Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    24/05/2012    4 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il grosso argano si mosse. La spessa catena prese a tendersi, riavvolgendosi attorno alla carrucola con uno stridio assordante. Scricchiolando, il gigantesco corpo di lamiera del batiscafo prese a sollevarsi dal ponte.

I marinai e gli operai osservavano meravigliati e ansiosi l'imponente struttura del batiscafo, che penzolava inerte sopra le loro teste. Sembrava il cadavere di un mostro, appena ripescato dal mare. Loro stessi avevano contribuito a costruirlo, ma era come se in quel momento lo vedessero realmente per la prima volta. E per la prima volta appariva ai loro occhi in tutta la sua stazza, tanto che molti di loro si chiedevano se ce l'avrebbe fatta sul serio a galleggiare, quell'affare, costruito in così poco tempo da quel ragazzo taciturno e da quell'Engländer sfatto e imbolsito, che assisteva all'operazione in maniche di camicia, sudando e lanciando segnali a destra e a manca che nessuno però capiva o dava segno di capire.

«Cala, cala! No, non così, atten...»

All'ennesima manovra che giudicò inappropriata, Hanson si portò le mani ai radi capelli arruffati, che gli stavano appiccicati sulla fronte sporca di polvere e limatura di ferro. Sussultava come se si trovasse su un letto di spine e continuava a imprecare e a urlare comandi che poi gli morivano sulle labbra, immancabilmente, in un susseguirsi ininterrotto di borbottii ed esclamazioni furiose.

Improvvisamente la nave oscillò, e le lamiere che rivestivano la nave lanciarono un boato sinistro. Era salito il vento e il mare si stava ingrossando. Le onde si erano alzate e sferzavano con vigore lo scafo. Dovevano muoversi, se volevano calare in mare i due batiscafi senza correre rischi.

«Fate attenzione, idioti!» gridò Hanson, impallidendo, mentre il batiscafo ondeggiava pericolosamente, appeso alla catena. «Volete distruggerlo? Ah, per l'amor del cielo...»

Jean soffocò una risata. Hanson lo udì, e si volse a guardarlo. Aveva il volto tirato e l'espressione angosciata.

«Il mio gioiellino, il mio amatissimo Gratan IX» lamentò. «Quegli imbecilli! Se continua così, finiranno per ammaccare lo scafo, lo so! E tu non dovresti ridere, dannazione!»

«Non avevo idea che lo avessi persino battezzato» ridacchiò Jean, che ignorò però il rimprovero. Hanson gli si avvicinò. Un sorriso orgoglioso gli comparve in volto, stirandogli tutta la faccia.

«Gratan IX, proprio così» annuì. «Un nome che ho scelto sulla scia dei suoi illustri predecessori».

«Speriamo che porti bene... non è che i precedenti otto abbiano avuto una gran fortuna».

Hanson si fece improvvisamente livido. Il suo sorriso si spense così in fretta che le guance collassarono, tremolando. Sanson, in canottiera e con i bicipiti lustri di sudore, avanzò sghignazzando verso di loro, tergendosi il volto con uno straccio. Evidentemente, aveva appena terminato i suoi consueti esercizi.

«La colpa è solo di chi era al comando» ringhiò Hanson, lanciando al cugino un'occhiata fulminante. «Non certo del mezzo».

«Forse chi l'ha costruito avrebbe dovuto renderlo più maneggevole. Possibile che tutto quello che costruisci tu debba assomigliarti? Guardalo! E tu quell'affare lo chiameresti una nave? A me sembra un pachiderma...»

«Cosa vorresti insinuare, razza di...»

«Va bene, basta» intervenne Jean. «Cerchiamo di concentrarci sulla missione, ok?»

Sanson annuì.

«Il mare è agitato» disse. «Non sarà facile avvicinare lo scafo dell'Exelion, con quelle onde».

«Per questo ho sviluppato un congegno di guida idro-assistita» fece Hanson, sfoggiando un'aria di superiorità. «Ho ripreso l'idea che Jean aveva avuto per il vecchio Gratan VIII, implementandola. Ora sarà possibile effettuare micro-aggiustamenti di rotta e di manovra, al massimo della precisione» aggiunse, rivolgendo uno sguardo in tralice al cugino. «Certo, questo non esclude la stupidità umana...»

«Per questo non devi preoccuparti, visto che non sarai tu a guidarlo» ribatté Sanson in tono di sfida. «Comunque, c'è un'altra cosa a preoccuparmi, al di là delle onde».

Jean seguì con gli occhi lo sguardo di Sanson e capì immediatamente a cosa si riferiva. Sul fondo del ponte, un gruppo di soldati al comando di un ufficiale stava ultimando di caricare alcune casse, sul secondo dei due batiscafi.

«L'esercito imperiale ci farà compagnia» commentò Sanson. «Mi chiedo che interesse possano avere i militari in questa spedizione».

«Non lo so, e non mi interessa» fece Jean. Sanson e Hanson si guardarono di sottecchi, quindi gli rivolsero uno sguardo curioso.

«Se devo essere sincero, può venire anche l'Imperatore in persona» aggiunse Jean. «Quello che mi interessa è riuscire a raggiungere l'Exelion, nient'altro. Come ho già detto diverse volte, non tollererò intromissioni».

Hanson e Sanson si guardarono nuovamente. Entrambi avrebbero voluto dire qualcosa, ma sembravano frenati da un certo imbarazzo. Alla fine, Hanson si fece coraggio e ruppe il silenzio in cui erano caduti.

«Jean, nel caso non riuscissimo a raggiungere l'Exelion» disse, con una certa titubanza «capisco che tu non voglia sentirtelo dire, ma...»

Jean squadrò Hanson duramente. Quello inghiottì, trattenendosi per un istante.

«Quello che voglio dire è che... anche se non dovessimo riuscirci... almeno, ecco... come dire... sì, insomma, ci abbiamo almeno provato. Giusto?»

Hanson cercò conforto nel cugino, lanciandogli un'occhiata che chiedeva soccorso. Sanson annuì, secco.

«So cosa vuoi dire, e ti ringrazio» ribatté Jean, freddo. «Ma sono sicuro che non ci saranno problemi».

Hanson annuì. «Certo, ma...»

«Non ci saranno problemi».

Senza aggiugere altro, Jean si allontanò. Non diede nemmeno ad Hanson il tempo di replicare, o di rimediare a quanto aveva appena detto. Sanson intuì che il cugino stava per seguirlo, per scusarsi, e lo trattenne.

«Lascia» disse. «Ora non è il caso. È meglio non tormentarlo. Credo che abbia già fin troppi pensieri, non lo pensi anche tu?»

Per un attimo, Hanson indugiò con lo sguardo sul profilo distante di Jean, sporgendo le labbra.

«Si è imbarcato in qualcosa che rischia di essere più grande di lui» disse, sospirando. «Sinceramente, mi preoccupa molto. Non so quanto sia realizzabile questo progetto e ho paura che possa finire male. Le incognite sono tantissime e non parlo solo di raggiungere l'Exelion. Una volta laggiù, dovremmo trovare un modo per entrare nella nave, raggiungere la sala macchine e infine riattivare il motore Orpheus... sempre che questo sia possibile... E poi c'è la questione della Pietra!» esclamò. «Onestamente...»

«Ehi, ehi! Prendiamo una cosa alla volta, ok?» fece Sanson, posando una mano callosa sulla spalla del cugino. «Per quanto mi riguarda, quando guardo quell'affare che avete costruito, vedo solo una cosa, e cioè la nostra possibilità di raggiungere le ragazze. E non penso a nient'altro. Oltre al fatto che sembra davvero un pachiderma...»

«Non è un... insomma!» esclamò Hanson, livido. «Io sto solo dicendo che, ammesso che si riesca a uscire vivi da questa missione, non è detto che riusciremo a raggiungere la nave, e soprattutto a mettere in atto il piano assurdo di Jean. Se dovesse concludersi tutto con un fallimento, anche portando a casa le penne non credo che lui riuscirebbe più a riprendersi».

«E se anche fosse?» disse Sanson. «Forse è un motivo in più per tentare, no?»

«Non lo so, io...»

«Ogni giorno, da quando se ne sono andate, non faccio che tormentarmi» mormorò Sanson, improvvisamente più serio. «Non faccio che chiedermi cosa avrei potuto... anzi, cosa avrei dovuto fare, per non lasciarle partire. Allora me la sono presa con lui» disse, ammiccando in direzione di Jean, «con Jean, intendo. Gli ho riversato addosso tutta la colpa, ma anche io non ero là, là dove avrei dovuto essere» sospirò. «Non ho mai trovato una risposta a quella domanda, a cosa avrei dovuto fare... almeno, non ho mai trovato una risposta che piacesse a me. Per mesi ho odiato Jean inutilmente, convincendomi che se non fosse stato per lui, nulla di quello che è accaduto sarebbe successo. Rebecca e Marie sarebbero con noi, ora, e Alex non sarebbe morta. Però, cos'ho fatto io per impedire che tutto questo accadesse? Mi ero ormai rassegnato all'idea di convivere con quel tormento, ma lui non l'ha fatto. Si è aggrappato a una speranza, che per quanto assurda, era tutto ciò che gli restava. Quando l'ho incontrato, ho pensato che il destino ci stava dando un'altra opportunità, che la stava dando a me. Per questo ho accettato di seguirlo. Capisci cosa intendo?»

Hanson annuì.

«Sì» disse, «credo di sì».

«Per quanto assurdo sia, voglio provarci» aggiunse Sanson. «Farò tutto quello che c'è da fare, per aiutare Jean in quest'impresa. Per quanto ne so, si tratta solo di scendere laggiù, e di riportare a galla quel vecchio rottame. Ci sono posti molto più profondi e bui dell'oceano, cugino, e molto più pericolosi. Sono posti che ho già visitato e da cui in qualche modo sono riuscito a tornare indietro. Se l'ho fatto, è stato ogni volta per un motivo ben preciso. Jean ora me ne ha offerto uno, e mi lascerò guidare da quel motivo. Se sarà necessario vi tirerò tutti fuori, e vi riporterò sani e salvi quassù, parola mia».

Hanson guardò il cugino. Improvvisamente, di fronte a tanta spavalderia, si ricordò di quando Sanson era piccolo, quando non era così forte ma talmente gracile che temeva ogni volta di vederlo cadere al più timido soffio di vento. Era lui a proteggerlo in quei momenti, e Sanson lo seguiva ovunque e lo ammirava, come si ammira un eroe, o un fratello maggiore. Non lo chiamava pachiderma, allora, ma si stringeva a lui, invocando il suo aiuto. Come quella volta, quando il mondo intorno a loro era cambiato in un attimo e si erano ritrovati improvvisamente soli, di fronte alla vita e di fronte alla morte.

Anche allora, erano riemersi insieme da un luogo buio. E da un inferno profondissimo che non li avrebbe mai davvero abbandonati.

«È una promessa?» chiese Hanson, con un sorriso che lasciava intendere di conoscere già la risposta. Sanson annuì, incrociando le braccia robuste.

«Una promessa» disse. «Nonostante il tuo pachiderma».

«Maledetto» farfugliò Hanson.

 

 

*

 

 

Ci siamo.

Jean osservò il batiscafo, che era pronto ad essere calato in mare. Si trattava ancora di pochi istanti, poi tutto sarebbe definitivamente cambiato. Nel bene come nel male. Se il batiscafo fosse riuscito a galleggiare e a raggiungere l'Exelion, allora il suo sogno avrebbe avuto qualche chance di successo.

Capiva i dubbi di Hanson, anche se ammetterlo gli costava un certo fastidio. Era consapevole che le probabilità di raggiungere quella profondità con un mezzo costruito in così poco tempo, e per di più senza aver mai effettuato neppure una prova, era un azzardo che avrebbe potuto costare la vita a lui e a tutti gli altri. Eppure, la cosa non gli importava. Ma questo, non poteva certo dirlo ad Hanson.

La verità è che Jean si sentiva egoista. Era una sensazione che aveva imparato a conoscere bene, negli ultimi tempi, e con cui si era abituato a convivere. La durezza con cui esigeva che le cose andassero come desiderava, lo aveva reso freddo e distaccato, disinteressato ai bisogni degli altri. Sentiva di non avere tempo, né voglia, per preoccuparsi degli altri: in fondo, aveva passato una vita intera a preoccuparsi di quello che gli altri potevano pensare, e tutto quello che aveva ottenuto era stato un fallimento dopo l'altro.

«Tu aspetti che le cose cadano dal cielo nella tua mano aperta» gli aveva detto Atahualpa. Era così. Aveva sempre creduto che prima o poi la bontà e l'onestà sarebbero state premiate e che la giustizia avrebbe trionfato, assicurandogli il giusto compenso per i suoi sforzi. Si sbagliava. La vita non segue le strade della giustizia, e non si cura della bontà. L'aveva imparato a sue spese; ma anche se non era stato facile, era una lezione che non avrebbe mai più dimenticato.

«Achtung!»

Jean si scostò, lasciando passare alcuni marinai che si affrettavano a portare delle lunghe pertiche, che avrebbero caricato sulle scialuppe e che sarebbero servite a tenere a distanza il batiscafo, una volta calato in mare.

«Davvero un'invenzione meravigliosa, la sua. Non c'è che dire».

Jean sussultò. Quando si volse, il volto impassibile di Ludwig von Wiesbaden gli stava rivolgendo un sorriso indecifrabile.

«Mi riferivo al batiscafo» aggiunse il barone «naturalmente».

«L'importante è che funzioni» ribatté Jean. Wiesbaden annuì. Ammiccò leggermente ai due uomini che lo seguivano passo passo, e questi si allontanarono silenziosamente, girando sui tacchi senza proferire parola.

«Lei è una persona con del genio, Herr Lartigue» riprese Wiesbaden, come nulla fosse. «L'avevo intuito fin dal nostro primo incontro, e avevo giudicato bene. Le confesso, che lei mi è piaciuto subito».

«La ringrazio» commentò Jean, piuttosto freddamente. «Lei è troppo gentile, anche se non credo di meritare così tanta stima».

«Ha evitato di dire che la stima è reciproca» commentò Wiesbaden, che evidentemente era piuttosto divertito da quel gioco di fioretto in cui si erano imbarcati lui e Jean. Jean, al contrario, sembrava piuttosto indifferente alla cosa. E non faticava a mostrarlo.

«È che non sono ancora riuscito a farmi di lei un'idea precisa. Al di là dell'evidenza, intendo».

«E cosa sarebbe evidente? Se posso permettermi...»

«Di sicuro sembra un uomo determinato».

Wiesbaden sorrise, compiaciuto. «Se è per questo, persino lei lo è» disse. «Direi che in questo, allora, siamo molto simili, Herr Lartigue».

«No, non direi» lo corresse Jean, piuttosto velocemente. «Anzi, direi che siamo profondamente diversi».

Passarono accanto ad alcuni militari che, finito di caricare i batiscafi, stavano fumando una sigaretta. Quando si accorsero di loro impallidirono, senza saper esattamente cosa fare. Con un gesto che tradiva una inaspettata magnanimità, Wiesbaden fece loro cenno di non preoccuparsi e di continuare.

«Posso farle una domanda?» fece Jean, distogliendo lo sguardo. Wiesbaden gli rivolse un'occhiata che lo invitava a proseguire. «Perché i soldati?»

«L'imperatore Guglielmo ha deciso di partecipare all'impresa» disse Wiesbaden, con una smorfia stiracchiata. «Si è mostrato interessato alle prospettive di impiego della tecnologia che riusciremo a recuperare. Crede che ciò gli conferirà prestigio internazionale. Che idiozie. Personalmente, non ho nulla in contrario, a patto che questo non interferisca con i miei obiettivi. Bisogna comunque notare che il Kaiser ha raggiunto ben pochi risultati utili nel corso della sua inutile vita, ma uno di questi è senza dubbio la riorganizzazione militare del regno. Non esiste al mondo un esercito più efficiente, e potenzialmente più potente, di quello tedesco. La sua utilità, in molti casi, è indubbia».

«Quindi, l'imperatore ha posto l'invio dell'esercito come condizione per il suo aiuto?»

«Diciamo che sono stato io a chiedere la disponibilità di un battaglione» ammise Wiesbaden «E questo in cambio del mio aiuto».

Sorrise. Jean aggrondò.

«Lei deve essere un uomo molto potente» fece. «Oppure molto stupido»

Wiesbaden rise.

«Senza offesa» aggiunse Jean.

«Nessuna offesa».

Wiesbaden tacque. Quindi inarcò le sopracciglia.

«Da quanto dice, deduco che lei non ami la guerra... Forse mi sbaglio, Herr Lartigue?»

«Diciamo che non è uno dei miei argomenti di conversazione preferiti».

«Capisco».

Wiesbaden rimase nuovamente in silenzio, limitandosi a camminare per il ponte a fianco di Jean. Stavano guardando senza interesse il movimento degli uomini sul ponte, quando improvvisamente il barone si fermò, fissando una spranga di ferro che giaceva a terra abbandonata. La raccolse e la sollevò davanti a sé, soppesandola accuratamente tra le mani.

«Sa, Herr Lartigue, nella mia lunga esperienza ho avuto modo di incontrare diverse tipologie di persone. Per quanto ognuno presenti caratteristiche che lo distinguono dagli altri, sono arrivato alla conclusione che ogni essere umano possa essere inscritto all'interno di tre semplici categorie. La prima, comprende tutti coloro che si dicono del tutto contrari alla guerra. Questa gente si appella a vaghi principi quali la fratellanza, la carità, la pace... o un dio, da qualche parte, che avrebbe parlato di amore e giustizia. Sono sciocchezze. La verità, è che queste persone sono dei vigliacchi, incapaci di affermare la propria volontà. Dei deboli. Dal momento che non sanno lottare, pretendono che il mondo getti le armi per loro, e sperano di riuscire a dominare i forti con la loro debolezza. Peccato che quando i forti insorgono contro di loro, queste persone dimentichino i loro valori di amore e di carità, e chiedano a gran voce che qualcuno di forte sacrifichi la propria vita per loro, in una guerra che essi non vorrebbero né saprebbero combattere».

«Una visione piuttosto negativa» commentò Jean. «E la seconda categoria?»

«Sono le persone che dicono di odiare la guerra, ma che in realtà la amano profondamente» disse Wiesbaden, che sollevò la spranga e, con un affondo elegante, la puntò dritta avanti a sé come fosse una spada. Un movimento che tradì in lui una certa abilità come spadaccino, o forse come duellante. «Queste persone non hanno il coraggio di confessare il loro desiderio di battaglia, e si nascondono aspettando il momento buono, il momento in cui potranno combattere. Possono trascorrere una vita intera nella menzogna, ma alla fine saranno costretti a confessare il loro amore per la guerra, che lo vogliano oppure no. Anche se, quando questo accadrà, ne proveranno una gran vergogna».

«Mi lasci indovinare. Io sono uno di questi, non è così?»

Wiesbaden si fermò. Afferrò la spranga come fosse un fucile e prese a mirare ai marinai che affollavano il ponte, a distanza da loro.

«Oh, no, no signor Lartigue» disse, continuando a prendere di mira i marinai. «Lei non è affatto così. Lei appartiene senz'altro all'ultima categoria, alle persone che amano la guerra e che non hanno paura di mostrarlo. Se lei mi ha detto di non amarla, è solo perché voleva prendersi gioco di me. Ma io e lei siamo simili, Herr Lartigue» disse Wiesbaden, e si soffermò sulla testa di un marinaio che stava loro di spalle, e che riavvolgeva ignaro delle cime. Wiesbaden chiuse un occhio, come per prendere meglio la mira, quindi abbassò lentamente la spranga. «Siamo simili, per quanto lei si ostini a negarlo. È per questo che lei mi piace così tanto. Perché fin dal principio, ho avvertito in lei la mia stessa pulsione. Anche lei, come me, adora la guerra. A differenza di altri, noi siamo persone semplici, Herr Lartigue. Non amiamo nasconderci dietro cavilli e dietro menzogne ben costruite. Noi abbiamo qualcosa che gli altri non possiedono e ne abbiamo anche la consapevolezza: ed è questa consapevolezza che ci spinge a lottare. Lottiamo per affermare quello in cui crediamo, e non abbiamo paura di farlo. Persone come noi, Herr Lartigue, persone come lei e me, sono in grado di creare valori e di mantenerli, quando gli altri attorno a noi si perdono per strada».

Jean inarcò le sopracciglia e sbuffò.

«Credo che lei si sia fatta un'idea sbagliata di me, signor Wiesbaden» disse. «Io non sono come lei, e non sono quello che lei crede io sia. Io sono solo un ingegnere, e sono la persona che è stata assunta per portare a termine questo progetto. Non sono adatto a combattere e, quando avremo finito, me ne tornerò a casa, a fare lezione ai miei studenti. Tutto qua. Non ci sono grandi valori, in questo, lo riconosco. Non come li intende lei, almeno».

«Davvero è così? Sarebbe un vero peccato» fece Wiesbaden, divertito ma per nulla convinto. Jean lo fissò, infastidito.

«Mi spiace deluderla, ma questo è tutto quello che posso dirle. Ora, se non le dispiace, dovrei andare ad assistere al varo. Con permesso».

Wiesbaden si fece da parte, salutando Jean con un leggero inchino. Quindi lo osservò allontanarsi. Era piuttosto divertito. Sapeva che quel ragazzo gli aveva appena detto una bugia, ma aveva trovato interessante lasciarlo fare. Il fatto che lui fosse lì per un motivo ben preciso alla fine gli si leggeva in volto, per quanto credesse di riuscire a nasconderlo. Così come gli si leggeva in volto che sarebbe stato pronto a combattere per quel motivo fino alla fine. E lui, il barone Ludwig von Wiesbaden, avrebbe fatto in modo di essere presente, quando questo sarebbe avvenuto. Avrebbe infatti trovato quel suo sforzo estremamente divertente.

 

 

*

 

 

Lisa osservava il mare, che dal ponte superiore risplendeva distante. Le onde che si frangevano contro lo scafo non erano che bagliori di spuma sottile, che si sollevavano e correvano rapidi, prima di essere riassorbiti e nascere nuovamente. Vista alla giusta distanza, pensò lei, ogni cosa acquistava un significato diverso. Anche quelle onde, in mezzo alle quali avrebbe tremato e gridato per la paura, viste dall'alto di quel ponte e nello splendore del sole, erano tutt'altro che spaventose. Anzi, le trovava rassicuranti. Seguiva con lo sguardo il loro percorso, monotono e indifferente, e il loro infrangersi senza sosta. Davanti alla bellezza di quell'oceano di smeraldo, il suo cuore riusciva insolitamente a trovare la pace e la sua mente, per la prima volta dopo tanto tempo, era vuota. Forse perché quelle onde non le apparivano altro che per quello che erano. Onde, che si sollevavano e si frangevano senza uno scopo e senza alcun significato.

Era qualcosa di molto simile alla sua vita. Come quelle onde, anche lei aveva provato a sollevarsi e a risplendere. Pian piano, gli eventi l'avevano riassorbita, proprio come il mare riassorbiva le onde quando queste si facevano esauste.

Non aveva molto da rimproverarsi. O forse sì. Nemmeno lei lo sapeva con certezza. Tutto quello che sapeva, è che per quanto si fosse sforzata, i suoi limiti erano risultati invalicabili. Aveva provato ad ignorarli, ma non ci era riuscita. E ora, com'era prevedibile, a causa di quei suoi limiti era giunta al punto di perdere tutto.

La verità, è che aveva paura.

Era difficile da ammettere, ma aveva una paura tremenda. Sentiva di essere nel posto sbagliato e al momento sbagliato e continuava a pensare, con le lacrime agli occhi, che non avrebbe dovuto essere lì, ma alla sua scrivania dimenticata in un cantuccio del Times, sommersa da manoscritti non suoi e dalla puzza del sigaro di Hunter che aleggiava su tutto il piano e che immancabilmente le faceva bruciare gli occhi. Pensava a Nadia, a quando non era la principessa di un mondo lontano e ostile, ma solo una giornalista come lei, la sua amica, che divideva con lei un tramezzino e un tè, trangugiato tra un articolo e l'altro da trascrivere in bella copia. E non capiva perché tutto non fosse come allora, e perché invece di farsi trascinare in basso come un'onda senza più energia, non riuscisse a sollevarsi di nuovo, e a trovare un senso in tutto quello che le stava accadendo.

Abituarsi a credere che dietro ogni cosa si nascondesse un'illusione, pronta a far crollare ogni speranza come un castello di sabbia. Ecco la cosa di cui forse aveva più paura in assoluto.

«Eccoti...»

Lisa sussultò. Si volse, scostandosi i capelli dal volto. Il profilo di Winston si stagliava contro il sole. Quando le fu vicino, riuscì a scorgere un sorriso sul volto di lui, e lei lo ricambiò, un attimo prima di voltarsi.

«Volevi restare sola?»

«Non dovrebbe essere qui» fece lei, piatta. «Se ci vedessero...»

«Sono stato attento».

Lisa rabbrividì.

«Non lo si è mai abbastanza».

Winston tacque. Si avvicinò al parapetto e improvvisamente quanto imprevedibilmente si sporse, con buona parte del busto. Lei trasalì e si affrettò ad afferrargli il braccio.

«Sei impazzito?» esalò. «Cos'è, vuoi cadere forse?»

«Finalmente sei passata al tu» disse lui. «Temevo di dovermi buttare sul serio».

Lisa arrossì. Lo squadrò torva, cercando di nascondere il sorriso che le affiorava involontariamente sul volto.

«Sei uno stupido» mormorò. E scoppiò a ridere.

«Ah, adesso ridi?»

«Sai, forse avrei dovuto darti una spinta. Probabilmente sarebbe stato meglio».

«Meglio? E per chi?»

«Sicuramente per me» fece lei. E gli rivolse un'occhiata maliziosa. «Per me di sicuro».

Per un po' nessuno dei due disse nulla. Il mare copriva ogni rumore, ma ogni tanto lasciava affiorare le grida dei marinai e i rumori che provenivano dalla stiva, dove si stava procedendo con il varo dei batiscafi.

«Sai» riprese lui «pensavo che...»

«Wiesbaden vi ucciderà. Sa tutto di voi, e vi ucciderà»

Lisa si stupì di quanto quelle parole le fossero scivolate fuori dalle labbra con tanta facilità. Per giorni si era tormentata, credendo di non avere il coraggio per pronunciarle. Eppure, con lui lì, accanto a lei, confessare tutto era risultata la cosa più naturale e semplice possibile.

Tuttavia, quando si voltò e vide il pallore di lui, capì di aver sbagliato. E si spaventò.

«Perdonami, avrei dovuto dirti tutto già da tempo» disse tremando «ma...»

«Cosa è successo?»

Lisa si morse il labbro.

«Nulla».

«E hai pensato di dirmelo solo adesso? Non ti credo» fece lui. La afferrò per le mani. «Cosa è successo? Voglio saperlo».

«Mi fai male!»

«Dimmelo!»

«Non lo so!»

Lisa si divincolò, fino a liberarsi. I polsi le bruciavano, per quanto lui l'aveva tenuta stretta.

«Sapeva tutto, aveva sempre saputo tutto!» pianse. «Già ad Hannover era a conoscenza della verità».

«Impossibile, nessuno di noi ha mai... siamo stati sempre prudenti...» Winston la guardò, improvvisamente irriconoscibile nel volto. «Sei stata tu a dirglielo?»

«Ti giuro di no, te lo giuro!»

«Allora mi dici com'è possibile che sia accaduto?» ringhiò lui. «Maledizione, è così? Ti sei... venduta a quell'uomo? Sei la sua puttana? Che cosa ti ha promesso, eh?»

«No!» gridò lei. «Non è così, non è per niente così!»

«E ora vorresti farmi credere che hai cambiato idea? Avresti dovuto dirmelo prima, quando eravamo ancora in tempo per fare qualcosa, dannazione! Cos'è, hai avuto improvvisamente pietà, oppure è stato per giocare con me, per vedere come avrei reagito?»

«Basta!»

Lisa si portò le mani al volto, scoppiando in singhiozzi. Winston era livido di rabbia, ma vederla così lo impietosì. Respirò profondamente, quindi sollevò una mano, per accarezzarle il volto. Vedendo che ancora gli tremava, la abbassò subito, nascondendola sotto l'altra.

«Mi hai mentito?» chiese, guardandola duro. Lei alzò gli occhi, umidi e arrossati e li fissò nei suoi.

«Mai» sussurrò. «Non avrei mai potuto farlo».

Winston sospirò. Sembrava aver riacquistato la calma.

«Perdonami» fece. «Non dovevo dubitare di te».

«Mi ha aspettata sotto casa, dopo che ci siamo incontrati» fece Lisa. Winston a sentire quelle parole, sbiancò.

«Ti ha fatto del male?»

Lisa nicchiò. Si asciugò le lacrime. «Però... io...»

«Lisa?»

Lei si sforzò di guardarlo. Ma si vergognava terribilmente. Si sentiva macchiata da una colpa incancellabile.

«Mi ha costretto a dirgli tutto. Ha detto che ti avrebbe ucciso e che avrebbe ucciso anche Michael. Non scherzava, lui... lui ha ucciso anche il banchiere, davanti ai miei occhi...»

Lisa si sforzò di non piangere, ma il ricordo del corpo di quell'uomo che cadeva esanime ai suoi piedi e del sangue che le schizzava il volto e i vestiti si insinuarono nella sua mente, costringendola a un pianto soffocato e disperato.

Lui la guardò, e per la prima volta i suoi occhi riflettevano una compassione sincera.

«Zitta» disse. «Non aggiungere altro».

«Winston...»

«Basta, ho capito tutto. Non voglio che tu mi dica niente. Non devi essere tu, non voglio che si sappia che sei stata tu a dirmelo, nel caso qualcosa vada storto».

«Ma io vi ho traditi e ora...»

«Tu non hai fatto nulla, hai solo cercato di fare quello che in quel momento ritenevi giusto. Se non avessi fatto quello che lui voleva, probabilmente io e Michael saremmo già morti, e anche tu. Ascolta» disse, scuotendola leggermente, «ascoltami, Lisa. Tutto va come deve andare. Troverò una soluzione. In qualche modo, mi inventerò qualcosa. E ti prometto che...»

«No» disse lei, sottraendosi. «Non promettere niente. Non voglio una tua promessa, io...»

«E allora, cosa vorresti?»

Lei si zittì. Fissò il mare, ai suoi piedi, e le onde che continuavano a infrangersi, nonostante tutto.

«Io voglio solo smettere di avere paura».

Lui la ascoltò senza ribattere nulla. Quindi «è il mio lavoro fare in modo che le persone come te non debbano avere paura. Se è questo che temi, ti assicuro...»

Lei lo spinse via, guardandolo come se le avesse tirato uno schiaffo in pieno volto.

«Il tuo lavoro!» esclamò. «Io non sto parlando del tuo lavoro! Che lavoro sarebbe, il tuo? Un lavoro è qualcosa che ti permette di realizzare un progetto, o un sogno, che ti consente di mettere in piedi una famiglia! Tu non torni a casa la sera, non prendi in braccio tuo figlio e non hai una famiglia con cui trascorrere il tuo tempo libero. Non hai un ufficio, o una scrivania, tu... non parlarmi di... di questo... come fosse un lavoro

«Lisa...»

«Osi chiamarlo lavoro? E come pensi di vivere, per tutta la vita? Uccidendo, torturando le persone per far sì che quelli come me non debbano avere paura? E non credi che proprio per questo, in realtà, io abbia paura? Una paura folle, terribile... e ogni volta che io ti guardo, io...»

Lisa si volse, mettendosi a piangere. Winston la lasciò sfogare, quindi le si avvicinò.

«Lasciami» fece lei. «Non sei diverso da lui, sei un mostro!»

Lui non la ascoltò, e la trasse a sé.

«Stupida» mormorò. «Non devi aver paura per me. Lo capisci?»

«Io ti amo, maledetto!» gridò lei. «E non so come fare, perché tu mi fai paura, e io ti odio per questo, ti odio così tanto...»

«Mi ami?»

Winston tacque. Ascoltò in silenzio i singhiozzi soffocati di lei, quindi «è la prima volta che me lo dici» mormorò.

«Ho sbagliato, avrei dovuto dirtelo prima» confessò lei, arrossendo. «Ma ho avuto così paura, e ancora adesso io temo che tu... tu finirai col perderti. E io non posso sopportarlo, non ci riesco».

Winston sospirò. Quindi sorrise. «Io non mi perderò, Lisa. Non finché avrò te. Finché avrò te, saprò esattamente dove devo ritornare. Perciò, per favore, smettila di avere paura».

Lei si volse. Lui le prese il viso tra le mani e la baciò, inaspettatamente. Sentì il sapore delle sue lacrime, insieme alla dolcezza di quel bacio a cui lei si abbandonò, senza smettere di tremare.

«Se devi promettermi qualcosa, promettimi che tutto questo finirà. Promettimelo. E dimmi che per quel giorno riusciremo a lasciarci tutto alle spalle».

«Prima non volevi una promessa. Cos'è cambiato?»

«Nulla» fece lei. Ma non era vero, perché nel suo cuore era cambiato tutto.

«Allora, ti prometto che sarà così».

Lisa annuì, tirando su con il naso. Winston le asciugò gli occhi.

Andrà tutto bene...

«Ora vai. Se Wiesbaden dovesse cercarti e non riuscisse a trovarti, sarebbe un problema».

Lei ubbidì, e lui restò a guardarla mentre si allontanava, aspettando che si voltasse per l'ultimo saluto. Quando l'ebbe vista sparire lungo la scala che conduceva al ponte inferiore, Winston si incupì. Si infilò le mani in tasca, quindi restò a guardare lontano, verso l'orizzonte, dove il cielo si stava facendo torvo e minaccioso fondendosi col mare.

E fu guardando quel cielo, che alla fine Winston prese la sua decisione.

 

 

*

 

 

«Ci siamo, tenetelo fermo...»

Jean risalì la scaletta, tenendosi ben saldo. Attorno a lui, le scialuppe cercavano di manovrare le pertiche per trattenere il batiscafo. Con uno sforzo, Jean si issò sulla scaletta. Reggendosi con una mano sollevò l'oblò e si sporse dentro. Hanson e Sanson erano già saliti a bordo prima di lui, e li sentiva parlottare tra loro nell'abitacolo.

«Coraggio, Jean» fece Hanson, che si era già liberato dei cavi di sicurezza e che si era sporto a guardarlo, con in volto l'espressione felice di un bambino. «Vediamo di far partire questa meraviglia».

Jean sorrise. Aggrappato in cima alla scaletta, non era facile per lui mantenere l'equilibrio. Il batiscafo ondeggiava pericolosamente, beccheggiando a destra e a sinistra, tanto che Jean si ritrovò completamente zuppo e più di una volta corse il rischio di cadere in acqua. Un'onda più altra delle altre affossò il batiscafo, per poi sollevarlo fin quasi all'altezza del ponte di imbarco. Gli uomini sulle scialuppe ritirarono le pertiche, e si accucciarono sul fondo delle barche, in attesa che l'onda passasse. Jean si sentì sollevare e poi, improvvisamente, precipitare. Avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco, e poi gli spruzzi, attorno a sé, che gli infradiciarono i capelli.

«Woah, questa era grossa!» gridò Sanson, da dentro il batiscafo. «Jean, muoviti a entrare, o rischiamo di imbarcare acqua».

Jean annuì. Scavalcò velocemente il bordo dell'oblò e si calò nel condotto a tenuta stagna, proprio mentre il batiscafo si inclinava pericolosamente ancora una volta. Jean si richiuse l'oblò sulla testa, dopo aver dato un'ultima occhiata ai marinai che dalle scialuppe agitavano le braccia in segno di saluto. Quindi sganciò il cavo di salvataggio, che venne subito ritirato. L'oblò si chiuse, e lui fu dentro.

«Ben arrivato, signore. Prego, si accomodi. Faccia come se fosse a casa sua», scherzò Hanson. Jean si sfilò l'imbracatura e la tuta. L'interno del batiscafo puzzava di saldatura di ferro e di gomma, ma era piuttosto spazioso.

«Il mare si sta ingrossando sempre più» commentò Sanson, dalla postazione di guida. «Forse avremmo fatto meglio a rimandare».

«No, non era possibile» obiettò Jean. Non era assolutamente possibile rimandare. Doveva scendere fino all'Exelion quando ancora ce n'era la possibilità. Non sapevano se e per quanto tempo la nave sarebbe restata immobile in quella posizione. Fino a poco tempo prima, si era continuata a muovere in modo costante, risalendo la fossa delle Marianne e successivamente quella del Giappone. Se per sventura avesse ripreso a muoversi, avrebbe potuto benissimo scendere ancora più in profondità. E allora, sarebbe stato davvero impossibile raggiungerla.

«Muoviamoci, non perdiamo altro tempo» commentò Jean. Senza farselo ripetere, Hanson si piazzò al posto di copilota, a fianco di Sanson, sprizzando eccitazione da tutto il corpo.

«Casse di immersione in allagamento. Numero uno, due...»

Il batiscafo cominciò a scendere lentamente. Era difficile percepirlo, a causa della lenta discesa e delle onde che ancora colpivano lo scafo, anche se il peso ormai raggiunto grazie all'acqua presente nelle casse di immersione, rendeva lo scafo molto più resistente al moto ondoso.

«Ci siamo. Comincia l'immersione. Meno dieci metri, quindici, venti...»

«Jean, apri le valvole del comburente» fece Hanson. «Venti per cento, al momento... dovrebbe bastare».

Jean aprì lentamente la manopola che regolava la percentuale di acqua ossigenata, osservando che le lancette si posizionassero sulla quantità richiesta da Hanson. Quindi si avvicinò agli oblò principali.

«Vedete qualcosa?»

«No, non si vede un accidente» commentò aspro Sanson. Agiva sulla cloche, con movimenti calibrati e lenti, gli occhi fissi sull'oblò. «Con queste onde, sarebbe un'impresa riuscire a scorgere una balena a tre metri da noi».

«Provo ad accendere i fari» disse Hanson. Sanson fece una smorfia. «Adesso vedi qualcosa?»

«No, anzi è ancora peggio» disse, scuotendo la testa davanti al banco di sabbia e residui che le onde continuavano a sollevare senza sosta. «Navighiamo a vista. E non si vede niente».

«Non è un buon inizio» commentò Hanson, a denti stretti.

Sanson si agitò sulla poltrona. Si sporse, per guardare dagli oblò laterali. Quindi, «il radar funziona?» chiese. Hanson annuì.

«Per il momento, profondità duecento piedi. Continuiamo a scendere».

«Non sarebbe meglio rallentare la discesa?» suggerì Jean. «Con questa visibilità, potremmo...»

Improvvisamente risuonò un boato, e una scossa sembrò spaccare in due lo scafo del piccolo sommergibile. Hanson sbiancò, mentre Jean si ritrovò sbalzato a terra. Sanson cercava disperatamente di rimettere in rotta il batiscafo.

«Che diavolo era?» ringhiò. «Dannazione, dove accidenti stavi guardando, Hanson!»

«Colpa mia, colpa mia!» si giustificò lui. «Mi ero distratto... ecco. Ora rimetto a posto e...»

Hanson cominciò a farfugliare qualcosa, visibilmente preoccupato. Sanson, a fianco a lui, gli gettava occhiate in tralice.

«Hanson, qualcosa non va?» chiese Jean. Lui si voltò appena.

«No, solo un secondo...»

«Ti decidi ad attivare quel dannato radar?» fece Sanson. Hanson si passò una mano tra i capelli spettinati.

«Non va».

«Stai scherzando?»

«No, non va. Ha smesso di funzionare dopo l'impatto. Deve essersi guastato in seguito all'impatto».

«E come pensi che possa manovrare questo affare se non ci vedo e se non ho un radar? Me lo spieghi?»

«Io...»

«D'accordo, basta!» intervenne Jean. «Sanson, porta l'andatura pari a zero. Cerchiamo di scendere il più delicatamente possibile. Intanto, io e Hanson proveremo a inventarci qualcosa».

«Jean, forse dovremmo risalire» azzardò Hanson. «È veramente impossibile farcela con questa visibilità. E senza radar, poi, è addirittura un suicidio».

Jean si morse il labbro, stringendo i pugni. Aveva una gran voglia di prendere a calci tutto quello che aveva intorno. Quella che lo perseguitava era una maledettissima sfortuna. Era come se il destino si stesse prendendo gioco di lui, portandolo a un passo dal successo ogni volta per poi soffiarglielo da sotto il naso.

«Jean?»

Jean sferrò un pugno allo scafo, abbandonandosi sulla sedia.

«Va bene» mormorò. «Rientriamo».

«Vorrei poterlo fare, ma qualcosa non funziona» disse Sanson «Forse voi ragazzi vi siete dimenticati di azionare una valvola, o qualcosa del genere?»

«Stiamo continuando a scendere?»

«Il batimetro segna 560 piedi. Pressione in aumento».

«Che diavolo succede, insomma?» ruggì Sanson. «Qualcuno ha un'idea?»

«La cassa tre e quattro continuano a riempirsi» disse Jean, dopo aver dato un'occhiata veloce agli strumenti. «Per questo continuiamo a scendere. Dobbiamo svuotarle».

«Aziono il compressore».

Lentamente il batiscafo prese ad arrestare la sua discesa. Man mano che le casse si svuotavano, lo scafo si fece più leggero e iniziò la risalita verso la superficie. Sanson manovrava lentamente e con attenzione. La fronte imperlata di sudore, cercava di scrutare il più possibile attraverso il muro di sabbia e pulviscolo che le onde sollevavano dal fondo del mare.

«Ragazzi, non vorrei dire ma...» intervenne Sanson «guardate là. C'è una luce, o sbaglio?»

Hanson e Jean si precipitarono all'oblò. Socchiusero gli occhi, cercando di intravedere attraverso il caos che li circondava. In effetti, sembrava che qualcosa brillasse, proprio sotto di loro.

«È l'Exelion» mormorò Jean. «Quella è l'Exelion! È la sotto! Muoviamoci».

«Aspetta un momento, Jean» lo frenò Hanson. «Non siamo sicuri che sia lei. Quella luce potrebbe essere qualsiasi cosa, per quanto ne sappiamo. Non possiamo precipitarci là sotto, non in queste condizioni».

«Quella è l'Exelion, ti dico!» fece Jean. «Cosa potrebbe mai essere una luce a oltre novecento metri di profondità?»

«Ascolta...»

Jean non ascoltò. Con un movimento fulmineo agguantò la valvola che regolava l'allagamento della casse di immersione, che presero a riempirsi nuovamente d'acqua. Con uno scossone improvviso, il batiscafo riprese a discendere nel profondo degli abissi.

«Che diavolo fai? Sei impazzito?»

«Siamo qui per questo!» gridò Jean, lottando con Hanson per impedirgli di chiudere le casse. «Non tornerò indietro, per nessun motivo!».

«Nemmeno se questo significasse morire?» esclamò Hanson. Sanson cercava di guidare come poteva il mezzo, che ora sembrava scendere assolutamente fuori controllo. «Se dovessimo restarci secchi, come pensi di poter aiutare Nadia e le altre? Ci hai pensato?»

Jean strinse i denti. Quindi girò ancora la manopola, che si svitò completamente e cadde a terra con un suono ottuso.

«No» disse. «Ma a questo punto, l'unico modo che ho per aiutarle è rischiare».

«Dannazione!»

Hanson si sedette ai comandi, imprecando tra i denti. Cercava di attivare i comandi direzionali, in modo da aiutare Sanson nel frenare la discesa.

«Ci stiamo avvicinando» disse Sanson. Sentiva la testa pesante e un senso di nausea allo stomaco. La pressione stava aumentando troppo velocemente e loro continuavano a scendere. «C'è troppa pressione. Se continuiamo così, ci esploderà il cervello».

«Ottocento quaranta piedi. Ottocento cinquanta... sessanta...» contava Hanson, febbricitante.

«La luce. Guardate!»

Improvvisamente, dalla cortina di sabbia che avvolgeva il batiscafo emerse non una, ma almeno una intera fila di luci, che sembravano galleggiare nel vuoto davanti ai loro occhi attoniti. Jean provò a contarle, ma erano troppe. Erano disposte come una corona, un anello di fuochi fatui con al centro di esse una luce più intensa di tutte, che brillava intermittente.

«Che mi venga un colpo. È davvero l'Exelion».

«Frena, frena! Lo stiamo superando!»

Sanson vide le luci scivolare sopra di loro e poi allontanarsi. Con pochi gesti veloci, invertì la propulsione dei motori e il batiscafo rallentò, ma non si fermò.

«Se non troviamo un modo per bloccare quest'affare» disse «andremo a finire tutti all'inferno».

«Ormai non è più possibile svuotare le casse» fece Hanson, disperato. «Siamo finiti...»

«No, un modo c'è».

Jean si alzò, avvicinandosi al condotto dell'ossigeno. Hanson impallidì.

«Stai scherzando vero? Non vorrai pompare l'ossigeno all'esterno?»

«Hai qualche altra idea? L'ossigeno viene espulso direttamente dalle casse di immersione. Se lo spingiamo fuori, come conseguenza svuoterà le casse, per la pressione che si verrà a creare. In questo modo, riusciremo a risalire».

«Sì, ma rimarremo anche senza ossigeno sufficiente a risalire in superficie».

«Ma ne avremo abbastanza per raggiungere l'Exelion, forse» disse Jean. Sanson lo guardò.

«Forse?»

«Se lo manchiamo, e non riusciamo ad agganciarlo, c'è la probabilità che moriremo asfissiati».

Sanson e Hanson si guardarono a vicenda. Quindi «è davvero l'unica possibilità, Jean?» chiese Sanson, serio. Jean annuì.

«L'unica che mi viene in mente».

«In questo caso» disse lui «facciamo come dici tu».

Jean non se lo fece ripetere. Senza stare a pensarci, girò la manopola che regolava il rilascio di ossigeno nella cabina, e la chiuse invertendo il ciclo. Erano rimasti senza altro ossigeno che quello presente nella cabina, mentre il restante veniva espulso con forza dalle casse di immersione. L'acqua presente nelle casse prese a uscire, e lo scafo risalì, alleggerendosi.

«E adesso?» mormorò Hanson. «Cosa facciamo?»

«Adesso non ci resta che agganciare l'Exelion» fece Jean. «Se vogliamo salvarci, non possiamo assolutamente permetterci di mancarlo».

«Allora, vediamo di non mancarlo!»

Sanson si arrotolò le maniche, sbottonandosi la camicia. Aveva caldo, e gli girava la testa. Strizzò gli occhi più volte, cercando di mettere a fuoco la vista.

«Allora, diamoci da fare. Cloche, cloche...»

«Che vuoi fare?» chiese Hanson, quasi disperato. Sanson ammiccò.

«Voglio avvicinarmi il più possibile a quelle prese. Le vedi?»

«Quelle? Sembrano...»

«Sono i tubi lanciamissili» fece Jean. «Probabilmente venivano usati anche come casse di immersione».

«Se riusciamo a entrare là, siamo a posto».

«Sì, ma dimentichi l'ossigeno».

«Intanto cerchiamo di fare una cosa per volta, ok?»

Sanson cominciò a sudare. Il batiscafo risaliva velocemente. Metro dopo metro, le luci che correvano lungo il fianco dell'Exelion si facevano sempre più vicine.

«Cerca di avvicinarti, avvicinati!»

«È quello che sto facendo...»

L'Exelion ora era vicinissimo. Sanson utilizzò i comandi per il sistema di guida idro-assistita. Con pochi movimenti rapidi, riuscì ad avvicinarsi fino a che lo scafo apparve loro perfettamente visibile. Era immenso, e riluceva di uno strano bagliore bluastro.

«Sembra quasi trasparente» fece Hanson, meravigliato.

«È come se qualcosa l'avesse improvvisamente attivato. Sembra pronto a partire, ma non l'ho mai visto risplendere di tutte quelle luci».

«Mi spiace disturbarvi, ma c'è un piccolo problema...»

Sanson non riusciva ad avvicinarsi. O meglio, si era avvicinato, ma troppo tardi. Il batiscafo aveva continuato a risalire, e proprio mentre era vicino alle casse lanciamissili, un'onda l'aveva investito, portandolo fuori rotta e spingendolo verso l'alto. Ora le casse erano sotto di loro, ad almeno dieci metri di distanza.

«Scendi, scendi!»

«E come faccio, non possiamo fermare l'ossigeno in uscita!»

«Così continueremo a salire, finché non finirà l'ossigeno! Resteremo in mezzo al mare, senza possibilità di andare né su né giù...»

«Allora inventatevi qualcosa, siete voi i geni!»

Jean si guardò intorno. C'era ben poco che potessero fare. Secondo i suoi calcoli approssimativi, sarebbero riusciti a risalire fino a circa centocinquanta metri dalla superficie. Poi l'ossigeno sarebbe finito, lasciando il batiscafo a galleggiare sotto la superficie del mare. Una volta finito l'ossigeno, non avrebbero nemmeno avuto la possibilità di uscire dal mezzo, perché la pressione, riversandosi tutta in una volta su di loro, li avrebbe schiacciati come insetti se solo avessero provato ad aprire le porte stagne.

Era la fine. Non c'erano altre possibilità. Avevano tentato il tutto per tutto e la sfortuna si era messa nuovamente di mezzo. Era un altro tiro del destino, l'ultimo. Evidentemente, Jean era destinato a veder fallire ogni suo tentativo, nonostante ogni volta avesse provato a metterci tutto se stesso, per ottenere un risultato.

Forse, avrebbe dovuto rassegnarsi, e aspettare la fine.

Peccato che proprio non ce la facesse.

«Apri il serbatoio» disse. Hanson e Sanson lo guardarono come se fosse uscito di senno.

«Cosa?»

«Apri il serbatoio, muoviti» esclamò.

«Se apriamo il serbatoio, possiamo dire addio sul serio a ogni speranza di tornare su» fece Hanson, intercettando la mano di Jean che stava per premere il pulsante. «Sei fuori di testa!»

«Se apriamo il serbatoio, una volta uscito il carburante entrerà acqua. Il serbatoio è quasi vuoto, ma l'acqua e la sabbia ci porteranno giù. Ma dobbiamo muoverci, o il peso non sarà sufficiente a bilanciare quello delle casse, che ormai sono vuote».

«Jean, se per caso...»

«Se per caso aspetti ancora un po', sarai tu a condannarci a morte».

Hanson si morse il labbro. Sanson sudava freddo.

«E va bene!»

Con un gesto impulsivo, Hanson liberò la mano di Jean, che si avventò sul pulsante. Il serbatoio si aprì e il carburante prese a riversarsi in mare.

«Apri anche i condotti del comburente. Abbiamo bisogno di più peso».

Man mano che il carburante fuoriusciva, il serbatoio si riempiva di acqua e pulviscolo. Dopo un attimo di stasi, pian piano, il batiscafo prese a scendere.

«Scendiamo, guardate!» fece Sanson. «Funziona!»

«Certo che funziona, l'idea alla base è perfetta» ironizzò Jean. «Ancora un attimo...»

«Attenzione!»

Con un boato il batiscafo andò a impattare lo scafo dell'Exelion. Scivolò senza controllo lungo la fiancata, precipitando pericolosamente verso il basso.

«Ora, ora! Spingi al massimo!»

Sanson innestò la marcia e i motori ebbero l'ultimo sussulto, prima di sputacchiare e arrestarsi. In completa inerzia, il batiscafo prese ad avvicinarsi alle casse lanciamissili dell'Exelion, che sembravano pronte ad accoglierlo come giganteschi hangar.

«Dio, ti prego... fa' che non ci siano onde...»

In quel momento, un'onda più forte delle altre sollevò il batiscafo, che venne portato verso l'alto. Con un grido i tre vennero sballottati malamente, e videro le casse uscire dalla visuale dell'oblò di prua.

«No!»

Improvvisamente, l'onda li rilasciò. Ci fu un attimo di silenzio, poi un tonfo. Il batiscafo avanzò sfregando contro lo scafo dell'Exelion, e nell'abitacolo si produsse una vibrazione e un rumore assordante di lamiera piegata. Quindi, tutto tacque.

«Tutto a posto?»

Sanson si alzò, passandosi una mano sulla fronte. Si avvicinò ai comandi. Il batiscafo era immobile. Avevano finito il carburante e l'ossigeno era ormai agli sgoccioli. Sanson strizzò gli occhi, avvicinandosi all'oblò.

«Vedete qualcosa?»

«Vedo tutto buio» disse Hanson. «Siamo... siamo morti?»

«No, non siamo morti» mormorò Jean, affacciandosi all'oblò. «Siamo vivi»

Erano in una cassa lanciamissili. Nonostante tutto, ce l'avevano fatta. Alla fine, erano davvero riusciti a raggiungere l'Exelion.

 

 

*

 

 

«Avanti».

Wiesbaden alzò gli occhi. Winston era in piedi davanti a lui, e lo fissava seriamente.

«Signor Galloway. Ma che insolita sorpresa. Prego, prego. Si accomodi».

«Avrei bisogno di parlarle un attimo, se non le dispiace».

A un cenno del barone, Winston prese posto alla sedia davanti alla scrivania. Wiesbaden posò l'elegante penna stilografica e si alzò in piedi.

«Gradisce qualcosa? Forse uno scotch?»

«Non ancora, grazie».

Wiesbaden lo fissò, incuriosito.

«Strana risposta» disse, aprendo il tappo di cristallo di una bottiglia ricolma di liquido ambrato e versandone il contenuto in un bicchiere. «Diceva di avere qualcosa da dirmi? Prego, non faccia complimenti».

«Smettiamola di girarci intorno» fece Winston, secco. «Lei sa chi sono io, non è così?»

Wiesbaden sorrise.

«Me lo sta chiedendo?»

«No, lo sto affermando».

«In questo caso» sospirò Wiesbaden, riprendendo posto alla scrivania «immagino di doverle dire che sì, so che lei non è il signor Patrick Galloway, bensì il signor Winston Churchill, agente del Consiglio nonché segretario ufficiale del defunto Gilbert de Molay, Reggente in capo. Ora sta a lei... sono informazioni corrette?»

«Assolutamente».

Wiesbaden sorseggiò il whisky, schioccando le labbra.

«Signor Churchill... posso chiamarla così, vero? Visto come stanno le cose...»

Winston annuì.

«...dunque, come le dicevo, lei mi mette ora in una situazione complicata. Onestamente, non mi aspettavo una mossa del genere da parte sua. Intendiamoci, immaginavo che la ragazza sarebbe venuta da lei per confessarle tutto, ma...»

«La ragazza non c'entra. Si è trovata in mezzo a qualcosa di troppo grande per lei, e ora ne paga semplicemente le conseguenze».

Wiesbaden fece una smorfia. Posò il bicchiere.

«Non credo di capire».

«Quando la ragazza mi ha confessato che lei era a conoscenza della mia vera identità e del piano del Consiglio, ho capito che avevamo perso. E che l'unica possibilità che mi restava di uscirne vivo e con in mano qualcosa era quella di venire da lei, e di offrirle la mia collaborazione».

«Vada avanti».

«Cosa risponderebbe se le dicessi che a cinque minuti da qui si trova una torpediniera americana con l'ordine di attaccavi questa notte stessa?»

«Le direi che non ci credo».

«Libero di non farlo, eppure è così. Vi segue da quando siamo partiti da San Francisco. Su quella nave è presente un gruppo di uomini che risponde direttamente a me. Li guida un mio uomo di fiducia, e non aspettano altro che un mio ordine per attaccare. Se non vi siete accorti di loro, è solo perché hanno spento il radar molto tempo fa».

«Perché me lo sta dicendo?» chiese Wiesbaden, socchiudendo gli occhi. «Avrebbe potuto tenerselo per sé».

«Ma così facendo non avrei avuto modo di dividere con lei quello che mi interessa».

Wiesbaden sospirò.

«E sarebbe?»

«So che sta cercando qualcosa che ha a che fare con la tecnologia atlantidea. So che ha intenzione di utilizzarla per conto della SEELE, anche se non so esattamente quali siano i vostri fini. Il mio progetto comunque non è così ambizioso. Personalmente, sono stanco di politica e di guerra. Tutto ciò che voglio, è essere lasciato in pace, e un mucchio di soldi per potermi godere la tranquillità di cui ho bisogno».

«Una prospettiva invidiabile, che sposerei io stesso se solo potessi sottrarmi agli obblighi a cui sono costretto. Ma mi dica, io come potrei aiutarla?»

«In realtà, sono io che potrei aiutarla. Lei conosce l'identità delle persone che in questo momento stanno per raggiungere l'Exelion, ma non sa che in realtà queste persone hanno un progetto ben preciso, che è quello di usare la nave per riportare la Regina su questa terra. Se dovessero riuscirci, lei sa benissimo che la SEELE vedrebbe svanire in un attimo tutte le sue speranze di dominio. Con la Regina di mezzo, la SEELE non avrà altra alternativa che ritornare nell'ombra. Come si dice, in questi casi... ubi major, minor cessat. Mi sbaglio?»

«No, anche se lei parla di cose molto complesse come se stesse facendo le tabelline. La persona di cui parla con così tanta sfrontatezza è la nostra Regina. Nessuno di noi la vede come una palla al piede, né vedrebbe un suo ritorno come qualcosa da scongiurare. Il suo tono è semplicemente offensivo, e volgare».

«Mi perdoni se sono un uomo volgare, barone, ma amo andare direttamente al nocciolo delle questioni» disse Winston. «Mettiamola così. Voi avete un problema. Dovete fare in modo che la vostra Regina resti a governare ancora per un po' il suo pianeta, mentre voi potrete prendere possesso del nostro. Mi sta bene. Per quanto mi riguarda, io amo stare dalla parte dei vincitori. Da parecchio tempo mi ero accorto che questa era una guerra senza speranza. Il Consiglio non ha più le forze per far fronte alla potenza di Atlantide, e per quanto mi riguarda oggi ne ho avuto la certezza. Essere comandato da voi o da loro non cambia poi molto. Tutto quello che voglio, è entrare nel gruppo vincente. Se foste stati voi, i più deboli, ovviamente, non avrei esitato a schiacciarvi».

«Ovviamente».

«Ora come ora, però, le cose sono diverse. Ho dovuto faticare molto, ma sono riuscito a crearmi un'immagine di assoluta fiducia all'interno del Consiglio. E quest'immagine è corroborata dalla sua sfiducia nei miei confronti e dal fatto che la ragazza immagina che io stia rischiando la vita facendo il doppio gioco. Al momento, nessuno sospetterebbe nulla riguardo alla mia persona. Se io volessi, lei avrebbe la possibilità di dare al Consiglio il colpo di grazia, catturando con il mio aiuto l'ultimo uomo in grado di reggerne le fila in mia assenza, in questi tempi di crisi. In cambio, non chiedo che di essere messo a parte di quello che state cercando, e di avere una percentuale sul guadagno finale. Non mi sembra una cattiva proposta, considerando che non sono un tipo particolarmente esoso».

«E se io invece la uccidessi subito?»

«Non sarebbe una gran mossa, visto che quelli della nave non riceverebbero il mio ordine e capirebbero che qualcosa è andato storto. Nella migliore delle ipotesi, dovreste continuare ad avere a che fare con il Consiglio per molto tempo ancora. Quello che vi offro, è la possibilità di sbarazzarvi di ogni ostacolo nel minor tempo possibile, con il minimo della perdita e il massimo di guadagno per tutti».

«E quindi anche per lei».

«Ovvio» rispose Winston. «Allora, che ne dice?»

Wiesbaden si abbandonò contro lo schienale della sedia, unendo gli indici davanti alle labbra.

«Dico che le propongo la stessa domanda che le ho rivolto poco fa. Berrebbe qualcosa? Io sono solito inaugurare ogni proficua collaborazione con un brindisi di buon auspicio».

«Direi che è un'ottima idea» sorrise Winston. «Davvero un'ottima idea. E credo proprio che questa volta le farò compagnia».

  
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