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Autore: Arlic Do Rei    26/05/2012    0 recensioni
La famiglia non la puoi scegliere. Ci nasci dentro e basta. Gli amici te li puoi scegliere. Gli amori te li puoi scegliere. Ma i parenti sono come gli stivali: più sono stretti più fanno male. Questa è la storia di un ragazzo non ordinario, e di una famiglia altrettanto non negli schemi.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Mi colse alla sprovvista un brivido di piacere intorno alle due del mattino.
In genere soffro di insonnia. Non dormo molto. Non mi piace farlo di notte. A volte ho pensato che funziono al contrario perché preferisco dormire di giorno quando il sole è alto e mentre la notte mi sento attivo e desideroso di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Di notte vedo tutto in modo molto più chiaro, o in un modo molto più affascinante, misterioso. In definitiva non ho ancora deciso come comportarmi nei confronti del giorno e della notte. Sono troppo diversi. Prima o poi trarrò le mie conclusioni
Era la lingua di Shagghi. L'avrei potuta riconoscere fra mille perché era leggermente ruvida. Aveva un che di assurdo. Mi procurava fastidio e allo stesso tempo un sollievo gradevole. Come un refolo d'aria in una giornata afosa. Mi sorprendeva ogni volta e mi coglieva impreparato. Salì delicatamente fino al mio collo. Fuori dalle coperte sbucò la sua testa, la sua schiena ossuta, le dita affusolate e le braccia magrissime. Mi faceva venire in mente gli insetti stecco che avevo visto in giardino. Ricordo che una volta avevo un amica che possedeva alcuni insetti stecco. Diceva che si nutrivano solo ed esclusivamente di foglie di rovo. E io continuavo a ripetermi "Che diavolo di insetto sadico o stupido è uno che si nutre delle fogli di un arbusto spinoso?!". Poi ci pensavo. Shagghi era un fascio di muscoli e ossa, non c'era punto del suo corpo che potesse essere bucato o ferito, forse perché non c'era abbastanza carne, o punti deboli. Non si piegava. Poteva solo spezzarsi.
- Ciao. - mascherai i miei brividi di piacere - Hai bevuto?
Le sue mani continuavano ad accarezzarmi. Ancora un po' e avrei smesso di trovarlo gentile e premuroso. Mi sarebbe bastato ancora un po' di tempo in quella situazione e avrei cominciato a sentire uno spaventoso senso di colpa che mi rosicava la nuca. In quei momenti mi sembrava di precipitare in un burrone.
- Cos'hai fatto al viso?
Shagghi non rispondeva. Il suo viso era coperto di trucco, un trucco spesso. C'era del cerone bianco, c'erano molti colori e una stella sul suo occhio destro. L'altro rimaneva socchiuso, cucito.
- Cos'hai fatto?!
Cercai di alzarmi infastidito ma lui mi teneva fermo premendomi contro il materasso, si levava sopra di me imponente. Le sue mani intorno alle mie spalle erano divenute una morsa. Mi guardava. Anzi per la verità credo fosse in cerca del mio sguardo. Io ero assente. Lo ero sicuramente. Lui invece aveva l'occhio guardingo che saettava da un lato all'altro del mio viso. Avvicinai la mia mano al suo occhio sinistro. Non avevo mai provato della paura nei confronti di Shagghi ma per la prima volta quella notte, mentre passavo le dita lungo il filo che teneva cucito palpebra e pelle, vidi la mia mano tremare.
- L'hai fatto tu?
La mia voce era flebile. La sentivo a malapena. Lui annuì con le testa. Io ebbi un sussulto e un singhiozzo soffocato. Shagghi mi si avvicinò e mi bacio sulla guancia. Era caldo; la sua pelle, le sue labbra, le sue guance, lui era caldo. Io no. Non lo ero. Mi strinsi al suo addome mentre si spostava di fianco a me, posai l'orecchio sopra lo sterno alla ricerca del battito cardiaco. Quel rumore preciso e ritmato mi avrebbe rilassato; ne ero certo. Lui mi strinse e prese ad accarezzarmi i capelli. Avevo tanti capelli: l'unico merito di mio padre. Shagghi continuava ad accarezzarmi e a stringermi. Sarei potuto rimanere così fino a perdere la concezione del tempo e a trasformarmi in sabbia. Mi affascinava l'idea di assumere altre forme.
- Non avresti dovuto farlo. Non ha senso.
Non rispose. Lui non rispondeva mai alle mie domande, con me non parlava tanto che avevo dimenticato che timbro avesse la sua voce. Immaginavo una voce calda ma sofferta, intervallata da alti e bassi, da note stridule e altre gravi, immaginavo una voce che rispecchiasse la mia insicurezza psicologica e mentale. Non potevo essere così deboli in altre occasioni. Solo con Shagghi potevo farlo. Perché? Shagghi non era umano. Non era una creatura reale. L'avevo creato io. O meglio lo avevo immaginato. O sognato. Per me tra le due parole non c'è più molta differenza. Lo avevo fatto perché lo desideravo. E pochi secondi dopo lui era vicino a me, e mi baciava. Languidamente. Come nei film romantici dove ci sono un uomo e una donna che si baciano e si amano. Così avevo pensato. Avevo pensato che volevo anche io baciare qualcuno. E così era nato Shagghi. Con lui mi sembrava di essere in uno di quei film romantici.
- Di a mia madre che domani a colazione farò tardi.
Lui non era reale. Era una mia idea, una mia fantasia, una mia perversione. 
Si alzò nuovamente sopra di me. Mi afferrò saldamente sotto le gambe e mi spinse in alto. Diedi una craniata contro la testiera del letto. Mi lascia scappare un gemito. Mi morse sul collo, con forza, con rabbia. Gemetti ancora e tenendomi in equilibrio con una mano, con l'altra lo colpì cercando di staccarmelo di dosso. Ma Shagghi si spostò e prese a rosicchiarmi la mandibola, poi di nuovo il collo, poi passo a mordicchiare nervosamente la scapola. Cercava di spolparmi come uno sciacallo. Afferrai la prima cosa che trovai vicino al letto sul comò e gliela diedi in testa. Il rumore di vetri infranti spezzò la serenità della notte.
Lui smise. Alzò lo sguardo: la sua stella incontro il mio occhio sano. Pensammo alla stessa cosa. Pensavamo "Perché?".
Non mi stupivo che usasse violenza contro di me perché ero io stesso a desiderarlo e lui interpretava solamente i miei desideri.
I suoi capelli neri erano zuppi di vino rosso e sangue. Non si distinguevano l'uno dall'altro. Aveva dei bellissimi capelli neri, corvini e degli occhi azzurri cristallini. L'avevo generato con il progetto di un amore perfetto, quelle cavolate adolescenziali di cui si ha sempre bisogno, ma alla fine era solamente una mia copia, che non mi rivolgeva la parola e dall'aspetto diverso. Aveva solo un guscio più bello del mio.
Gli afferrai il viso tra le mani e lo baciai. Intensamente. Non volevo sentire il dolore, non volevo sentire le voci dentro di me, non volevo divorarmi più di quanto non fossi in grado di fare.
Shagghi mi strinse lungo i fianchi e mi sosteneva. Io a mia volta mi afferrai al suo collo. Quando mi staccai vidi le sue labbra muoversi e nessuna parola uscire, la stella e la cucitura, il cerone, il trucco, il sangue che colava.
"Perdonati". Avevo l'impressione che mi avesse detto questo. Mi adagiò delicatamente sul letto e cominciò a consolarmi a modo suo. O meglio nel modo che io preferivo.
 
- Il signorino ha detto che farà tardi a colazione.
Mia madre austera lo squadrò da capo a piedi.
- Hai l'aria di uno che non ha dormito molto.
- Avete fatto un gran baccano ieri notte - tagliò corto Serena con perfidia.
- Sono desolato. Posso rimediare.
Shagghi afferrò il coltello che stava risposto sul tavolo accanto a quello che doveva essere stato il mio piatto, lo portò all'avambraccio dove lo conficcò, poi accompagnando il gesto a delle grida disumane che facevano gelare il sangue nelle vene, e rigurgitare i dolcetti al cioccolato che Serena aveva appena divorato, muovendo il coltello si aprì l'arto in due con una lacerazione verticale che divenne una fontana di sangue. In breve la colazione fu rovinata. Serena prese a vomitare sul piatto, mia madre sbuffò seccata e si alzò da tavola.
- Shagghi sei solo un buffone.
- Perdonatemi madame.
A malapena tratteneva le grida e i gemiti di dolore, dovette lasciarsi cadere per terra e cedette all'istinto di chiudere lo squacrio con il sostegno dell'altra mano.
- Queste stupidaggini - aveva sottolineato la parola "stupidaggini" con una fortissimna nota di disprezzo - la mattina sono soltanto seccature inutili.
La donna mosse la mano nell'aria come se stesse scacciando una mosca. Un insetto invisibile poiché non ce ne erano, ma il gesto pareva avesse avuto una sua finalità. Shagghi si alzò, il suo occhio incredulo rimaneva fisso sull'arto che pochi secondi prima aveva reciso di sua spontanea volontà. Poi lo stesso si spostò sulla madre che lo fissava imbronciata.
- Non ti ho creato per dare spettacolini patetici a colazione.
- E farmi rivoltare le budella - aggiunse Serena tra i conati mentre si alzava e scappava in una stanza della casa. Probabilmente alla ricerca di qualcosa per far sparire il gusto di cioccolato e succhi gastrici che le aveva rimepito la bocca.
- Ti ho creato per rendere felice mio figlio.
- Lo so.
- Se non sei in grado di farlo posso farti ritornare quello che eri prima.
Shagghi non rispose, infilò la coda tra le gambe e svanì anche lui nell'immensità della villa.
 
Quel pomeriggio avevo un appuntamento con la signora Rosemary. In realtà non si chiamava Rosemary, ma nella mia testa le si addiceva molto di più come nome. Mia madre si occupava di prendere tutti gli appuntamenti e di riempirmi l'agenda, anche perché forse era l'unica che mettesse piede fuori dalla nostra proprietà: Serena rimaneva segregata in stanza per lunghi periodi, spesso non mangiava per intere settimane, si chiamava "Fase di Generazione" o comunemente nota al resto del mondo come fase creativa dell'artista; la si sentiva urlare fino al piano terra, nella maggior parte delle volte si trattava di imprecazioni classiche ma spesso si stabiliva un dialogo tra lei e la tela, un dialogo che metteva i brividi. Non abbiamo mai capito cosa usasse per imbrattare i suoi dipinti. A volte vernice, a volte interiora di animali, a volte i suoi stessi fluidi corporei. Una volta aveva scaraventato sulla tavola da pranzo, ovviamente durante l'ora di pranzo, un opera che consisteva in una chiazza verde con dei maccheroni attaccati e del glitter ovunque e aveva proferito "Ecco il volto della società". La chiazza verde si era poi rivelato vomito seccato. Mia madre lo aveva fatto bruciare e mia sorella le aveva dato della bieca capitalista e porca imperialista. Ricordo una volta in cui comprò un coniglio che sparì misteriosamente nel nulla. Si rifece vivo a Natale nell'opera "Tutte le lacrime che ho versato staccando la testa a Mr. Fluffy".
Quindi credo di non essere nel torto affermando che nessuno voleva sapere cosa stesse usando come materiale o anche cosa solo avesse in mente di ideare mia sorella.
Robert d'altro canto è oberato di lavoro. Si chiude nello studio dalla mattina alla sera. Per quanto mi riguarda probabilmente passa il tempo a masturbarsi. Ore e ore a smanettarsi. Non ho mai capito che lavoro faccia. Non mi sono mai interessato.
Per quanto riguarda me; la mia è una scelta.
La signora Rosemary fu accompagnata in salotto da uno dei domestici, una delle tante figure evanescenti della casa che non degnavo della mia attenzione. Peccavo spesso di superbia nei loro confronti. Un altro da aggiungere alla lista. Lei si sedette di fronte a me, ci separava il tavolo da pranzo e un odiosissimo cesto di frutta colorato. Pareva preoccupata, in ansia. Io le gettai un occhiata, giusto per accertarmi che fosse presente e alla portata delle mie orecchie e della mia voce, poi riabbassai la testa per ritornare ai miei disegni con i pastelli a cera. Stavo disegnando una volpe. Era orrenda. Poteva essere un gatto o un topo, ma certamente non una volpe.
- Non amo cominciare le conversazioni - proferì io senza staccare il pastello dal foglio.
La signora Rosemary stringeva nervosamente un fazzoletto con i pizzi. Aveva una graziosa borsetta e un terrificante completino ceruleo.
- Nessuno sa che lei è qui. Si rilassi. Le persone nervose mi rendono nervoso.
Lei non accennò a calmarsi anche se smise di stringere il fazzoletto.
- E' già il nostro terzo incontro. Se avessi voluto farle del male ci avrei pensato prima no?
Non aveva molto senso quello che dicevo. Cercavo un modo per tranquillizzarla. Dopotutto mi aveva pagato per offrirle un servizio adeguato e io ero, e sono, un uomo di parola. Tuttavia non potevo fare a meno di pensare che non credevo in ciò che avevo appena detto, perché se avessi voluto farle del male per davvero, avrei aspettato fino all'ultimo istante per godermi la lenta e dolorosa tortura psicologica a cui l'avrei sottoposta. E in parte lo stavo facendo.
- In città cosa dicono di me? - sogghignai, ora mi limitavo a disegnari figue geometriche sul foglio con il pastello nero - Se i vostri bambini non vanno a letto presto arrivo io e li mangio, giusto?
Lei non rispose. Aprì la borsetta e tirò fuori delle lettere.
- Va molto meglio.
- Davvero?
- Si. Mi sento più serena. Più calma.
- Dorme la notte?
Lei non rispose. Tirò nuovamente fuori dalla borsetta qualcosa: medicine.
- Cosa sono?
- Un piccolo aiuto. Ho un amica farmacista.
- Lo sai che non tollero medicinali.
Non rispose.
- E questa tua amica sa di lui?
- No.
Smisi di disegnare. Mi leccai le labbra per assaporare la mia piccola vittoria. Mi misi in ginocchio sulla sedia e mi allungai lungo il tavolo fino ad arrivarle sotto il naso.
- I tuoi ricordi?
- Stanno svanendo come avevi promesso - esitava.
- Sono uomo di parola io.
Mi ritirai indietro, mi alzai e mi diressi verso il carrello degli alcolici. La piccola dispensa di mia madre. Mia madre amava bere e io di certo non potevo darle torto. Solo le cose migliori per la famiglia.
- Gradisci qualcosa?
- Come fai? - alzò la voce. Io mi volti lentamente stringendo un bicchiere che avevo appena riempito di liquore di vino rosso.
- Prego?
- Non sono mai riuscita a dimenticare quello che è successo. Mai. Sono passata da un dottore all'altro per cercare di superare la cosa. Poi arrivi tu e come per magia...
- Magia? - gridai innervositò - io svolgo un attività non faccio "Magia".
- I miei ricordi svaniscono. Tutti i miei ricordi su di lui. Non ricordo nemmeno il suo nome e le cicatrici. Oddio! Le cicatrici non so più se sono opera sua o di quando ero bambina!
Rimanemmo in silenzio per un po'. Io posai il bicchiere perché mi era passata all'improvviso la voglia di bere. Lei si limitava a riordinare le cose nella borsetta, magari solo per perdere un po' di tempo. Magari solo per ritrovare il controllo. Aveva il trucco un po' sbavato.
- Questa sarà la nostra ultima seduta - annunciai.
Lei sollevò lo sguardo. Aveva dei bellissimi occhi celesti, estremamente fragili. La prima volta che l'avevo vista avevo pensato a una nevrotica, una con dei disturbi ossessivi compulsivi, ma si era rivelata solo un persona dannatamente insicura.
- Dopo stanotte non solo dimenticarai la violenza, i pianti, le grida, ma anche i fiori, i sorrisi, i baci. Quando avrò completato il lavoro lui non sarà mai esistito.
La signorina Rosemary si ricompose, si alzò e io chiamai uno dei domestici per accompagnarla alla porta. Lei prima di uscire dal salotto si voltò e disse "Grazie" pronunciando il mio nome. Io ricambiai con "Addio".
  
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