile: « ma non lo so con certezza... ».
« È logico supporlo
» aggiunse l’uomo,
sembrando lieto di poter fare conversazione con qualcuno: « se si trova qui,
molto probabilmente non è ancora riuscito a sapere quali siano effettivamente
le dimensioni del disastro. Ma le posso assicurare che siete transitati in
parecchi, dunque può tranquillamente aspettarsi qualcosa di grave. A proposito,
dove scende lei? » gli domandò,
tornando a guardarlo.
“Prossima fermata:
Charing Cross. Siamo in arrivo a Charing
Cross.”
Watson
trattenne sorpreso le parole, ancora scombussolato. « Baker Street » disse poi,
portando automaticamente gli occhi alla mappa. Cosa che fece anche l’altro.
« Oh, capisco.
Cinque fermate quindi » considerò
abbastanza frivolmente: « lei è il primo
che si ferma così vicino; mi è capitato di parlare con una signorina un po’
spaventata che doveva scendere a Willesden Junction, mentre un anziano, pensi, doveva percorrere
l’intera linea fino a Harrow & Wealdstone » gli spiegò.
John
era sempre più perplesso, e nel suo tentare di non darlo a vedere ne era il
ritratto perfetto. Probabilmente l’uomo lo notò, perché si limitò a sorridergli
con occhi gentili, accavallando una gamba sull’altra con fare elegante.
« Deve sapere, caro
signore, che più tempo si passa qui e più è probabile che ci si dimentichi dove
si deve andare. Non è la prima persona che vedo fallire, e io sono uno di
quelli rimasti qui troppo a lungo, purtroppo » gli disse, usando una pacatezza ed
una leggerezza espressiva che lo lasciarono basito.
« Cosa le è
successo? Sempre se non le dispiace che glielo chieda... » gli domandò
Watson, ormai incuriosito dal modo di parlare e di vestire dell’uomo, entrambi
palesemente vecchio stile.
Quello,
sorridendogli di nuovo, negò con il capo e si dimostrò disponibile ai
convenevoli della chiacchierata.
« Oh, amico mio,
sono stato assassinato! » rivelò, John
trasalì. « O meglio,
suppongo che l’intento di mio cognato fosse quello, quando mi ha spinto davanti
ad un convoglio in arrivo. Purtroppo credo che non gli sia andata bene,
considerando che sono qui, ma... beh, è successo moltissimo tempo fa. Credo che
fosse il 1910... no, il 1909. Purtroppo mi sono ricordato troppo tardi perché
dovessi tornare alla mia vita, e ho perso la fermata... adesso mi impegno a
fare in modo che persone come lei non dimentichino dove devono scendere » raccontò.
“Prossima fermata:
Piccadilly Circus. Siamo in arrivo a Piccadilly Circus.”
Il
medico lo guardò con un’espressione a metà fra il sorpreso e il dispiacere
cortese, cosa che l’uomo sembrò apprezzare dato che gli diede una piccola pacca
sulla spalla. Disse qualcosa di simile a “è passato molto tempo ormai” e,
togliendosi della polvere invisibile dalla manica della giacca, tornò a
rivolgergli la parola.
« E lei, se non
sono indiscreto, si ricorda ancora perché vuole tornare in vita? » gli chiese.
John
capiva qual’era lo scopo di quell’interrogatorio, così come era consapevole
delle buone intenzioni della persona al suo fianco; tuttavia parlare delle sue
scoperte in quel campo era e rimaneva leggermente imbarazzante.
« C’è... beh, c’è
una persona che voglio rivedere, ecco... » rivelò, pronunciando la frase più
semplice del mondo senza nemmeno rendersene conto.
Serviva
forse una spiegazione filosofica per ciò che voleva davvero fare? Il suo
desiderio di rivedere Sherlock, qualsiasi fosse il motivo scatenante, era così
carente dal lato morale?
Ogni
persona ha un motivo per voler continuare a vivere, e forse la causa che aveva
portato tutti gli altri individui in quel vagone a rimanere lì seduti in
eterno, dimentichi dei loro sentimenti, era proprio perché avevano avuto il
dubbio che le ragioni per vivere non fossero abbastanza, agli occhi degli altri.
L’uomo
al suo fianco, di fatti, annuì comprensivo. « È sempre la miglior ragione » gli rispose.
“Prossima fermata:
Oxford Circus. Siamo in arrivo a Oxford Circus.”
« E... questa
persona è la sua fidanzata? » domandò l’uomo, assottigliando le labbra sotto i
baffi in uno di quei sorrisetti indagatori.
John
deglutì, e forse arrossì un poco. Non seppe dirlo con certezza.
« N-No... cioè...
no. Proprio no » balbettò,
indeciso su cosa rispondere.
L’altro,
davanti al suo dubbio, continuò la sua indagine: « però vorrebbe che lo fosse? » domandò,
indiscreto.
Watson
fu costretto a deglutire di nuovo, cercando in qualsiasi anfratto della sua
testa una risposta da dare che corrispondesse al meglio alla situazione in cui
versavano lui e Sherlock. Ma quel pensiero si mescolava un po’ troppo con le
proprie, personali prospettive per un futuro di cui sapeva ancora poco o
niente, perciò non era nemmeno sicuro che la risposta che avrebbe finito per
dargli sarebbe stata, oggettivamente, corretta o meno.
« È una persona a
cui tengo molto, e a cui voglio molto bene. Però non so se... cioè, non ho mai
preso in considerazione al possibilità che... » iniziò, trovando subito difficoltà
ad esprimersi.
L’uomo,
guardandolo con un sorriso, alzò una mano come per fermarlo e risparmiargli la
fatica. « Mi perdoni se la
metto alle strette, ma ha appena ammesso che questa persona è il motivo per cui
vorrebbe continuare a vivere... » gli disse: « ...io credo che la sua importanza
sia abbastanza scontata, una volta detto questo. Cosa potrebbe essere, dunque,
per lei, un passo in più come il fidanzamento, se parte già da una premessa di
assoluta dipendenza da essa? » domandò, usando quell’inflessione un po’ antica per
cui le relazioni amorose sfociavano subito nel fidanzamento.
A
parte quel piccolo particolare, però, l’osservazione dell’uomo aveva un senso.
Ed era giusta.
Ormai
Sherlock era parte della propria vita, e anzi... ne era direttamente il fulcro.
E
più ci pensava, più Watson sentiva che non era importante dare una definizione
socialmente accettabile al loro rapporto; probabilmente, finché avesse avuto la
possibilità e l’occasione di stare al fianco di Sherlock, gli sarebbe andato
bene anche così.
Watson
gli sorrise, annuendo. « Sì... dopotutto
non ha tutti i torti » asserì.
“Prossima fermata:
Regent’s Park. Siamo in arrivo a Regent’s
Park.”
Il
treno si fermò e ripartì di nuovo nel silenzio calato fra i due uomini.
Un
silenzio complice e sollevato, che portava a John più benefici che malesseri e
che cancellava i dubbi dalla sua mente uno ad uno. Non si sarebbe dimenticato
qual’era il motivo per cui stava tornando indietro, per cui decideva ancora una
volta di affrontare la vita e tutti i problemi che, impietosa, gli aveva messo
davanti e, ne era sicuro, con cui avrebbe continuato a disseminare il suo
cammino fino al giorno in cui sarebbe definitivamente morto.
Voleva
vedere Sherlock. Voleva sorridergli, parlargli, sedere con lui nel salotto del
221B bevendo un tè ed ascoltando l’ennesimo, prolisso sproloquio su qualche caso
d’importanza nazionale che Mycroft aveva avuto
l’ardire di proporgli, oppure che lui aveva accettato e poi risolto nel giro di
qualche ora.
E
se avesse potuto passare il resto della sua vita così... invecchiare fra le
pareti famigliari e piene di fori di proiettile del loro appartamento, fra il
sempre maggiore disordine del loro salotto, con provette a riempire ogni angolo
della cucina e qualche testa mozzata nel frigorifero ogni tanto, beh... gli
sarebbe stato bene.
Anzi,
forse non chiedeva di meglio.
“Prossima fermata:
Baker Street. Siamo in arrivo a Baker Street.”
« Credo che sia la
sua fermata, amico mio » gli disse il
signore al suo fianco, sorridendogli incoraggiante.
John
annuì, alzandosi e posizionandosi davanti alla porta in mezzo agli sguardi vuoti
ma incuriositi delle persone del vagone.
La
fine del tunnel, poi una stazione piena di luce.
Il
treno rallentò e si fermò. Le porte si aprirono.
In
un respiro, John attraversò la soglia, consapevole che non appena avrebbe
aperto gli occhi nella realtà – nella realtà vera – avrebbe dimenticato ogni cosa di quel limbo bianco e
luminoso, terra di passaggio per chi si era perso fra la vita e la morte.
Chiuse
gli occhi e, con un sorriso e molte aspettative, si lasciò andare alla luce.
Era
mezzogiorno del 4 marzo, e John dormiva.
I
medici erano venuti quattro ore dopo l’inizio del trattamento per staccarlo dal
macchinario per la dialisi, che ormai aveva completato la sua funzione di
ripulitura del sangue. Avevano controllato le pulsazioni, l’elettroencefalogramma,
l’elettrocardiogramma, le ferite e il taglio chirurgico fatto in sala
operatoria; era risultato tutto nella norma e, ormai convinti che tenerlo in
coma fosse superfluo, avevano rimosso anche la flebo di barbiturici.
Il
medico era lo stesso che era venuto a parlare con loro in sala d’attesa prima
dell’alba.
Con
un sorriso sollevato aveva detto loro che andava tutto bene, e che John si
sarebbe svegliato una volta smaltiti i medicinali. Siccome i barbiturici erano
farmaci che limitavano l’accesso di sangue al cervello – di modo da
“disattivarlo” se non per le funzioni principali, quali respirare e fare
battere il cuore – ci sarebbe voluto un po’ prima che riuscisse a recuperare in
pieno tutte le sue facoltà, ma nel giro di ventiquattrore sarebbe tornato la
persona di sempre.
Nell’udire
quelle parole, mrs. Hudson era scoppiata in lacrime.
Aveva ringraziato Dio cinque o sei volte, il medico che aveva parlato con loro altre
tre o quattro, poi si era limitata ad asciugarsi gli occhi con un sorriso
tenero tutto per John.
Lestrade
aveva sospirato pesantemente, sentendosi improvvisamente crollare addosso tutta
la stanchezza accumulata durante la giornata. Nonostante sorridesse era palese
che non si sentisse bene e, a sorpresa un po’ di tutti, era stato Mycroft a sorreggerlo, tenendolo per le spalle finché non
si era accomodato su di una sedia nelle vicinanze. Dopotutto erano le nove del
mattino e Gregory non aveva chiuso occhio dalle sette del mattino precedente –
e la giornata non era stata una delle più leggere, ovviamente.
Harry,
con la spalla appoggiata allo stipite della porta, si era limitata ad un
sorriso sollevato. Non aveva detto niente, né aggiunto alcunché a parole;
semplicemente aveva chiuso gli occhi ed era tornata dov’era rimasta fino a quel
momento, seduta in sala d’attesa nel posto accanto alla finestra. La sua
convinzione nel non voler entrare in camera del fratello non le impediva, però,
di rimanere nelle vicinanze finché non si fosse definitivamente svegliato.
Molly
si era lasciata andare in una risata liberatoria e aveva incrociato le mani
sotto al mento con uno schiocco. Aveva poi rivolto un sorriso radioso a
Sherlock, il quale però non l’aveva guardata; teneva gli occhi fissi su John,
sempre al suo fianco su di una scomodissima sedia d’acciaio con la seduta in
plastica, e nonostante ascoltasse tutto ciò che veniva detto nella stanza non
gli aveva staccato di dosso lo sguardo nemmeno per un istante.
Cosa
che stava facendo anche in quel momento, quando ormai l’orologio al suo polso
segnò le dodici passate.
Sherlock
non aveva dormito, non aveva mangiato, non aveva nemmeno bevuto qualcosa che
non fosse qualche sorso d’acqua dalla bottiglia che Mycroft
gli aveva portato verso le otto del mattino. Aveva un taglio in testa che
pulsava come l’inferno, era sotto antibiotici e antidolorifici per la stessa
ragione e, in più, arrivava da una giornata ancora più pesante di quella che
aveva infine steso l’ispettore Lestrade, ormai arrivato a casa.
Molly
era tornata al Barts, la signora Hudson faceva la
spola fra la camera di John e la sala d’attesa mentre Mycroft
era dovuto tornare al lavoro, facendosi comunque promettere di essere chiamato
non appena John avesse ripreso conoscenza.
Il
guaio, però, era che non lo aveva ancora fatto.
Vero
era che il tempo di metabolizzazione dei farmaci era diverso da persona a
persona, e che probabilmente il fisico di John, già inizialmente debilitato, ci
avrebbe messo un po’ di più del solito... tuttavia Sherlock non riusciva a
levarsi dalla testa il pensiero che tre ore fossero troppe.
Cominciò
a pensare che la causa potesse essere un’altra. Non c’erano segni che
mostrassero la caduta di John in un coma naturale, però rimanevano sempre cause
di tipo psicologico.
E
se John non avesse desiderato
svegliarsi? Era possibile controllare quella condizione con la mente? Dopotutto
non era questo il processo logico dietro al dolore psicosomatico?
E
se John non si fosse più svegliato perché semplicemente non voleva farlo?
Perché riteneva, magari, di non avere niente per cui aprire gli occhi? Niente
che meritasse la sua presenza nel mondo della veglia?
Sherlock
era confuso e la stanchezza che alla fine aveva bussato anche alla sua porta
non lo aiutava. Nonostante le buone notizie non riusciva a tranquillizzarsi.
Probabilmente sarebbe stato a suo agio solamente quando John avesse aperto gli
occhi, avesse parlato, gli avesse sorriso.
In
poche parole, solamente davanti alla prova empirica ed oggettiva che stesse
bene.
Chiudendo
gli occhi si chinò sul letto, appoggiando la braccia incrociate sul materasso e
la testa su di esse, a contatto con la coscia di John. Osservando ad occhi
socchiusi la mano immobile del migliore amico a pochi centimetri dal proprio
volto, allungò le dita a sfiorarle, afferrando il suo indice e tenendolo
stretto.
L’indice.
Solo l’indice. Un minimo contatto per
capacitarsi che fosse caldo, che qualcosa vivesse ancora, in John Watson. Che
niente era perduto e che tutto sarebbe ritornato com’era stato appena trenta
ore prima.
Chiuse
gli occhi giusto un attimo, cercando inconsciamente di sincronizzare il proprio
respiro con quello di John.
Un
attimo, ecco il lasso di tempo in cui tutto accadde.
Sherlock
Holmes sentì un fruscio, poi una lieve carezza sulle dita della mano.
Spalancò
gli occhi. Li tenne fissi sulle loro mani, aspettando che quel fenomeno si
ripetesse, così da poter convincere se stesso che non se l’era immaginato, che
non era frutto della sua immaginazione.
Che quelle dita si
erano mosse davvero contro le sue.
Avvenne.
Questa volta vide la lieve carezza
che il dito medio di John depositò sul dorso delle sue, muovendosi con fatica
ma volontariamente.
Si
drizzò di scatto, puntando subito gli occhi azzurri verso il volto di John, un
groppo in gola che si disciolse solo quando vide le iridi blu dell’amico sotto
le ciglia socchiuse e percepì il lieve sorriso che gli tendeva le labbra sotto
la mascherina per l’ossigeno.
Gli sembrò di
riprendere a respirare dopo una notte passata sott’acqua, in apnea, chiuso su
se stesso in una pozza d’acqua sporca e cupa in cui i suoni arrivavano attutiti
e rimbombavano come tamburi stonati.
Scattò
in piedi, lasciando che la sedia cadesse rumorosamente a terra. Si chinò
sull’amico con il busto, occhi negli occhi, e solo allora si accorse di quanto
fosse agitato: le mani, bloccate a mezz’aria nell’intento puramente istintivo
di circondare il volto di John, gli tremavano leggermente, senza controllo.
Lui
stesso non era padrone della sua paura, del suo sollievo, dell’esplosione di
gioia e dei battiti accelerati del proprio cuore e mescolava tutte quelle
emozioni in una sorta di soluzione chimica ormai satura; la sua mente non
riusciva a disciogliere tutte quelle emozioni e così le lasciava sedimentare,
creando solo caos, panico immotivato.
John
lo notò subito. Si era appena svegliato ma aveva già intuito le condizioni in
cui versava Sherlock.
Lo
aveva letto nei suoi occhi indecisi e sgranati, spaventati dalla confusione,
brillanti della stessa luce che gli aveva visto a Baskerville
quando, per una notte, ogni sua sicurezza era crollata ad effetto domino.
Cercò
di parlare, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo. Cercò allora di sollevare
la mano ma nemmeno il movimento degli arti sembrava concepibile, in quel
momento. L’unica cosa che riuscì a fare, grazie alla vicinanza fra loro, fu
afferrargli il lembo della camicia e tirare il tessuto, di modo da
trasmettergli in quel misero gesto ciò che con le parole non era ancora in
grado di dirgli.
Calmati, Sherlock.
Va tutto bene. Sono qui, va tutto bene.
Sherlock
avvertì la presa sulla sua camicia e, trattenendo il respiro, cercò dentro di
sé la calma. Il suo cervello si ridestò dal trauma e dalla sorpresa,
riprendendo a fare il suo lavoro, concedendo al detective di respirare
finalmente la sua aria, il suo ossigeno: quello fatto di pensieri e
ragionamenti.
Deglutì,
e fu soltanto la voce a tradire un lieve tremore, questa volta. Le mani,
tornate immobili, si posarono finalmente sul viso di John, i polpastrelli
bollenti delle proprie dita a sfiorare le guance tiepide dell’altro.
« H-Hai avuto un’emorragia
interna » cominciò, lo
sguardo incatenato a quello di John, che non aveva la minima intenzione di
scostare i suoi occhi da quelli di Sherlock: « l’emorragia ti ha provocato
un’insufficienza renale lieve. Ti hanno messo in dialisi ma in sala operatoria
il tuo cuore ha ceduto e... » deglutì: « ...hanno deciso di metterti in coma
farmacologico. È per questo che non riesci a parlare o a muoverti » gli spiegò,
tornando gradualmente lo Sherlock Holmes di sempre. Il suo sguardo si era
stabilizzato, la sua mente aveva ripreso il controllo della situazione.
John era sveglio,
e sorrideva. Andava tutto bene. Tutto bene.
Fece
scivolare via le mani dalle gote del medico, appoggiandosi con le mani sul
cuscino ai lati della sua testa. Continuò a guardarlo fisso negli occhi ma
questa volta con una punta di rabbia, unita forse a qualche rimasuglio di
ansia.
« Non farlo mai più
» soffiò il
detective.
John
continuò a guardarlo, impossibilitato a fare altro.
« Non farlo mai
più... questo. Mai più. Tu non c’eri e io non sapevo cosa fare. Non farlo mai
più » disse – ordinò.
Watson,
socchiudendo gli occhi, annuì.
Dopotutto...
era diventato un maestro nello scusarsi per cose che non aveva fatto.
Dopo
essere stato visitato dai medici, avere conosciuto il chirurgo che lo aveva
operato, avere ricevuto un abbraccio in lacrime da sua sorella, uno
stritolatore da mrs. Hudson e avere assistito a come
quest’ultima convinceva Sherlock a dormire almeno qualche ora – rigorosamente
sulla poltrona della camera, dato che tutti i tentativi della donna di farlo
tornare con lei a Baker Street erano andati in pezzi contro la cocciutaggine
del detective – John si era addormentato di nuovo, concedendo al proprio corpo
tutto il riposo di cui aveva bisogno.
Quando
si risvegliò era ormai il tramonto, Sherlock dormiva ancora e qualcuno aveva
ritenuto opportuno rimuovergli la mascherina d’ossigeno. A quanto pareva,
respirava bene anche senza.
Si
guardò intorno e puntò sul comodino alla propria destra il telecomando del
piccolo televisore a parete.
Prima
di prenderlo, però, fece un controllo generale di quanto il suo cervello avesse
giovato del riposo concessogli. Mosse prima le dita delle mani, tutte e dieci,
cercando di non forzare troppo la destra per non spostare la flebo di
fisiologica che gli avevano inserito nella vena sul dorso della mano. Alzò poi
entrambe le braccia parallelamente, notando con piacere di riuscirci. Mosse
infine le dita dei piedi sotto le coperte e girò la testa a destra e a sinistra,
constatando che tutto sembrava essere tornato al proprio posto.
Avrebbe
tentato anche di parlare, probabilmente, ma aveva paura di svegliare Sherlock.
Per quei pochi minuti che lo aveva visto gli era sembrato tremendamente stanco
e non voleva assolutamente privarlo del sonno a cui si era infine arreso.
Allungando
il braccio quindi – e sentendo i punto su fianco tirare quando si mosse per
accompagnare il movimento – afferrò il piccolo aggeggio e rimase per un attimo
a fissare il comodino.
A
quanto pare era venuta della gente mentre dormiva, perché una piantina di
primule gialle aveva trovato posto accanto alla caraffa dell’acqua e al
relativo bicchiere. Sul biglietto, scritto a mano, un “rimettiti presto (ci servi per tenere a bada il geniaccio)! Anderson -
S. Donovan” lo fece ridacchiare silenziosamente.
Accanto
alla piantina c’era poi una confezione che conosceva bene, proveniente dal pub
in cui ogni tanto si rifugiavano lui e Greg quando decidevano di passare una
serata a bere birra, mangiare panini e a lamentarsi di Sherlock. Sulla carta
marrone, con una penna a sfera era stato scritto un “so quanto fa schifo il cibo dell’ospedale. Goditelo. Greg”.
Un
pacchettino di cioccolatini era quello che aveva lasciato Molly, invece, con un
bigliettino allegato che diceva semplicemente un “rimettiti presto! Ti voglio bene. Molly”.
Mrs.
Hudson non aveva lasciato biglietti, ma l’odore dolce della sua torta di mele
gli colpì piacevolmente il naso non appena tirò su un lembo della carta che la
ricopriva.
Non
avrebbe mai ringraziato abbastanza quella donna, lo sapeva.
Mycroft non aveva portato niente di nuovo, ma si
era premurato di fare irruzione nel loro appartamento – ma più probabilmente lo
aveva fatto entrare mrs. Hudson – e gli aveva portato
il suo notebook, su cui era stato lasciato un biglietto scritto in
un’eccepibile grafia: “Sarebbe perso
senza il suo blogger. Mycroft Holmes”.
Gli
sorse spontaneo un sorriso. Fratelli maggiori, non cambiavano mai.
Interiormente
grato per tutti quei pensieri lasciati per lui, prese il telecomando e lo puntò
verso la televisione, togliendogli la voce non appena si accese. Girò qualche
canale poi, trovato quello che gli interessava, guardò le immagini che il
telegiornale stava passando.
Il
solo pensiero di essere stato all’interno di quel groviglio di acciaio gli
faceva salire la nausea. Il cameraman stava mostrando l’interno del tunnel,
accompagnato dai vigili del fuoco, ed il giornalista incaricato di fare il
reportage indicava freneticamente i vagoni distrutti del treno, parlando di
cosa non riusciva a capirlo, dato che nel leggere il labiale non era mai stato
bravo. Ne guardò qualche altro minuto poi, semplicemente, spense il televisore.
Vedere
da fuori quello che lui aveva provato sulla pelle lo infastidiva troppo. Gli
chiudeva lo stomaco in una morsa e gli troncava il respiro nei polmoni.
Probabilmente la sua analista ci sarebbe andata a nozze.
« Probabilmente sì ».
Sussultò
nel sentire la voce di Sherlock tagliare in due il silenzio, leggendogli come
al solito nella mente ed indovinando perfettamente ciò che stava pensando.
Lo
guardò alzarsi dal divano, i ricci neri spettinati ma gli occhi vigili e
riposati come li aveva visti ogni mattina da quasi due anni a quella parte.
Gli
si avvicinò a grandi passi, fermandosi a fianco del letto ed osservandolo
indagatore, nel tentativo di percepire ogni piccolo segnale, segno o chissà
cos’altro potesse indicare al detective le sue condizioni di salute. John
glielo lasciò fare.
« Perché sono
sempre io quello che finisce all’ospedale? » scherzò, riuscendo pian piano a ritrovare
la capacità di parola. Prova voce: superata!
Ma
Sherlock non era in vena di scherzi.
John
incatenò lo sguardo ai suoi occhi azzurri, cercando – inutilmente – la causa di
quell’espressione contrita. « Cosa c’è, Sherlock? » chiese poi, serio.
L’altro
sospirò, chiudendo gli occhi un secondo per poi riaprirli di nuovo.
« Ho un cuore, John
» gli disse poi,
tono grave, voce bassa. Come se si vergognasse. Come se se ne pentisse. Come se
lo rifiutasse.
Lo
stomaco di John si contrasse di nuovo, ma lui lo nascose bene. Voleva fare una
cosa ma non sapeva se Sherlock sarebbe stato d’accordo, se si sarebbe scostato,
se gliel’avrebbe permesso o meno.
Nel
silenzio, decise di rischiare. A qualche passo dalla morte le prospettive
cambiano ed i dubbi calano di dimensioni come iceberg che si sciolgono nel
lungo viaggio verso l’equatore.
Alzò
la mano sinistra – quella libera dalla flebo – e la poggiò delicatamente sul
petto di Sherlock. Quello non si mosse, lasciandolo fare senza il minimo imbarazzo
o dubbio.
John
sentì il battito del cuore di Sherlock contro il palmo della mano, e sorrise. « Lo sapevo già » disse.
« ...fa male » gli rispose
Sherlock: « voglio strapparlo
via ».
John
chiuse gli occhi e negò con il capo. « Non farlo... » mormorò. « Dallo... dallo a
me. Me ne prenderò cura per te » aggiunse, gli occhi incapaci di incontrare di nuovo
quelli azzurri dell’altro.
Almeno
finché la mano di Sherlock non raggiunse la sua, appoggiata ancora sul suo
petto. Solo allora John alzò di nuovo gli occhi sull’altro, oceano nel
ghiaccio, in attesa di una risposta che avrebbe potuto renderlo l’uomo più
felice del mondo o un animale malmenato che si lecca le ferite in un angolo.
Sherlock
strinse con la propria mano quella di John, intrecciando le dita a quelle del
medico.
« È tuo » gli rispose.
John
non poté far altro che sorridergli.
Poté
quasi giurare, sentendolo con la mano, che il cuore di Sherlock – ora suo – avesse appena perso un battito.
Epilogo
• un mese dopo
221B
Baker Street
Quando
riaprì gli occhi alla luce del nuovo giorno, il letto accanto a sé era sfatto
ma vuoto.
John
sospirò in un sorriso, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la mano sulle
lenzuola stropicciate, trovandole fredde. Sherlock doveva essersi alzato già da
un pezzo, come la maggior parte delle volte.
Trovando
la forza di alzare la testa dal morbido cuscino che aveva ospitato il suo sonno
per l’intera nottata, prese visione della sveglia sul comodino, scoprendo che
erano le nove meno un quarto del mattino. Sbadigliò e, finalmente cosciente di
sé, si mise a sedere.
Subito
il fianco si fece sentire. John vi portò sopra la mano, massaggiando i muscoli
intorno al taglio chirurgico ancora in via di guarigione nel tentativo di
scioglierli. Si rilassò un poco quando smise di fare male e, finalmente, si
alzò in piedi, recuperò le ciabatte ed uscì dalla propria camera dirigendosi giù per le scale, obiettivo
cucina.
Fu
lì che trovò Sherlock, seduto al tavolo con le gambe accavallate a leggere il
giornale.
Indossava
la vestaglia blu e solo quella, John
ne era sicuro. A volte, i livelli di pigrizia del suo coinquilino – avrebbe dovuto
cominciare a chiamarlo “compagno”, d’ora in poi? – sfioravano quelli di Mycroft, ma si era sempre guardato bene dal farglielo
notare.
« Buongiorno » salutò entrando.
« Mh... » fu l’onnicomprensiva risposta di Sherlock. John
sorrise, gli scostò i capelli dalla fronte con una mano e vi posò le labbra in
un piccolo bacio fugace.
Holmes
non si distrasse dalla lettura ma John non se ne curò affatto. Il detective e
le dimostrazioni d’affetto non erano termini adatti a stare nella stessa frase,
ma andava comunque bene così.
Dopotutto,
era Sherlock Holmes. Non riusciva a pensare a qualcosa di diverso dalla stramba
quotidianità affettiva ancora in via di costruzione.
« Hai già fatto
colazione? » chiese John
dirigendosi ai fornelli.
« Solo tè per me » rispose il moro
mentre John afferrava tutto il necessario per preparare il tè e metteva in
tavola fette biscottate e marmellata.
« Trovato qualcosa
di interessante? » domandò poi al
detective, riferendosi al quotidiano. Per una persona che non conosceva nemmeno
il nome dell’attuale Primo Ministro, la lettura del giornale significava che c’era
un caso interessante, dunque probabile lavoro in arrivo.
« La mia camera è
più spaziosa ».
Watson
si accigliò. « Prego? ».
« Sono sicuro che
la tua roba ci entrerebbe senza problemi » continuò imperterrito Sherlock, ignorando
la domanda implicita dell’altro.
John
non poté fare a meno di nascondere un sorriso soddisfatto. « Ed è tutto
scritto sul giornale? » ironizzò,
mettendo in infusione due bustine di tè direttamente nella teiera.
Se
Sherlock ebbe intenzione di rispondere, probabilmente gli fu impedito dal
doppio suono del campanello. Il postino, decifrò John, che con un “vado io” – abbastanza
scontato, in realtà, dato che Sherlock non si sarebbe comunque sprecato ad
alzarsi per andare alla porta – John scese velocemente le scale, salutando il
portalettere e ricevendo la solita montagna di posta.
Ritornando
al piano superiore, la scorse velocemente. A parte le bollette da pagare,
praticamente immancabili, una cartolina da Dublino attirò la sua attenzione. La
girò, e nel leggere la calligrafia infantile con cui era stata scritta sorriso
rincuorato; Alice era alla sua prima gita scolastica fuori porta e, a quanto
diceva, aveva scelto per lui la cartolina più bella del negozio.
Avrebbe
dovuto ringraziarla, magari telefonandole.
Continuò
a scorrere le buste, incontrandone una che portava lo stemma della British Army. La aprì alla bene e
meglio.
Insieme
ad una lettera scritta a mano che lesse solo sommariamente vi era la fotografia
di un gruppo di soldati, tra i quali spiccava Edward Miller. Era appena tornato
al reggimento e aveva chiesto esplicitamente di essere trasferito al 5th
Northumberland Fusiliers;
richiesta accettata, considerando che il plotone apparteneva a quella
compagnia. Lo informava inoltre di essere appena rientrato dall’infortunio, che
la spalla stava benone e che aveva rinunciato a partire. Lui e la sua ragazza
avevano parlato di matrimonio, dunque voleva rimanere in Inghilterra per farsi
una vita, magari una carriera nell’esercito.
Sorrise
di nuovo, arrivando nel frattempo al piano superiore. Finché non si trovò fra
le mani una busta strana, con l’effige di una... culla?
« Sherlock? » chiamò dall’ingresso,
chiudendo la porta dietro di sé con aria decisamente allibita.
« John? » si sentì
rispondere dalla voce profonda dell’altro, segno che lo stava ascoltando.
« Nella posta di
oggi c’è l’invito ad un... battesimo? » borbottò stranito, leggendo velocemente
il biglietto di cartoncino: « ...un battesimo fra quattro mesi, per giunta. Chi è
Nicholas Ryder? » domandò.
Sherlock,
alzatosi per spegnere il bollitore del tè, sorrise appena nel versarlo in due
tazze.
« Sherlock, perché
il pargolo si chiamerà “John Sherlock”? » chiese John, alzando gli occhi dal
biglietto quando dall’altro non venne risposta: « Sherlock? ».
« Cosa ti fa
pensare che io ne sappia qualcosa, John? » ironizzò il detective con un sorrisetto
furbo, avvicinandosi all’altro e porgendogli una delle due tazze di tè.
Watson
lo guardò con un sopracciglio sollevato: « preferisci che ti risponda prima di
mandarti al diavolo o posso togliermi subito la soddisfazione? ».
Sherlock
nascose un sorrisetto divertito sul bordo della propria tazza, bagnandosi le
labbra con il tè. Davanti allo sguardo di John che non ammetteva silenzi
programmati o cambi repentini di discorso, alla fine capitolò.
« Beh, trovo che
sia una scelta di nomi oculata. Oltre che lusinghiera, certo. “John S. Ryder” suona bene » commentò, impedendo con la frase
successiva la risposta che John aveva già sulle labbra: « e poi, l’alternativa
era Marcus » disse,
sottolineando il nome con una sorta di scherzoso disprezzo.
John,
ormai conscio di essere entrato nella tana del lupo con tutto il braccio e non
solo con la mano, semplicemente lasciò perdere. Bevve qualche sorso di tè,
appoggiò tazza e posta sul tavolo di fianco al detective e, approfittando della
vicinanza dell’altro per rubargli un bacio, si diresse a passo svelto verso
camera sua.
« Dove stai
andando? » domandò Sherlock.
« Beh, la mia roba
non traslocherà da sola ».
~ the END.
______________________________________________________________________________________________________
1.
"Passing Afternoon"
è il titolo di una canzone di Iron & Wine. È la
OST di chiusura dell'episodio 4x16 di Dr. House ("Il Cuore di
Wilson") e, da quando l'ho rivisto per raccogliere ispirazione, anche di
diritto la OST ufficiale di questo capitolo.
2.
Sherlock Holmes, nei lavori originali di Doyle, è un
drogato. Nella serie della BBC il duo Mofftis ha
deciso di fargli superare la dipendenza, ma tracce del fatto che comunque lo
fosse sono visibili in "Uno Studio in Rosa" (quando Lestrade è nel
loro appartamento con la scusa di una retata antidroga) e anche nell'episodio
pilota mai andato in onda (in cui è lo stesso Sherlock ad ammettere che il
vizio di drogarsi gli era passato da poco).
In
particolare, Sherlock (di Doyle) era solito cadere in
profondi stati depressivi quando era senza casi da risolvere, e riusciva ad
iniettarsi in vena dosi di cocaina e/o morfina anche 3 volte al giorno.
3.
È un gioco di parole con il significato del nome "Joy", che significa
"gioia"
4.
Brevemente: Sigmund Freud, il padre della Psicoanalisi, divise la mente umana
in tre parti principali, ovvero "Es",
"Io" e "Super-Io".
Mentre
il Super-Io è l'interiorizzazione delle regole morali apprese dai genitori
durante lo sviluppo (distinzione fra giusto e sbagliato, buono e cattivo...), e
l'Io è una sorta di "sistema di controllo" che permette all'individuo
di bilanciare la propria personalità in relazione alla realtà e alle regole
sociali, l'Es è la parte del subconscio completamente
slegata dalla logica; è puro impulso primitivo, che secondo Freud si libera del
tutto durante il sonno (perché nel sonno si è soggetti ad un minor controllo
razionale ed inibitorio).
5.
A scuola di Medicina (da Zia Wikipedia e con la
gentile partecipazione del dr. House).
-
la Dialisi è un macchinario che ripulisce il sangue. Vengono applicati due aghi
sul braccio del paziente, uno per il sangue in entrata e uno per quello in
uscita; il sangue passa in questo macchinario che ne separa i componenti,
pulendolo dalle scorie, per poi "ricomporlo" e rimandarlo in circolo
nel corpo.
-
il Bypass aorto-coronarico non è altro che una
circolazione extra corporea del sangue per escludere il cuore. Vengono
collegati dei "tubicini" alle due principali arterie del cuore (Aorta
e Coronaria) e questo continua la sua circolazione senza passare dal cuore
grazie ad una macchina che ne mima la funzione. Il cuore, in quel lasso di
tempo, ovviamente non batte.
-
Il coma indotto (o farmacologico, o famaco-indotto) è
uno stato di coma provocato dai medicinali. L'attività del cervello è ridotta,
durante il periodo di coma, e teoricamente non dovrebbe esserci fase REM,
dunque niente sogni. Ma non ho raccolto abbastanza dati sull'argomento, dunque
prendetelo come necessità di trama ;D