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Autore: Doe    06/05/2012    12 recensioni
DAL TESTO:
Ho continuato a sfiorarmi le labbra arrossate e il collo per interi minuti, dopo che è andato via. Quando il mio corpo è stato completamente sovrastato dal suo, mi sono sentita perduta. Avevo perso ogni speranza, mi ero quasi arresa senza lottare, credendo che questa volta non sarei riuscita a cavarmela. Non avevo però smesso di pregarlo di lasciarmi stare e, non so se sono riuscita a impietosirlo o se semplicemente qualcuno, lassù, mi vuole bene, ma lui ha indietreggiato all’improvviso, si è rassettato i vestiti ed è uscito dalla stanza, subito dopo avermi ricordato che, volente o nolente, prima o poi sarei stata sua.
Ho paura! Sto ancora piangendo da allora. Dice che vuole farmela pagare per essermi presa gioco di lui, ma non era davvero mia intenzione. Dice che dovrei essere lusingata dalle attenzioni che un nobile come lui ha nei confronti di una serva come me.
(Prologo - La bestia)
!SOSPESA! - La storia non viene più aggiornata dalla sua autrice
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon, Salvatore, Elena, Gilbert, Mikael, Rebekah, Mikaelson, Stefan, Salvatore | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo I

Benvenuta a Torino



Era una bel mattino di fine estate, forse solo un po’ troppo caldo. Il cielo era limpido e del tutto privo di nuvole. I raggi solari, prepotenti, impedivano agli occhi umani di accertarsene, però.

La carrozza bianca, con intarsi e raffinate rifiniture in oro, procedeva tranquilla lungo una delle tante strade che conducevano alla città. La giovane Elena Gilbert, al suo interno, osservava, persa nei suoi pensieri, il paesaggio che si estendeva a entrambi i lati della strada, tra vasti prati luminosi, colline rigogliose e, in lontananza, qualche spuntone roccioso di montagna. Gli occhi color caffè, nonostante il bellissimo paesaggio che stavano scrutando, erano pieni d’ansia. La diciassettenne non era affatto un tipo difficile da leggere.

Torino. L’idea di vivere in città – in una così grande, poi! – la spaventava non poco. O, forse, era solo infelice di aver lasciato il suo vecchio paesino di campagna. Ma perché, in fondo? Tutto ciò che era rimasto lì erano ricordi, niente di concreto, nessuno che avrebbe potuto considerarsi abbandonato. Morti i suoi genitori e arruolatosi nell’esercito il fratello, Elena era rimasta sola al mondo.

Si era così affrettata a cercarsi un lavoro per avere di che sfamarsi, con pessimi risultati. L’unico luogo in cui era riuscita a farsi assumere era una locanda frequentata da ubriaconi di medio e basso rango, e sospettava che il merito non fosse dovuto al suo essere sveglia e lavorare sodo, quanto al suo aspetto fisico. Neanche una settimana in quel postaccio e già una decina di uomini avevano provato a metterle le mani addosso, e la ragazza aveva dovuto fare leva su tutte le sue forze e la sua pazienza, per riuscire ad allontanarli senza offenderli. La padrona del locale, una vecchia e grassa megera di nome Cassandra, l’avrebbe licenziata se le avesse fatto perdere anche un solo cliente.

A dirla tutta, Elena non le piaceva proprio per niente: interpretava male la sua timidezza, credendo solo che si desse delle arie, e non riusciva a capire perché ci tenesse tanto a proteggere la sua virtù, visto e considerato che non era diversa dalle altre ragazze che lavoravano da lei e che, a differenza di quella smorfiosetta, si impegnavano ad accogliere e intrattenere i clienti a dovere, senza fare storie.

L’aveva ugualmente assunta, consapevole del fascino che quell’orfanella possedeva, perché era convinta che le avrebbe fornito un numero maggiore di clienti. Le sue aspettative non era state tradite, ma se la ragazza avesse continuato a fare la difficile, prima o poi questi avrebbero cambiato aria.

La fortuna volle che, proprio una sera in cui Elena cercava di divincolarsi dalla stretta ferrea di un uomo grasso e tarchiato dall’odore rivoltante, che l’aveva afferrata per la vita e cercava di costringerla a sedersi sulle sue gambe e dargli un bacio, un’affascinante e austera figura maschile, vestita di tutto punto, fece il suo ingresso nel locale, zittendo tutti per qualche istante. La ragazza, in evidente difficoltà, stava giurando a se stessa che quella sarebbe stata la sua ultima sera in quel postaccio, quando lo riconobbe.

Era il Marchese Niklaus Mikaelson, proprietario dello splendido palazzo che si ergeva in cima alla collina dove sorgeva il paese. Elena si era incantata un’infinità di volte ad osservare la tenuta, quando vi passava davanti per sbrigare le sue commissioni, immaginando quanto doveva essere bello vivere tra quelle mura, poter passeggiare tranquillamente per il vasto giardino o nel labirinto e leggere all’ombra di un pesco. Infatti, se c’era qualcosa che distingueva Elena da chiunque altro appartenente al suo stesso rango, oltre alla sua intelligenza, la proprietà di linguaggio e l’educazione impartitagli dagli amorevoli genitori defunti, era la capacità di leggere. Finché era stato in vita, suo padre Grayson aveva svolto l’attività del rilegatore di libri*, per cui in casa c’era sempre di che leggere. E proprio il padre, quand’era appena una bambina, l’aveva seduta sulle sue ginocchia e le aveva insegnato.

La famiglia Mikaelson contava, in tutto, cinque componenti, tutti fratelli più una sorella, la Marchesa Rebekah. Li si vedeva raramente in giro, anzi, quando si trovavano in paese, generalmente non uscivano dalle mura della tenuta. La gente mormorava, considerando sospettoso questo comportamento, ma Elena non ci aveva mai trovato assolutamente nulla di strano: con una casa del genere e dei domestici che svolgono le commissioni per te, chi avrebbe sentito il bisogno di uscire?

Per questo motivo la presenza del Marchese in locanda aveva destato non poco stupore. Dopo i primi secondi di turbamento generale, Cassandra si era precipitata al suo cospetto per accoglierlo, ma il Marchese l’aveva zittita con un gesto della mano e le aveva detto, senza troppi giri di parole, che non si trovava nella sua squallida locanda per bere insieme a quegli altri zotici, ma bensì perché aveva sentito dire che in quel posto lavoravano molte belle fanciulle e lui era alla ricerca di una nuova cameriera per la sua tenuta. «Una che non mi faccia sfigurare», aveva detto.

Immediatamente, ogni singola cameriera nel locale si era lasciata sfuggire un urletto d’eccitazione. Tutte tranne Elena, che era stata fin troppo occupata con Signor Mano Lunga per origliare la conversazione tra il Marchese e Cassandra.

«Mi lasci andare, la scongiuro!», aveva detto, alzando involontariamente la voce di un paio di toni. Immediatamente, era calato di nuovo il silenzio nel locale.

«Piccola bisbetica», aveva mormorato Cassandra tra i denti, voltandosi a guardarla insieme al Marchese Mikaelson.

«Che succede qui?» Elena aveva alzato gli occhi a quella domanda, giusto per realizzare a chi appartenesse la voce, e un attimo dopo li aveva sgranati.

«Buon uomo, non siate scortese, lasciate andare questa povera ragazza». Completamente controvoglia, l’uomo che pareva un armadio a quattro ante aveva abbandonato la presa su Elena, che si era affrettata ad inchinarsi al cospetto del Marchese.

«Qual è il tuo nome?», aveva chiesto quest’ultimo alla ragazza, ancora sotto shock e col fiatone per le precedenti lotte.

«Elena Gilbert, signore.»

«Elena, ti piacerebbe lavorare per me?»

La giovane non era riuscita a trattenersi dal sorridere, a quella domanda. Lei? Lavorare per il Marchese? Andare a vivere a palazzo? Sembrava fin troppo bello per essere vero e, se non le fosse apparso inadatto, in quel momento, se ne sarebbe accertata dandosi un pizzicotto sul braccio.

«Oh sì, signore. Ne sarei davvero onorata», aveva mormorato in estasi, cercando di non pensare al fatto che, nonostante il suo precedente salvataggio e l’imminente offerta, quell’uomo e il modo in cui la guardava le mettevano i brividi.

«Perfetto», aveva esordito lui, aprendosi in un sorriso che gli aveva fatto scintillare di malizia lo sguardo.

La ricerca del Marchese di una serva di bell’aspetto non era, ovviamente, dovuta solo alla necessità di aumentare di fascino la tenuta. Nella locanda era stato chiaro a tutti fin dall’inizio e molte ragazze erano quasi morte d’invidia nel vedere la scelta dell’affascinante Marchese ricadere sulla più piccola e ingenua tra le cameriere, completamente ignara di ciò che la attendeva.

Quella ragazzina dai riccioli bruni e gli occhi da cerbiatta era parsa allettante, agli occhi di Klaus, da quando l’aveva vista lottare per proteggere la sua virtù. Una vergine. Sarebbe stato divertente e in più, in quel modo, era certo che non avrebbe corso il rischio di contrarre malattie veneree**. Quand’era entrato in quel locale non si era certo aspettato così tanto.

Ma Elena non scoprì mai quali fossero le reali intenzioni del Marchese, perché questi, consigliere del re, venne richiamato nella capitale pochi giorni dopo, senza lasciargli il tempo di godersi a pieno il suo nuovo giocattolino.

Così, Elena era rimasta a lavorare nella tenuta per la Marchesa Rebekah, che aveva scoperto ben presto essere tutt’altro che simpatica. Ma aveva tenuto sempre questa sua antipatia per sé, non aveva alcuna intenzione di mancare di rispetto alla sorella di colui che l’aveva praticamente tratta in salvo. Era grata a quella famiglia come non lo era mai stata a nessuno prima e non si univa mai alle altre cameriere, a tarda sera, quando prendevano a spettegolare e lamentarsi di quanto la Marchesina fosse irritante e viziata.

Rebekah aveva diciannove anni e ancora nessun pretendente alla sua mano – a causa del suo caratteraccio, a detta della cuoca – per cui tendeva a sfogare le sue frustrazioni su chiunque le capitasse tra i piedi. E, visto che i fratelli erano sempre assenti, i malcapitati erano proprio coloro che lavoravano per lei. Non aveva risparmiato neppure la nuova arrivata, anzi, le aveva reso le prime due settimane di lavoro un vero e proprio inferno, facendola sgobbare come Elena non aveva fatto mai. Ma la ragazza non aveva osato lamentarsi neanche mezza volta.

Altro passatempo preferito di Rebekah sembrava essere quello di insultare le sue serve – in modo particolare quelle carine, perché temute – non perdendo mai occasione di ricordare loro che appartenevano al gradino più basso della scala sociale, che erano delle ignoranti e che nessuno che contasse o che le amasse davvero le avrebbe mai sposate. Le serve non potevano permettersi l’amore.

Quelle parole andavano a lacerare sempre di più l’animo romantico che risiedeva in Elena, che dopo aver divorato tutti quei romanzi non ne voleva sapere di rassegnarsi a quello che Rebekah riteneva essere il suo destino. Per quanto sapesse che non ne avrebbe tratto altro che dolore e profonde delusioni, la ragazza non riusciva a fare a meno di sognare ad occhi aperti ogni volta che ne aveva l’occasione, e appuntava nei dettagli ogni sua fantasia sul suo diario, un quaderno dalle pagine ingiallite che suo padre aveva rilegato per lei con una bel tessuto rosso e sul quale lei aveva, in seguito, ricamato il suo nome.

Due mesi di lavoro a palazzo dopo, la Marchesa Rebekah aveva ricevuto la notizia della morte di un lontano zio, residente a Torino, il Conte Giuseppe Salvatore. Era stata Elena a portarle la lettera del cugino su un vassoio d’argento e la ragazza si era meravigliata nel vedere lo sguardo della Marchesa illuminarsi, anziché turbarsi, nel leggere prima il nome del mittente e poi la notizia. Subito, questa aveva ordinato che si cominciassero a fare tutti i preparativi necessari perché, aveva annunciato, sarebbe partita per Torino la settimana seguente.

All’inizio, Elena aveva pensato che quello di Rebekah fosse solo il desiderio di salutare per sempre un vecchio zio come si deve, o di consolare una zia – sempre che ci fosse. Non riusciva a immaginare un animo capace di affetto o compassione in quella ragazza, per quanto si sforzasse, ma non trovava neanche un’altra motivazione che la portasse a lasciare in fretta e furia la casa da cui non si era praticamente mai allontanata, a differenza dei fratelli, dalla nascita.

Ogni suo dubbio trovò una spiegazione un paio di notti dopo, quando non riuscì a trattenersi dall’origliare i soliti pettegolezzi notturni delle altre serve. A quanto pareva, il Conte Giuseppe era vedovo, ma la Contessa, prima di morire, era riuscita comunque a dargli due figli. A far scattare qualcosa in Rebekah non era stato altro che il suo desiderio di sposarsi, e sapeva che i fratelli Salvatore erano non solo due soldati affascinanti che avevano appena ereditato una fortuna enorme, ma persino scapoli.

«In questo momento scommetto che quell’arpia si sta ancora leccando i baffi, al pensiero. Spero solo che la rifiutino entrambi, così magari la smetterà di sentirsi superiore al mondo intero!», aveva ghignato, maligna, una domestica.

La vera sorpresa era avvenuta quando Elena si era sentita ordinare, due giorni prima della partenza, di fare i bagagli perché sarebbe partita insieme a lei.

«Mi scusi?», aveva mormorato sotto shock.

«Sei sorda, per caso? Ho detto che verrai con me a Torino. Ti ho scelta perché sei la meno incompetente e l’unica sveglia tra quella massa di zotici», aveva dovuto ammettere.

«Ma, Signorina… Il Marchese…»

«Ho già scritto a mio fratello chiedendogli il permesso di portare con me la sua sgualdrinella, se è questo che ti preoccupa. Ha detto che va bene. Adesso vai a preparare la tua robaccia, prima che mi penta della mia decisione.» Con queste parole, la Marchesa era uscita dalla stanza lasciando Elena ai suoi pensieri.

Lasciare quel paese? Lasciare la sua casa? Per quanto, poi? Elena non aveva avuto davvero il coraggio di domandarlo alla Marchesa. Non voleva farla stizzire più di quanto lo fosse già di natura.

Senza dire nulla e con lo sguardo di chi stava andando al patibolo, aveva iniziato a raccogliere le sue cose in una sacca da viaggio, nascondendo il diario sul fondo per evitare che qualcuno lo notasse. Aveva salutato le altre serve, anche se con nessuna aveva stretto un vero e proprio rapporto d’amicizia, e queste l’avevano compatita per via del fatto che avrebbe dovuto trascorrere intere giornate in compagnia di Rebekah. Mentalmente e con sarcasmo, le aveva ringraziate per averglielo ricordato.

Si era accomodata in un angolo all’interno della carrozza, preceduta dalla Marchesa, e per tutto il viaggio aveva parlato solo se questa le aveva posto delle domande. A differenza sua, Rebekah non aveva fatto altro che parlare e parlare – il viaggio aveva avuto la durata di quasi ventiquattro ore – e spesso Elena aveva solo finto di ascoltarla. La Marchesa era abbastanza egocentrica da non averci fatto caso.

Ma adesso che la carrozza si avvicinava sempre di più alla capitale, Elena sentì lo stomaco ingarbugliarsi e abbandonò la posa rilassata che aveva tenuto durante tutto il viaggio per una rigida e visibilmente nervosa. Inconsciamente, prese anche a tamburellare con le dita sul sedile, di fianco all’ampia gonna blu dell’abito che indossava.

«Ti dispiacerebbe smetterla?! Mi stai irritando», la fulminò la Marchesa.

«Scusi…», mormorò Elena, giungendo le mani.

«E togliti quell’orribile… coso. Non fa più freddo, non hai motivo di portarlo.»

Elena si affrettò a slegare il fiocco che teneva la sua umile ma calda mantellina nera legata al collo. Invece sì, avrebbe voluto ribattere. Ce l’ho, eccome! Questo “coso” apparteneva a mia madre! È praticamente tutto ciò che mi è rimasto di lei. Ma a che sarebbe servito?

«Dovresti essere grata e fiera di indossare quell’abito, non cercare di nasconderlo. Non ne indosserai mai uno migliore.»

L’abito blu, ricamato di bianco sul corpetto, non apparteneva, infatti, alla sua indossatrice. Era un vecchio ma costoso vestito di Rebekah, che la Marchesa stessa aveva ordinato a Elena di indossare prima di partire per il viaggio. La motivazione era stata la stessa del fratello - «Per non farmi sfigurare» - e Elena, che dopo le spudorate insinuazioni di Rebekah aveva cominciato ad aprire gli occhi sulle reali intenzioni del Marchese, capì da subito che c’era dell’altro, sotto. E, siccome era sveglia, non le ci era voluto molto per fare due più due.

Era universalmente riconosciuto che ormai andava di moda, tra le nobildonne dei ranghi più elevati, possedere una dama di compagnia altrettanto nobile. Ma nessuna donna avente un titolo avrebbe mai desiderato la compagnia di Rebekah Mikaelson. E nemmeno Elena, che gli unici titoli che conosceva erano quelli dei libri che aveva letto. E visto che la Marchesina stessa non era particolarmente incline all’amicizia, era giunta alla conclusione che con i soldi e il potere avrebbe potuto ottenere tutto. E avrebbe aumentato la paga di quella servetta, se necessario, se questa si fosse rifiutata di stare al suo gioco.

Elena adorava il suo nuovo vestito, ma no, non se ne sentiva onorata come la Marchesa avrebbe voluto. L’abito non fa il monaco e, allo stesso modo, questo non rendeva lei una nobildonna, per quanto gliela facesse sembrare. Inoltre, la ragazza detestava mentire. Non era neanche quel che si dice una brava attrice, ed era consapevole che invece le sarebbe toccato recitare a lungo un ruolo che credeva non le si addicesse.

Nonostante ciò, non riuscì a ribellarsi. Quella ragazza di soli due anni più grande di lei, ma dall’aspetto di una donna – forse per via del fatto che sembrava incavolata col mondo per la maggior parte del tempo – le incuteva fin troppo timore. O meglio, le incuteva timore ciò che avrebbe potuto fare, ovvero sbatterla nuovamente per la strada e costringerla a tornare in un localaccio come quello in cui aveva lavorato precedentemente.

In silenzio, Elena iniziò ad assumere una posizione più eretta, sollevando di poco il mento, rassettandosi l’abito, per poi concludere poggiando le mani sul grembo, il tutto con movimenti molto leggeri e aggraziati. Rebekah, osservandola con la coda dell’occhio, se ne compiacque.

«Dio, ma quanto ci vuole? Cocchiere!», urlò.

Al pover’uomo per poco non volarono le redini di mano, nel sentire il suo ringhio acuto. «Sì, Signorina Marchesa?»

«Dista ancora molto?»

«No, Signorina. Se vi affacciate, alla vostra destra, potete già scorgere la tenuta.»

«Meglio così», concluse Rebekah, senza nemmeno dare un’occhiata fuori dalla carrozza. Non cercava per niente di non dare a vedere che il reale motivo del suo viaggio non era quello di visitare la capitale.

La curiosità di Elena, invece, ebbe la meglio sul suo proposito di comportarsi come una ragazza raffinata e posata. Nell’esatto momento in cui udì le parole del cocchiere, la sua testa ruotò quasi per istinto a destra dove, dietro la chioma di un paio di alberi, si riusciva a scorgere, in lontananza, quella che sembrava essere una villa con un laghetto sul cortile anteriore.

Man mano che ci si avvicinava, il cuore di Elena prendeva a palpitare più velocemente, da un lato perché era tesa, dall’altro perché quel palazzo sembrava, se possibile, anche più incantevole di quello dei Mikaelson.

Quando la carrozza attraversò l’alto cancello in ferro battuto - tutto ghirigori, intrecci e una rosa al centro, che si divideva quando questo veniva aperto – la bellezza di quel luogo le tolse letteralmente il fiato.

Intorno a loro, tutto era verde ma punteggiato di mille diversi colori. Procedendo lentamente era più facile distinguere i singoli fiori, piantati con precisione quasi assurda e le cui tonalità ricordavano i colori dell’arcobaleno, ma capovolti: lì dove terminavano i ciclamini, iniziavano le viole, subito seguite dai nontiscordardimé, e così via fino ad arrivare agli sgargianti papaveri. Al centro esatto del giardino, il laghetto che Elena aveva scorto poco prima era diventato decisamente più grande e, poco più avanti vi erano un paio di piccole fontane di pietra, con su scolpite due splendide veneri dai capelli lunghissimi.

Quando la carrozza sostò proprio di fronte alla tenuta, Elena per poco non fu costretta ad asciugarsi la bava dalla bocca. Un enorme e lussuoso palazzo bianco e oro, con una larga scalinata in marmo che pareva non finire mai al centro, grandi finestre sia ai piani inferiori che ai superiori, due balconi in quelle che dovevano essere le camere da letto – la ragazza sospettò che sul retro ne avrebbe trovati degli altri – e un’ampia veranda al secondo piano. Le tende bordeaux della portafinestra aperta della veranda, svolazzarono leggermente, ma abbastanza perché Elena scorgesse quella che di sicuro era una biblioteca altrettanto maestosa e il suo cuore perdesse un battito.

«Benvenuti a Palazzo Veritas», annunciò una voce maschile sconosciuta, mentre le due donne, a turno, si preparavano a lasciare l’abitacolo della carrozza.

«Oh, Stefan, Damon! Miei cari cugini! Che gioia rivedervi!», stava cinguettando Rebekah mentre veniva aiutata, probabilmente proprio da uno dei due cugini, a scendere dalla carrozza.

Elena fece un lungo respiro prima di seguire la Marchesa. Quando i suoi riccioli castani - acconciati in modo tale che non le ricadessero sul viso, ma le scendessero tranquilli sulla schiena, fino alla sottilissima vita – fecero capolino dalla carrozza, quasi sgranò gli occhi nel vedere che una grande, affusolata e pallida mano era tesa, a palmo in su, proprio verso di lei.

Qualcuno la stava aiutando a scendere.

Tutta la preparazione di Elena, durante il viaggio, per cercare di comportarsi come una nobildonna abituata ad essere trattata con rispetto, andò a farsi benedire quando, nell’alzare lo sguardo, si scontrò con due iridi color del ghiaccio.

 

 

*In “Elisa di Rivombrosa”, il padre della protagonista era un rilegatore di libri. Non si tratta, quindi, di un’idea di mia fantasia.

**Molto diffusa, al tempo, la Sifilide, proprio perché gli uomini (nobili compresi) erano soliti frequentare i bordelli.


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Angolo di un'autrice che al momento si sta godendo il sole in veranda col pc


Buona domenica a tutte voi!

Non amo commentare i miei capitoli. Questo è un compito che spetta a voi. A me rimangono da fare tre cose.

Cosa numero 1: Scrivere piccoli chiarimenti.

Allora, tanto per cominciare (se ancora la cosa non vi fosse apparsa chiara) io detesto Rebekah. Se c'è qualcuna di voi che la adora, beh, liberissime di leggere ma vi assicuro che non la vedrete MAI diventare buona e cara nel corso della fanfiction. Nemmeno per Klaus nutro particolare affetto (anche se lo trovo veramente tenero nelle scene con Caroline :3). La storia, come già detto, è ambientata in Italia, ma avrete notato che nomi e cognomi di molti personaggi sono stranieri: ma è una fanfiction, mica posso cambiare i nomi dei personaggi, non avrebbe più molto senso, a mio parere. Ah, il personaggio di Elena potrà sembrare a molti OOC. Col tempo, vi assicuro che la Elena che conosciamo verrà fuori, ma bisogna considerare che vive in un periodo in cui la donna l'emancipazione non la vedeva neanche col binocolo e per di più è una serva. Essere la Elena-ribelle a quel tempo non le sarebbe stato facile come ai nostri giorni, ma resta sicuramente la Elena coraggiosa e altruista che conosciamo, e qualche capitolo più avanti avrete sicuramente modo di accertarvene.

Cosa (che mi resta da fare) numero 2: Ringraziare le 8 persone che hanno inserito la FF tra le seguite, quell'unica persona che l'ha inserita tra le storie da ricordare, le 6 persone che l'hanno inserita tra le preferite e le 9 persone che hanno recensito.

Cosa (che mi resta da fare) numero 3: Augurarmi che il capitolo sia stato di vostro gradimento e che riceverò altre splendide recensioni come quelle del Prologo. :)

Un bacio,

Lisa

   
 
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