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Autore: Mary P_Stark    14/05/2012    3 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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31.
 
 
 
 
 
 
I tracciati dei satelliti erano più di quanti avessi immaginato ma, grazie al potere di Rah, non ci sarebbero stati problemi.

La tempesta magnetica che avrebbe colpito la Terra, li avrebbe resi ciechi per il tempo – speravo – sufficiente per chiudere la partita con Manasa una volta per tutte.


Non mi andava l’idea di combattere – ero terrorizzata al pensiero di Morgan privo di qualsiasi difesa – ma era evidente che la dea dei Naga era di tutt’altro avviso.

Quale altro motivo avrebbe avuto per raggiungere gli Stati Uniti assieme a Chandra, se non quello di eliminare alla radice un’antica nemica?

Allo stesso tempo, avrebbe tappato per sempre la bocca al professor Thomson.

Di certo, quando avesse scoperto di non poter torcergli neppure un capello, si sarebbe scagliata contro di me con ancor più livore.

Potevo anche vedere il lato buono in tutte le creature, ma nelle azioni di Manasa non ce n’era neppure uno.

Per lo meno, non in questa Manasa.

Prona sul letto della camera di Morgan – ci eravamo trasferiti lì per un po’, perché il contatto con il bosco mi tranquillizzava – osservai le scie dei satelliti disegnate sulla superficie dell’Arizona.

Mi chiesi come eludere in qualche modo la loro sorveglianza, qualora la tempesta magnetica non riuscisse a oscurare  tutti gli occhi elettronici puntati sul deserto.

Era peggio che cercare di passare tra le maglie fitte di un sistema di sicurezza al laser, neanche fossi stata Catherine Zeta Jones in Entrapment.

Morgan, steso accanto a me, mi carezzava distrattamente la lunga chioma fiammeggiante mentre, con lo sguardo, scrutava al pari mio l’articolata rete di satelliti e le loro scie.

Non ero sicura che avesse accettato tutto quello che avevo detto loro, circa i miei poteri, ma non aveva espresso più domande in merito, limitandosi a prendere per buoni i miei discorsi.

Il suo coraggio era lodevole e degno di nota.

Pur avendo conosciuto, in tante epoche e in tanti luoghi diversi, i più grandi eroi della storia, rimasi ancor più affascinata di prima di questo giovane impavido.

Morgan aveva il coraggio degli eroi classici e, al tempo stesso, una modestia del tutto eccezionale, quasi unica.

Se anche gli avessi detto, per il resto della vita che avremmo passato insieme, che il suo atteggiamento nei confronti di tutta quella situazione era più che incredibile, lui non mi avrebbe mai creduto.

Quanto eravamo simili, in questo!

Gli sorrisi, chinandomi a dargli un bacio sulla tempia, prima di vederlo volgere lo sguardo a incrociare i miei occhi di liquido smeraldo.

Replicando al mio sorriso, mi disse: “Facciamo una pausa.”

Accettai subito e, lasciate scivolare le carte a terra sul morbido tappeto d’angora, gli avvolsi le braccia attorno al collo per attirarlo a me.

Datogli un bacio sulle labbra calde, mormorai: “So che tutta questa situazione è paradossale, ma ti prometto che andrà tutto bene.”

“Sono con una creatura mitologica che ha, dalla sua, le divinità solari ed è padrona del fuoco.Come potrebbe non andare tutto bene?” rise, baciandomi languidamente sul collo, che inarcai con un ansito per permettergli di muoversi più agevolmente. “Ti ho mai detto che adoro il fuoco?”

“Sì” ansai, attirandolo sopra di me e sorridendo deliziata nel sentirlo già pronto a soddisfare il mio bisogno. E il suo.

“Bene” borbottò contro la mia gola, lasciando scivolare le sue mani avide sul mio corpo nudo.

Chiusi gli occhi, perdendomi nel calore sprigionato dal suo corpo umano.

Quando le sue mani sfiorarono i miei fianchi snelli, emisi un ansito strozzato mentre un’energia dilagante mi percorreva come una scossa elettrica ad alto voltaggio.

“Tutto bene?” sussurrò, baciandomi i seni con lenti cerchi infuocati.

“Mai… stata… meglio” esalai.

Ed era vero.

Neppure avvolta dall’energia di Rah, mi ero sentita così fiera, così potente.

Così unica.

Possibile che…





 
 
***




 
Seduta nell’ufficio del suo supervisore di fisioterapia, il dottor Greyson, Joy si morse un labbro, mentre il suo collega terminava di controllare una cartella clinica.

Era in ansia.

Non aveva la minima idea di come Robert avrebbe preso la sua richiesta di un breve periodo di ferie, specialmente considerando che era una specializzanda appena trasferita.

Ugualmente, non poteva semplicemente scappare da L.C. e dirigersi come una fuggiasca a Phoenix.

In quest’epoca, non potevi semplicemente decidere di sparire.

Tendenzialmente, venivi ritrovato, pur se con eclatanti eccezioni.

In ogni caso, lei desiderava essere onesta il più possibile con il suo superiore.

Quando lo vide riporre la carpetta dalla copertina giallo ocra nel porta documenti in acciaio satinato, esordì dicendo: “Grazie per avermi ricevuta.”

Abbozzando un sorriso, Robert mosse una mano dalle dita lunghe e affusolate nella sua direzione e, cordiale, replicò: “Parla pure, Joy. Di cosa avevi bisogno?”

Le mani intrecciate in grembo, Joy prese un gran respiro prima di iniziare a parlare con tono falsamente tranquillo.

“Vede, volevo sapere se fosse possibile prendere qualche giorno di ferie. So che vengo da un lungo periodo di malattia, e che sono qui da poco, ma…”

Robert la bloccò subito, sollevando una mano per azzittirla.

Allungatosi sulla scrivania in legno di palissandro, la fissò con i suoi magnetici occhi scuri, esaminandone per lungo tempo i tratti del volto e la reazione al suo sguardo prolungato.

Joy rimase immobile, perfettamente cosciente del suo esame – pur non comprendendone i motivi – e, quando infine Robert si mosse, lei esalò: “Ebbene?”

“Non stai andando a divertirti, questo è palese” sentenziò Robert, accavallando le lunghe gambe, abbracciate da un paio di pantaloni di lino color cachi.

Lei si limitò a scuotere la testa e il dottor Greyson, accigliandosi immediatamente, le domandò cauto: “E’ una cosa che posso sapere, o…”

“Meno persone sanno della cosa, meglio è” ammise Joy, prima di sospirare tremula e aggiungere: “Temo di essere nei guai, ma non posso chiedere aiuto a nessuno.”

Annuendo lentamente, gli occhi chiusi come a voler meglio rimuginare su ciò che stava navigando nella sua mente iperattiva, Greyson le rispose sinceramente: “Non ho problemi a concederti qualche giorno di ferie. Hai passato la tua degenza a seguire i pazienti, mentre eseguivi la riabilitazione. Nessun’altro l’avrebbe mai fatto perciò, per me, sei più che libera di prenderti qualche giorno di riposo. Il punto è un altro.”

“E cioè?” volle sapere Joy, agitandosi immediatamente sulla poltrona di pelle.

All’improvviso, le parve che la stanza fosse diventata piccolissima, soffocante.

“Non stai andando in una clinica per abortire, vero?”

Joy sgranò gli occhi talmente tanto che rischiò di farsi male e Robert, emettendo un sospiro di sollievo, le sorrise bonariamente, come a volerla tranquillizzare.

“Sai, ai giovani può succedere…”

“Non è per quello, credimi.”

Nel dirlo, sospirò nuovamente, scuotendo mesta il capo.

Al che, Robert le domandò accigliato: “Ti sei cacciata in qualche guaio più grosso di te, Joy?”

Mi ci hanno cacciata, ma non posso dirti altro” mormorò la ragazza, aggiungendo subito dopo: “Ma ti prometto che ti chiamerò, se… quando tutto sarà risolto.”

A quel punto, Robert si alzò per oltrepassare la scrivania e, con grande sorpresa di Joy, le si inginocchiò innanzi per afferrarle le mani tremanti e stranamente gelide.

Con lo stesso sguardo paterno con cui l’aveva scrutata suo padre, quando lo aveva avvisato della sua imminente partenza, le disse sentitamente: “Non pretendo di sapere i motivi che ti spingono ad allontanarti da qui ma sappi che, se avrai bisogno del nostro aiuto, noi ci saremo. Siamo una grande famiglia e, tra dottori, ci aiutiamo.”

A Joy non restò altro che annuire, non sentendosi abbastanza sicura per parlare.

Con un mezzo sorriso, Robert si rialzò sempre tenendole strette le mani, e aggiunse con una certa veemenza: “Potresti essere mia figlia, Joy. Non pensare nemmeno per un istante che non ti darei una mano, se potessi!”

“Lo so… dottore… Robert” mormorò lei sul punto di lasciare che le lacrime, a lungo trattenute, scivolassero libere dai suoi occhi.

Avvedendosene, Robert esalò sconvolto: “In nome di Dio, Joy,… a cosa stai andando incontro?”

“Non posso dirglielo” singhiozzò Joy, sul punto di crollare.

Preso un gran respiro, la ragazza si levò in piedi e, puntati gli occhi smeraldini in quelli scuri di Greyson, disse con tutta la forza che fu in grado di racimolare in quel momento: “Sapere che voi sarete qui e pregherete per me, mi aiuterà. Non chiedo altro.”

La stretta sulle sue mani si fece più decisa ma, dalle labbra di Greyson, uscì solo un laconico: “Ferie accordate.”

A Joy non occorse altro. Lo ringraziò e uscì dall’ufficio senza più dire nulla.

Era la prima volta in assoluto che affrontava una situazione del genere.

Soprattutto, però, era la prima volta che si trovava a fronteggiare un pericolo avendo, dietro di sé, amici e persone che le volevano bene, che avevano fiducia in lei.

Che avrebbero pianto, se le fosse successo qualcosa e gioito, se tutto si fosse risolto per il meglio.

Inoltre, aveva Morgan.

Quello, più di tutti, era un cambiamento epocale, per lei.

Mille nomi portava con sé, retaggio delle sue molte vite, ma un solo destino accomunava quei tanti volti idolatrati da migliaia di popoli dell’antichità.

Rimanere sola.

Ora, però, in spregio al mito, in spregio a ciò che aveva sempre cercato di portare avanti, in spregio al Fato stesso, lei non era più sola, era circondata da un amore dilagante, potente, che l’avrebbe protetta a ogni costo.

E lei, per la prima volta in vita sua, desiderava utilizzare quell’amore per se stessa.

Non l’avrebbe tenuto lontano dal suo cuore, si sarebbe lasciata annegare in quel denso abbraccio caloroso, e ne avrebbe fatto la sua forza.

Forse era un errore, non poteva saperlo, ma era sicura che valesse la pena di tentare.

“Perché hai chiesto il mio aiuto, Fenice?”

Bloccandosi a metà di un passo, proprio di fronte alla porta della palestra, Joy si scostò fino a raggiungere un punto tranquillo nello stabile dove si trovava la fisioterapia del Samaritan.

Con un lento sorriso, chiese per contro a Rah: “Non avrei dovuto?E perché sei tornato a chiamarmi Fenice? Sono stata felice, quando mi hai chiamata Benu.”

“E’ difficile usare quel nome. Sento bruciare il mio cuore, pur se non ho un corpo da far ardere per il dolore.”

La sua voce si fece melanconica, persa in un infinito memento che sembrava non concedergli scampo alcuno.

Sinceramente spiacente, Joy mormorò nella sua mente: “Non importa che nome usi, davvero. Fenice va bene. E, per rispondere alla tua domanda, il dio solare che preferisco sei tu. Inoltre, volevo chiederti scusa se, in qualche modo, ti ho arrecato offesa, in questo ultimo periodo.”

“Sono stato sgarbato con te, e dovrei essere io a chiedere perdono, amica mia. Ma vivo un conflitto personale molto aspro, e tu ne sei il fulcro.”

“Spero di fare la cosa giusta e toglierti dall’impiccio, allora” sorrise leggermente Joy.

“Lo spero anch’io. Per te, soprattutto.” Poi, con estrema dolcezza, aggiunse: “Sarò con te, durante la battaglia, anche solo con il pensiero.”

“Mi basterà saperti vicino.”

“Ho puntato una delle tue collane per una tua vittoria schiacciante. Quindi, vedi di non deludermi” ridacchiò Rah, pur non sentendosi veramente in animo di gioire per qualcosa.

Vagamente sorpresa, Joy esalò: “Una delle mie collane? Le hai ancora? E con chi hai scommesso, scusa?”

“Anubis.”

“Oh, il solito sciacallo!” ridacchiò Joy. “Quando si tratta di scommettere su qualcosa, c’è sempre di mezzo.”

“Ovvio.” Un sospiro, e Rah mormorò: “Il Duat è una noia, senza di te, ma non voglio che torni qui.”

“Né io intendo tornarci. Non voglio morire.”

“Sono lieto di sentirtelo dire, finalmente.”

Ciò detto, svanì con una carezza che la attraversò tutta, lasciandola stranamente vuota, quando essa perse di effetto.

Le mancava, non poteva farci nulla, ma ormai non era più il tempo per gli dèi del Nilo.

Essi non potevano più solcare il ricco fiume, camminare leggiadri tra i canneti, abbeverarsi alle sorgenti cristalline del Portatore di Vita e lasciare che i palmeti ne proteggessero il sonno.

Non il potente Ptah, né l’affascinante Isi, potevano rompere il sigillo che li legava eternamente al Duat.

Nessuno di loro avrebbe mai più goduto delle terre dove, per millenni, avevano beneficiato di rispetto e onore.

E, come loro, non Apollo, o Cerere, o Morrigan, potevano più intervenire nelle faccende umane.

Scomparsi i culti che avevano dato loro la forza, e un corpo fisico con cui muoversi, essi erano tornati alla loro forma primigenia, fatta di spirito ed energia.

Solo gli Oracoli potevano udirli, quando Essi volevano essere ascoltati.

Lei sola, unica tra le creature immortali, aveva mantenuto un corpo.

Neppure Manasa, per quanto si proclamasse dea in Terra, era come lei.

Il suo spirito era immortale e i suoi poteri erano quelli di una dea, ma le nagini nascevano da donne umane ed erano umane, mortali.

La nagini che fosse nata con in sé l’anima di Manasa, sarebbe stata la più potente tra le sue sorelle, rispettata dagli uomini e le donne serpente ma rimaneva, pur sempre, una fragile umana.

Il dono di una Fenice era ben diverso.

Il suo corpo, pur se di carne e sangue, aveva una maggiore resistenza e una maggiore forza fisica, nasceva dal fuoco e moriva nel fuoco.

Sempre se stessa, sempre unica, mai diversa.

Fenice era immutabile. Le Manasa, no.
 
***

“E così, vorresti una settimana di ferie, eh?” chiosò Nathan, intrecciando le braccia sul torace prima di fissare con aria inquisitoria il suo sottoposto.

Morgan ristette in piedi, in perfetto silenzio, di fronte al suo comandante.

Era desideroso di ricevere una risposta in tempi brevi ma, a quanto pareva, Nat aveva tutt’altro in mente.

Girandogli intorno come un lupo di fronte alla preda ormai spacciata, continuò a tenere i suoi occhi sul volto sempre più impenetrabile del giovane finché, accigliato,  ringhiò: “Non ti saltasse in mente di andare a Las Vegas per sposarti con la dottoressa perché, giuro su di Dio, ti legherò sull’autoscala e me ne andrò con te in giro fino ai confini dello Stato!”

Sobbalzando leggermente di fronte a entrambe le ipotesi prospettate dal comandante, Morgan esalò sconvolto: “Non voglio andare a sposarmi in gran segreto! E neppure ti permetterei di legarmi come un salame sulla scala!”

Ancora poco convinto, Nat gli si piantò innanzi con le gambe ben aperte e un nero cipiglio dipinto in volto, dicendogli serioso: “Non ci terrai fuori dal tuo matrimonio, ragazzo.”

Sbuffando, Morgan ribadì con tono fintamente calmo: “Non. Vado. A. Sposarmi. Chiaro?!”

“Bene” annuì allora Nat, accennando un pallido sorriso.

Esalando un sospiro liberatorio, Morgan mugugnò: “Ma sai che sei peggio di una donnicciola? Se anche avessimo deciso di sposarci in gran segreto, cosa sarebbe cambiato?”

“Fai parte del corpo dei Vigili del Fuoco, ragazzo, e sei uno di famiglia!” tuonò Nathan con aria più che convinta, veemente.

Sinceramente commosso, Morgan batté una mano sulla spalla del suo capo, replicando sommessamente: “Ti prometto che, se e quando accadrà, te lo dirò.”

Accigliandosi leggermente a quel ‘se’, Nathan ribatté: “Non avrete intenzione di dividervi, spero? Dove la trovi un’altra dottoressa così paziente e carina?”

Con un risolino privo di allegria, Morgan annuì prima asserire: “Non dipende da me, né da lei. Le ferie ci servono per affrontare un problema… del suo passato.”

“Sono saltati fuori i suoi veri genitori?” esalò sorpreso Nathan, che sapeva ormai ogni cosa ‘ufficiale’ del passato di Joy.

“Non proprio” mugugnò Morgan, storcendo la bocca carnosa.

Era snervante non poter dire la verità a uno dei suoi migliori amici.

Dentro di sé, comprese anche cosa avesse voluto dire, per Joy, mantenere intatto un tale segreto per così tanti anni, con così tante persone.

Non poteva che ammirarla ancora di più per il suo coraggio e la sua forza d’animo.

Chissà quanto le era costato sopportare la sua arringa, le sue accuse, senza infervorarsi come avrebbe giustamente potuto fare.

Certo, lui si era sentito tradito e ferito dal suo silenzio, ma come non capirla, sapendo che segreto gli aveva taciuto?

Trovandosi ora nelle sue stesse condizioni, capiva Joy come mai prima di allora e, ancora una volta, non si stupì di essersi innamorato di lei.

Come poteva non amare una donna così coraggiosa?

“Sicuro di non aver bisogno di aiuto?” gli domandò Nathan, strappandolo ai suoi pensieri.

“Ce la caveremo da soli, tranquillo” asserì Morgan, pensando poi tra sé: “Anche perché credo che, se falliamo, nessuno potrà fermare quei cosi squamosi.”

Un cenno di assenso anticipò le parole di Nathan.

“Avrai le tue ferie, ma esigo che tu mi chiami almeno una volta al giorno, altrimenti smuoverò mari e monti e ti verrò a cercare, va bene?”

“No!” esclamò Morgan, sgranando spaventato gli occhi prima di afferrare le spalle del suo capo e replicare con veemenza: “Non ti sognare di cercarmi, di cercarci! Non farmi stare in ansia, ti prego, Nat!”

Sinceramente sorpreso dalla reazione del suo sottoposto, Nathan esalò: “Ma cosa diavolo dovete affrontare?”

“Lascia perdere. Tu promettimi soltanto che non ficcherai il naso e, alla peggio, che chiederai prima a mio padre, o ai genitori di Joy, per avere nostre notizie, qualora non fossi in grado di mettermi in contatto con te. Non fare nient’altro” lo scongiurò Morgan, mortalmente serio in viso.

Annuendo, Nathan mormorò: “Farò come mi chiedi, ma chiama, se potrai.”

“Lo farò. In un modo, o nell’altro” gli promise Morgan, prima di abbracciarlo con forza.

Nathan, sorpreso dal suo gesto, replicò all’abbraccio dopo un istante e, con voce resa roca dall’ansia che avvertiva nel corpo teso del ragazzo, sibilò: “Se non torni meno che intero, ti ammazzerò con le mie stesse mani!”

“Promesso” ridacchiò Morgan, con voce tremula.

Detto ciò, sciolse l’abbraccio e accolse con favore il suono della campana nel deposito mezzi.

Il loro lavoro li chiamava. Tanto meglio, o il suo cervello si sarebbe sciolto per l’ansia.
 
***

Collegata su Skype con Alex e Stephen, Joy sorrise loro attraverso la webcam collegata al suo portatile e, dopo aver allungato un croccantino a Monet, disse loro: “La faccenda è questa. E’ più o meno chiara?”

“Se per chiara intendi che noi dobbiamo sentirci come due emeriti idioti che non possono fare niente per aiutarti, allora sì, è chiara” brontolò Alex, intrecciando le braccia sul torace, abbracciato da una fine camicia di Armani.

Alle sue spalle, la luce calda e soft dell’ufficio illuminava parzialmente il mobilio raffinato e il ficus, che si trovava accanto alla larga finestra, affacciata su una via del centro di Salem.

Il sole al tramonto si rifletteva sui vetri perfettamente puliti, lanciando scie aranciate sul pavimento.

Una lieve brezza, che scivolava attraverso i vetri socchiusi, faceva ondeggiare lievemente la tenda, trattenuta da un nastro di seta blu.

Joy sorrise spiacente a quelle parole, replicando al cugino: “Non devi sentirti così. Tu mi sei già stato tremendamente d’aiuto, in passato.”

“Ma io no” sbottò Steve, a quanto pare impegnato in uno dei cantieri della ditta per cui lavorava.

Dietro di lui, erano ben evidenti i contorni di un ufficio prefabbricato, dove una miriade di fogli erano stati fermati con delle calamite su una lavagnetta magnetica.

La camicia a quadri di Steve era lievemente sporca di polvere – presumibilmente calce – era arrotolata sulle maniche, e lasciava intravedere i fasci di muscoli e la leggera peluria scura che ricopriva la pelle abbronzata.

Le mani, intrecciate sulla scrivania, proprio accanto alla tastiera del pc, erano frementi; si scioglievano e si intrecciavano di continuo, in una danza senza fine.

Piegando la bocca in una smorfia, Steve proseguì nella sua reprimenda, aggiungendo: “E’ mai possibile che io non possa fare proprio niente?”

Un sospiro scivolò fuori dalle labbra rosso corallo di Joy che, preso in braccio Monet, lo accarezzò distrattamente per poi dire ai cugini: “Ho tutto l’aiuto che mi può essere dato. E ho Morgan con me.”

“Sarei più utile io, visto che posso essere il canale naturale di Rah!” brontolò Alex, scuotendo il capo.

Quando Joy, anni addietro, lo aveva messo al corrente della presenza di un Oracolo nella sua anima, Alex ne era rimasto sconvolto, ma anche profondamente onorato.

Venire finalmente a conoscenza dei motivi che gli avevano permesso di aiutare Joy gli avevano tolto, in un qualche modo, un peso dalle spalle.

Forse, si era sentito in dovere di avere un motivo più che valido per essere stato l’unico, tra i fratelli, a beneficiare della possibilità di parlare con Rah senza la mia presenza. 

Dopotutto, Alex rimaneva un ragazzo modesto, e voleva un bene dell’anima ai suoi fratelli.

L’essere il portatore di un Oracolo, in fondo, lo scagionava da qualsiasi colpa lui si fosse auto inflitto in passato.

E Joy era più che sicura che Alex si fosse sentito davvero in colpa, per quell’evidente differenza tra lui e i fratelli.

Sorridendo ad Alex, Joy si limitò a dire: “Basterà Morgan.”

“Per quanto tu possa amarlo, lui non ha il mio dono” precisò Alex, accigliandosi.

Mordendosi un labbro, Joy si arrischiò a confessare: “Credo che, invece, possa fare molto.”

“Che intendi dire?” si informò Steve.

“Non ne sono sicura, ma succede qualcosa di strano, quando stiamo insieme.”

Nel dirlo, arrossì, e così pure i cugini, che divennero paonazzi.

“Ti prego, non ricordarmi che fai sesso con lui, Leen! E’ già troppo sopportare che non potrò venire con voi…” esalò disgustato Alex, scuotendo il capo come per scacciare dalla testa pensieri torridi sulla cugina e Morgan.

Steve, al pari del fratello, mugugnò: “Non voglio pensare a dove ha messo le mani il tuo pompiere, grazie. Mi limiterò a prendere per buono il fatto che lui possa aiutarti. Ma non voglio sapere come l’hai scoperto.”

Ridendo suo malgrado, Joy annuì prima di volgersi a mezzo, non appena udì la porta di casa aprirsi.

Un sorriso le si dipinse spontaneo sul volto mentre, con mani delicate, sospingeva Monet verso l’alto perché planasse sul suo trespolo.

Un ‘Mooorr-gan!’ si levò gracchiante nell’open space, prima che il giovane si avvicinasse a Joy.

In barba alla webcam, il giovane la baciò languido sul collo, subito investito dal coro di insulti disgustati di Alex e Steve.

Sogghignando nell’osservare le due facce schifate dei fratelli Barrett, Morgan si accomodò sul bracciolo della poltrona dove era accomodata Joy, e chiosò: “Sarò pur libero di salutare la mia ragazza, no?”

“Non così, e non davanti a noi!” sbottò Steve, scuotendo il capo.

Joy rise delle loro espressioni ugualmente disgustate e, nel passare un braccio sulla coscia di Morgan, celiò Morgan: “Non devi far loro caso. Tutta invidia.”

“Lo sospettavo” ammiccò quest’ultimo, deponendo un casto bacio sui suoi capelli, rilasciati sulle spalle. “Li hai avvertiti del nostro imminente viaggio?”

“Sì. Nat era d’accordo?” si informò Joy.

“Tutto a posto, anche se è terrorizzato. E’ pronto ad ammazzarmi, se rientrerò con un graffio” la informò Morgan, sorridendole beffardo.

“Conto di evitarlo” asserì lei, prima di tornare a scrutare i cugini. “A Lily e Susan, dite quello che volete, anche la verità. Fanno parte della famiglia, perciò è giusto che siano informate dei fatti.”

“Ne sei sicura?” le domandò turbato Alex.

“Gli dèi non vogliano, Alex ma, se succedesse qualcosa di grave, in qualche modo dovrete pur spiegarglielo” sospirò Joy, reclinando un momento il capo.

“Non voglio neppure prendere in considerazione la cosa!” esclamò Alex, adombrandosi al pari del fratello.

“Non ragionate con obiettività. Sono forte, ma sono fallibile” mormorò Joy, stringendo leggermente la mano sul ginocchio di Morgan, quando lo sentì irrigidirsi alle sue parole.

Neppure lui voleva contemplare quella possibilità, lo sapeva bene.

“Tu vincerai. Punto” sentenziò Alex, prima di volgersi un momento quando sentì la porta dello studio aprirsi. “Susy, ciao.”

Nello schermo apparve il viso perfettamente truccato di Susy, incorniciato dal solito caschetto di capelli biondi.

Non appena la donna vide sul video il volto di Joy, sorrise spontaneamente e disse: “Ehi, ciao, Joy! Ciao Morgan!”

“Salve, avvocato” esclamò Morgan, chinandosi per essere a sua volta visibile.

“Diglielo, Alex” si limitò a dire Joy, prima di salutarli.

Rimasta in comunicazione con Steve, Joy asserì: “La tua missione è importante non meno della mia, Steve. Dovrai occuparti dei tuoi genitori, dei miei e della madre di Morgan. Non mi sembra una cosa da poco. Sarò più tranquilla, … saremo più tranquilli, sapendoli da te.”

“E va bene, mi prenderò cura di loro. Farò il possibile perché stiano al sicuro” le promise Steve, aggiungendo di seguito: “Comunque, sono d’accordo con Alex. Tu riuscirai.”

“E’ bello sapere quanto vi fidiate di me. Sono felice di sapervi al mio fianco” gli sorrise Joy, lanciandogli un bacio per chiudere la chiamata.

Soli nel silenzio ovattato della baita, interrotto solo dal gracchiare estemporaneo di Monet, Joy si levò in piedi per abbracciare Morgan e, al suo orecchio, sussurrò: “Dovrai sempre rimanere accanto a me, durante la battaglia. Non voglio lasciarti fuori.”

“Non te l’avrei permesso. Sai che sono più testardo di te, quando mi impunto” rise Morgan, accentuando la stretta attorno al suo corpo minuto e caldo.

Joy sorrise a quelle parole e annuì, replicando: “Oh, ne ho avuto ampie prove. Per questo sono sicura che, avendoti al mio fianco, vinceremo.”

“Anche se sono un semplice umano?” le ritorse bonariamente contro.

“Sei l’umano che mi ama, e che io amo. E’ questo l’importante.”

Nel dirlo, lo baciò delicatamente appena sotto l’orecchio, dove la carne era più tenera.

Morgan sospirò deliziato, prima di catturare la sua bocca con un bacio avido e sì, carico di ansia.

Nessuno di loro era certo di quel che sarebbe accaduto tra le lande desertiche dell’Arizona, eppure Joy era sempre più sicura che avere Morgan accanto a sé fosse la scelta più giusta.

Solo l’esito della battaglia, avrebbe dichiarato quanto avesse avuto torto, o ragione, nel volerlo al suo fianco.

Sperava solo di non condannarlo al più atroce dei destini.

“Non mi importa di morire, Joy. Finché morte non ci separi, io la penso così” le sussurrò, scostandosi dalla sua bocca, quasi le avesse letto nel pensiero.

Sorridendo di fronte al suo coraggio, Joy mormorò contro la sua bocca: “Non siamo sposati.”

“Non occorre una firma su un cavolo di contratto, per sentirmi legato a te per la vita. E non mi importa un accidente se tu rimarrai giovane, mentre io invecchierò e diventerò canuto, per poi morire. Fino a quando avrò un alito di vita, la spenderò per stare al tuo fianco. Anche se essa dovesse durare fino al prossimo mese, e basta.”

Detto ciò, si scostò da lei e le si inginocchiò innanzi mentre la giovane, a occhi sgranati, lo fissava senza avere il coraggio di parlare.

Infilata la mano nella tasca dei pantaloni, Morgan ne estrasse una scatoletta di pelle nera, che poggiò sul palmo destro prima di allungarla in direzione di Joy.

“Aileen Joy Patterson, mi sono innamorato di te fin dal primo giorno in cui ci siamo visti. Da quando il mio sguardo ha incrociato il tuo, niente ha più avuto importanza, a parte te. Ti ho inseguita, ti ho bramata, ti ho desiderata forse senza meritarti e tu, alla fine, mi hai accettato nella tua vita, come amico prima, come amante e compagno poi. Non agogno ad altro che a passare il resto dei miei giorni assieme a te, che tu sia Fenice, o Benu, o qualunque altro nome tu abbia mai avuto o avrai mai. Il mio cuore conosce il tuo, e tanto mi basta. Ed è con tutto il mio cuore che ti chiedo… vuoi rendermi l’uomo più felice di tutti i tempi, e diventare mia moglie?”

Trattenendosi a stento dal piangere, Joy ascoltò assorta ogni sua parola.

Si abbeverò lo sguardo in ogni istante con i suoi occhi, il suo sorriso, il suo volto incorniciato da un amore così forte da essere quasi accecante.

Quando infine la scatoletta fu aperta per lei, non poté non esalare un singhiozzo stupido e commosso quando scorse, al suo interno, un anello d’oro bianco a forma di Occhio di Horus.

Crollando in ginocchio, Joy lo abbracciò strettamente, annullando le distanze tra loro.

Con voce resa roca dall’emozione provata, annuì ed esalò: “Sì, sì, accetto. Sarò tua moglie.”

Morgan allora balzò in piedi, attirandola con sé in una giravolta intrepida che, per poco, non li vide cadere rovinosamente a terra.

Nessuno dei due vi badò.

Le risa che si levarono dai loro cuori surclassarono ogni cosa, ogni pensiero nefasto, ogni bruttura, ogni ansia.

Sarebbero stati una cosa sola, un solo essere, una sola entità.

Due anime in una.

Quando finalmente Morgan la depositò a terra, gli occhi scuri che scintillavano come ossidiane levigate, le sussurrò divertito: “Quando Nathan mi ha accennato a un matrimonio in gran segreto, ho pensato che non avesse tutti i torti. Desidero sposarti ora, perché tu sia mia per sempre.”

Joy sorrise, annuendo. Non poteva che essere d’accordo con lui.

“Possiamo sposarci in comune poco prima di partire, non ci sono problemi e se vorrai, quando torneremo, lo faremo anche in chiesa. Però, non voglio andare a Phoenix senza prima averti messo l’anello al dito.”

“I nostri genitori impazziranno, per il preavviso brevissimo” rise divertita Joy, ancora incredula di fronte all’enormità di ciò che aveva appena detto.

Stava andando volontariamente contro tutti i suoi precetti, ed era felice di farlo.

Sarebbe stata dannata, forse, ma voleva Morgan in ogni sua forma possibile. E non ci vedeva nulla di sbagliato, in questo.

“Si adegueranno, e così faranno anche i tuoi cugini” scrollò le spalle Morgan, afferrandola alla vita e sollevandola in aria un attimo dopo.

Joy rise ancora, lasciando che il giovane la facesse volteggiare in tondo per la stanza.

Ripiegando il collo all’indietro, emise un canto di giubilo a cui si unì anche Monet e, mentre Morgan la rimetteva a terra, la ragazza proseguì nella sua esibizione mutando mano a mano il proprio aspetto.

Tra i capelli comparvero lunghe piume azzurre e color oro mentre gli abiti, svaporando, lasciarono il posto a una fitta quanto lieve lanugine di piume scarlatte.

Possenti remiganti si estesero lungo le sue braccia e, mentre Morgan ammirava senza parole quel cambiamento radicale, Joy mormorò: “Volevo mi vedessi anche in questa forma… la assumerò quando combatteremo fianco a fianco, come un’unica entità.”

Sfiorando il suo corpo con lo sguardo e con mani esitanti, Morgan sorrise sempre più estasiato, esalando roco: “Sei… magnifica. Una autentica dea.”

“Vuoi tu dunque, mortale, unirti alla dea che tanto ti ama?” sorrise sorniona lei, tornando se stessa prima di afferrarlo alla nuca e baciarlo con trasporto.

Morgan non se lo lasciò ripetere.




 
 
***




 
La notizia del nostro frettoloso matrimonio lasciò, ovviamente, tutti di stucco, e preoccupò non poco coloro a cui la notizia venne comunicata.

Se i colleghi di Morgan lo subissarono di domande su domande, ottenendo solo dei laconici ‘ci è parso il momento giusto’, in ospedale non andò meglio.

Risposi a monosillabi a Robert e a Cynthia, per non parlare delle infermiere, che esplosero in cori entusiastici.

L’attimo seguente, andarono nel panico al pensiero di trovare un abito adatto alla cerimonia – che si sarebbe svolta la settimana seguente, in comune – in un tempo così breve.

Mamma e papà compresero ampiamente i motivi che avevano spinto Morgan ad agire in quel modo.

Pur sentendosi in obbligo di chiedermi se realmente volessi affrettare i tempi, non poterono che essere felici per me, quando mi dichiarai più che lieta della scelta fatta.

Naturalmente, Haniya espresse tutta la sua gioia nel sapere la grande notizia, ma mi informò che non avrebbe potuto partecipare, a causa di una importante quanto difficile operazione, prevista proprio per quel giorno.

Le promisi che avremmo fatto la cerimonia in chiesa più avanti, così da permettere a lei e a Chad di partecipare, sperando con tutta me stessa di non averle raccontato una frottola.

Tutto sembrava correre fin troppo velocemente, dalla notizia dell’arrivo di Manasa al mio imminente matrimonio con Morgan.

Al tempo stesso, però, le ore sembravano essere immerse in un liquido denso come melassa, che ne impediva il regolare susseguirsi.

Mi sentivo contratta su me stessa e, contemporaneamente, dilatata fino all’estremo.

Sapevo che ciò che stavo facendo era epocale per diversi motivi.

Forse, queste mie strane sensazioni dipendevano dal fatto che, per la prima volta in tutte le mie vite, decidevo per me stessa, e non per il resto del Creato.

Cosa ne sarebbe venuto in seguito, nessuno poteva dirlo.

Solo il tempo, così contratto e dilatato – quasi riflettesse all’infinito le mie emozioni – avrebbe potuto dirlo.







Note: Vi ho sorpreso? :)

  
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