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Autore: M e g a m i    17/05/2012    3 recensioni
The Black Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The BOSS.
Era una sorta di social network in cui si era trovata coinvolta senza neanche rendersene conto. The BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo “oscuro”come il colore del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni santo giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e indirizzo di posta elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social network stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data di nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo un nickname modificabile in qualsiasi momento.
Non era facebook.
Era semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki Arisawa riusciva a tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati di fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un sorriso appena accennato.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NDA: Niente, eccoci col primo capitolo.
Ne ho già pronti altri, che caricherò subito nel caso vedessi che questa storia sta cominciando a piacere.
Quindi fatemi sapere, eh!  


[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]



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CAPITOLO 1 – Circolo vizioso

 
 
 
And I find it kinda funny
I find it kinda sad
The dreams in which I'm dying
Are the best I've ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It's a very, very mad world
Mad world
 
E in un certo senso lo trovo divertente
In un certo senso lo trovo triste
I sogni in cui sto morendo
Sono i migliori che abbia mai avuto
Trovo difficile dirtelo
Trovo difficile accettarlo
Quando la gente corre in circoli viziosi
È davvero, davvero un mondo pazzo
Un mondo pazzo
 
[Mad WorldGary Jules]
 
 
 
Grimmjow Jaegerjaques si piegò sulle ginocchia e scoppiò a ridere fragorosamente nel vagone della metropolitana praticamente deserto, a parte un anziana signora seduta a parecchi posti di distanza da lui, anziana signora che non lo notò neanche. Con tutta probabilità era sorda come una campana.
Tenendo l’indice della mano sinistra come segnalibro, si passò la destra tra i capelli lisci, liberi dal gel e piuttosto lunghi, di un singolare colore azzurro, così come i suoi occhi. Era un colore che incuriosiva le donne orientali, a quanto pareva, per questo li teneva così. In fondo le donne rappresentavano la sua linfa vitale, i suoi soldi, così come la sua rovina.
Ma in quel momento, solo in compagnia di una povera vecchia che aveva ormai passato da un pezzo l’età in cui poteva essere definita una rappresentante del suo sesso, le donne erano l’ultima cosa che gli passava per l’anticamera del cervello, perché era impegnato in tutt’altro.
Allentandosi il nodo della cravatta rigorosamente bianca su una camicia nera, riaprì il volume, grosso appena quanto la sua mano, tornando alla pagina in cui si era interrotto a causa di una battuta particolarmente divertente.
Fly it.
Un manga praticamente sconosciuto, pubblicato direttamente in formato tankōbon con una tiratura minima, possibilità quasi – anzi, togliamo pure il quasi – nulle di sfondare su una qualche rivista alla Jump. A prima vista poteva sembrare l’ennesimo shōnen sportivo con qualche battuta più demenziale che comica, ma fin dal primo  momento in cui gli era capitato in mano il secondo volume, quel fatidico secondo volume, per lui era stato qualcosa di molto di più. Ed era partito alla disperata ricerca degli altri volumi, cinque in tutto fino a quel momento, talmente rari che si era visto costretto a pagare una cifra pari a una notte di servizio completo per ottenere il primo numero ad un asta su eBay.
Nemmeno lui si sapeva spiegare cosa ci trovasse di particolare in quel manga, tanto che nella sua classifica personale aveva scalzato classici come Dragon Ball e Ken il guerriero, diventando indiscutibilmente il primo, il suo preferito. Sarà forse stato il protagonista, così svogliato e menefreghista, col suo umorismo cinico e disilluso, che in ogni capitolo si vedeva costretto per cause di forza maggiore a unirsi a questo e a quell’altro club sportivo della sua scuola media, facendo puntualmente vincere la partita, la gara, la competizione, in cui si trovava coinvolto. Quel piccolo protagonista dotato di un enorme talento sportivo, il cui nome era Shū, in omaggio al “generale cieco”, che al posto di essere cieco però era miope, e che quindi non poteva realizzare il suo sogno di diventare pilota.
Saranno stati anche i disegni molto, molto buoni per i suoi gusti, semplici e puliti, ma incisivi. Le espressioni dei personaggi rendevano a pieno i loro stati d’animo, e soprattutto quelle comiche erano davvero da spanciarsi dalle risate.
Era un manga leggero e divertente, che a chi lo leggeva con attenzione, però, offriva degli spunti di riflessione più profondi. Più di una volta si era ritrovato a chiedersi chi fosse quel Kano Miyoshi autore del suo manga preferito, che non si era mai mostrato in pubblico. Doveva essere un tipo interessante. Avrebbe voluto il suo autografo sul quel tanto agognato primo numero.
Nello stesso momento in cui formulò quel pensiero, le sue labbra si piegarono in un sorriso ironico rivolto a se stesso, sorriso che più di una volta aveva letteralmente steso più di una cliente del night-club in cui lavorava. Anche quel sorriso di cui l’aveva dotato la cara mammina natura era la sua linfa vitale, la sua arma di seduzione. Senza, forse, non avrebbe riscosso lo stesso successo come host e qualcosa di più in una camera d’albergo.
Il suo sorriso si allargò.
Come se un tipo come lui, una puttana fatta e finita che vendeva il proprio corpo senza un briciolo di orgoglio, sarebbe potuto andare a dei raduni di appassionati di fumetti a chiedere autografi a destra e a manca.
 
 
 
Arisawa Tatsuki posò il pennino sul basso tavolino pieno di trucioli di gomma e di tempera, sbuffando sfinita.
Aveva bisogno di prendersi una pausa prima di continuare ad inchiostrare, oppure per la stanchezza avrebbe finito per combinare un gran casino. Barcollando tra le pile di cartacce e di volumi che usava come riferimento, raggiunse il frigorifero e ne tirò fuori un cartone di succo di frutta all’ACE, su cui istintivamente aveva disegnato un cappello con due faccine, una sorridente, una un po’ meno. Ne bevve un lungo sorso, facendosi cadere accidentalmente qualche goccia sul mento, e poi sulla maglietta di parecchie taglie più grandi che indossava. Guardò per qualche secondo la macchia arancione che le si andava formando sul bavero, poi alzò le spalle con noncuranza e ritornò alla sua posizione di lavoro portandosi dietro la confezione di succo, chiudendo l’anta del frigorifero con un colpo di gomito.
Con delicatezza, come se si fosse si fosse trattato di pagine di un manoscritto antico in procinto di sgretolarsi, spostò le tavole che aveva già finito di inchiostrare e quella ancora incompleta, e tirò a se il computer portatile che l’accompagnava in ogni secondo della sua misera esistenza da reclusa.
Arisawa Tatsuki era ciò che la società avrebbe definito senza tanti complimenti una hikikomori.
Otaku incallita, per di più. E pure una mangaka fallita.
Un rifiuto ambulante insomma, anzi, neanche ambulante, perché lei non girava da nessuna parte, se non nel suo piccolo bilocale che poteva a malapena permettersi.
Eppure non era stato sempre così. Una volta... una volta correva come il vento. E non in quel circolo vizioso che si faceva sempre più stretto.
Appoggiando la testa a una mano, allungò l’altra verso il pacchetto di patatine che aveva aperto il giorno prima e che non si era neanche presa il disturbo di chiudere, per poi leccarsi le dita e asciugarsele sulla maglietta, prima di spostarle sul touchpad. Con un paio di click aprì sia il browser di Internet Explorer che quello di Mozilla Firefox. Col primo si collegò al suo indirizzo di posta elettronica, e notò che il suo editore le aveva mandato una e-mail in cui le chiedeva di chiamarlo appena avesse potuto per una questione di lavoro.
Chissà cosa diavolo voleva, si chiese con un brivido. Parlare con le persone al telefono la metteva a disagio, ma con lui era costretta a farlo, per fissare le scadenze per le consegne e tutto il resto. Si erano anche visti faccia a faccia, un paio di volte. Gli incontri non erano durati che pochi minuti, ma questo le era costato altrettanti giorni di sonno rintanata sotto le coperte per riprendersi dallo shock di aver parlato direttamente dopo secoli con un altro essere vivente che non fossero i piccoli ragni che ogni tanto le venivano a fare una visitina mentre faceva la doccia.
Scrisse una veloce risposta e poi chiuse la finestra di Internet, appuntandosi mentalmente che appena avesse potuto, ovvero appena ne avesse trovato la voglia e il coraggio, avrebbe dovuto fare quella benedetta telefonata.
Poi finalmente si dedicò a Mozilla, santo browser che salvava le ultime sessioni risparmiandole l’immensa fatica di fare ogni volta il log in.
The Black Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The BOSS.
Era una sorta di social network in cui si era trovata coinvolta senza neanche rendersene conto. The BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo “oscuro”come il colore del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni santo giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e indirizzo di posta elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social network stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data di nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo un nickname modificabile in qualsiasi momento. Non era facebook.
Era semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki riusciva a tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati di fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un sorriso appena accennato.
  
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