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Autore: PaganGod    27/04/2012    2 recensioni
Può un'anima terribile, che vorrebbe soffocare nella morte le sue colpe,
salvare un'anima che vive nel rimorso?
Può un mago assassino lottare per la redenzione di chi vive in un incubo?
Parthan inizia un viaggio, per racimolare un po' di imperiali,
ma scoprirà che non c'è solo morte sul suo cammino
e che la redenzione può giungere dai percorsi più oscuri...
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo II
 
Con le prime luci dell’alba il gracchiare dei corvi svanì, rifugiandosi nel buio da cui era venuto. Parthan si apprestò a proseguire verso il cuore nero della palude; aveva gli occhi scavati da profonde occhiaie e il volto più pallido che mai. L’intrico umido di melma e radici divenne un pastone scivoloso, una palude impenetrabile e soffocante, coperta dalle cupole dei salici e spazzata da un vento freddo, innaturale.
“Vuoi vedere che ho trovato l’unica foresta maledetta davvero?” si disse avanzando a fatica.  
Le falde della divisa erano ormai fradice di fango, e gli stivali così pesanti da rendere ogni passo un’impresa. Il bastone era inutile e si rivelava un intralcio in più.
“Questo vento spaccaossa è di sicuro opera di qualche maledizione. Ma tu guarda in che diavolo di casino mi sono andato ad infilare! Non vale gli imperiali che mi ha promesso!”
Il lampo negli occhi del vecchio, quando lo aveva visto lasciare la sua bottega, gli era parso stranamente soddisfatto: che sapesse davvero a cosa lo stava mandando incontro? Avrebbe dovuto rispondere di molte cose, se solo fosse riuscito a salvare la pellaccia! 
Un gocciolio insistente echeggiava in ogni direzione, come una voce, molte voci: sospiri, lamenti, richiami; corpi di nebbia e vento correvano a nascondersi dietro i tronchi rugosi dei salici. Sbucavano dai rami, scivolando fino a terra, per fluire nelle polle di acqua coperte di foglie.
C’era tensione nell’aria, una tristezza pesante e antica. Parthan tracciò dei cerchi con le mani, spirali lente e controllate dinanzi a sé. 
Avvertiva la presenza di qualcosa di diverso, estraneo al mondo, ed ebbe di nuovo l’impressione di essere osservato. I corpi di nebbia serpeggiavano sulle acque, titubanti. Si avvicinavano a piccoli passi. Parthan si sentì sfiorare alle spalle, una carezza gelida, e si voltò di scatto. 
Brandendo il bastone di legno, le sue mani si illuminarono di energia vivida, la nebbia si ritrasse. 
Di nuovo un tocco evanescente sulla spalla destra, ebbe visioni di una città d’argento e oro riflessa in acque cristalline.
 
“Non toccatemi!" minacciò agitando il bastone. "State lontani da me! Fantasmi schifosi!”  
Un mugghiare di voci in pena saliva dal terreno; le appendici cangianti delle nebbie si protendevano a toccarlo, costringendolo a fronteggiare avversari inesistenti. Ebbe una visione di un lungo ponte d’oro: un grande arco sulle acque che congiungeva due sponde smeraldine. 
Scivolò a terra, cadde in una polla d’acqua sporca e ne avvertì il gelo innaturale. 
 
Svegliatosi, scattò in piedi tra mille spruzzi. Era circondato. Gli spettri si erano fatti vicini, un assedio informe, e si protendevano a toccarlo, a sfiorarlo. 
La sua mente si riempì di immagini della città d’oro, del lago, di un grande altare splendente ricoperto di ninfee bianche e di cupole che splendevano al sole. Parthan si portò le mani alle tempie, credeva di impazzire. La sua anima era colma di una gioia immensa e di un dolore interminabile. 
Gridò per scacciare quelle visioni, ma ne era sopraffatto. Qualcosa esplose nel suo cuore: la sua maledizione e la sua potenza. La bestia che era la sua magia prese il sopravvento in un’eruzione di energia pura. La porta verso i reami turbinanti degli elementi si spalancò, lasciando scorrere nel suo corpo torrenti di fiamme di un altro mondo, mentre pronunciava le parole antiche degli incantesimi del fuoco. Gli occhi del mago si iniettarono di magma bollente. 
Piantò il bastone a terra con entrambe le mani, e subito un fragore di tuono squassò il silenzio mortale della palude: cerchi di fuoco si irraggiarono in ogni direzione. Le acque evaporarono sfrigolando, le foglie dei salici turbinarono come lapilli incandescenti e le nebbie scomparvero rapidissime, fuggendo in ogni anfratto, tuffandosi nel terreno molliccio. 
L’aria  tornò stagnante. 
 
Parthan imprecò contro gli spettri, gridando al vento la sua ira. Non appena l’eco si spense avvertì un fruscio leggerissimo alle sue spalle. Un bolide sibilante sfrecciò nella palude e lui lo schivò per un soffio. Afferrò il bastone e convocò un nuovo incantesimo che addensò l’aria ai suoi piedi, costringendola a vorticare ubbidiente. Digrignando i denti sfidò il nuovo aggressore: “Fatti sotto spiritello! Vediamo chi è più veloce!” 
Parthan attendeva. 
Le spalle incurvate, gli occhi come due fessure d’argento, scrutavano nell’oscurità oltre gli alberi. 
Con uno schianto poderoso un ramo si staccò dall’alto.

“Vigliacco!” tuonò scivolando nella melma. Un guizzo scuro sibilò sopra la sua testa e gridò con voce acuta. “Vattene o morirai!”
“Chi sei? Fatti vedere codardo! Non mi piace ammazzare alla cieca! Non mi diverto!” rispose il mago che ormai anelava lo scontro.
Seguì un silenzio pesante. 
Parthan chiuse gli occhi e portò il bastone davanti a sé, esplorando l’oscurità dietro i salici con la Vera Vista. Tese il braccio, liberando l’aria che turbinava ai suoi piedi, e i tronchi cedettero di schianto; un ariete di vento li infranse in una miriade di schegge. Un grido soffocato si allontanò rapido. 
“Aha... ti ho preso! Ora vediamo come te la cavi con questo...”  le parole gli morirono in gola. 
Una liana gli stringeva il collo impiccandolo, una forza invisibile lo trascinava verso l’alto.
 
“Ti avevo avvertito!” canzonò la voce sottile dall’alto dei rami. “Non avresti mai dovuto avventurarti in questi luoghi sacri!”
Parthan alzò lo sguardo, teneva le mani sulla liana per allentarla un po’. Non scalciava, per risparmiare energia, ma il suo volto divenne paonazzo in breve. Una figura sottile, forte e agile ad un tempo, sedeva su un ramo con le gambe penzoloni. Era alta all’incirca due spanne e indossava un’ armatura verde scuro che sembrava fatta di agrifoglio. Negli occhi nerissimi aveva una luce cattiva, spietata, che contrastava con un volto ovale e delicato. Due minute orecchie a punta sbucavano dai capelli raccolti in una lunga coda, anch’essi neri. 
La ninfa planò con le sue grandi ali di farfalla stranamente opache e spente. 
Fluttuò beffarda dinanzi al volto ormai livido del mago, agitando minacciosa una lunga spina di rosa ancorata al braccio sinistro. 
“Ora mi tocca ucciderti! Perché siete tutti così testardi? Devi essere in cerca del cristallo d’acqua, perché di norma i corvi bastano a scoraggiare gli avventurieri di passaggio. Devo ammettere che sono impressionata, pochi arrivano fin qui.”
“Ne ho viste di peggio.” rantolò Parthan. “Inoltre avete attaccato voi per primi!” 
“Hai invaso il nostro territorio! Nessuno deve dissacrare questo luogo!”
“Cosa c’è da dissacrare? E’ una palude schifosa!”
“Come osi!”
 
La liana si strinse ancor di più, Parthan boccheggiava.
“Questo luogo è il più santo e il più puro! E voi indegni umani non dovreste nemmeno posare lo sguardo sulle acque di questo lago! Qui la grande madre Shalla si è consacrata alle acque, e qui siamo nate tutte noi ninfe!”
“Non sono venuto a fare nulla di male! Mi sono solo perso e voi demoni mi avete attaccato senza motivo! Se ci tieni tanto ti lascio alla tua palude melmosa e me ne vado... basta che mi dici da dove si esce!”
“Impossibile” gridò la ninfa. “Devi morire! Tutti i profanatori devono morire! Non permetterò più a nessuno di avvicinarsi allo specchio. Il cristallo d’acqua deve rimanere al suo posto, lì dove la dea lo ha lasciato!”
Un velo di dolore offuscò il volto delicato della creatura, i neri carboni dei suoi occhi erano ancora più profondi. 
“Di quale diavolo di specchio vai parlando? Voglio solo andarmene!” 
“Non mentire! Lo leggo nei tuoi occhi! Venite qui in cerca dello specchio di Shalla, volete staccarne dei pezzi. Volete assaporare il potere degli dei, ma nessuno di voi ne è degno! Avventurieri senza scrupoli, predatori di tesori, miseri maghi come te in cerca di un po’ di vera magia…" sibilò rabbiosa, poi cambiò tono e divenne fredda e determinata. 
 
"Nessuno lo toccherà più!” sentenziò.
 
“E smettila di starnazzare!" soffiò il mago senza fiato. "Se mi devi ammazzare fallo e basta! Capisco che ti senti sola in questo immondezzaio ma non ho voglia di fare conversazione!”
“Hai uno strano modo di prepararti alla morte umano.” commentò la ninfa perplessa. 
“E’ che ci sono abituato. Come ti chiami?” chiese il mago con un filo di voce.
La ninfa si ritrasse stupita, rimanendo interdetta per qualche istante: da così tanto tempo nessuno le rivolgeva più quella domanda.
“Eriendal,” rispose in un sussurro. “Mi chiamo Eriendal.”
“Suona bene...” rispose l'uomo abbozzando un sorriso. "Sembra la lingua del Lilèm." il suo volto era divenuto gonfio e bluastro ormai ma non accennava ad arrendersi.
 
Eriendal lo squadrò per bene, la testa chinata da un lato. 
Di tutti gli avventurieri che in quegli anni erano giunti a profanare quel luogo, questo era il più strano. 
Non scalciava, non si dimenava, non cercava di contrattaccare; solo i suoi occhi grigi erano animati da una vivace intelligenza e scrutavano nei suoi alla ricerca di qualcosa. Quell’uomo sembrava in grado di vedere molto in profondità nella sua anima travagliata.
 
“Tu parli la lingua degli elfi?” chiese meravigliata, la sua voce aveva perso il tono rabbioso e solenne.
“Tra le altre..." ghignò. "Ti secca liberarmi? Credo che fra poco mi si spezzerà il collo.”
Eriendal, d'istinto, volò più in alto; la liana perse la sua stretta e Parthan rovinò a terra.
 
“Se mi fai qualche brutto scherzo ti ammazzo all’istante!” minacciò la ninfa con il pungiglione bene in vista. 
“Se ritardo la tua fine è solo perché mi hai incuriosito.”
 
“Non c’è bisogno di fare la spavalda in quel modo.” commentò Parthan massaggiandosi la gola. “Se avessi voluto mi sarei già sbarazzato di te!”
“E perché non l’avresti fatto allora?" si portò le mani sui fianchi. "Per il tuo buon cuore? Sarebbe la prima volta per un umano.”
“Ti ricordo che non sono stato io ad attaccare per primo, e che non volevo combattere con te. Non senza un buon motivo almeno!" Parthan fece spallucce. "Se la smetteste di tendermi agguati in questa palude melmosa io...”
Eriendal si fece scura in volto, i pozzi neri dei suoi occhi divennero due fessure; agitando un pugno scandì bene le parole: “Non osare mai più offendere questo luogo! E’ il luogo più sacro di tutti!”
“Va bene, questo me lo hai già detto. Scusa per aver offeso questo luogo.” rispose Parthan conciliante. “Devi ammettere, però, che non si presenta molto bene.”
 
Eriendal si sedette appoggiando il mento sulle mani, era così fragile, così indifesa.
“Un tempo non era così.” sbottò. “Era uno splendido giardino di salici e viole dove scorreva un ruscello ridente di acque fresche e chiare.”
“E cosa è successo?”
La ninfa distolse lo sguardo, fissando l’oscurità minacciosa del sottobosco, e si chiuse in un ostinato silenzio. Parthan attese impaziente poi, alzandosi, commentò. “Se non vuoi parlarne lascia stare, ognuno ha i suoi segreti.”
“Dove credi di andare?” tuonò la ninfa scagliandosi con il suo pungiglione in resta. Di colpo si arrestò a mezz’aria. 
“Vigliacco bastardo di un umano infido!” imprecò a fatica. 
Era impastata in un invisibile fluido magico e la ninfa lottava con tutte le sue forze nel tentativo di liberarsi.
“Non sono uno sciocco Eriendal,” disse. “Sei molto più veloce di me, e quell’aculeo che mi sventoli di continuo davanti è di certo avvelenato.”  
Parthan la osservava impassibile. 
Con uno sforzo immane che le schiacciava il volto, la ninfa tentava di raggiungere il ciondolo sacro che aveva al collo e invocare la dea affinché la liberasse. 
Parthan fece per andarsene ma fu colpito dai suoi occhi illuminati da una lenta agonia; coglieva i lampi di una paura mai scacciata in quelle lucide perle nere. In quel preciso istante Parthan decise che nessun compenso era abbastanza per la sofferenza della ninfa. 
La pietra sarebbe stata un buon affare per lui, ma per lei rappresentava lo scopo di tutta una vita. 
Parthan, forse per la prima volta nella sua vita, decise di lasciar perdere. 
Con delicatezza saggiò la pietra tra le dita e la ninfa chiuse gli occhi per il disgusto. 
Era uno splendido turchese luminoso, come una goccia, una lacrima scheggiata, e traeva riflessi dalla putredine della palude trasformandola in un luogo magico sulla sua superficie. Ne assaporò i fluidi magici, ne avvertì il potere. Comprese finalmente come mai molti avevano tentato di impadronirsene.
 
“Questo tuo inutile ciondoletto non vale il fango che mi dovrò togliere dagli stivali!" sbuffò stizzito. "Ho affrontato quindici giorni di cammino per venire qui, e mi ritrovo tra le mani un fondo di bottiglia! Avevi ragione. Sono qui come tanti altri a cercare la potenza della magia, ma c’è più energia nel mio gomito sinistro che in questo pezzo di vetro colorato! Io me ne vado.” 
 
Lo sguardo della ninfa, livida di rabbia, attraversava le sue vesti e le sue carni; lo sentiva esplorare con odio in cerca di un punto debole o, forse, di un motivo per tanta cattiveria. Parthan avrebbe voluto calmarla; in qualche modo provava simpatia per la piccola creatura, che dimostrava un coraggio non comune. Avrebbe voluto farle comprendere che era stanco di portare morte, che era un uomo cambiato, che non era più un mastino assetato di sangue. 
Gli uscì solo una voce roca e strafottente: "Sei stata molto fortunata piccoletta."
La ninfa soffocò una maledizione. 
 
"Non preoccuparti. L'incantesimo si dissolverà da solo fra poco, ma non tentare altri scherzi o non avrò più buon cuore..." 
"Sei morto!" 
"Sei ingiusta ninfa guardiana!" si avvicinò al suo volto. "Me ne sto andando non vedi? Rinuncio alla tua pietra pidocchiosa..."
"Non chiamarla così!" gridò fino a strozzarsi.
 
C’era una enorme tristezza in quella voce sottile: sogni infranti, solitudine. 
Parthan fu colpito nel profondo, maledì la propria indole, il proprio carattere impossibile. 
Avrebbe potuto dire mille parole, ma ormai le aveva fatto male anche senza volerlo. Era quello il suo destino: distruggere, uccidere, portare dolore anche quando non lo desiderava. Si voltò e riprese la via per la palude.
 
Eriendal smise di lottare. 
Un barlume fievolissimo di speranza si riaccese nel suo piccolo cuore stanco, riuscì a sorridere. Era il primo che se ne andava con le sue gambe e provava stima per lui. Come promesso l’aria vischiosa in cui era imprigionata si infranse, e fu libera di spiegare le ali e sfrecciare nell'aria fredda della sera imminente. Seduta sul ramo più alto carezzò la lacrima, la osservò a lungo. Aveva colto i moti nell'animo di quello strano mago e sapeva, ne era certa, che dietro le sue parole irriverenti si celava un uomo valoroso e saggio. 
Per un istante pregò che tornasse per aiutarla poi, man mano che la notte scendeva, la speranza di fuggire al suo misero destino si affievolì. 
Scomparve.
  
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