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Autore: Padmini    05/04/2012    2 recensioni
Sherlock è tormentato da uno strano incubo ricorrente. Non sa ancora che quel sogno presto avrà una parte importante nella sua vita e lo aiuterà a capire molte cose di se stesso. Perchè non riesce a fidarsi delle donne? Quali dolorosi ricordi sono racchiusi nella sua anima?
Non mi ricordo da quando ce l’ho. Forse da sempre. Ciclicamente è tornato per tormentarmi. Quindi, ciclicamente, sono ricaduto nel mi vecchio vizio. Non è sempre stato così. Mi ricordo che quando ero bambino c’era mia madre. Lei veniva in camera mia e mi consolava.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Violet'
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La macchina mandata dall’ispettore Lestrade è arrivata velocemente. Troppo per i miei gusti. Il vecchio ‘Greg’ sapeva benissimo che avrei accettato. Corro giù per le scale, eccitatissimo. Non vedo l’ora di esaminare il luogo del delitto e, cosa ancora più interessante, il corpo.
Avrò almeno cinque minuti tutti per me per potermi muovere liberamente e poi un tempo indeterminato per sciorinare le conclusioni. Tutto dipende da quello che troverò.
Mi pare che questo autista sia un po’ troppo lento. Non mi disturbo neanche a dirgli di accelerare. Mi ignorerebbe. Nell’attesa osservo fuori dal finestrino e mi viene da ridere. Ogni tanto Lestrade mi dice di essere troppo freddo, troppo indifferente alle sofferenze dell’umanità. Che ne sa lui di me? Sa qualcosa delle sofferenze che io ho dovuto sopportare? Non ne sa nulla. E mai lo saprà. Punto.
Cercare di ignorare le mie sofferenze mi ha portato inevitabilmente a ignorare anche quelle degli altri. Oppure ho cominciato a fregarmene dei sentimenti altrui proprio per poter dimenticare i miei? Probabile. Ho imprigionato le mie emozioni una cella di isolamento chiusa a doppia mandata con qualche centinaio di lucchetti. Impossibile aprirla.
Da qualche tempo a questa parte, però, mi sembra che qualcuno, o qualcosa, tenti di forzarla. Ho prestato troppa attenzione alla serratura. Da qualche parte deve esserci una falla. Una minuscola fessura che, se stressata con la giusta forza, potrebbe far crollare tutte le mie difese. E a quel punto? Cosa potrei fare, io?
Riuscirei a gestire quell’ondata che inevitabilmente mi colpirebbe?
 
Arrivo sul luogo del delitto. Ancora non so cosa mi aspetta. È questo quello che mi piace. L’attesa. Più lunga è l’attesa più mi godo il premio. Scendo dall’auto con cautela, con eleganza. Ogni mio movimento deve essere preciso e armonioso. Mi metto in una posizione di superiorità solo camminando. Voglio dire, quanti camminano come me? Sono un bell’uomo, ne sono consapevole. Più di una mia cliente, parlandomi, non ha potuto fare a meno di notarlo. John ha ragione a dire che mi pavoneggio un po’. Che c’è di male in questo? È la sola soddisfazione che mi rimane.
 
“Finalmente” mi dice Lestrade avvicinandosi “Ce ne hai messo di tempo!”
“La prossima volta mandami un autista che non abbia trovato la patente nelle patatine” dico io senza nemmeno scusarmi. Perché dovrei farlo, poi? È lui che dovrebbe ringraziarmi per la mia presenza.
Mi avvicino al cadavere. È disteso a pancia in giù. Mi sembra di riconoscere quel cappotto. L’ho già visto.
Osservo per prima cosa il terreno. C’è stata una lotta molto cruenta, a giudicare dalle impronte che vedo. Due uomini. Uno di loro è arrivato prima e ha atteso che l’altro lo raggiungesse. Poi i due hanno cominciato a parlare animatamente e sono arrivati alle mani. Non si può ancora parlare di omicidio, in realtà. Potrebbe trattarsi di legittima difesa. Bisognerà trovare l’altro uomo per capirlo.
Visto che mi ha chiamato avranno già fatto tutte le rilevazioni del caso quindi senza domandare nulla mi infilo i guanti e giro il corpo per verificarne l’identità.
 
Non sono mai stato impressionabile con i cadaveri. Voglio dire! Ne vedo tantissimi con la mia professione. La mia casa, con sommo disappunto di John, è sempre piena di teste, dita, braccia, mani, organi vari.
Allora perché quando vedo il viso dell’uomo mi viene solo voglia di vomitare? Perché mi sento pizzicare gli occhi? Guardo il cielo, sperando che le lacrime non vogliano uscire.
“Allora?” mi domanda Lestrade preoccupato “Mio dio Sherlock, c’è qualcosa che non va?”
Se ne è accorto. Ha percepito il mio disagio. Non reagisco mai così quando sto per esaminare il corpo. Di solito tutta la mia attenzione va su di lui. Sui dettagli del vestito, della pelle, delle scarpe. Tutto quello che può aiutarmi a identificarlo e incasellarlo. Ora no. Ho distolto lo sguardo e respiro con affanno, cercando di ricacciare indietro lacrime troppo forti per essere fermate.
Quando mi giro verso di lui lo spavento. Anche Donovan, arrivata da poco, mi guarda spaesata. Non mi hanno mai visto piangere. Sto piangendo, ora. Silenziosamente ma sto piangendo.
Mai, mai mi sarei aspettato di trovare proprio lui qui. L’ho amato, l’ho odiato. Non  so cosa provo per lui adesso. Pietà. Forse. Rimpianto. Anche. Dolore. Si, soprattutto dolore. Dolore per non essere riuscito a dimostrargli il mio affetto. Per non essere riuscito ad ottenerlo da lui.
“Cosa c’è Sherlock?” mi chiede Sally preoccupata. Devo essere proprio spaventoso visto così se perfino lei ha rinunciato al classico nomignolo che mi affibbia di solito.
Apro la bocca per parlare, ma le parole non escono. Cerco di riordinarle.
“Cosa ci puoi dire del cadavere?”
“C’è stata una lite” dico evitando la domanda “Evidentemente lui e un altro uomo hanno litigato …  e questa è la conseguenza. Potrebbe trattarsi di legittima difesa. Anzi, ne sono sicuro”
“Come puoi dire una cosa del genere?”
“Il pugnale” dico. Mi sono accorto troppo tardi del pugnale e solo ora lo riconosco, conficcato tra le costole dell’uomo “Appartiene alla vittima”
“Come fai a dirlo?” mi domanda Lestrade
“Se il pugnale appartiene alla vittima probabilmente chi lo ha ucciso voleva solo difendersi. Lui” dico indicando l’uomo steso a terra “lo avrà chiamato qui, probabilmente con una scusa, e ha provato ad ucciderlo ma l’altro è stato più veloce e lo ha pugnalato con la sua stessa arma”
“Sherlock” mi dice l’ispettore tenendosi la fronte “Tutto ciò è molto interessante ma non puoi provarlo. Hai ragione a dire che se il pugnale apparteneva alla vittima si tratta di legittima difesa, ma non puoi provarlo. Dovremmo prima esaminare le impronte digitali e, cosa più importante, identificare il morto!”
Bene. Perfetto. Come lo dico? Io so già chi è. Cerco le parole che fanno tanta fatica ad arrivare. Vedo la pietà nei loro occhi. Sembrano inteneriti da questa mia debolezza. Di solito sono io che li sovrasto. Sono freddo, calcolatore, cinico. Li eccita vedermi così debole?
 
Non ho il tempo di cercare una risposta nei loro visi perché vengo travolto.
La stessa lama che ha trafitto il costato di quell’uomo è penetrata nella fessura della mia camera di sicurezza e l’ha scoperchiata senza pudore, ignorando i numerosi lucchetti di cui l’avevo dotata.
Tutto quello che era racchiuso lì dentro mi investe con eccessiva violenza. Tanti, troppi ricordi che ho voluto seppellire. La consapevolezza di tutti quegli episodi mi esplode dentro come una bomba.
Non ho mangiato nulla stamattina, eppure devo allontanarmi per non contaminare la scena del crimine. Corro fuori, sotto lo sguardo colmo di pietà di Donovan, Lestrade e Anderson, che si è appena aggiunto. Figurati se quello stronzetto vuole perdersi lo spettacolo!
Mi raggiungono mentre io ho già appoggiato le mani sul muro della fabbrica di fronte e butto fuori la scarsa cena che John mi ha costretto a mangiare ieri sera.
Sento male in ogni parte del corpo, come se i ricordi avessero preso forma. Ogni percossa. Ogni insulto. Ogni maltrattamento. Riaffiorano alla mia mente e nel mio corpo come se li stessi vivendo ora. Ripenso a quell’uomo, morto in un modo così brutale,  in un luogo così squallido. Tutto è così distante da come era lui.
 
Mi rimetto in piedi a fatica. Barcollo un po’ e, finalmente, riesco a ritrovare una certa lucidità. Sento la presenza dei tre alle mie spalle. Non parlano ma mi fissano con insistenza. Cosa si aspetteranno da me? Mi disprezzeranno? Finalmente anche il freddo Sherlock Holmes soffre di fronte alla morte? Chi se ne frega! Non mi è mai importato nulla del giudizio altrui, tantomeno di questi tre imbecilli che stanno ad osservare la mia schiena, attenti per cogliere anche il minimo movimento.
Prendo il cellulare. Devo fare tutto con calma altrimenti rischio di cadere di nuovo. Seleziono il numero di Mycroft. Bene. Le mie funzioni mentali sono ancora intatte. Provo a digitare un SMS. No. C’è qualcosa che non va. Le lettere sui tasti si confondono, sono sfocate. Cosa c’è che mi ostacola?
Lacrime? Sono lacrime queste?
Va bene. Rinuncio al messaggio. Gli telefono, anche perché lui detesta i messaggi.
“Mycroft?” lo chiamo quando, dopo una breve attesa, lui risponde “Vieni qui, subito”
Dove?” mi domanda ovviamente lui, ma io non sono più connesso con il mondo esterno. Vago in un universo tutto mio .
“Vieni qui” ripeto. Dove dovrebbe venire, poi? Vieni qui da me e aiutami ad arginare la sofferenza. Aiutami. Tu lo sai, tu sai tutto quello che quella stanza maledetta conteneva. Puoi aiutarmi a rimettere tutto dentro, fratello?
Devo aver ripetuto la stessa frase un numero imprecisato di volte ma non ne sono consapevole. Mycroft, dall’altra parte del telefono, è disorientato. È Lestrade ad aiutarmi. Mi prende il telefono di mano. Non oppongo resistenza. Resto così, con il braccio a mezz’aria e la mano aperta. Gli detta l’indirizzo e chiude la chiamata.
“Sarà qui tra poco” mi dice porgendomi il telefono. Io non mi giro. Non mi muovo. Abbasso la mano ma non accenno a voler prendere il cellulare che lui mi porge. Rassegnato me lo infila in tasca.
“Sherlock, mi spieghi cosa ti sta succedendo?” mi chiede cercando di mascherare l’impazienza.
“So chi è” dico infine. Devo farcela. Posso farcela. Voglio farcela.
“Avanti, allora!” dice Anderson con il suo solito atteggiamento irritante “Illuminaci!”
Non posso non notare un certo sarcasmo nella sua voce. Mi ha sempre disprezzato e non  lo ha mai nascosto. Non che il sentimento non fosse reciproco, ma adesso mi fa male. Come girare un coltello in una piaga.
“Il suo nome è Siger Holmes” dico, e li sento trattenere il respiro “Era mio padre”

   
 
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