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Autore: Iris Fiery    07/04/2012    5 recensioni
"E ora che salgo con loro, vedo lo spazio attorno a me, perché i miei tratti scuri e duri non assomigliano a quelli dei classici ragazzini di qua, i cui occhi spesso assomigliano a specchi d’acqua e i capelli riccioluti a quelli di un angelo appena nato. Il mio comportamento, modo di camminare e chissà che altro non è come quello dei giovani usciti dai corsi di buone maniere, neanche il mio modo di vestirmi lo è: no, perché io vengo dalla periferia, perché io sono uno straniero."
Una ZaynXHarry, scritta con un pò di insicurezza^^ Spero possa piacere, sappiatemi dire eh *_*
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Zayn Malik
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Dizzy's all it makes us
Dizzy's all it makes us
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~ZaynWord

<< Il signor Malik ora è impegnato, ripassi più tardi. >>
<< Zayn Jawadd Malik, sei pregato di smetterla di dire stronzate e di uscire da quella camera! >> Sento urlare da mia sorella, mentre batte ancora con forza la mano sulla porta di vecchio legno della mia camera, che pare cadere da un momento all’altro, cosa che succederà secondo me: non che io l’ascolti, altrimenti ora dovrei già essere lì, ai suoi ordini, a fare chissà quale lavoro stupido per quella ragazzina fastidiosa.
La lascio perdere, ma quando il battere diventa ripetitivo mi alzo in piedi e appoggio il libro che stavo leggendo sul mobiletto lì vicino: metto la mia giacca di jeans scuro sopra ad una maglietta bianca e i pantaloni del medesimo colore del soprabito ed apro la finestra di casa. Allaccio ben bene lo zaino nero e sdrucito sulla schiena e salto sul ramo dell’albero vicino, tenendo bene l’equilibrio: oramai faccio ciò da svariati anni, neanche mi viene difficile.
Scendo con rapidità da lì e poggio i piedi nella terra dove una volta vi era l’erba verdeggiante, ora vi rimane solo del terriccio che rischia di farmi affondare ogni attimo di più: quando vi esco con la mia sorellina Safaa ci divertiamo spesso ad immaginarci che siano sabbie mobili, e che dobbiamo creare un percorso per poterci salvare.
Poco possiamo fare in questo quartiere del sud di Londra: i grandi palazzoni di costruzione industriali hanno un colore grigio e sono talmente alti da coprire il cielo azzurro. Le ciminiere in questi paraggi producono gran quantità di inquinamento, tanto che a volte non ci è possibile uscire neanche un attimo, perché l’aria non è possibile da respirare: l’erba e i prati sono stati coperti dal cemento ruvido che ci sbuccia le ginocchia quando giochiamo, e i divertimenti mancano in totale. Gli abitanti di queste zone sono poveri, spesso immigrati come la mia famiglia: siamo originari di Bradford, ma come si può ben vedere dalla mia pelle ambrata e i miei tratti marcati non sono completamente inglese. Mio padre è un immigrato pakistano venuto in Inghilterra molti anni fa per cercare fortuna: questa non l’ha trovata ma a differenza di ciò, ha sposato un inglese, Tricia, mia madre. Lui spesso dice che questa è la miglior fortuna che gli potesse capitare, ma il loro amore non porta mai il pane alla fine della giornata sulla nostra tavola.
Come ben dicevo, questo quartiere periferico del sud situato nel Lambeth, viene conosciuto dalla maggior parte della gente col nome di Brixton: solitamente viene poco consigliato per girarvi a causa della forte immigrazione avvenuta qui soprattutto a livello di popolazione caraibica e per il grande uso di cannabis. È vero, è un quartiere pericoloso: fino all’età di sedici anni, i miei quasi non mi permettevano di uscirvi ufficialmente, sebbene ho fatto le mie esperienze.
Qui non è difficile vedere corpi di gente buttati a terra, come cadaveri durante una guerra: le bande si sfidano ogni giorno, i colpi di pistola esplodono in aria e spesso colpiscono gente che non centra nulla, ma che vorrebbe solo vivere la propria vita in pace. E come dargli torto, non tutti sono interessati solo alla droga o ad altro: il quartiere è molto famoso per il proprio mercato, per i piccoli negozi vintage, per le discoteche, per le accademie e per la Brixton Art Gallery, una delle più famose gallerie di arte contemporanea. 
Anche se vi racconto tale bellezza, nulla è così nella mia vita: mio padre, per portare avanti una famiglia composta da sei persone è costretto a lavorare tutto il giorno nel piccolo locale che abbiamo in gestione, rischiando la vita a causa delle frequenti rapine. Mia madre, ora che ha i figli abbastanza grandi per svilupparsi da sé fa le pulizie in casa dei signori per  bene nel quartiere di Notting Hill, dove vivono i ricchi proprietari di Londra: alcune volte passo in quel quartiere dove eleganti signorotti vestiti di tutto punto sfrecciano nelle loro costose macchine con accanto donne perfettamente educate all’élite inglese. Dio, quanto odio quella gente.
Quanto a me e le mie sorelle facciamo le cose più disparate: purtroppo spesso il razzismo si fa sentire, non vieniamo accettati per qualunque lavoro. La più grande, Doniya, lavora lontano da in un quartiere del nord Londra, oramai non la vedo più da quasi un anno, mentre Waliyha e Safaa frequentano ancora le scuole superiori. Se si vuole parlare di me, diciamo che sono uno che fa lavoretti “di mano”: per di più rubo, ho imparato negli anni a non farmi scoprire. Inizialmente lo facevo a scuola, quando i miei amici avevano le loro merende e io non avevo soldi per prenderli, mettevo le mani nei loro borselli prendendo il giusto necessario: pian piano, verso le superiori, iniziai a voler assomigliare ai ragazzotti delle arie perbene della città, quindi mi intrufolavo nei grandi magazzini e rubavo ciò che riuscivo, curandomi d’aspetto e facendo ciò che potevo per non apparire il classico immigrato povero.
Ora, entrato da poco nei diciannove anni e senza un diploma, continuo coi miei furti a livello economico: spesso rubo cibo per la mia famiglia, oppure i soldi per pagare ciò di cui le mie sorelle più piccole hanno bisogno. Non so cosa farò nel futuro, ho sempre avuto una passione spropositata per la musica e non me la cavo male: ma sono un immigrato, e questa non è una strada per noi.
Penso a questo, mentre accendo una sigaretta camminando a passo svelto verso la fermata metropolitana di Brixton: la linea azzurra mi porterà alla fermata di Oxford Circus in cui prenderò quella rossa e mi fermerò a Notting Hill Gate, per poi fare qualche passo e arrivare alla nuova casa dove mia madre lavora come donna delle pulizie. Mi ha detto che devo andare a prendere alcune cose per portarle a casa e non mi sono tirato indietro.
Salgo sulla metrò già affollata all’una del pomeriggio e cerco un posto tranquillo: decido poi di arrendermi, appoggiando i capelli neri contro il finestrino, iniziando a fissare il paesaggio scuro della metropolitana che inizia a muoversi con velocità. Socchiudo poi gli occhi mentre le lunghe ciglia si intrecciano tra loro e inizio a respirare a fondo, per non pensare alla donna che mi sta spingendo ogni attimo più attaccato a questo vetro sporco e freddo: cerco di non sentire gli urli dei bambini che, da sopra le gambe della madre seduta poco distante da me, si lamentano di essere stanchi. Decido poi di crearmi un mio spazio mentale, gioco che uso spesso e che funziona: il tutto mi permette di immaginarmi in un grande luogo, una spiaggia decido, con le palme caraibiche che mi fanno compagnia, la sabbia brillante che si insinua tra le dita dei piedi e le onde del mare che si infrangono sulla spiaggia, creando una dolce melodia che accompagna il cocktail freddo: un insieme di papaya e cocco, che crea un vortice incredibile dentro a quel bicchiere in cui un limone e l’ombrellino dai colori accesi si fanno compagnia. Sorrido appena, immaginando il cielo azzurro oltre l’ombrellone che copre il volto, mentre sento il caldo sole prendermi tra le sue braccia, avvolgermi come faceva la mamma quando da piccolo avevo freddo: prendeva una coperta ricavata da vecchi pezzi di stoffa e me la metteva addosso, prima di prendermi in braccio e portarmi nel vecchio letto. Quando eravamo lì, poi, mi accarezzava la testa, vi spostava i capelli per lasciarci un bacio e iniziava a canticchiarmi una dolce melodia, di cui ora neanche ricordo le parole.
È da lei che è nata la mia passione per il canto: la sua voce pareva quella di un usignolo, era melodiosa e dolce. Quando era giovane, prima di incontrare mio padre, studiava canto in una prestigiosa accademia qui in città: era la prima della sua classe, aveva riconoscimenti in tutto il mondo e una carriera sicura.
Ma poi arrivò l’amore. Mi raccontò che incontrò mio padre una sera, durante un suo concerto: cantava da quel grande palco l’Aida, non ricordo precisamente quale aria ora però, e i suoi occhi scuri e penetranti come il catrame la colpirono a tal punto da farle dimenticare ogni parola, ogni persona in quella stanza. Si sentiva già sua dopo uno sguardo: le ciglia lunghe incorniciavano quel taglio non inglese, la pelle ambrata e le labbra carnose facevano parte di quel viso leggermente squadrato, che a lei parve un sogno. E per lui fu lo stesso. Si conobbero la stessa sera, dopo che lui, con abilità, riuscì ad intrufolarsi nel dietro le quinte, portandole una rosa bianca.
<< La tua pelle aveva la stessa radiosità, sotto la luce. >> Le disse con un inglese non prettamente perfetto, mentre lei arrossiva, prendendo quella rosa che odorava di lui.
L’amore purtroppo non le permise di continuare la carriera, rimanendo incinta di mia sorella quasi subito dopo. Ma non avrebbe mai rinunciato a noi per la sua carriera, mi ha detto.
Ben presto arriva la mia fermata: questo cambio è sempre caotico, quindi sguscio velocemente fuori da qui, precipitandomi alla linea rossa, in cui tutto cambia. Ora vedi la gente non più vestita di stracci e colori a caso, ma bensì ricche signore con abiti eleganti accompagnati da bimbetti già in cravatta e camicia che sgambettano lì affianco. Parlano con un accento snob, di dove andare a prendere il tè quel pomeriggio e altri discorsi ben poco terra a terra: sono i classici abitanti del quartiere di Kensington. Non mi sono mai trovato amalgamato a questa società perbenista e spendacciona: probabilmente neanche sanno come diavolo si vive un giorno in quartieri meno fortunati.
E ora che salgo con loro, vedo lo spazio attorno a me, perché i miei tratti scuri e duri non assomigliano a quelli dei classici ragazzini di qua, i cui occhi spesso assomigliano a specchi d’acqua e i capelli riccioluti a quelli di un angelo appena nato. Il mio comportamento, modo di camminare e chissà che altro non è come quello dei giovani usciti dai corsi di buone maniere, neanche il mio modo di vestirmi lo è: no, perché io vengo dalla periferia, perché io sono uno straniero.
Ma meglio così, ora la possibilità di respirare mi fa felice, e non mi interessano più le occhiatacce di questa gente perbenista: ora non mi sento più secondo a nessuno, sono fiero delle mie origini, della mia vita. Mentre mi siedo accanto ad un’anziana donna che mi lancia un occhiataccia, prima che possa alzarsi allungo velocemente la mano alla sua tasca, estraendone il portafoglio ben fornito: mi allontano poi da lì, per avvicinarmi alla porta, visto che oramai anche qui il mio viaggio è finito.
Quando tutto si ferma, scendo velocemente da lì e cerco un angolino, in cui aprire il portafoglio: la carta di identità mi mostra che abita nel quartiere di Notting Hill proprio, in una villa probabilmente che è il doppio del mio intero quartiere. Le banconote sono arrotolate in un mucchietto divise per taglio, e noto che sono molte: non solo, le foto dei figli, qui tre femmine con gli occhi azzurri e i lunghi capelli neri tanto simili da sembrare gemelle, sono dentro alla carta di identità, di cui poco mi importa. Butto via il superfluo, mettendo il ricco bottino dentro le tasche dei pantaloni e avviandomi, per cercare il posto in cui devo andare.
Quando salgo le scale della metropolitana, il sole colpisce i miei occhi, cosa che nel mio quartiere mai si è vista, a causa della coltre di smog presente: qui i viali dipinti di bianco e l’erba fresca la fanno da padrone, mentre i grandi palazzi con muri perfettamente stuccati e signori che passano per strada vestiti di tutto punto fanno da cornice al tutto. Una fontana zampilla nel Westbourne Park qui vicino, mentre i bambini vi giocano correndo intorno e le madri parlano delle solite frivolezze sedute al tavolino di costosi bar della zona.
I ragazzi usciti dalle scuole ora vestono con eleganti uniforme, ognuna riportante il simbolo dell’istituto, spesso viaggiano in gruppo e si avviano nelle loro fantastiche case, mentre le signore attempate viaggiano con un cagnolino tenuto stretto al guinzaglio tempestato di diamanti: non che le loro padrone siano meno infiocchettate.
Nulla pare sbagliato qui, tutto sembra un bellissimo quadro, tanto è la perfezione.
Ma nulla è perfetto, tutto è facciata.
Ben presto mi confondo in questo mondo di perfezione, come un bruco tra le farfalle: cerco di non dimenticarmi di chi sono e dove provengo, mentre trovo la via e l’indirizzo della casa che mia madre mi ha dato. Un’immensa villa si affaccia davanti a me, con un giardino grandioso: tutto è circondato da cancellate alte almeno quattro metri dipinte di bianco scintillante, con tante sbarre mediamente vicine tra loro e un cancello immenso, con la chiusura in oro e due leoni di marmo a fare da guardia da sopra le colonne. Il giardino, da quello che vedo, ha molti viottoli fatti di lastre bianche che  accompagnano il visitatore fino alla villa, una grandissima casa dalla facciata di muri rossi e decorazioni bianche, due rampe di scale che salgono a circolo fino alla porta di legno chiaro: al centro della costruzione vi è una grande fontana con un cavallo sopra che spruzza acqua e ai suoi lati le famose scale per entrare. Mi chiedo se mai l’acqua ha bagnato quelle scale rendendole scivolose… Nel giardino vi sono alti alberi da frutto, l’odore che arriva mostra che probabilmente il giardiniere ha pulito anche stamani, e si sente il rumore di acqua, forse un laghetto.
Una villa, mia madre aveva ragione di queste parti. Con ancora lo sguardo sbigottito, mi avvicino ad un piccolo citofono sopra ad una delle colonne, pigiando il pulsante di chiamata.
<< Chi è? >> Sento dire da una voce probabilmente anziana, resa metallica dall’apparecchio.
<< Sono il figlio di Tricia Malik. Devo portarle alcune cose. >>
<< La aspettavo. >> Risponde l’uomo con perfetto accento inglese, mentre un rumore simile ad un trillo si staglia in aria e ben presto la grande cancellata si apre con estrema silenziosità, permettendomi di varcare la porta. Rimango un attimo lì, prima di iniziare a camminare sulle lastre bianche e lisce di questo giardino che visto da dentro pare almeno il doppio.
Vi metto almeno qualche minuto prima di iniziare a salire la grande scalinata di destra e noto la perfezione geometrica con cui deve essere stato costruito il tutto: la fontana al centro non tocca neanche lontanamente col proprio getto le scale di marmo, ma è un perfetto accompagnamento alla salita.
Quando vi arrivo in cima, un uomo vestito in frak mi sta aprendo la porta: il suo volto è incavato, la pelle oramai rugosa e gli occhi una volta cristallini ora sono bianchi. Due piccoli occhiali sono poggiati sul naso aquilino, i capelli oramai non vi sono più e le mani sono coperte da guanti bianchi di lattice. L’aspetto è estremamente serioso, e deduco sia l’uomo che mi ha prima risposto al citofono.
<< Il signorino Malik immagino. >> Mi risponde in perfetta dizione, prima di spostarsi dalla porta, permettendomi di entrare.
Faccio qualche passo incerto in tutto quel lusso e all’interno rimango inebriato da ciò che mi si para davanti: un immenso salone, con grandi scale che salgono ancora ad altri piani. Il soffitto è decorato da chissà quale artista, un immenso lampadario di cristallo pende dal centro e statue e antichi mobili fanno da compagnia alla sala. Le porte sono aperte, permettendomi di notare il continuo del salone nelle due stanze adiacenti, mentre il pavimento è decorato da fiori di marmo leggermente rosei: un paradiso.
<< Manderò a chiamare sua madre. >> Mi dice l’uomo dal naso adunco che vedo sparire in pochi attimi nel resto della casa, in cui io farei fatica a non perdermi probabilmente.
Non sento rumori provenire dalle immense stanze, probabilmente parecchie, se non il suono di un piano poco distante: non pare perfettamente accordato però, o almeno così sento. Non che io sia una cima a suonarlo, però qualcosa so fare.
Mi avvio verso quella musica celestiale e un grande piano bianco latte con decorazioni d’oro sta suonando, ma colui che lo usa non riesco a vederlo. Sospiro, facendo qualche altro passo, mentre una visione celestiale mi si para davanti agli occhi: un ragazzo dai riccioli castani e gli occhi di un verde smeraldo è seduto lì, con la sua bella pelle bianca e le ciglia lunghe, che ora mi fissano, e ben presto si perdono in me.







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Ebbene sì, eccomi con un altro lavoro uwu In realtà l'avevo in mente da un pò questa fic XD
Una ZaynXHarry ho deciso, inserendola in un universo alternativo.
In realtà ho deciso di scriverla dopo una chiaccherata con un mio amico proveniente
dall'Arabia: mi ha raccontato di come è stato per lui vivere in Italia, del razzismo da certe
persone e dalla curiosità di altre. Per cui, in un momento difficile come il nostro ho deciso
di scrivere questa fic, sperando possa incuriosire^^ Sappiatemi dire, aspetto qualche recensione<3
PS: ho deciso di aggiungere delle immagini per mostrare meglio ciò che presenterò in ogni capitolo^^

   
 
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