Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: CookieKay    14/05/2012    3 recensioni
Ci sono due cose a cui Hayley Doherty non rinuncerebbe mai: il caffè di Starbucks e New York. E allora perchè si è trasferita a Londra e beve caffè in una qualsiasi caffetteria piena zeppa di turisti?
Dal primo capitolo: “Adesso fumi pure?” mi chiese il mio odioso fratellastro, divertito. “E’ illegale per caso?” sputai velenosa. Lui rise “Fa un po’ come ti pare” sentenziò. Abbassai il finestrino e mi accesi una sigaretta. Non ero una fumatrice accanita, ma in quella situazione ne avevo abbastanza bisogno. “C’è uno Starbucks vicino casa?” chiesi aspirando del fumo. “Sì” rispose semplicemente. Questo voleva dire che me lo sarei dovuto trovare da sola. “Senti per la mia salute mentale, possiamo cercare di andare d’accordo?” ero disperata. Volevo almeno un alleato dalla mia parte. “Scordati di immischiarmi nei tuoi problemi con il tuo vecchio.” Era più perspicace di quello che mi ricordavo. “Per favore. Ho bisogno di un amico” buttai lì, tentando di risultare il più disperata possibile. “La smetti di rompermi i coglioni?” esclamò gelido, come al solito, piombando in un silenzio innaturale.
Genere: Commedia, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Capitolo 1: God save the Queen

Merda. Merda. Merda.

Non riuscivo a smettere di pensare a che schifo di giornata mi sarebbe spettata. La donna seduta davanti a me continuava a fissarmi. Me ne ero accorta già da un po’. Alzai la testa e le feci segno con la testa, come a voler dire “E tu che cazzo vuoi?”. Lei mi guardò sulla difensiva e poi volse il suo sguardo accusatore da un’altra parte. Sbuffai sonoramente. Odio essere fissata da gente che non conosco. In realtà anche da chi conosco. Mi fa sentire come se mi stessero giudicando. E a me non piace essere giudicata. Il gracchiare dell’altoparlante mi riportò alla realtà: “I passeggeri del volo L6755 con destinazione Londra sono pregati di raggiungere il gate numero 5” Merda. Mi ritrovai a pensare per l’ennesima volta. Mi alzai da quello scomodo seggiolino di plastica dove da ormai un’ora e mezza aspettavo impaziente quell’annuncio. Mi guardavo intorno con aria circospetta, aspettando che qualche poliziotto mi fermasse per perquisirmi. . Mi comportavo come se fossi stata una terrorista alle prime armi. Ma non nascondevo una bomba. Né armi, né droga. Non so spiegarlo, ma in aeroporto mi sono sempre comportata in quella strana maniera. Come se nascondessi qualcosa. Avevo lo sguardo basso e procedevo a passo spedito verso il gate numero 5. Il cinque è il mio numero fortunato, ma in quell’occasione mi ritrovai a pensare a quanta sfiga potesse celare. “E guarda dove vai!” esclamai acida ad un uomo che mi aveva sbattuto addosso. Neanche si scusò. Correva come un ossesso con il suo mini-trolley in mano. Sospirai ancora. Mi accorsi che al gate numero 5 si era formata una coda anomala. Maledetti inglesi. Se non dovessi salire anche io su quell’aereo, pregherei perché cascasse in mezzo all’oceano .I miei pensieri, tutt’altro che gentili, vennero nuovamente interrotti da una mano che si era posata sulla mia spalla. Stavo per mettere in pratica quelle tre lezioni di difesa personale a cui avevo partecipato, quando mi accorsi che una signora dal viso cordiale mi guardava sorridendo. “Dovresti andare avanti, o rimarremo tutti qui” disse, facendomi notare di aver bloccato il flusso di gente che doveva oltrepassare il gate numero 5. “Scusi” dissi imbarazzata, abbassando lo sguardo e procedendo a passo svelto verso le hostess sedute stizzite. Porsi loro il mio biglietto e il mio passaporto e dopo aver constatato che quella sua foto del mio documento ero io e dopo avermi consegnato solo parte del mio biglietto mi apprestai a raggiungere l’aereo attraverso il corridoio vetrato alle loro spalle. Sarei arrivata a Londra la mattina seguente. Un viaggio stancante che mai nella vita avrei rivoluto fare. Ma il destino con me è sempre stato bastardo. Salita in aereo, uno steward poco più grande di me mi accompagnò in prima classe. Non sono mai stata in prima classe quando ero bambina: pensavo che potessero andare solo chi avesse una ventiquattrore. Sorrisi a quel pensiero. Effettivamente me ne ero autoconvinta quando avevo sette anni. L’anno dopo avevo chiesto a mia madre di comprarmi una ventiquattrore in miniatura e quando salii in aereo una hostess mi fermò poco prima che riuscissi a varcare la tendina che separa la prima classe da quella economica. A quel punto mi convinsi che erano i bambini a non erano ammessi. “Accomodati pure lì” mi disse gentilmente lo steward, con un odioso accento inglese. “Grazie” dissi, sedendomi (o meglio stravaccandomi) sul sedile largo e comodo. Niente a che vedere con i seggiolini di plastica dell’aeroporto. “Posso portarti qualcosa?” mi chiese lui, sorridendomi. “Sono a posto così” dissi, poi ci pensai “Aspetta! Un caffè macchiato con panna” forse pretendevo troppo. “Arriva subito” rispose divertito. Mi stropicciai la faccia con le mani e sbadigliai sonoramente, guardando fuori dal finestrino. Dovevamo essere in ritardo. Grazie a Dio, pensai. Almeno il mio incontro con loro sarebbe slittato di qualche minuto. E qualche minuto, per me, faceva la differenza. “Ecco il caffè” esultò lo steward raggiante, porgendomi una minuscola quanto insignificante tazza di caffè. Alzai un sopracciglio e bevvi il mio caffè. “Cos’è questa schifezza?” chiesi disgustata. Di sicuro non era caffè. Lui per tutta risposta rise e si gratto la testa imbarazzato. “Mi dispiace. Non sono un asso a fare caffè” confessò. “E non c’era nessuno in grado di aiutarti?” gli chiesi tra l’acido e il curioso. “Se scoprissero che ho servito caffè poco prima di partire, le mie colleghe mi spaccherebbero la faccia” non riuscii a non ridere. “E come mai l’hai fatto?” gli chiesi, stavolta molto più curiosa. “Avevi un’aria nervosa e volevo metterti a tuo agio” mi confidò. Si vedeva così tanto? Non pensavo di poter risultare tanto trasparente anche agli occhi di un completo estraneo. “Grazie” risposi sincera puntando i miei occhi verdi, nei suoi neri. “Senti, se vuoi un po’ di compagnia durante il volo mi offro volontario” si grattava la testa in modo così buffo che non riuscii a rifiutare l’offerta. “Bene, allora ci vediamo dopo” “Non vado da nessun’altra parte” dissi, prima di vederlo sparire dietro la tendina che separava le due classi.

Poco dopo lo vidi rientrare, ma non si fermò. Proseguì e si fermò in mezzo alla prima classe. La voce del pilota risuonò nell’aereo “Buonasera a tutti sono il capitano Monroe e vi do il benvenuto su questo volo in partenza da New-York JFK con destinazione Londra. Sono le ore 3 e nove minuti e il tempo è pressoché sereno.  Il tempo stimato di volo è di circa 6 ore e quaranta minuti: arriveremo all’aeroporto di Heathrow alle ore nove e cinquanta. In attesa di nuovi aggiornamento, a presto e buon viaggio”. Lui era americano. Si sentiva dall’accento molto più sciolto e giovanile. E per un momento mi sentii a casa. Hostess e steward si apprestarono a mimare i movimenti nel caso di incidente aereo. E’ la parte che più odio durante un volo. Mi infilai le cuffiette dell’Ipod e iniziai ad ascoltare un po’ di sana musica, chiudendo gli occhi e aspettando di decollare. I think we have an emergency, I think we have an emergency. No, non era la canzone più adatta da ascoltare su un aereo mentre decollava. God save the Queen. Sorrisi. L’avevo scaricata sapendo della mia imminente partenza per Londra. A cosa mi ero ridotta. Sentii tirarmi giù una cuffietta dall’orecchio “Ehy, ragazzina. Avresti dovuto ascoltare. In caso di disastro aereo, non saprai come muoverti” mi disse lo steward sorridente come al solito. “Ci sarai tu ad aiutarmi” gli dissi alzando un sopracciglio. “Vuoi qualcosa da mangiare?” mi chiese, appoggiandosi lievemente al mio sedile. “Dolci, qualsiasi tipo, ma che siano dolci” dissi quasi pregandolo. Lui rise divertito e sparì dietro la tendina. In quel momento sperai che a Londra fossero tutti come lui. Ma sapevo di sbagliarmi. Dove stavo andando non c’era nessuno di gentile e amichevole. Sospirai e nemmeno mi accorsi del suo ritorno. “Ho detto alle mie colleghe che eri una donna incinta e per questo mi hanno detto di non farti pagare niente” Mi posò sul tavolino davanti a me una cascata di schifezze che alzarono i miei livelli di zucchero nel sangue solo a guardarli. “Vedi di non esagerare. Non vorrei intrattenere una chiaccherata con te in bagno” Per la seconda volta non riuscii a non ridere. Scartai un pacchetto di M&M’s e gliene offrii “Paga la American Airlines” dissi, notando il suo tentennamento. Mi sorrise e prese alcune palline colorate, sedendosi di fianco a me. “Come mai a Londra?” mi chiese aprendo una confezione di biscotti al cioccolato. “Mio padre abita a Londra e mi sto trasferendo da lui” dissi. Lui notò subito il mio disagio. “Ok, cambiamo argomento. Come ti chiami?” “Hayley” “Freddie, piacere” ci stringemmo la mano. La sua stretta era così salda che quasi sussultai. Niente a che vedere con la mia, moscia e insignificante. “Sei inglese?” gli chiesi, sapendo già la risposta. “Già, di Birmingham. Si nota molto?” “Abbastanza” dissi sorridendo. “Come mai fai lo steward?” mi sembrava una domanda stupida, ma lui rispose comunque. “Mi piace volare e stare a contatto con la gente” “Ah, potevo arrivarci anche da sola” assunsi l’espressione sono-una-deficiente che lo fece ridere. “Alcuni pensavo che io lo faccia perché sia omosessuale” “Sei gay?” chiesi d’impulso sgranocchiando una manciata di M&M’s. “Se fossi stato gay di sicuro non mi sarei messo a parlare con te, ma con quel ragazzo laggiù” disse, indicandomi un ragazzo di circa diciotto anni, con il volto stracarico di acne e una pancia non propriamente invidiabile. “Penso che anche in quel caso avresti parlato con me, piuttosto che con lui” dissi, guardando il ragazzo lontano da noi. “Forse. E tu che fai? Studi o lavori?” “Ho abbandonato un paio di mesi fa giornalismo” “Come mai?” “Sapevo che mi sarei dovuta trasferire a Londra” dissi, risprofondando nell’amarezza. Lui mi guardò “Anche a Londra ci sono delle facoltà del genere” “Già, ma a mio padre non sarebbe andata bene” sospirai. Sentivo solo il suo sgranocchiare biscotti. “Ti piacciono eh?!” dissi, mettendolo in imbarazzo. “ “Non posso farne a meno, quando volo. Ne hai mai assaggiato uno?” “Non vado pazza per i biscotti” “E come farai all’ora del thè?” disse stupito, guardandomi aspettandosi una risposta. “Io…non..” “Sto scherzando.. tipico umorismo inglese, preparati perché  ne avrai a che fare tutti i giorni” Perfetto. “Vuoi dormire un po’?” mi chiese, evidentemente notando il mio viso sconvolto. Annuii imbarazzata. Mi piaceva parlare con Freddie, ma il sonno stava prendendo il sopravvento. “Ti sveglierò all’arrivo” disse alzandosi dal sedile su cui si era seduto e sparecchiando il tavolino pieno di cartacce. Mi addormentai come un sasso, non appena posai lo sguardo fuori dal finestrino. Non si vedeva nulla. Il vuoto assoluto. Proprio come quello che c’era nella mia testa nel pensare a quanto poco tempo mancava al mio arrivo a Londra.

Fui svegliata da un maledetto raggio di sole che puntava dritto al mio occhio destro. Sbadigliai sonoramente “Stavo giusto per venirti a svegliare. Dormito bene?” la voce pimpante di Freddie mi fece voltare. Non avevo notato quanto fosse carino. Lineamenti dolci, carnagione marmorea e capelli neri come i suoi occhi. Era alto e slanciato. Sperai di non avere il solito rivolo di bava mattutina che mi attraversava metà faccia. Annuii. “Allacciati la cintura” era un ordine gentile, quasi scherzoso. Probabilmente già si aspettava che non l’avrei fatto. Mi portò un altro schifosissimo caffè. “Davvero, non c’è nessun altro che possa farmi un caffè decente?” dissi, notando quanto la mia voce fosse rauca di prima mattina. “E io che l’ho fatto con tanto amore!” rispose facendo il finto imbronciato. Presi la tazzina e buttai giù quell’intruglio disgustoso. “Grazie a Dio non lavori in una caffetteria. Ti avrebbero licenziato in tronco” dissi io, scherzando. “O forse avrei imparato a fare i caffè più buoni del mondo” “Ne dubito”. Mi sorrise. Tornò a sedersi con le sue colleghe al di là della tendina. Una sensazione di angoscia e solitudine mi pervase il corpo. Scendere da quell’aereo significava andare incontro a un destino che non mi piaceva affatto. Non avrei trovato gentilezza e affetto fuori di lì. Ma indifferenza. Totale indifferenza nei miei confronti.  Il comandante dell’aereo ci salutò con garbo. Sarebbe stato l’ultima persona americana che avrei sentito parlare. “Hayley! Meno male, non sei ancora scesa” Freddie mi corse incontro. “Devi darmi un altro schifoso caffè da bere?” gli chiesi scherzosa mentre tentavo di tirare giù il trolley dalla cappelliera sopra di me. Ci pensarono lui e la sua altezza ad aiutarmi in quell’impresa. Mi ricordai in quel momento che poco prima del decollo era stato sempre lui ad infilarlo lì dentro. “Grazie..” bisbigliai, imbarazzata dal mio metro e 55 scarso. “Senti, mi piacerebbe sentirti” era rosso come un pomodoro. Risi divertita “Scusa, ma ti pare che arrossisci a quel modo?” gli chiesi, col mio solito tatto da elefante. “Quindi non è un problema se ci scambiamo i numeri di telefono?” sembrava un bambino a Natale. Hayley Doherty, fai sempre colpo. Sorrisi modestamente e gli diedi il mio numero. “Ti chiamerò” mi baciò sulla guancia e mi accompagnò all’uscita dell’aereo. Sentii chiaramente una sua collega dirgli “E scommetto che quella ragazza sarebbe la donna incinta con voglie di dolci. Sei proprio un idiota, Freddie” “Sta zitta Beth” lo sentii rispondere ridendo, mentre varcavo la porta che mi separava dal suolo britannico. Io e il mio piccolo trolley vagammo alla ricerca dell’uscita. Non riuscivo a trovare un maledettissimo cartello che mi indicasse la via giusta da seguire. Poi come se fosse stato sempre lì ad aspettarmi vidi un cartello sopra la mia testa. Uscita. Non so se fosse stata la carenza di sonno o il mio non voler uscire dall’aeroporto a non farmi trovare ciò che stava sotto al mio naso, o meglio sopra la mia testa. Sospirai un ultima volta prima di varcare la porta scorrevole che avrebbe ridotto le distanze tra me e la mia famiglia. Vidi solo un foglio bianco. Haylee Doherty. Anche se il nome era scritto in modo errato, dovevo essere sicuramente io. Mi avvicinai. Rimasi pietrificata. “Che ci fai qui?” chiesi al ragazzo che reggeva il cartello. Lui mi squadrò da capo a piedi, dietro gli occhiali da sole, che avrebbero dovuto dargli un’aria da bello e dannato. Peccato che la totale assenza di sole lo rendevano un perfetto idiota. “Non mi saluti nemmeno, sorellina?” mi disse lui, col suo solito tono gelido che usava solo ed esclusivamente con me. Adam non era mio fratello. O meglio, non di sangue. Era il figlio maggiore della nuova moglie di mio padre. Nuova mica tanto, dato che erano più di 13 anni che erano sposati. “Vedi di muoverti” disse, iniziando a camminare velocemente. “Vuoi rallentare un po’?! Io mi sono appena svegliata” gli sbraitai raggiungendolo. “E io non sono ancora andato a dormire. Quindi vedi di muoverti” disse puntando l’indice sulla mia fronte. Lo faceva sempre quando eravamo piccoli. E mi dava fastidio quanto allora. Sbuffai spazientita. Erano anni che non lo vedevo. Non che mi avesse fatto molta differenza. Entrai in macchina, dopo aver appoggiato non proprio delicatamente il mio trolley sui sedili posteriori. “Vuoi stare attenta? Sai quanto costano quei sedili?” Roteai gli occhi al cielo con espressione plateale. In quella macchina, se avessimo potuto, ci saremmo sbranati letteralmente. Incompatibili. I nostri genitori lo dicevano sempre. “E dove sei stato fino a quest’ora?” chiesi cordiale, tentando di approcciare una qualche tipo di conversazione. “Non sono cazzi tuoi” Incominciamo bene. Neanche mezzo minuto in macchina insieme e già eravamo a queste frasi cariche d’amore reciproco. Sbuffai. “Vedi di farti una doccia a casa. Puzzi d’America.” Mi congelò divertito. Mi morsicai la lingua e trattenei la rabbia, per evitare di saltargli alla gola in preda ad un raptus. Guardai fuori dal finestrino e accesi l’Ipod, chiaro segno del non voler più parlare con lui.

God save the queen
The fascist regime
They made you a moron
Potential H-bomb

God save the queen
She ain't no human being
There is no future
In England's dreaming

Don't be told what you want
Don't be told what you need
There's no future, no future,
No future for you

God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves

God save the queen
'Cause tourists are money
And our figurehead
Is not what she seems

Oh God save history
God save your mad parade
Oh Lord God have mercy
All crimes are paid

When there's no future
How can there be sin
We're the flowers in the dustbin
We're the poison in your human machine
We're the future, your future

God save the queen
We mean it man
We love our queen
God saves

God save the queen
We mean it man
And there is no future
In England's dreaming

No future, no future,
No future for you
No future, no future,
No future for me

No future, no future,
No future for you
No future, no future
For you

Benvenuta in Inghilterra, Hayley Doherty. Feci per accendermi una sigaretta “Adesso fumi pure?” mi chiese il mio odioso fratellastro, divertito. “E’ illegale per caso?” sputai velenosa. Lui rise “Fa un po’ come ti pare” sentenziò. Abbassai il finestrino e mi accesi una sigaretta. Non ero una fumatrice accanita, ma in quella situazione ne avevo abbastanza bisogno. “C’è uno Starbucks vicino casa?” chiesi aspirando del fumo. “Sì” rispose semplicemente. Questo voleva dire che me lo sarei dovuto trovare da sola. “Senti per la mia salute mentale, possiamo cercare di andare d’accordo?” ero disperata. Volevo almeno un alleato dalla mia parte. “Scordati di immischiarmi nei tuoi problemi con il tuo vecchio.” Era più perspicace di quello che mi ricordavo. “Per favore. Ho bisogno di un amico” buttai lì, tentando di risultare il più disperata possibile. “La smetti di rompermi i coglioni?” esclamò gelido, come al solito, piombando in un silenzio innaturale. Arrivammo a casa. Non mi aspettò nemmeno. Salì le scale, aprì la porta e la richiuse sbattendola. “Stronzo” bisbigliai, con il mio trolley in mano. Salii le scale con passo lento. Una condannata a morte. La porta si era chiusa e non avendo le chiavi fui costretta a suonare il campanello. E nessuno venne ad aprirmi. Questo significava che in casa c’era solo Adam. Cazzo. Aspettai un po’, ma la musica assordante proveniente dal piano di sopra mi fece intuire che anche se avessi bussato come un’ossessa non avrebbe sentito niente. Ricordai che quando ero piccola, nella loro vecchia casa, mi arrampicavo su un albero nella parte posteriore dell’edificio. Decisi quindi di constatare se anche lì c’era la traccia di un albero, ma arrivata dall’altra parte della casa trovai il giardino vuoto. Lanciai il mio trolley sul muro, visibilmente scocciata. Mentre mi arrampicavo sulla tubatura principale sentii un tossicchiare dall’altra parte del giardino “Mio fratello mi ha chiusa fuori e non ho le chiavi” dissi alla donna, intenta a innaffiare il suo piccolo giardinetto. Annuì, sorridendomi. E io continuai la mia scalata. Da quel lato della casa la musica era più forte. La camera di Adam doveva essere proprio al di sopra della mia testa. Rischiai di cadere un paio di volte ma riuscii a raggiungere la sua finestra, che era leggermente aperta. Lo vidi sdraiato sul suo letto, che leggeva una rivista. Spalancai la finestra e mi buttai in camera sua. Nemmeno se ne accorse. Avevo le mani sporche di sangue che bruciavano da impazzire. Tirai un calcio contro il suo letto “Stronzo” dissi prima di uscire dalla sua camera sbattendo la porta. Mentre scendevo le scale, lo sentii spegnere la musica e aprire la porta. “Cristo santo mi hai fatto prendere un colpo! Ma da dove cazzo sei sbucata?” sbraitava mentre mi raggiungeva. “Mi hai chiuso fuori, brutto deficiente! Mi sono dovuta scorticare le mani per arrampicarmi alla tua finestra!” ero più che incazzata. Se le mie mani non fossero state ridotte a quel modo, gli avrei tirato un pugno in faccia. “Ti sei arrampicata?” chiese meravigliato. Poi mi prese una mano e prese a fissarla. I suoi occhi azzurri guardavano il sangue. “E’ solo un graffio” “Ma vaffanculo! Non è solo un graffio! Fa male!” Lo vidi sbuffare. Mi trascinò al piano di sopra, in bagno e mise le mie mani sotto l’acqua fredda. Al contatto con le mie ferite sussultai. “Va meglio?” mi chiese, in un modo strano. Quasi dolce. Lo fissai un attimo. “Sì, sì” dissi solo. Lui prese a fissarmi, in quel modo che odiavo tanto. “Come mai non sei più bionda?” mi chiese all’improvviso, come se sapere quella risposta avrebbe salvato il mondo da un attacco nucleare. “Ti piacevo di più prima?” chiesi, con tono acido. “No, così sei più carina” disse uscendo dal bagno. Lasciandomi lì a bocca aperta, con le mani sotto l’acqua fredda. Un complimento. Mi aveva fatto un complimento. Umorismo inglese, mi ricordai rallentando i battiti cardiaci che mi stavano facendo esplodere il cuore nel petto. Chiusi l’acqua e tornai al piano di sotto per recuperare il mio trolley. Nella vecchia casa. La mia stanza si trovava al piano di sotto. Ma non trovai stanze da letto. “E dove cazzo dovrei dormire?” sbraitai rivolgendomi ad Adam al piano di sopra. Lui uscì, con un barlume di follia negli occhi. Si scaraventò su di me, mi prese il trolley e salì come un razzo per le scale. Aprì una porta confinante con la sua stanza e lanciò il mio trolley sul letto. “E ora fammi dormire, scassacoglioni” me lo disse ad un centimetro dalla faccia. Sbatté la porta della sua camera e mi lasciò sola. Sbuffai irritata e entrai in quella che sarebbe stata la mia stanza per un indeterminato periodo della mia vita. Era solo il mio primo giorno a Londra e già volevo tornare a casa, a New York. Mi alzai dal letto, decisa a non voler pensare alla mia amata città. Decisi di uscire, alla ricerca di Starbucks. Quando passai davanti alla porta chiusa della camera di Adam alzai il dito medio, soddisfatta. Scesi al piano inferiore e uscii di casa. Il cielo non prometteva una bella giornata, ma l’alternativa era rimanere in una casa silenziosa a disfare degli scatoli pieni zeppi di cose mie. Starbucks era più allettante. Sinceramente non sapevo nemmeno dove mi trovavo. In un quartiere molto agiato, a giudicare dalle case che mi circondavano. C’erano una moltitudine di persone che passeggiavano intorno a me. “Scusa, puoi farci una foto?” mi chiese una ragazza dagli indomabili capelli castani, mentre mi tendeva una macchina fotografica. “Certo!” le risposi sorridente. Lei si mise in posa di fianco al suo ragazzo, un tipo biondo con la faccia da schiaffi. Scattai la foto e le riporsi la macchinetta fotografica. “Sai per caso dirmi dove siamo?” le chiesi, risultando completamente deficiente. Lei rise “Nemmeno tu sei di qua? Questa è King’s Road” “Grazie” le dissi realmente grata per quell’informazione. Se mi fossi persa almeno avrei chiesto informazioni per tornare su quella via. Mi lasciarono salutandomi cordialmente. Quella via era strapiena di negozi. Mi ritrovai a fissare vetrine che esponevano vestiti che nemmeno se avessi venduto l’anima al diavolo avrei potuto permettermi. Di Starbucks nemmeno l’ombra. Entrai in una piccola caffetteria ad angolo, strapiena di gente. “Un caffè macchiato con panna” chiesi al bancone, attirando l’attenzione di una cameriera. Mi servì il mio caffè. Cristo santo. Era decisamente più buono di quello di Starbucks. Manna dal cielo per le mie papille gustative. “Ti piace?” chiese lei, divertita dalla mia espressione estasiata. “Decisamente. Ero abituata ad altro” “Americana?” “Già.” “Sono stata nel Maine, ma non mi sembri di lì” “New York” risposi semplicemente. Si scusò e tornò a servire gli altri clienti. Pagai una fortuna quel caffè, ma valeva ogni singola sterlina spesa. Uscii dalla caffetteria e una mano mi bloccò per un braccio. “Che cazzo hai in quel cervello bacato? Potevi almeno avvisare che uscivi!” la voce di Adam attirò molti sguardi indiscreti. “Non pensavo fosse un problema” dissi seccata. Se c’era una cosa che odiavo più di Adam, era attirare l’attenzione. “Stavi dormendo e se ti avessi detto che uscivo probabilmente mi avresti mandata a fanculo” dissi, trattenendo la calma. Lui mollò il mio braccio. “Bhè, dato che non conosci la zona ti avrei accompagnata!” Iniziai a ridere. “Tu mi avresti accompagnata? Ma non mi prendere per il culo! So cavarmela benissimo da sola” “D’accordo” disse stizzito, prima di voltarsi e tornare a casa. Più gli anni erano passati e più Adam aveva perso neuroni. Mi girai dalla parte opposta rispetto a dove era andato lui e cominciai a camminare nervosa. Sbuffavo come una locomotiva. Poi lo vidi. Un piccolo negozio di dischi e libri. Entrai come attratta da una calamita immaginaria e fui come accolta in paradiso. CD e libri che riempivano immensi scaffali di legno. Una leggera pacca sulla spalla mi fece voltare “Cerchi qualcosa?” l’uomo davanti a me doveva avere circa trenta cinque anni. Le braccia erano ricoperte di tatuaggi e sul sopracciglio destro spuntava un piercing. “Nulla in particolare” risposi sorridendo. Mi inoltrai in quella coltre di album ordinati in ordine alfabetico con cura e devozione. Come qualsiasi patito di musica farebbe. Come io facevo a New York. Mi legai i capelli in una coda alta, decisa a passare l’intera giornata in quel posto. A costo di essere chiusa dentro durante la pausa pranzo. Non mi importava. Le mie dita scorrevano lungo la plastica degli album. “PumpinkPunkerz” sussurrai. Era un gruppo quasi sconosciuto in tutto il mondo, tranne che a New York. Avevo prestato il mio CD a un mio compagno di corso, che non si era degnato di restituirmelo. Lo presi tra le mani. “Sei la prima persona che prende in mano quel CD” mi disse l’uomo tatuato di poco prima comparendomi alle spalle. “E’ un gruppo forte” dissi, sminuendo di gran lunga ciò che riuscivano a creare con la musica. “Li conosci?” mi chiese curioso. “A New York sono delle leggende” dissi vomitando tutta la stima e la venerazione che provavo nei loro confronti. “Già, avrei dovuto immaginarlo. Solo una di New York può volere un CD dei Pumpink” disse sorridendomi. “Sei in vacanza?” “Mi sono appena trasferita e curiosavo in giro” dissi continuando a guardarmi intorno. “Allora, immagino ci vedremo più spesso” disse, poi si voltò “Quello puoi tenerlo. Te lo regalo” disse accarezzandomi i capelli. “Grazie” risposi estasiata. Se  mi avesse chiesto in cambio dei favori sessuali, avrei accettato. Mi sarei prostituita per quel CD. Non uscii dal negozio. Mi persi lì dentro per tre ore piene. “Ehy, newyorkese! Stiamo chiudendo” mi disse l’uomo tatuato, che a quanto sembrava era il proprietario del negozio. “A che ora riaprite?” gli chiesi senza indugio. “Ah, ti va male! Oggi siamo aperti solo per mezza giornata” Sentii un baratro aprirsi sotto i miei piedi. “Bhè, domani siete aperti, no?” “Certo, certo! Ci vediamo domani” “Ci vediamo domani” ripetei, tenendo ben saldo il mio CD dei PumpinkPunkerz tra le mani e uscendo dal negozio. Decisi di tornare a casa per evitare di spendere altri soldi in cibo. Suonai il campanello. La figura alta di Adam mi squadrava, come al solito, da capo a piedi. “Ti sei degnata di tornare” “Avevo fame” risposi, cercando di entrare in casa. Lui però mi fermò prendendomi per la vita. E mi sorrise. Un sorriso che mai potrò dimenticarmi. Un sorriso che non mi aveva mai fatto. Rimasi immobile, poi notai la sbucciatura sulla sua mano. “Ti sei chiuso fuori pure te?” gli chiesi divertita. “Ma vaffanculo!” mi rispose. Non era una delle sue solite risposte gelide. “Ti porto fuori a mangiare” mi disse spingendomi leggermente all’indietro. “Possiamo anche stare in casa” “La domestica non c’è e se ricordo bene né tu, né io abbiamo un buon rapporto con la cucina.” E aveva ragione: da piccoli avevamo cercato di cucinare delle frittelle per i nostri genitori, ma eravamo finiti col dare fuoco a mezza cucina. Fu l’unica volta in cui ci divertimmo insieme. Poi iniziammo ad odiarci. “Cos’è?” mi chiese una volta in macchina, indicando con il viso il CD che tenevo in mano. “Un CD” risposi semplicemente. “Lo vedo anch’io che è un CD, ma di chi è?” “PumpinkPunkerz” risposi, rigirandomi l’album tra le mani. “Chi?” Come pensavo, non li conosceva. Strappai la plastica che circondava il CD, lo estrassi e lo infilai nella radio della sua macchina. C’mon C’mon . Battevo il ritmo con la mano sul mio ginocchio, mentre la musica riempiva la macchina. Adam sembrava gradire. “Ma chi cazzo sono?” mi chiese alzando la voce, per farsi sentire. “Un gruppo di New York” risposi guardandolo negli occhi. Lui riprese a guardare la strada, mentre Freaky Patrick’s Day iniziava con il suo assolo di chitarra elettrica. Quando fermò la macchina ero seriamente intenzionata a non scendere dall’auto, fino a che non avessi sentito tutte le tracce dell’album. Ma il mio stomaco petulante reclama cibo. “Ciao Ian!” Il mio odioso fratello salutò un uomo tarchiato di circa cinquant’anni, che da come si guardava intorno in cerca di clienti, doveva essere il proprietario di quel ristornate. “Oh, Adam! Tutto bene?” “Sì, sì. Riesci a trovarmi un tavolo per due?” chiese con gentilezza. Gentilezza con cui non si era mai rivolto a me. L’uomo mi guardò e gli strizzò l’occhio. “E’ mia sorella” disse Adam roteando gli occhi al cielo. “Savannah?!” esclamò senza crederci. “Ti sembra Savannah? E’ l’altra sorella. Quella di New York” disse, togliendo ogni dubbio all’uomo. “Ah, già. Bene, entro e vedo se ci sono tavoli liberi”. Tornò poco dopo con un sorriso idiota dipinto sul viso. “Prego, seguitemi”. Ci portò nel retro, in un giardinetto isolato dal resto del ristorante. Tipico posto strategico per far mangiare una coppietta innamorata. Sia io che Adam alzammo un sopracciglio. “Dici che l’ha capito che sono tua sorella, o ha solo fatto finta?” gli bisbigliai, assicurandomi che solo lui sentisse. L’uomo mise una rosa rossa in un piccolo vasetto al centro del tavolo e ci augurò un buon pranzo. Di controvoglia mi sedetti e iniziai a sfogliare il menù. Spalancai gli occhi e quasi mi strozzai con un grissino quando notai i prezzi esorbitanti. Adam iniziò a ridere “Dovresti vedere la tua faccia” “Dovresti vedere i prezzi invece che star lì a ridere. Andiamo da MacDonald, almeno sono sicura di poter pagare quello che mangio” dissi alzandomi dalla sedia. “Per questa volta pago io” Non so se fu quel suo ‘pago io’ o quello sguardo azzurro come il ghiaccio che mi fecero risedere senza muovere obiezioni. Ma non mi feci scappare quell’opportunità e ordinai come se non mangiassi da anni. Mi abbuffai come una cavernicola, sotto il suo sguardo disgustato. “Diventerai una grassona” mi disse, mentre a forza tentavo di trangugiare l’ultimo pezzo di bistecca rimasto nel mio piatto. Mi stravaccai sulla sedia ignorando il suo commento e piena come un elefante sussurrai “Non ce la faccio più” Lui iniziò a ridere. Una risata realmente divertita. Come da anni non gli vedevo fare. Lo guardavo stranita e lui se ne accorse “Che c’è?” chiese tra le risate. “Non ricordavo la tua risata” dissi piantandogli gli occhi addosso. Lui smise di ridere e seriamente mi disse  “Nemmeno io ricordo la tua. E prima di oggi, non ricordavo nemmeno la tua faccia”. Fu come prendere un potente schiaffo in faccia. Eppure ero sua sorella. “Ricordavi che ero bionda, però” “Pochi giorni fa ho visto una nostra foto da piccoli” Un pugno nello stomaco. Senza rendersene conto mi stava mettendo KO. Insensibile pezzo di idiota. Io ricordavo tutto di lui, dai suoi capelli castani, ai suoi occhi glaciali, ai suoi tratti marcati e duri. Possibile che gli fossi proprio così indifferente? Abbassai lo sguardo. “Voglio tornare a casa” dissi, con fare capriccioso. Lui sospirò e si alzò dalla sedia.  Lo aspettai in macchina mentre le note di Childhood dei PumpinkPunkerz mi entrarono nel cervello, perforando ogni ricordo di Adam.

Aprì la porta di casa e senza dire una parola mi fiondai in camera mia sbattendo la porta. Non mi faceva bene stare lì. Volevo tornare a casa. Nascosi la testa nel cuscino e iniziai a piangere silenziosamente. Non mi accorsi nemmeno che la porta della mia stanza si era aperta. “Perché piangi?” mi chiese avvicinandosi al mio letto. “Vattene fuori, Adam. Non ho voglia di perdere tempo a farmi insultare” dissi singhiozzando. Lo sentii ridere. “Che cazzo hai da ridere?!” sbraitai guardandolo negli occhi. “Scusa, ma il tuo modo di parlare mentre piangi mi fa ridere” rimasi a bocca aperta nel guardarlo ridere della mia disperazione. Mi alzai dal letto e, prendendolo per un braccio, tentai di sbatterlo fuori dalla mia stanza. Senza riuscire a muoverlo di mezzo millimetro. Cosa che lo fece ridere ancora di più. “Sei una mezza sega, Lee” disse tra le risate. Quando eravamo piccoli mi chiamava Lee. Poi ha smesso proprio di chiamarmi se non con appellativi offensivi che ricambiavo con piacere. Non riuscii a non sorridere a tutte quelle risate. “Per favore, esci” più io lo ‘tiravo’ verso la porta, più mi sembrava un’impresa degna di uno schiavo nell’antico Egitto. Lui continuava a ridere. Allora optai per un’altra strategia. Gli lasciai il braccio e con le mani ben salde sulla sua schiena tentai di spingerlo fuori. Ma niente. Mi buttai sul letto stravolta. Lui mi prese per i piedi e mi fece cadere dal letto, facendomi sbattere sedere e testa sul pavimento. “Ahia, cazzo Adam! Mi hai fatto male!” ma ormai ridevo come una matta dato che aveva iniziato a trascinarmi per i piedi per tutto il piano di sopra. Fu come tornare piccoli, per quel breve momento di follia generale. Era riuscito a tirarmi su di morale. L’ultima tappa di quel ‘trascinamento’ fu la sua stanza. Chiuse la porta e si mise a cavalcioni su di me. “Che vuoi fare?” gli chiesi tra l’impaurita e la divertita. Lui alzò un sopracciglio sorridendo. Capii troppo tardi le sue intenzioni. Mi ritrovai a contorcermi come un verme sotto le sue mani, mentre mi faceva il più torturante solletico della mia vita. Ridevamo così forte da sembrare due idioti. Poi si fermò guardandomi negli occhi. Dal tanto ridere, non mi ero accorta di quanto il mio cuore aveva iniziato a galoppare selvaggio nella vasta landa della mia gabbia toracica. “Non mi è mai piaciuto vederti piangere” ammise senza l’accenno di un minimo di imbarazzo. “Ok” risposi, dandomi dell’idiota. “Che cazzo significa ‘ok’?” disse dando voce ai miei pensieri. “Non lo so” ammisi, assumendo le sembianze di un pomodoro e abbassando lo sguardo. Quella volta, però, non posò il suo indice sulla mia fronte. Ma un dolce e casto bacio a fior di pelle. Non feci in tempo a chiedergli perché l’avesse fatto o che significasse, perché sentimmo la porta d’ingresso chiudersi e le voci distinte di sua madre, mio padre e della nostra ‘sorella in comune’. Si alzò come una molla al sentir chiamare il suo nome dal piano di sotto. “Vedi di scendere” disse, cancellando l’Adam giocoso, e ritornando il mio odioso e gelido fratello. Mi alzai dal pavimento e lo seguii sulle scale. Non volevo incontrare mio padre, ma infondo quella era casa sua e sicuramente prima o poi avrei dovuto parlarci. “Hayley! Sei sveglia! Pensavamo stessi dormendo” disse Jodi, la mia matrigna, abbracciandomi. Sapeva di vaniglia. I suoi capelli neri, lisci come seta, le ricadevano sulle spalle elegantemente, Niente a che vedere con i miei, mogano, che scendevano sulla schiena indomabili. I suoi occhi dorati mi guardavano curiosa, come se stesse aspettando che iniziassi a spettegolare su qualcosa. Ma la voce di mio padre, cancellò quel contatto visivo. “E’ andato bene il viaggio?” mi chiese abbracciandomi. “Chi sei tu? E che ne hai fatto di mio padre?” chiesi sarcastica, beccandomi una leggera gomitata da parte di Adam prima che si sedesse sul divano. Mio padre rise imbarazzato. Non si era mai avvicinato molto a me, per questo mi aveva tanto stupita quell’abbraccio. “Comunque sì, è andato tutto bene” risposi, più rilassata. “HAYLEY!” una ragazza mi si scaraventò addosso in un abbraccio a tenaglia. “Come sono felice di vederti!” esclamò stampandomi due baci sulle guance. Non era più la bambinetta rompicoglioni che mi ricordavo. Davanti a me c’era ormai un donna. Savannah, mia sorella, era la copia giovanile di Jodi. Stessi capelli neri corvini e stessi occhi dorati. Aveva ormai 17 anni, 5 in meno di me, ma ne dimostrava più lei 22 che io. Era alta quasi Adam con indosso delle ballerine rasoterra. Probabilmente sfiorava il metro e 80. Ecco che il mio complesso sulla mia bassa statura mi tornava a trovare. “Bhè, io vado a farmi un doccia” dissi congedandomi e cercando una via di fuga. Scappai letteralmente al piano di sopra e mi infilai in bagno alla velocità della luce. L’acqua era un toccasana. Rimasi quasi un’ora sotto l’acqua calda. “Potevi sforzarti di più” la voce di Adam mi fece sussultare. “Ma che cazzo fai?! Fuori di qui, maniaco!” sbraitai dalla doccia. “Non è colpa mia se ci resti i secoli qui dentro! E avevo bisogno del bagno!” “Ma chi se ne frega se avevi bisogno del bagno, non potevi usare quello di sotto?” Lo sentii sbuffare. “Se è occupato come faccio ad usarlo?” Tirai fuori la testa dalla doccia “E questo invece ti sembra libero, stupido scimmione?!” Lo vidi fissarmi. Un’espressione che un fratello non dovrebbe mai fare nel guardare sua sorella. “Piantala di star lì a guardarmi con quella faccia da idiota ed esci di qui!” Ero rossa, ma non era colpa del fumo dell’acqua calda della doccia. Era per come mi guardava senza dire una parola. Non accennava a muoversi così presi la prima cosa che mi capitò tra le mani (la bottiglietta di plastica del docciaschiuma) e gliela lanciai contro colpandolo in piena fronte. “Ahia! Cazzo, ma sei scema? Potevi uccidermi!” disse mentre si massaggiava la fronte, “Era quello che volevo fare!” gridai sciacquandomi lo shampoo dalla testa. Spensi l’acqua e tirai fuori una mano dalla doccia. “Renditi utile e passami l’accappatoio” dissi, sputando veleno. “Vienitelo a prendere” mi sfidò malizioso. Tirai fuori la testa “Portami quel cazzo di accappatoio!” “No” disse ridendo. “Adam per favore!” dissi trattenendo la calma, mentre lui rideva prendendosi gioco di me. “Benissimo, allora resterò qui” dissi, restando immobile nella doccia. “Allora fammi spazio!” Feci appena in tempo a capire ciò che intendeva, prima che entrasse nella doccia. Bloccai l’anta della doccia “Provaci ancora e ti denuncio per molestie sessuali!” dissi ringhiando come un’invasata. Vidi il mio accappatoio volare sopra la doccia e atterrare sulla mia testa “Era ora” sbuffai acida, indossandolo. Uscii e me lo trovai in boxer davanti. “Hai detto la stessa cosa al tuo professore?” mi chiese con ghigno sulla faccia. Lo guardai sperando di aver capito male. Ma il suo ghigno mi faceva intendere il contrario. L’aveva detto. Me l’aveva sputato in faccia. Sentii le lacrime pungermi gli occhi “Stronzo..” bisbigliai prima di uscire dal bagno e chiudermi in camera mia. Mi appoggiai alla porta e scivolai lentamente sul pavimento, stringendomi le ginocchia al petto. “Lee, dai stavo scherzando” lo sentii dire al di là della porta. Cercò di aprire la porta, ma preventivamente l’avevo chiusa a chiave. Batté un pugno contro la porta di legno che ci separava e ringhiò un “Vaffanculo” e poi sentii la porta del bagno sbattere e la doccia aprirsi nuovamente. Come avevo fatto a pensare che lui fosse cambiato? Era ancora il solito stronzo, crudele e insensibile Adam Wilde.

 

 

 

 

 

*Cough cough* (colpo di tosse) Sono lieta di presentare al pubblico di EFP questa straziante (‘nsomma) storia d’amore. Sono stata letteralmente ispirata da “Blowing Bubbles” di SidRevo che consiglio a tutti quelli che amano il genere di andare a leggere perché è M E R A V I G L I O S A !! Ok, facciamo il punto della situazione: c’è una ragazza, Hayley, che lascia NY per motivi a noi (o meglio voi) sconosciuti e si trasferisce dal padre a Londra dove vivono anche Adam (il fratellastro odioso), Jodi (la ‘nuova’ moglie) e Savannah (l’altra sorellastra). Bene, in 3 righe ho praticamente riassunto ciò che succede in questo primo capitolo ._.’’ Di solito non mi metto a scrivere il famoso “ANGOLO DELL’AUTORE” perché  non so che diavolo scrivere XD Comunque, essendo la mia prima storia romantica che pubblico vorrei qualche parere, giusto per sapere che ne devo fare di questa "cosa" :D A proposito! I PumpinkPunkerz è un gruppo inventato di sana pianta così come i titoli delle loro canzoni. La canzone "God save the Queen" che ho incorporato nella storia è dei Sex  Pistol.

Speriamo a riscriverci,

Kiki :D

  
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: CookieKay