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Autore: ferao    26/05/2012    8 recensioni
Raccolta di missing moments di "Una brezza lieve"!
***
#1: Erano ridicoli, tutti e tre: lei, lui e la situazione in cui si trovavano.
#2: Ci incastriamo alla perfezione, pensò per tutto il tempo che durò quel lungo bacio.
#3: Non pensava ad altro, nemmeno mentre l’odore di lei lo avvolgeva.
#4: È il primo giorno ed è come se ne fossero passati mille.
#5: La amava. La amava da morire.
#6: E tutto ricominciava da capo.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Percy Weasley | Coppie: Audrey/Percy
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una brezza lieve'
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Dedicato a Shnusschen, che ha chiesto espressamente questo missing moment; a Lau, che per prima ha pianto per esso e che ha comunque trovato le forze per regalarmi una nottata di sano e sfrenato cazzeggio; e ad Agne, che sa farmi le pulci come nessun altro al mondo e di cui, ormai, non posso più fare a meno.

Note in fondo.










#4: La gioia



Mani mostruose attorniarono Adams, che non riuscì a trattenere un gemito di terrore.
Percy assistette a quella scena come al rallentatore, incapace di pensare ad alcunché, impossibilitato a dire qualcosa, qualsiasi cosa. Era tutto così assurdo, così irreale, così impensabile…
Finché Adams non lo guardò di nuovo, un attimo prima di uscire. Lo guardò, e le sue labbra si mossero a malapena.
– Va bene così, tranquillo… Va bene così.
Poi la porta dell’aula si rischiuse dietro di lui.

("Una brezza lieve", capitolo 19)


– Sai… Audrey… – singhiozzò Percy, una volta che fu in grado di parlare ancora. – Lei… n-noi stiamo per avere un bambino.
Un altro lampo negli occhi di Adams, un lampo, stavolta, come di timida e remota gioia. – Sì?
– Sì. E… – Percy deglutì – Se… Se sarà maschio lo chiameremo Ernest.

("Una brezza lieve", capitolo 21)












18 settembre – prima
 

Lancia, non visto, un’ultima occhiata a Audrey prima di entrare nell’aula. Non va bene, per niente; se mantiene quell’atteggiamento passivo la faranno a pezzi con una sola parola, e non va bene. Oltretutto la ragazza ha qualcosa di strano, oltre alla normale e comprensibile paura; qualcosa che Adams non riesce a capire, che va ben oltre, che in ogni caso non la aiuterà di certo a superare quel momento.
Come non ti aiuterà il tuo fingere che vada tutto bene. A che ti serve? È inutile, non sei forte, non sei niente. Sei come lei. Sei fragile, sei polvere. Spezzeremo lei e poi spezzeremo te.
Si riscuote. Maledizione. Sta andando incontro a una condanna praticamente certa, e tutto ciò che riesce a fare è preoccuparsi per Audrey.
Sei uno stupido, lo sai? L’ultima persona a cui dovresti pensare è lei.
Lei almeno ha il capo. Lei starà bene. Lui si prenderà cura di lei.
Ma chi pensa a te?
Stringe i denti e si obbliga a tenere la testa alta. Chi pensa a lui? Nessuno. Non ha più nessuno, ormai; anche l’unica persona che avrebbe potuto preoccuparsi di lui se n’è andata, si è allontanata per paura.
E diceva di amarlo.
L’amore non basta, come vedi. L’amore non ti salverà, non salverà chi ti sta attorno. L’amore ti ha portato a questo, e noi ti faremo a pezzi.
Nessuno ti aiuterà.
Stringe i denti ed entra nell’aula. Vorrebbe evitare di pensarci, ma non ci riesce: non ha nessuno. Nessuno lo difenderà, nessuno deve difenderlo. Nessuno si alzerà in piedi, nessuno Garantirà per lui.
Oh, il capo di certo lo farebbe, se solo glielo permettesse. Lo aiuterebbe in ogni modo, poco ma sicuro; quel ragazzino ha molto più cuore di quanto ne dimostri.
Ma Adams non sacrificherebbe mai Audrey, mai, né costringerebbe mai Percy a farlo.
Prende posto davanti alla corte mentre le voci gli bisbigliano – urlano – per l’ennesima volta che non c’è nessuno che possa salvarlo.
Ha solo se stesso.
Spero che mi basti.
 
 
 



 
18 settembre – dopo
 

Lo sapeva che sarebbe finita così. Lo sapeva da quando aveva letto l’ordine di comparizione, lo sapeva forse da sempre, da quando aveva capito com’era davvero.
E allora perché è così difficile?
Probabilmente perché era stato impossibile prepararsi a quello.
A scuola, tutto ciò che insegnano dei Dissennatori è che provocano l’infelicità più totale, che il loro Bacio ruba l’anima e che possono essere respinti da un Patronus. Nessuno però ti parla mai di come siano le loro mani, di come il loro tocco ti ghiacci il sangue; nessuno sa dell’odore che emanano – odorano di lacrime, è mai possibile? Di lacrime e cimitero. Forse perché nessuno di quelli che hanno provato queste sensazioni è mai tornato indietro a raccontarlo.
A questo pensa Adams, mentre due paia di quelle mani lo attorniano, gli afferrano le spalle, le braccia. Ormai la commedia dell’uomo forte non serve più a nulla, è finita, è finita, lo capisci? Non puoi fare nulla, non hai mai potuto. Sei peggio che morto. Dispèrati, maledizione, ormai è finita.
E vorrebbe farlo. Vorrebbe mettersi a piangere lì, nel punto in cui si trova, davanti a quelle pallide imitazioni di esseri umani che l’hanno giudicato; e chi se ne frega se loro si beeranno delle sue lacrime, tanto ormai è finita.
È finita, è inutile. Marcirai ad Azkaban. Lo sapevi, lo hai sempre saputo. E ora è finita.
Nessuno ti ha aiutato.
Ma avrebbero voluto; Adams lo sa benissimo. Sa che Audrey, nonostante non abbia più forze, si è alzata in piedi e ha gridato non appena ha sentito la condanna. Sa che Percy ce l’ha sulla punta della lingua quella parola in sua difesa, quella che gli basterebbe per salvarlo.
Sì. Salvami, ti prego, puoi ancora farlo.
Può farlo; non è ancora uscito dall’aula, se chiede al capo di salvarlo lo farà, lui…
Ma quando si volta a guardare Percy, sente il cuore cedergli. Non può fargli questo, non può farlo a Audrey.
Sì che puoi. Chiediglielo. Salvati. L’amore ti ha portato a questo, è inutile crederci ancora.
Guarda Percy negli occhi: ha solo vent’anni ed è distrutto, è l’ombra di se stesso. E, nonostante tutto, ha un cuore.
Non può spezzarglielo.
– Va bene così, tranquillo… va bene così – è tutto ciò che esce dalle labbra di Adams.
Dopodiché, è davvero la fine.
 
 
 



 
Primo giorno
 

È il primo giorno ed è come se ne fossero passati mille.
Ma forse è davvero così. Chi può dirlo? Come si fa a sapere quando esattamente la tua vita è finita e quando è iniziato il nulla?
Adams non lo sa, non ci riesce. Gli dicono che quello è il suo primo giorno di prigionia, ma sarà vero? Possibile che quella stessa mattina si sia svegliato nel suo letto, si sia vestito e abbia camminato per strade che non vedrà mai più? Possibile che tutto ciò sia già così sbiadito, inafferrabile?
No. Di sicuro si sbagliano. Gli sembra di trovarsi in prigione da sempre, di esserci nato; non vede come possa esistere un mondo, una vita fuori da lì.
 
Buio, sempre. Anche quando c’è la luce. Azkaban è immersa in una continua penombra, abbastanza da impedirgli di dormire e conoscere qualche istante di oblio. Non esiste oblio: tutto ciò che Adams può fare è pensare, ancora e ancora.
E non è libero nemmeno nei pensieri. Da quanto non ne formula uno di sua spontanea volontà? Da quanto rivive gli stessi ricordi, ancora e ancora?
La morte di sua madre. Quella di suo padre. La prima volta che l’hanno chiamato “finocchio”. Non essere entrato nella squadra di Quidditch perché troppo gracile. I lividi sulle mani, quella volta che Gazza aveva deciso di punirlo a modo suo. Quell’amore finito troppo presto. La sua amica Audrey in pericolo di vita. Percy che non può fare altro che guardarlo e scusarsi in silenzio.
Non ha salutato nessuno dei suoi amici, nessuno della sua famiglia. È da solo, nessuno sa che si trova lì, nessuno lo cercherà.
Solo.
Da quanti anni è così solo? Da quanti anni non fa che sentire la solitudine esplodergli nel petto e nella testa?
Non riesce nemmeno più ad urlare, la voce è finita ore – giorni? – fa.
Se solo avessi ammazzato qualcuno. Adesso sarei qui, ma avrei qualche soddisfazione.
Quel pensiero – un pensiero suo, finalmente – lo fa quasi sorridere; ma è solo un istante, un soffio di brezza: passa un’ombra e glielo porta via.
E di nuovo sua madre, suo padre e tutto il resto… rivive tutto, ogni singolo momento infelice della sua vita. Affiorano persino le piccole delusioni, il rimorso per qualche bugia, il rimpianto per una parola sbagliata. Riaffiora tutto, e a far male è la consapevolezza che tutto ciò è vero, reale, che nulla è inventato: è la sua stessa vita ad ucciderlo, a fargli sanguinare il cuore.
Ogni minima azione che ha commesso. Ogni torto, ogni sbaglio.
Tutto.
È così da ore, da anni, da secoli; lo è sempre stato. Adams non sa più se sia esistito qualcosa, prima, né riesce a chiedersi cosa accada dopo.
Può solo rimanere intrappolato in quell’eterno presente, mentre la sua vita chiede il conto.
 
 
Adams non lo sa, ma è ad Azkaban da quattro ore. Ha già la divisa dei carcerati e un cubicolo stretto in cui può a malapena distendere le gambe; ha un numero sopra la cella, ha due Dissennatori che pattugliano il corridoio.
Ha le urla dei suoi compagni di prigionia, anche se non le sente. Ha tutta una vita da passare ad Azkaban.
Ed è il primo giorno, ma è come se ne fossero passati mille.
 
 




 
Un giorno qualsiasi

 
Ernest Adams non sa più nulla, non prova più nulla se non dolore. È così abituato a quella sensazione da non badarci nemmeno più – un po’ come quando urla, ormai lo fa senza rendersene conto.
Ha dimenticato molte cose della sua vita fuori; ad esempio, ha dimenticato che le porte cigolano quando si aprono e si richiudono. Ha dimenticato che le scarpe possono scricchiolare sul pavimento quando si cammina. Ha dimenticato anche che oltre al gelo – nelle ossa, nella pelle, nello stomaco – esiste il tepore. Ed è solo perché ha dimenticato tutto ciò che non si rende conto che qualcuno è entrato nella sua cella e che i Dissennatori se ne sono allontanati.
 
La prima cosa di cui prende coscienza, quando un barlume di lucidità torna ad affiorare, è la propria posizione nello spazio: ha la testa incassata tra le ginocchia e le braccia a proteggerla, a proteggersi.
Non ricorda come né quando si sia messo in quel modo, ma non è importante. Qualcos’altro richiama la sua attenzione: un tocco.
Un tocco leggero, delicato, ma sufficiente a farlo sobbalzare – perché ha dimenticato cosa sia il tocco di un altro essere umano.
Sobbalza e alza la testa, vigile eppure estremamente confuso: i suoi occhi vagano a lungo nella penombra prima di riuscire a soffermarsi sulla persona che gli sta davanti, accovacciata.
Lì per lì non lo riconosce; non riesce a capire chi sia, ma qualcosa glielo rende familiare. Le sue orecchie captano un suono, una frase.
– Adams, sono io, mi riconosci? Sono Percy Weasley.
Inutile, le parole cadono a vuoto; Adams continua a fissare davanti a sé per almeno un minuto, smarrito e incapace di sforzare la propria memoria; d’un tratto però succede qualcosa, la sua mente si snebbia e ricorda.
È il suo primo giorno di lavoro, sta camminando verso l’Archivio e intanto pensa a quanto sia buffo che un ragazzino con dieci anni meno di lui sia il suo…
– Capo…
Finalmente lo vede davvero: è come se avesse aperto gli occhi per la prima volta dopo mesi. Percy Weasley, lo strano ragazzino con un gran cuore e poca voglia di metterlo in mostra; nei suoi ricordi, però, non ha quell’aria spezzata e vecchia.
Allunga una mano verso di lui, per sentire se è davvero lì o se è solo un’altra visione venuta a tormentarlo; il ragazzo ricambia la stretta, ed ecco che esplodono altri mille ricordi: il capo invaghito di Audrey ma troppo timido per farsi avanti; cercare di convincere Audrey a confessare che finalmente stanno insieme; far finta di niente mentre il capo e Audrey chiacchierano a bassa voce in archivio, le dita intrecciate e gli occhi che dicono molto di più delle parole. Non c’è mai Percy Weasley da solo, c’è sempre Audrey insieme a lui nei suoi ricordi.
Audrey in tribunale come lui, Audrey che non si sa se la si può aiutare. Audrey e il suo albero genealogico.
– Audrey? Sta bene, Audrey? – domanda Adams con quel po’ di voce che è riuscito a recuperare.
Ascolta Percy parlare, ma non è abbastanza. All’improvviso ricorda tutto, ricorda che l’albero genealogico doveva arrivare dalla Norvegia; vorrebbe chiedere dettagli, sapere se è riuscito, se sono riusciti a salvarla. Ma tutto ciò che riesce a fare è mettere insieme due, tre parole; Percy sembra capire lo stesso, perché lo rassicura, gli ripete che sta bene, che stanno bene.
E poi inizia a piangere.
 
Ernest Adams non sa cosa siano le lacrime; quelle che aveva gli si sono pietrificate dentro, non saprebbe più per chi o cosa versarle. Guarda Percy piangere e non capisce, non si rende conto. Perché lo fa? Perché piange? Non lo sa che lì ad Azkaban tutto è dolore, tutto è paura? Non lo sa che una volta che si è lì dentro non esiste più nient’altro?
Lo guarda e non capisce. Non sa nemmeno come consolarlo.
Ci vuole un po’ prima che Percy riesca a smettere. Ha la voce ancora squassata dai singhiozzi, ma riesce a parlare. E dice qualcosa di meraviglioso.
– Sai… Audrey… Lei… n-noi stiamo per avere un bambino.
Bambino.Quella parola evoca nella mente di Adams una miriade di sensazioni: colori, prima di tutto, colori vivaci che vanno dall’azzurro al verde all’arancione al giallo; suoni, i suoni di risate e canti; mani che accarezzano capelli, mani che accompagnano, che indicano.
Stiamo per avere un bambino.
La nebbia si sta diradando. Qualcosa si fa strada nel cuore di Adams: gioia.
– Sì? – domanda.
Sì? È vero? È reale? Esiste davvero questa felicità? Esiste qualcosa fuori di qui?
– Sì. E se… se sarà maschio lo chiameremo Ernest.
Come me,pensa Adams. Avranno un bambino e lo chiameranno come me.
È allora che il velo si squarcia. L’oscurità non conta più nulla, la nebbia sparisce dai suoi pensieri, e tutto ciò che Adams riesce a percepire è quel calore che gli va dal cuore allo stomaco, e poi alla mente.
Dopo mesi – o anni – di prigionia, buio e dolore immobile, in mezzo a un tempo che non conta nulla, Adams sorride, felice.
 
 
Non durerà, non è destinato a durare.
Non appena Percy Weasley varcherà la soglia della sua cella, i Dissennatori torneranno a svolgere il loro compito: gli porteranno via quell’istante, glielo faranno dimenticare, e faranno sì che quella interruzione dell’eterno presente di Azkaban non sembri mai avvenuta.
Ma ora, in questo momento, tutto ciò non ha importanza per Ernest Adams: i suoi amici stanno bene e avranno un bambino che si chiamerà come lui. La gioia esiste ancora.
Questo è ciò che conta.
 
 
Meno di due minuti dopo, Adams ha già dimenticato ogni cosa. È tornato ad Azkaban – e ci rimarrà per il resto della vita.


















Ed eccoci qui! Non sentivate la mancanza di un po' di sano angst, in mezzo a tante fluffaggini?
... no? Beh, ormai è fatta.

Devo veramente ringraziare Shnusschen per la dritta, se avessi aspettato l'ispirazione avrei scritto il missing moment su Adams ad Azkaban tra un secolo. 
Se avete letto UBL, non credo siano necessari grandi chiarimenti, a parte forse per quanto riguarda i pensieri di Adams nelle prime due parti (che sono generati dalla vicinanza coi Dissennatori, al pari di quelli di Audrey) e per "l'amore finito troppo presto": costui - e me lo ha fatto ricordare Agne, ché io l'avevo totalmente rimosso dalla mente - è il "musicista che lavora in un pub Babbano" nominato al capitolo 8. Probabilmente sarà argomento di un missing moment nel missing moment, ma non per ora: devo ancora smaltire la sofferenza provata nel ridurre Adams in questo stato ç__ç

Ringrazio tutte quante le persone che hanno contribuito a ispirarmi suggerendomi canzoni tristi e strazianti da usare come sottofondo: siete tante, quindi vi lascio un "grazie" collettivo - nella speranza che vi arrivi anche se non leggerete mai questo mm.

E ovviamente ringrazio anche voi che siete arrivati vivi fin qui.

Un abbraccio e alla prossima, sperando (o forse no?) che sia qualcosa di più allegro.
Fera




   
 
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