Capitolo 1: God save the Queen
Merda.
Merda. Merda.
Non riuscivo
a smettere di pensare a che schifo di giornata mi sarebbe spettata. La
donna
seduta davanti a me continuava a fissarmi. Me ne ero accorta
già da un po’.
Alzai la testa e le feci segno con la testa, come a voler dire
“E tu che cazzo
vuoi?”. Lei mi guardò sulla difensiva e poi volse
il suo sguardo accusatore da
un’altra parte. Sbuffai sonoramente. Odio essere fissata da
gente che non
conosco. In realtà anche da chi conosco. Mi fa sentire come
se mi stessero
giudicando. E a me non piace essere giudicata. Il gracchiare
dell’altoparlante
mi riportò alla realtà: “I passeggeri
del volo L6755 con destinazione Londra
sono pregati di raggiungere il gate numero 5”
Merda. Mi ritrovai a pensare per l’ennesima volta.
Mi alzai da
quello scomodo seggiolino di plastica dove da ormai un’ora e
mezza aspettavo
impaziente quell’annuncio. Mi guardavo intorno con aria
circospetta, aspettando
che qualche poliziotto mi fermasse per perquisirmi. . Mi comportavo
come se fossi
stata una terrorista alle prime armi. Ma non nascondevo una bomba.
Né armi, né
droga. Non so spiegarlo, ma in aeroporto mi sono sempre comportata in
quella
strana maniera. Come se nascondessi qualcosa. Avevo lo sguardo basso e
procedevo a passo spedito verso il gate numero 5. Il cinque
è il mio numero
fortunato, ma in quell’occasione mi ritrovai a pensare a
quanta sfiga potesse
celare. “E guarda dove vai!” esclamai acida ad un
uomo che mi aveva sbattuto
addosso. Neanche si scusò. Correva come un ossesso con il
suo mini-trolley in
mano. Sospirai ancora. Mi accorsi che al gate numero 5 si era formata
una coda
anomala. Maledetti inglesi. Se non
dovessi salire anche io su quell’aereo, pregherei
perché cascasse in mezzo
all’oceano .I miei pensieri, tutt’altro
che gentili, vennero nuovamente
interrotti da una mano che si era posata sulla mia spalla. Stavo per
mettere in
pratica quelle tre lezioni di difesa personale a cui avevo partecipato,
quando
mi accorsi che una signora dal viso cordiale mi guardava sorridendo.
“Dovresti
andare avanti, o rimarremo tutti qui” disse, facendomi notare
di aver bloccato
il flusso di gente che doveva oltrepassare il gate numero 5.
“Scusi” dissi
imbarazzata, abbassando lo sguardo e procedendo a passo svelto verso le
hostess
sedute stizzite. Porsi loro il mio biglietto e il mio passaporto e dopo
aver
constatato che quella sua foto del mio documento ero io e dopo avermi
consegnato solo parte del mio biglietto mi apprestai a raggiungere
l’aereo
attraverso il corridoio vetrato alle loro spalle. Sarei arrivata a
Londra la
mattina seguente. Un viaggio stancante che mai nella vita avrei
rivoluto fare.
Ma il destino con me è sempre stato bastardo. Salita in
aereo, uno steward poco
più grande di me mi accompagnò in prima classe.
Non sono mai stata in prima
classe quando ero bambina: pensavo che potessero andare solo chi avesse
una
ventiquattrore. Sorrisi a quel pensiero. Effettivamente me ne ero
autoconvinta
quando avevo sette anni. L’anno dopo avevo chiesto a mia
madre di comprarmi una
ventiquattrore in miniatura e quando salii in aereo una hostess mi
fermò poco
prima che riuscissi a varcare la tendina che separa la prima classe da
quella
economica. A quel punto mi convinsi che erano i bambini a non erano
ammessi.
“Accomodati pure lì” mi disse
gentilmente lo steward, con un odioso accento
inglese. “Grazie” dissi, sedendomi (o meglio
stravaccandomi) sul sedile largo e
comodo. Niente a che vedere con i
Poco dopo lo vidi rientrare, ma non
si fermò. Proseguì e si
fermò in mezzo alla prima classe. La voce del pilota
risuonò nell’aereo
“Buonasera a tutti sono il capitano Monroe e vi do il
benvenuto su questo volo
in partenza da New-York JFK con destinazione Londra. Sono le ore 3 e
nove
minuti e il tempo è pressoché sereno. Il
tempo stimato di volo è di circa 6 ore e quaranta minuti:
arriveremo
all’aeroporto di Heathrow alle ore nove e cinquanta. In
attesa di nuovi
aggiornamento, a presto e buon viaggio”. Lui era americano.
Si sentiva
dall’accento molto più sciolto e giovanile. E per
un momento mi sentii a casa.
Hostess e steward si apprestarono a mimare i movimenti nel caso di
incidente
aereo. E’ la parte che più odio durante un volo.
Mi infilai le cuffiette
dell’Ipod e iniziai ad ascoltare un po’ di sana
musica, chiudendo gli occhi e
aspettando di decollare. I think we have an emergency, I
think we have an emergency. No, non era la canzone
più adatta da ascoltare su un aereo
mentre decollava. God save the Queen.
Sorrisi. L’avevo scaricata sapendo della mia imminente
partenza per Londra. A
cosa mi ero ridotta. Sentii tirarmi giù una cuffietta
dall’orecchio “Ehy,
ragazzina. Avresti dovuto ascoltare. In caso di disastro aereo, non
saprai come
muoverti” mi disse lo steward sorridente come al solito.
“Ci sarai tu ad
aiutarmi” gli dissi alzando un sopracciglio. “Vuoi
qualcosa da mangiare?” mi
chiese, appoggiandosi lievemente al mio sedile. “Dolci,
qualsiasi tipo, ma che
siano dolci” dissi quasi pregandolo. Lui rise divertito e
sparì dietro la
tendina. In quel momento sperai che a Londra fossero tutti come lui. Ma
sapevo
di sbagliarmi. Dove stavo andando non c’era nessuno di
gentile e amichevole.
Sospirai e nemmeno mi accorsi del suo ritorno. “Ho detto alle
mie colleghe che
eri una donna incinta e per questo mi hanno detto di non farti pagare
niente”
Mi posò sul tavolino davanti a me una cascata di schifezze
che alzarono i miei
livelli di zucchero nel sangue solo a guardarli. “Vedi di non
esagerare. Non vorrei
intrattenere una chiaccherata con te in bagno” Per la seconda
volta non riuscii
a non ridere. Scartai un pacchetto di M&M’s e gliene
offrii “Paga la
American Airlines” dissi, notando il suo tentennamento. Mi
sorrise e prese
alcune palline colorate, sedendosi di fianco a me. “Come mai
a Londra?” mi
chiese aprendo una confezione di biscotti al cioccolato. “Mio
padre abita a
Londra e mi sto trasferendo da lui” dissi. Lui
notò subito il mio disagio. “Ok,
cambiamo argomento. Come ti chiami?”
“Hayley” “Freddie, piacere” ci
stringemmo
la mano. La sua stretta era così salda che quasi sussultai.
Niente a che vedere
con la mia, moscia e insignificante. “Sei inglese?”
gli chiesi, sapendo già la
risposta. “Già, di Birmingham. Si nota
molto?” “Abbastanza” dissi sorridendo.
“Come mai fai lo steward?” mi sembrava una domanda
stupida, ma lui rispose
comunque. “Mi piace volare e stare a contatto con la
gente” “Ah, potevo
arrivarci anche da sola” assunsi l’espressione
sono-una-deficiente che lo fece
ridere. “Alcuni pensavo che io lo faccia perché
sia omosessuale” “Sei gay?”
chiesi d’impulso sgranocchiando una manciata di
M&M’s. “Se fossi stato gay
di sicuro non mi sarei messo a parlare con te, ma con quel ragazzo
laggiù” disse,
indicandomi un ragazzo di circa diciotto anni, con il volto stracarico
di acne
e una pancia non propriamente invidiabile. “Penso che anche
in quel caso
avresti parlato con me, piuttosto che con lui” dissi,
guardando il ragazzo
lontano da noi. “Forse. E tu che fai? Studi o
lavori?” “Ho abbandonato un paio
di mesi fa giornalismo” “Come mai?”
“Sapevo che mi sarei dovuta trasferire a
Londra” dissi, risprofondando nell’amarezza. Lui mi
guardò “Anche a Londra ci
sono delle facoltà del genere”
“Già, ma a mio padre non sarebbe andata
bene”
sospirai. Sentivo solo il suo sgranocchiare biscotti. “Ti
piacciono eh?!”
dissi, mettendolo in imbarazzo. “ “Non posso farne
a meno, quando volo. Ne hai
mai assaggiato uno?” “Non vado pazza per i
biscotti” “E come farai all’ora del
thè?” disse stupito, guardandomi aspettandosi una
risposta. “Io…non..” “Sto
scherzando.. tipico umorismo inglese, preparati perché ne avrai a che fare tutti
i giorni” Perfetto.
“Vuoi dormire un po’?” mi
chiese, evidentemente notando il mio viso sconvolto. Annuii
imbarazzata. Mi
piaceva parlare con Freddie, ma il sonno stava prendendo il
sopravvento. “Ti
sveglierò all’arrivo” disse alzandosi
dal sedile su cui si era seduto e
sparecchiando il tavolino pieno di cartacce. Mi addormentai come un
sasso, non
appena posai lo sguardo fuori dal finestrino. Non si vedeva nulla. Il
vuoto
assoluto. Proprio come quello che c’era nella mia testa nel
pensare a quanto
poco tempo mancava al mio arrivo a Londra.
Fui svegliata da un maledetto raggio
di sole che puntava
dritto al mio occhio destro. Sbadigliai sonoramente “Stavo
giusto per venirti a
svegliare. Dormito bene?” la voce pimpante di Freddie mi fece
voltare. Non
avevo notato quanto fosse carino. Lineamenti dolci, carnagione marmorea
e
capelli neri come i suoi occhi. Era alto e slanciato. Sperai di non
avere il
solito rivolo di bava mattutina che mi attraversava metà
faccia. Annuii. “Allacciati
la cintura” era un ordine gentile, quasi scherzoso.
Probabilmente già si
aspettava che non l’avrei fatto. Mi portò un altro
schifosissimo caffè.
“Davvero, non c’è nessun altro che possa
farmi un caffè decente?” dissi,
notando quanto la mia voce fosse rauca di prima mattina. “E
io che l’ho fatto
con tanto amore!” rispose facendo il finto imbronciato. Presi
la tazzina e
buttai giù quell’intruglio disgustoso.
“Grazie a Dio non lavori in una
caffetteria. Ti avrebbero licenziato in tronco” dissi io,
scherzando. “O forse
avrei imparato a fare i caffè più buoni del
mondo” “Ne dubito”. Mi sorrise.
Tornò a sedersi con le sue colleghe al di là
della tendina. Una sensazione di
angoscia e solitudine mi pervase il corpo. Scendere da
quell’aereo significava
andare incontro a un destino che non mi piaceva affatto. Non avrei
trovato
gentilezza e affetto fuori di lì. Ma indifferenza. Totale
indifferenza nei miei
confronti. Il
comandante dell’aereo ci
salutò con garbo. Sarebbe stato l’ultima persona
americana che avrei sentito
parlare. “Hayley! Meno male, non sei ancora scesa”
Freddie mi corse incontro.
“Devi darmi un altro schifoso caffè da
bere?” gli chiesi scherzosa mentre
tentavo di tirare giù il trolley dalla cappelliera sopra di
me. Ci pensarono
lui e la sua altezza ad aiutarmi in quell’impresa. Mi
ricordai in quel momento
che poco prima del decollo era stato sempre lui ad infilarlo
lì dentro. “Grazie..”
bisbigliai, imbarazzata dal mio metro e 55 scarso. “Senti, mi
piacerebbe
sentirti” era rosso come un pomodoro. Risi divertita
“Scusa, ma ti pare che
arrossisci a quel modo?” gli chiesi, col mio solito tatto da
elefante. “Quindi
non è un problema se ci scambiamo i numeri di
telefono?” sembrava un bambino a
Natale. Hayley Doherty, fai sempre colpo.
Sorrisi modestamente e gli diedi il mio numero. “Ti
chiamerò” mi baciò sulla
guancia e mi accompagnò all’uscita
dell’aereo. Sentii chiaramente una sua
collega dirgli “E scommetto che quella ragazza sarebbe la
donna incinta con
voglie di dolci. Sei proprio un idiota, Freddie”
“Sta zitta Beth” lo sentii
rispondere ridendo, mentre varcavo la porta che mi separava dal suolo
britannico. Io e il mio piccolo trolley vagammo alla ricerca
dell’uscita. Non
riuscivo a trovare un maledettissimo cartello che mi indicasse la via
giusta da
seguire. Poi come se fosse stato sempre lì ad aspettarmi
vidi un cartello sopra
la mia testa. Uscita. Non so se
fosse
stata la carenza di sonno o il mio non voler uscire
dall’aeroporto a non farmi
trovare ciò che stava sotto al mio naso, o meglio sopra la
mia testa. Sospirai
un ultima volta prima di varcare la porta scorrevole che avrebbe
ridotto le
distanze tra me e la mia famiglia.
Vidi solo un foglio bianco. Haylee Doherty. Anche se il nome era
scritto in
modo errato, dovevo essere sicuramente io. Mi avvicinai. Rimasi
pietrificata.
“Che ci fai qui?” chiesi al ragazzo che reggeva il
cartello. Lui mi squadrò da
capo a piedi, dietro gli occhiali da sole, che avrebbero dovuto dargli
un’aria
da bello e dannato. Peccato che la totale assenza di sole lo rendevano
un
perfetto idiota. “Non mi saluti nemmeno,
sorellina?” mi disse lui, col suo solito tono
gelido che usava solo ed
esclusivamente con me. Adam non era mio fratello. O meglio, non di
sangue. Era
il figlio maggiore della nuova moglie di mio padre. Nuova mica tanto,
dato che
erano più di 13 anni che erano sposati. “Vedi di
muoverti” disse, iniziando a
camminare velocemente. “Vuoi rallentare un po’?! Io
mi sono appena svegliata”
gli sbraitai raggiungendolo. “E io non sono ancora andato a
dormire. Quindi
vedi di muoverti” disse puntando l’indice sulla mia
fronte. Lo faceva sempre
quando eravamo piccoli. E mi dava fastidio quanto allora. Sbuffai
spazientita.
Erano anni che non lo vedevo. Non che mi avesse fatto molta differenza.
Entrai
in macchina, dopo aver appoggiato non proprio delicatamente il mio
trolley sui
sedili posteriori. “Vuoi stare attenta? Sai quanto costano
quei sedili?” Roteai
gli occhi al cielo con espressione plateale. In quella macchina, se
avessimo
potuto, ci saremmo sbranati letteralmente. Incompatibili. I nostri
genitori lo
dicevano sempre. “E dove sei stato fino a
quest’ora?” chiesi cordiale, tentando
di approcciare una qualche tipo di conversazione. “Non sono
cazzi tuoi” Incominciamo bene.
Neanche mezzo minuto
in macchina insieme e già eravamo a queste frasi cariche
d’amore reciproco.
Sbuffai. “Vedi di farti una doccia a casa. Puzzi
d’America.” Mi congelò
divertito. Mi morsicai la lingua e trattenei la rabbia, per evitare di
saltargli alla gola in preda ad un raptus. Guardai fuori dal finestrino
e
accesi l’Ipod, chiaro segno del non voler più
parlare con lui.
God
save the queen
The fascist regime
They made you a moron
Potential H-bomb
God save the queen
She ain't no human being
There is no future
In England's dreaming
Don't be told what you
want
Don't be told what you
need
There's no future, no
future,
No future for you
God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves
God save the queen
'Cause tourists are money
And our figurehead
Is not what she seems
Oh God save history
God save your mad parade
Oh Lord God have mercy
All crimes are paid
When there's no future
How can there be sin
We're the flowers in the
dustbin
We're the poison in your
human machine
We're the future, your
future
God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves
God save the queen
We mean it man
And there is no future
In England's dreaming
No future, no future,
No future for you
No future, no future,
No future for me
No future, no future,
No future for you
No future, no future
For you
Benvenuta in
Inghilterra, Hayley Doherty. Feci per accendermi una
sigaretta “Adesso fumi
pure?” mi chiese il mio odioso fratellastro, divertito.
“E’ illegale per caso?”
sputai velenosa. Lui rise “Fa un po’ come ti
pare” sentenziò. Abbassai il
finestrino e mi accesi una sigaretta. Non ero una fumatrice accanita,
ma in
quella situazione ne avevo abbastanza bisogno.
“C’è uno Starbucks vicino
casa?”
chiesi aspirando del fumo. “Sì” rispose
semplicemente. Questo voleva dire che
me lo sarei dovuto trovare da sola. “Senti per la mia salute
mentale, possiamo
cercare di andare d’accordo?” ero disperata. Volevo
almeno un alleato dalla mia
parte. “Scordati di immischiarmi nei tuoi problemi con il tuo
vecchio.” Era più
perspicace di quello che mi ricordavo. “Per favore. Ho
bisogno di un amico”
buttai lì, tentando di risultare il più disperata
possibile. “La smetti di
rompermi i coglioni?” esclamò gelido, come al
solito, piombando in un silenzio
innaturale. Arrivammo a casa. Non mi aspettò nemmeno.
Salì le scale, aprì la
porta e la richiuse sbattendola. “Stronzo”
bisbigliai, con il mio trolley in
mano. Salii le scale con passo lento. Una condannata a morte. La porta
si era
chiusa e non avendo le chiavi fui costretta a suonare il campanello. E
nessuno
venne ad aprirmi. Questo significava che in casa c’era solo
Adam. Cazzo. Aspettai un
po’, ma la musica
assordante proveniente dal piano di sopra mi fece intuire che anche se
avessi
bussato come un’ossessa non avrebbe sentito niente. Ricordai
che quando ero
piccola, nella loro vecchia casa, mi arrampicavo su un albero nella
parte
posteriore dell’edificio. Decisi quindi di constatare se
anche lì c’era la
traccia di un albero, ma arrivata dall’altra parte della casa
trovai il
giardino vuoto. Lanciai il mio trolley sul muro, visibilmente
scocciata. Mentre
mi arrampicavo sulla tubatura principale sentii un tossicchiare
dall’altra
parte del giardino “Mio fratello mi ha chiusa fuori e non ho
le chiavi” dissi
alla donna, intenta a innaffiare il suo piccolo giardinetto.
Annuì,
sorridendomi. E io continuai la mia scalata. Da quel lato della casa la
musica
era più forte. La camera di Adam doveva essere proprio al di
sopra della mia
testa. Rischiai di cadere un paio di volte ma riuscii a raggiungere la
sua
finestra, che era leggermente aperta. Lo vidi sdraiato sul suo letto,
che
leggeva una rivista. Spalancai la finestra e mi buttai in camera sua.
Nemmeno
se ne accorse. Avevo le mani sporche di sangue che bruciavano da
impazzire.
Tirai un calcio contro il suo letto “Stronzo” dissi
prima di uscire dalla sua
camera sbattendo la porta. Mentre scendevo le scale, lo sentii spegnere
la
musica e aprire la porta. “Cristo santo mi hai fatto prendere
un colpo! Ma da
dove cazzo sei sbucata?” sbraitava mentre mi raggiungeva.
“Mi hai chiuso fuori,
brutto deficiente! Mi sono dovuta scorticare le mani per arrampicarmi
alla tua
finestra!” ero più che incazzata. Se le mie mani
non fossero state ridotte a
quel modo, gli avrei tirato un pugno in faccia. “Ti sei
arrampicata?” chiese
meravigliato. Poi mi prese una mano e prese a fissarla. I suoi occhi
azzurri
guardavano il sangue. “E’ solo un
graffio” “Ma vaffanculo! Non è solo un
graffio! Fa male!” Lo vidi sbuffare. Mi trascinò
al piano di sopra, in bagno e
mise le mie mani sotto l’acqua fredda. Al contatto con le mie
ferite sussultai.
“Va meglio?” mi chiese, in un modo strano. Quasi
dolce. Lo fissai un attimo.
“Sì, sì” dissi solo. Lui
prese a fissarmi, in quel modo che odiavo tanto. “Come
mai non sei più bionda?” mi chiese
all’improvviso, come se sapere quella
risposta avrebbe salvato il mondo da un attacco nucleare. “Ti
piacevo di più
prima?” chiesi, con tono acido. “No,
così sei più carina” disse uscendo dal
bagno. Lasciandomi lì a bocca aperta, con le mani sotto
l’acqua fredda. Un
complimento. Mi aveva fatto un complimento. Umorismo
inglese, mi ricordai rallentando i battiti cardiaci che mi
stavano facendo
esplodere il cuore nel petto. Chiusi l’acqua e tornai al
piano di sotto per
recuperare il mio trolley. Nella vecchia casa. La mia stanza si trovava
al
piano di sotto. Ma non trovai stanze da letto. “E dove cazzo
dovrei dormire?”
sbraitai rivolgendomi ad Adam al piano di sopra. Lui uscì,
con un barlume di
follia negli occhi. Si scaraventò su di me, mi prese il
trolley e salì come un
razzo per le scale. Aprì una porta confinante con la sua
stanza e lanciò il mio
trolley sul letto. “E ora fammi dormire,
scassacoglioni” me lo disse ad un
centimetro dalla faccia. Sbatté la porta della sua camera e
mi lasciò sola.
Sbuffai irritata e entrai in quella che sarebbe stata la mia stanza per
un
indeterminato periodo della mia vita. Era solo il mio primo giorno a
Londra e
già volevo tornare a casa, a New York. Mi alzai dal letto,
decisa a non voler
pensare alla mia amata città. Decisi di uscire, alla ricerca
di Starbucks.
Quando passai davanti alla porta chiusa della camera di Adam alzai il
dito
medio, soddisfatta. Scesi al piano inferiore e uscii di casa. Il cielo
non
prometteva una bella giornata, ma l’alternativa era rimanere
in una casa
silenziosa a disfare degli scatoli pieni zeppi di cose mie. Starbucks
era più
allettante. Sinceramente non sapevo nemmeno dove mi trovavo. In un
quartiere
molto agiato, a giudicare dalle case che mi circondavano.
C’erano una
moltitudine di persone che passeggiavano intorno a me.
“Scusa, puoi farci una
foto?” mi chiese una ragazza dagli indomabili capelli
castani, mentre mi
tendeva una macchina fotografica. “Certo!” le
risposi sorridente. Lei si mise
in posa di fianco al suo ragazzo, un tipo biondo con la faccia da
schiaffi.
Scattai la foto e le riporsi la macchinetta fotografica. “Sai
per caso dirmi
dove siamo?” le chiesi, risultando completamente deficiente.
Lei rise “Nemmeno
tu sei di qua? Questa è King’s Road”
“Grazie” le dissi realmente grata per
quell’informazione. Se mi fossi persa almeno avrei chiesto
informazioni per
tornare su quella via. Mi lasciarono salutandomi cordialmente. Quella
via era
strapiena di negozi. Mi ritrovai a fissare vetrine che esponevano
vestiti che
nemmeno se avessi venduto l’anima al diavolo avrei potuto
permettermi. Di
Starbucks nemmeno l’ombra. Entrai in una piccola caffetteria
ad angolo,
strapiena di gente. “Un caffè macchiato con
panna” chiesi al bancone, attirando
l’attenzione di una cameriera. Mi servì il mio
caffè. Cristo santo. Era
decisamente più buono di quello di Starbucks.
Manna dal cielo per le mie papille gustative. “Ti
piace?” chiese lei, divertita
dalla mia espressione estasiata. “Decisamente. Ero abituata
ad altro”
“Americana?” “Già.”
“Sono stata nel Maine, ma non mi sembri di
lì” “New York”
risposi semplicemente. Si scusò e tornò a servire
gli altri clienti. Pagai una
fortuna quel caffè, ma valeva ogni singola sterlina spesa.
Uscii dalla
caffetteria e una mano mi bloccò per un braccio.
“Che cazzo hai in quel
cervello bacato? Potevi almeno avvisare che uscivi!” la voce
di Adam attirò
molti sguardi indiscreti. “Non pensavo fosse un
problema” dissi seccata. Se
c’era una cosa che odiavo più di Adam, era
attirare l’attenzione. “Stavi
dormendo e se ti avessi detto che uscivo probabilmente mi avresti
mandata a
fanculo” dissi, trattenendo la calma. Lui mollò il
mio braccio. “Bhè, dato che
non conosci la zona ti avrei accompagnata!” Iniziai a ridere.
“Tu mi avresti
accompagnata? Ma non mi prendere per il culo! So cavarmela benissimo da
sola”
“D’accordo” disse stizzito, prima di
voltarsi e tornare a casa. Più gli anni
erano passati e più Adam aveva perso neuroni. Mi girai dalla
parte opposta rispetto
a dove era andato lui e cominciai a camminare nervosa. Sbuffavo come
una
locomotiva. Poi lo vidi. Un piccolo negozio di dischi e libri. Entrai
come
attratta da una calamita immaginaria e fui come accolta in paradiso. CD
e libri
che riempivano immensi scaffali di legno. Una leggera pacca sulla
spalla mi
fece voltare “Cerchi qualcosa?” l’uomo
davanti a me doveva avere circa trenta
cinque anni. Le braccia erano ricoperte di tatuaggi e sul sopracciglio
destro
spuntava un piercing. “Nulla in particolare”
risposi sorridendo. Mi inoltrai in
quella coltre di album ordinati in ordine alfabetico con cura e
devozione. Come
qualsiasi patito di musica farebbe. Come io facevo a New York. Mi legai
i
capelli in una coda alta, decisa a passare l’intera giornata
in quel posto. A
costo di essere chiusa dentro durante la pausa pranzo. Non mi
importava. Le mie
dita scorrevano lungo la plastica degli album. “PumpinkPunkerz”
sussurrai. Era un gruppo quasi sconosciuto in tutto
il mondo, tranne che a New York. Avevo prestato il mio CD a un mio
compagno di
corso, che non si era degnato di restituirmelo. Lo presi tra le mani.
“Sei la
prima persona che prende in mano quel CD” mi disse
l’uomo tatuato di poco prima
comparendomi alle spalle. “E’ un gruppo
forte” dissi, sminuendo di gran lunga
ciò che riuscivano a creare con la musica. “Li
conosci?” mi chiese curioso. “A
New York sono delle leggende” dissi vomitando tutta la stima
e la venerazione
che provavo nei loro confronti. “Già, avrei dovuto
immaginarlo. Solo una di New
York può volere un CD dei Pumpink” disse
sorridendomi. “Sei in vacanza?” “Mi
sono appena trasferita e curiosavo in giro” dissi continuando
a guardarmi
intorno. “Allora, immagino ci vedremo più
spesso” disse, poi si voltò “Quello
puoi tenerlo. Te lo regalo” disse accarezzandomi i capelli.
“Grazie” risposi
estasiata. Se mi
avesse chiesto in
cambio dei favori sessuali, avrei accettato. Mi sarei prostituita per
quel CD.
Non uscii dal negozio. Mi persi lì dentro per tre ore piene.
“Ehy, newyorkese!
Stiamo chiudendo” mi disse l’uomo tatuato, che a
quanto sembrava era il
proprietario del negozio. “A che ora riaprite?” gli
chiesi senza indugio. “Ah,
ti va male! Oggi siamo aperti solo per mezza giornata” Sentii
un baratro
aprirsi sotto i miei piedi. “Bhè, domani siete
aperti, no?” “Certo, certo! Ci
vediamo domani” “Ci vediamo domani”
ripetei, tenendo ben saldo il mio CD dei
PumpinkPunkerz tra le mani e uscendo dal negozio. Decisi di tornare a
casa per
evitare di spendere altri soldi in cibo. Suonai il campanello. La
figura alta
di Adam mi squadrava, come al solito, da capo a piedi. “Ti
sei degnata di
tornare” “Avevo fame” risposi, cercando
di entrare in casa. Lui però mi fermò
prendendomi per la vita. E mi sorrise. Un sorriso che mai
potrò dimenticarmi.
Un sorriso che non mi aveva mai fatto. Rimasi immobile, poi notai la
sbucciatura sulla sua mano. “Ti sei chiuso fuori pure
te?” gli chiesi
divertita. “Ma vaffanculo!” mi rispose. Non era una
delle sue solite risposte
gelide. “Ti porto fuori a mangiare” mi disse
spingendomi leggermente
all’indietro. “Possiamo anche stare in
casa” “La domestica non c’è e
se ricordo
bene né tu, né io abbiamo un buon rapporto con la
cucina.” E aveva ragione: da
piccoli avevamo cercato di cucinare delle frittelle per i nostri
genitori, ma
eravamo finiti col dare fuoco a mezza cucina. Fu l’unica
volta in cui ci
divertimmo insieme. Poi iniziammo ad odiarci.
“Cos’è?” mi chiese una volta
in
macchina, indicando con il viso il CD che tenevo in mano. “Un
CD” risposi
semplicemente. “Lo vedo anch’io che è un
CD, ma di chi è?”
“PumpinkPunkerz”
risposi, rigirandomi l’album tra le mani.
“Chi?” Come pensavo, non li
conosceva. Strappai la plastica che circondava il CD, lo estrassi e lo
infilai
nella radio della sua macchina. C’mon
C’mon . Battevo il ritmo con la mano sul mio
ginocchio, mentre la musica
riempiva la macchina. Adam sembrava gradire. “Ma chi cazzo
sono?” mi chiese
alzando la voce, per farsi sentire. “Un gruppo di New
York” risposi guardandolo
negli occhi. Lui riprese a guardare la strada, mentre Freaky
Patrick’s Day iniziava con il suo assolo di
chitarra
elettrica. Quando fermò la macchina ero seriamente
intenzionata a non scendere
dall’auto, fino a che non avessi sentito tutte le tracce
dell’album. Ma il mio
stomaco petulante reclama cibo. “Ciao Ian!” Il mio
odioso fratello salutò un
uomo tarchiato di circa cinquant’anni, che da come si
guardava intorno in cerca
di clienti, doveva essere il proprietario di quel ristornate.
“Oh, Adam! Tutto
bene?” “Sì, sì. Riesci a
trovarmi un tavolo per due?” chiese con gentilezza.
Gentilezza con cui non si era mai rivolto a me. L’uomo mi
guardò e gli strizzò
l’occhio. “E’ mia sorella”
disse Adam roteando gli occhi al cielo.
“Savannah?!”
esclamò senza crederci. “Ti sembra Savannah?
E’ l’altra sorella.
Quella di New York” disse, togliendo ogni dubbio
all’uomo. “Ah, già. Bene, entro e vedo
se ci sono tavoli liberi”. Tornò poco
dopo con un sorriso idiota dipinto sul viso. “Prego,
seguitemi”. Ci portò nel
retro, in un giardinetto isolato dal resto del ristorante. Tipico posto
strategico per far mangiare una coppietta innamorata. Sia io che Adam
alzammo
un sopracciglio. “Dici che l’ha capito che sono tua
sorella, o ha solo fatto
finta?” gli bisbigliai, assicurandomi che solo lui sentisse.
L’uomo mise una
rosa rossa in un piccolo vasetto al centro del tavolo e ci
augurò un buon pranzo.
Di controvoglia mi sedetti e iniziai a sfogliare il menù.
Spalancai gli occhi e
quasi mi strozzai con un grissino quando notai i prezzi esorbitanti.
Adam
iniziò a ridere “Dovresti vedere la tua
faccia” “Dovresti vedere i prezzi
invece che star lì a ridere. Andiamo da MacDonald, almeno
sono sicura di poter
pagare quello che mangio” dissi alzandomi dalla sedia.
“Per questa volta pago
io” Non so se fu quel suo ‘pago io’ o
quello sguardo azzurro come il ghiaccio
che mi fecero risedere senza muovere obiezioni. Ma non mi feci scappare
quell’opportunità e ordinai come se non mangiassi
da anni. Mi abbuffai come una
cavernicola, sotto il suo sguardo disgustato. “Diventerai una
grassona” mi
disse, mentre a forza tentavo di trangugiare l’ultimo pezzo
di bistecca rimasto
nel mio piatto. Mi stravaccai sulla sedia ignorando il suo commento e
piena
come un elefante sussurrai “Non ce la faccio
più” Lui iniziò a ridere. Una
risata realmente divertita. Come da anni non gli vedevo fare. Lo
guardavo
stranita e lui se ne accorse “Che
c’è?” chiese tra le risate.
“Non ricordavo la
tua risata” dissi piantandogli gli occhi addosso. Lui smise
di ridere e
seriamente mi disse “Nemmeno
io ricordo
la tua. E prima di oggi, non ricordavo nemmeno la tua
faccia”. Fu come prendere
un potente schiaffo in faccia. Eppure ero sua sorella.
“Ricordavi che ero
bionda, però” “Pochi giorni fa ho visto
una nostra foto da piccoli” Un pugno
nello stomaco. Senza rendersene conto mi stava mettendo KO. Insensibile
pezzo
di idiota. Io ricordavo tutto di lui, dai suoi capelli castani, ai suoi
occhi
glaciali, ai suoi tratti marcati e duri. Possibile che gli fossi
proprio così
indifferente? Abbassai lo sguardo. “Voglio tornare a
casa” dissi, con fare
capriccioso. Lui sospirò e si alzò dalla sedia.
Lo aspettai in macchina mentre le note di Childhood
dei PumpinkPunkerz mi entrarono nel cervello, perforando
ogni ricordo di Adam.
Aprì la porta di casa e
senza dire una parola mi fiondai in
camera mia sbattendo la porta. Non mi faceva bene stare lì.
Volevo tornare a casa.
Nascosi la testa nel cuscino e iniziai a piangere silenziosamente. Non
mi
accorsi nemmeno che la porta della mia stanza si era aperta.
“Perché piangi?”
mi chiese avvicinandosi al mio letto. “Vattene fuori, Adam.
Non ho voglia di
perdere tempo a farmi insultare” dissi singhiozzando. Lo
sentii ridere. “Che
cazzo hai da ridere?!” sbraitai guardandolo negli occhi.
“Scusa, ma il tuo modo
di parlare mentre piangi mi fa ridere” rimasi a bocca aperta
nel guardarlo
ridere della mia disperazione. Mi alzai dal letto e, prendendolo per un
braccio, tentai di sbatterlo fuori dalla mia stanza. Senza riuscire a
muoverlo
di mezzo millimetro. Cosa che lo fece ridere ancora di più.
“Sei una mezza sega,
Lee” disse tra le risate.
Quando
eravamo piccoli mi chiamava Lee. Poi ha smesso proprio di chiamarmi se
non con
appellativi offensivi che ricambiavo con piacere. Non riuscii a non
sorridere a
tutte quelle risate. “Per favore, esci”
più io lo ‘tiravo’ verso la porta,
più
mi sembrava un’impresa degna di uno schiavo
nell’antico Egitto. Lui continuava a
ridere. Allora optai per un’altra strategia. Gli lasciai il
braccio e con le
mani ben salde sulla sua schiena tentai di spingerlo fuori. Ma niente.
Mi
buttai sul letto stravolta. Lui mi prese per i piedi e mi fece cadere
dal
letto, facendomi sbattere sedere e testa sul pavimento.
“Ahia, cazzo Adam! Mi
hai fatto male!” ma ormai ridevo come una matta dato che
aveva iniziato a
trascinarmi per i piedi per tutto il piano di sopra. Fu come tornare
piccoli,
per quel breve momento di follia generale. Era riuscito a tirarmi su di
morale.
L’ultima tappa di quel ‘trascinamento’ fu
la sua stanza. Chiuse la porta e si
mise a cavalcioni su di me. “Che vuoi fare?” gli
chiesi tra l’impaurita e la
divertita. Lui alzò un sopracciglio sorridendo. Capii troppo
tardi le sue
intenzioni. Mi ritrovai a contorcermi come un verme sotto le sue mani,
mentre
mi faceva il più torturante solletico della mia vita.
Ridevamo così forte da
sembrare due idioti. Poi si fermò guardandomi negli occhi.
Dal tanto ridere,
non mi ero accorta di quanto il mio cuore aveva iniziato a galoppare
selvaggio
nella vasta landa della mia gabbia toracica. “Non mi
è mai piaciuto vederti
piangere” ammise senza l’accenno di un minimo di
imbarazzo. “Ok” risposi,
dandomi dell’idiota. “Che cazzo significa
‘ok’?” disse dando voce ai miei
pensieri. “Non lo so” ammisi, assumendo le
sembianze di un pomodoro e
abbassando lo sguardo. Quella volta, però, non
posò il suo indice sulla mia
fronte. Ma un dolce e casto bacio a fior di pelle. Non feci in tempo a
chiedergli perché l’avesse fatto o che
significasse, perché sentimmo la porta d’ingresso
chiudersi e le voci distinte di sua madre, mio padre e della nostra
‘sorella in
comune’. Si alzò come una molla al sentir chiamare
il suo nome dal piano di
sotto. “Vedi di scendere” disse, cancellando
l’Adam giocoso, e ritornando il
mio odioso e gelido fratello. Mi alzai dal pavimento e lo seguii sulle
scale.
Non volevo incontrare mio padre, ma infondo quella era casa sua e
sicuramente
prima o poi avrei dovuto parlarci. “Hayley! Sei sveglia!
Pensavamo stessi
dormendo” disse Jodi, la mia matrigna, abbracciandomi. Sapeva
di vaniglia. I
suoi capelli neri, lisci come seta, le ricadevano sulle spalle
elegantemente,
Niente a che vedere con i miei, mogano, che scendevano sulla schiena
indomabili.
I suoi occhi dorati mi guardavano curiosa, come se stesse aspettando
che
iniziassi a spettegolare su qualcosa. Ma la voce di mio padre,
cancellò quel
contatto visivo. “E’ andato bene il
viaggio?” mi chiese abbracciandomi. “Chi
sei tu? E che ne hai fatto di mio padre?” chiesi sarcastica,
beccandomi una
leggera gomitata da parte di Adam prima che si sedesse sul divano. Mio
padre
rise imbarazzato. Non si era mai avvicinato molto a me, per questo mi
aveva
tanto stupita quell’abbraccio. “Comunque
sì, è andato tutto bene” risposi,
più
rilassata. “HAYLEY!” una ragazza mi si
scaraventò addosso in un abbraccio a
tenaglia. “Come sono felice di vederti!”
esclamò stampandomi due baci sulle
guance. Non era più la bambinetta rompicoglioni che mi
ricordavo. Davanti a me
c’era ormai un donna. Savannah, mia sorella, era la copia
giovanile di Jodi.
Stessi capelli neri corvini e stessi occhi dorati. Aveva ormai 17 anni,
5 in
meno di me, ma ne dimostrava più lei 22 che io. Era alta
quasi Adam con indosso
delle ballerine rasoterra. Probabilmente sfiorava il metro e 80. Ecco
che il
mio complesso sulla mia bassa statura mi tornava a trovare.
“Bhè, io vado a
farmi un doccia” dissi congedandomi e cercando una via di
fuga. Scappai
letteralmente al piano di sopra e mi infilai in bagno alla
velocità della luce.
L’acqua era un toccasana. Rimasi quasi un’ora sotto
l’acqua calda. “Potevi
sforzarti di più” la voce di Adam mi fece
sussultare. “Ma che cazzo fai?! Fuori
di qui, maniaco!” sbraitai dalla doccia. “Non
è colpa mia se ci resti i secoli
qui dentro! E avevo bisogno del bagno!” “Ma chi se
ne frega se avevi bisogno
del bagno, non potevi usare quello di sotto?” Lo sentii
sbuffare. “Se è
occupato come faccio ad usarlo?” Tirai fuori la testa dalla
doccia “E questo
invece ti sembra libero, stupido scimmione?!” Lo vidi
fissarmi. Un’espressione
che un fratello non dovrebbe mai fare nel guardare sua sorella.
“Piantala di star
lì a guardarmi con quella faccia da idiota ed esci di
qui!” Ero rossa, ma non
era colpa del fumo dell’acqua calda della doccia. Era per
come mi guardava
senza dire una parola. Non accennava a muoversi così presi
la prima cosa che mi
capitò tra le mani (la bottiglietta di plastica del
docciaschiuma) e gliela
lanciai contro colpandolo in piena fronte. “Ahia! Cazzo, ma
sei scema? Potevi
uccidermi!” disse mentre si massaggiava la fronte,
“Era quello che volevo fare!”
gridai sciacquandomi lo shampoo dalla testa. Spensi l’acqua e
tirai fuori una
mano dalla doccia. “Renditi utile e passami
l’accappatoio” dissi, sputando
veleno. “Vienitelo a prendere” mi sfidò
malizioso. Tirai fuori la testa “Portami
quel cazzo di accappatoio!” “No” disse
ridendo. “Adam per favore!” dissi
trattenendo la calma, mentre lui rideva prendendosi gioco di me.
“Benissimo,
allora resterò qui” dissi, restando immobile nella
doccia. “Allora fammi spazio!”
Feci appena in tempo a capire ciò che intendeva, prima che
entrasse nella
doccia. Bloccai l’anta della doccia “Provaci ancora
e ti denuncio per molestie
sessuali!” dissi ringhiando come un’invasata. Vidi
il mio accappatoio volare
sopra la doccia e atterrare sulla mia testa “Era
ora” sbuffai acida,
indossandolo. Uscii e me lo trovai in boxer davanti. “Hai
detto la stessa cosa
al tuo professore?” mi chiese con ghigno sulla faccia. Lo
guardai sperando di
aver capito male. Ma il suo ghigno mi faceva intendere il contrario.
L’aveva
detto. Me l’aveva sputato in faccia. Sentii le lacrime
pungermi gli occhi “Stronzo..”
bisbigliai prima di uscire dal bagno e chiudermi in camera mia. Mi
appoggiai
alla porta e scivolai lentamente sul pavimento, stringendomi le
ginocchia al
petto. “Lee, dai stavo scherzando” lo sentii dire
al di là della porta. Cercò
di aprire la porta, ma preventivamente l’avevo chiusa a
chiave. Batté un pugno
contro la porta di legno che ci separava e ringhiò un
“Vaffanculo” e poi sentii la porta del bagno
sbattere
e la doccia aprirsi nuovamente. Come avevo fatto a pensare che lui
fosse
cambiato? Era ancora il solito stronzo, crudele e insensibile Adam
Wilde.
*Cough cough* (colpo di tosse) Sono
lieta di presentare al
pubblico di EFP questa straziante (‘nsomma) storia
d’amore. Sono stata
letteralmente ispirata da “Blowing Bubbles” di
SidRevo che consiglio a tutti
quelli che amano il genere di andare a leggere perché
è M E R A V I G L I O S A
!! Ok, facciamo il punto della situazione: c’è una
ragazza, Hayley, che lascia
NY per motivi a noi (o meglio voi) sconosciuti e si trasferisce dal
padre a
Londra dove vivono anche Adam (il fratellastro odioso), Jodi (la
‘nuova’ moglie)
e Savannah (l’altra sorellastra). Bene, in 3 righe ho
praticamente riassunto
ciò che succede in questo primo capitolo
._.’’ Di solito non mi metto a
scrivere il famoso “ANGOLO DELL’AUTORE”
perché non
so che diavolo scrivere XD Comunque,
essendo la mia prima storia romantica che pubblico vorrei qualche
parere,
giusto per sapere che ne devo fare di questa "cosa" :D A proposito! I PumpinkPunkerz
è un gruppo inventato di sana pianta così come i
titoli delle loro canzoni. La canzone "God save the Queen" che ho
incorporato nella storia è dei Sex Pistol.
Speriamo a riscriverci,
Kiki :D