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– Da Toronto a Forks
La
guerra in Europa presto sarebbe finita, ma gli ultimi colpi di coda della belva
che aveva aggredito il mondo furono violenti.
Le
truppe tedesche non volevano ritirarsi dai territori occupati, benché colpite duramente
dalla resistenza partigiana che trovavano tra i popoli che avevano tentato di
sottomettere. Le rappresaglie erano feroci, quanto la lotta per non cedere
all’oppressore. Il Regno Unito aveva resistito all’invasione e gli inglesi
collaboravano con le truppe americane. Ma la guerra miete vittime da ambo le
parti.
Anche
molti dei nostri cadevano.
Il
ministero della guerra spediva ai quattro angoli del paese telegrammi alle
donne, madri e mogli di soldati caduti al fronte.
Un
collega che lavorava nel mio stesso reparto di medicina generale, ricevette la
triste notizia che suo figlio era stato ucciso da un cecchino in territorio
nemico.
E
presto anche Adam, da ebreo, avrebbe solo potuto piangere sull’orrore più
profondo che l’umanità potesse immaginare.
In
quel clima di angoscia e dolore quasi non riuscivo a convincermi della fortuna
che era toccata a me, che avevo potuto riabbracciare mio figlio.
Avevo
smesso di pregare tanto tempo prima, convinto che le mie preghiere non fossero
degne di essere ascoltate, ma adesso tutti i giorni ringraziavo quel Dio
misterioso e incomprensibile, che aveva concesso una tale grazia ad una
creatura infernale qual’ero; non mi pareva di meritare tanto, mentre tanti
giovani dall’altra parte del mondo perdevano la loro vita.
Hitler
doveva essere furioso, ma non volle mai contemplare la resa, almeno fino
all’ultimo, quando ormai palesemente sconfitto si tolse la vita nel suo bunker
a Berlino.
I
venti della tempesta si stavano placando e fu l’inizio di un periodo di gioia,
una profonda felicità che persiste ancora oggi, nonostante tutto, anche a
dispetto degli innumerevoli spostamenti fatti attraverso gli anni, da un
territorio all’altro degli Stati Uniti; avevo compreso nel tempo e dalle
esperienze vissute che ero a casa ovunque fosse la mia famiglia, con mia moglie
e i miei figli il cui numero era destinato a crescere ancora.
Fu
bello ritrovare e ricostruire il legame con mio figlio; sviluppai una sintonia
tale con lui che non avevo mai avuto in quel nostro passato, segnato da troppi
conflitti e incomprensioni.
Edward
abbracciò senza altre esitazioni lo stile di vita ‘vegetariano’ , ma non
aveva mutato la bassa opinione di sé stesso; semmai, con la sua discesa agli
inferi, si era esacerbata la convinzione di essere un demone senz’anima, ma
almeno ora riconosceva pienamente le mie ragioni e le condivideva totalmente.
Era mosso e ispirato dalla volontà ferrea e assoluta di non ricadere
nell’errore.
“Sono
e resto un mostro, Carlisle; questa è una cosa che non posso cambiare, ma da ora
in avanti, per quanto sarà possibile, cercherò di essere un vampiro migliore.
Non cederò mai più al demone che dorme dentro di me; lo relegherò al silenzio,
come hai fatto tu. È una promessa.”
Ero
sicuro che l’avrebbe mantenuta, leggevo una determinazione assoluta in fondo al
suo sguardo.
Instaurò
un rapporto amichevole e cameratesco anche con Emmett e molto spesso andavano a
caccia insieme; i pensieri sereni e semplici di suo fratello, così diversi e
distanti dai suoi, lo distendevano. A Emmett piaceva giocare e coinvolgeva
Edward con l’ entusiasmo un po’ animale che lo distingueva nettamente.
“Avanti
lumaca! Scommetto la pelle di un orso che non riesci a battermi nella corsa.”
“Ti
farò mangiare la polvere Emmett; comincia a correre, ti do un po’ di vantaggio.”
Effettivamente
Edward era più veloce, più agile e scattante, ma in forza bruta Emmett era
imbattibile oltre che micidiale.
Un
vero carro armato inarrestabile per chiunque.
Io
e Esme restavamo lì, a guardare i nostri figli correre veloci attraverso la
foresta, come due ragazzi che si sfidavano in gare di resistenza, mentre i
tiepidi raggi del sole filtravano qua e là tra le foglie verde scuro, facendo
brillare le loro pelli bianche come avorio.
Avevo
la sensazione di aver raggiunto la completezza della mia vita, mentre osservavo
i loro volti distesi e il sorriso amorevole di Esme che si stringeva a me,
serena e appagata.
Era
un momento perfetto, come forse non ne avevo mai avuti.
Nella
quiete suprema della foresta, anche l’aria pareva immobile attorno a me, il
tempo e lo spazio sembravano congelati nell’eternità; in quel sacro silenzio
niente faceva pensare alle bombe che cadevano sulle città in Europa.
Edward
tornò a scuola a Toronto insieme a Emmett e Rosalie, riprendendo a comportarsi
come un normale ragazzo di diciassette anni. I suoi occhi erano tornati quasi
dorati, mantenevano solo una lieve sfumatura che dava sull’arancio.
Eravamo
a gennaio e le temperature si erano molto abbassate e la neve ricopriva le
strade della città, le pianure attorno e le maestose foreste canadesi teatro
delle nostre battute di caccia.
Tutto
era avvolto nella morsa del gelo e il sole pallido dell’inverno non aveva la
forza di oltrepassare lo strato denso delle nubi che coprivano il cielo,
quindi, potevamo esporci alla luce chiara del giorno senza temere di essere
scoperti.
Passò
un altro anno senza che accadesse nulla di eclatante.
Il
ritmo della nostra vita era sempre quello, scandito dal passaggio delle
stagioni, salvo qualche piccola insignificante variazioni: un alunno difficile
dal carattere ribelle per Esme, l’inserimento per lei in una nuova classe, un
nuovo collega all’ospedale sostituiva quello che andava in pensione. I nostri
rapporti sociali con la comunità erano sempre la cosa più difficile da gestire;
avevamo la necessità di inventare scuse convincenti per evitare inviti a cena,
feste di compleanno e altre simili ricorrenze troppo umane.
Nel
maggio del ‘43 Rosalie e Emmett decisero di sposarsi.
Era
diverso tempo che ci stavano pensando, ma avevano sempre dovuto rimandare per
cause di forza maggiore, o perché non si presentava mai l’occasione propizia.
Rosalie desiderava un vero matrimonio completo di cerimonia e luna di miele.
Era un sogno di normalità che coltivava fin da umana; non le pareva vero di
poterlo rendere concreto, sostenuta da Esme, che si dimostrò entusiasta. Aiutò
la figlia in tutto, come una vera madre commossa ed emozionata; curò i
dettagli, gli inviti a pochi umani a noi vicini, come Adam Keller e la sua
famiglia, i preparativi della piccola casa a pochi chilometri dalla nostra,
dove i novelli sposi avrebbero vissuto soli per un po’ di tempo.
E
anche io e Esme ne approfittammo per sancire la nostra unione in maniera
definitiva; ci avevamo pensato spesso negli ultimi anni, ma il momento giusto
sembrava non arrivare mai. Quale migliore occasione di quella, con tutta la
famiglia Cullen felicemente riunita? In un sol giorno furono celebrati due
matrimoni; evitammo la chiesa tradizionale che mi pareva fuoriluogo per dei
vampiri e per l’occasione affittammo una sala esclusiva della città dove
avvenne la doppia cerimonia e anche i membri del Clan di Denali lasciarono il
loro rifugio in Alaska per venire a festeggiare con noi.
Furono
momenti indimenticabili.
Lo
sguardo raggiante di Rosalie, radiosa nel suo abito candido come la neve e
senza il rosso del sangue a sporcarlo, gli occhi colmi d’amore di Emmett, la
tenerezza e la passione di Esme dove abbandonavo me stesso, in balia di una
corrente dolce e calda.
“Questo
è il giorno più bello della mia vita. Lo ricorderò per sempre. Grazie Carlisle.
Non potrei essere più felice di così, amore mio. - Mi disse baciandomi. – Mi
spiace solo che Edward sia solo; ha tanto bisogno di qualcuno accanto.”
“Sì,
è vero. Forse un giorno incontrerà la persona giusta, ora che ha mutato
atteggiamento ed è meglio disposto verso gli umani. – Accarezzai il suo viso di
porcellana finissima e la baciai. - Esme, sono io che devo ringraziare te; tu
mi hai sostenuto mentre io stavo cadendo. Sei stata e sarai la mia salvezza.
Hai dato senso a tutto quanto. Ti amo, Esme. Ti amerò sempre.”
Era
triste che Edward fosse solo; credo che in momenti simili, sentisse più forte
il peso della sua solitudine, ma non lo faceva né pesare né vedere.
Ma
non riusciva a ingannarci fino in fondo.
Sapevo
che era contento di poter condividere quei momenti con tutti noi, eppure mi
accorgevo del velo leggero e impalpabile di malinconia che adombrava il suo
sguardo. In alcuni momenti non potevo fare a meno di pensare a quanto mio
figlio fosse infelice di quella vita.
Nonostante
il suo potere, era discreto: cercava di non invadere l’intimità dei suoi
famigliari.
Si
allontanava, vagabondando attraverso i boschi, cercando i posti più belli
quanto inaccessibili, e tra i suoni ovattati della natura riusciva a rilassarsi
trovando una parvenza di pace.
Molto
tempo prima ero stato tanto simile a lui.
Era
facile rivedermi in mio figlio, adesso.
Doveva
essere difficoltoso convivere circondato dai nostri pensieri senza sentirsi di
troppo.
Edward
si concentrava su altro, coltivando svariati interessi: oltre a letture di
vario genere, si appassionò alla musica classica e non solo; imparò a suonare
pianoforte, a comporre brani lasciandosi ispirare dallo stato d’animo del
momento. Era molto portato. Suonare lo rilassava e allontanava, anche se per
poco, la sua malinconia.
Così
arrivò anche il 1944.
Cominciarono
a filtrare le prime fumose notizie riguardanti Auschwits, Birkenau, Buchenwald,
Dachau, solo alcuni dei 20.000 campi di concentramento e sterminio sparsi in
Polonia e Germania e di quello che accadeva lì dentro agli ebrei. Ma solo con
l’ingresso delle truppe sovietiche ad Auschwits nel gennaio del ‘45 si sarebbe
scoperta tutta la portata dell’orrore inimmaginabile di cui furono teatro quei
luoghi: vi avevano trovato la morte migliaia di ebrei, giovani, vecchi, donne e
bambini soffocati nelle camere a gas, passati per i camini tra il fumo e la
cenere che si depositava sui territori attorno.
Solo
alla fine della guerra fu spaventosamente chiaro cosa intendeva il Terzo Reich
di Hitler per “Soluzione finale”.
Alla
fine Adam scoprì che i suoi parenti erano stati deportati nei campi di
concentramento, una notizia che lo riempì di scoramento.
Non
li avrebbe più rivisti vivi, non tutti almeno. Solo un cugino si era salvato
perché un inglese coraggioso lo aveva aiutato a nascondersi, procurandogli dei
documenti falsi. Ricordo ancora l’espressione sgomenta di Adam e le sue mani
che tremavano.
“Stamani
ho ricevuto una lettera dall’Europa: è di mio cugino. La sorella di mia moglie
e suo marito sono saliti su uno di quei convogli diretti verso la Polonia. La
loro destinazione finale doveva essere Auschwits. Li hanno separati dai loro
figli… non ci sono speranze che siano vivi.” la sua voce era ridotta a un
singulto.
“Mi
dispiace tanto, Adam.” Fu l’unica cosa che riuscii a dirgli.
Il
numero esatto di coloro che finirono in questi posti non si sapeva con
esattezza, ma furono pochi i sopravvissuti.
La
portata di quell’orrore era tanto grande che anche per me era difficile
immaginare la realtà di ciò che mi veniva raccontato. Solo le foto ai luoghi e
alle persone hanno potuto mostrare al modo la crudezza folle di quelle
immagini. Le guerre tirano fuori sempre il peggio dall’animo umano, lo rendono
abbietto e lo fanno regredire a una condizione peggiore della bestia, una cosa
che avevo sempre saputo; da quei racconti e dalle testimonianze dei
sopravvissuti scoprii che l’uomo era stato capace di creare l’inferno sulla
terra e di farlo passare per qualcosa di normale e giustificabile. Era sempre
sorprendente scoprire quanto il male potesse essere vasto tra gli uomini,
oscuro e inspiegabile. Da quella prospettiva la vita di un vampiro era quasi
comprensibile e normale; i miei simili uccidevano gli uomini solo per
sopravvivere, come fanno anche certi animali in natura.
Gli
uomini si uccidevano tra loro dominati dalla follia dell’ odio più feroce e
irragionevole, e anche questa sembrava una costante immutabile attraverso le
epoche.
E
mentre la storia umana faceva i conti con quello che restava di un mondo alla
fine della guerra, ridisegnando confini di stati e un nuovo assetto politico
diviso in due blocchi, noi facemmo i conti con un nuovo sorprendente studente
che proveniva dalla costa orientale del Canada.
Edward
in mezzo agli umani manteneva il suo ruolo di sentinella a protezione della
nostra famiglia; ricordo che un giorno di marzo, piombò come un lampo nel mio
studio presso l’ospedale, agitato e inquieto. Ammetto che vederlo così mi
spaventava sempre un po’, facendomi temere sempre qualche ricaduta.
“Carlisle,
dobbiamo partire subito e lasciare Toronto. È incredibile, ma siamo stati
scoperti.” Disse senza tanti preamboli, gettandomi sotto il naso un biglietto.
Sopra c’era scritto, so cosa siete.
Restai
interdetto a fissare quella grafia tremolante per un breve attimo.
“Chi
te lo ha dato?” Chiesi apprensivo, alzandomi dalla poltrona e corrugando la
fronte.
“Un
ragazzo che frequenta la nostra scuola da poche settimane; è un tipo davvero
sveglio, così tanto da aver capito che siamo vampiri.”
“Sei
sicuro Edward che non si tratti di uno scherzo?”
“Ho
sentito i suoi pensieri; all’inizio aveva solo dei sospetti, ma adesso ne è
assolutamente convinto. Ha scritto quel biglietto per tastare le nostre
reazioni; non saprei dire se è pazzo o soltanto incosciente. Ha iniziato a
parlare in giro, anche se gli altri studenti per fortuna non gli danno troppo
credito.”
Brian
Stone, figlio di un piccolo imprenditore edile, era un ragazzo che aveva la stessa
età di Edward, un giovane dalla mente brillante, intelligente e pericolosamente
attento a certi particolari che sfuggivano alla maggior parte degli umani.
Era
ossessionato dalla vera o presunta esistenza dei vampiri. Conosceva tutte le
leggende su di noi, anche quelle più antiche di origine romena che parlavano
del sanguinario principe Vlad l’impalatore, la figura ispiratrice del Dracula
di Bram Stoker; aveva letto tutte le opere che esistevano in letteratura,
conosceva perfino i racconti della tradizione orale originari dell’ Irlanda che
avevano ispirato scrittori come Le Fanu, oltre alle storie dei Nativi Americani
che parlavano di queste misteriose creature della notte.
Brian
osservò con iniziale curiosità l’atteggiamento dei fratelli Cullen, ne studiò
lo strano comportamento asociale, ma soprattutto fu colpito dai dettagli fisici
dell’aspetto: il pallore mortale, gli occhi che stranamente cambiavano colore,
la superba bellezza al limite dell’umano e la grazia dei movimenti. Soprattutto
notò che in mensa non toccavano cibo né acqua. Iniziò a insospettirsi.
Edward
spiò allarmato i suoi pensieri per settimane, tra una lezione di chimica
organica e le pause in mensa. Captò i suoi discorsi con gli altri ragazzi.
Rosalie e Emmett erano presenti e ascoltarono con attenzione ogni cosa.
“Non
fatevi ingannare dall’aspetto: quelli sono tre vampiri. Hanno un che di
agghiacciante. Il loro pallore non è normale e poi avete notato le occhiaie
violacee? E non toccano cibo: piatti e vassoi sono sempre intatti alla fine del
pasto.”
“Leggi
troppi libri sull’argomento, Brian. I Cullen sono semplicemente molto strani, è
risaputo; stanno per conto loro e non danno confidenza a nessuno. Magari sai
spiegarci perché non si sciolgono al sole! Sono una razza speciale di vampiri?”
I
ragazzi sghignazzavano. Naturalmente Brian non veniva preso troppo sul serio,
ma il giovane non si lasciava impressionare dalle opinioni dei suoi amici.
“Sì,
prendetemi in giro. Posso dimostrarvi che ho ragione. Il padre, il dottor
Cullen, è un vampiro anche lui; l’altro giorno sono andato all’ospedale dove
lavora: ho finto di avere mal di stomaco per farmi visitare. Quando mi ha
toccato ho sentito che era freddo come il ghiaccio, una caratteristica tipica
dei non-morti.”
I
suoi compagni avevano riso di nuovo, ironizzando.
“Un
dottore vampiro! È troppo assurdo! Avrà scelto di fare il medico per avere a
disposizione sacche di sangue sempre fresco! Magari non gli piace bere
direttamente dal collo delle vittime!”
Edward,
Rosalie ed Emmett, seduti al loro tavolo in fondo alla mensa, avevano sentito i
commenti e le risa, restando apparentemente imperturbabili. Rosalie si era
agitata sulla sedia in preda al nervosismo.
“Questa
storia non mi piace. Dobbiamo eliminarlo!” sibilò la bellissima vampira,
guardando Brian con ostilità manifesta. Reagiva sempre così di fronte a una
minaccia di qualsiasi natura fosse. Emmett le aveva accarezzato la schiena per
calmarla, poi Edward aveva parlato.
“Emmett,
Rosalie andate subito a casa. Io corro da Carlisle per avvisarlo. Sentiamo cosa
vuole fare lui. Voi avvisate Esme e tenetevi pronti per la fuga.”
Ora
ricordavo la visita di quel ragazzo in ospedale e i suoi occhi che mi
scrutavano in maniera sospetta. Non avevo capito perché.
Già
in passato mi era venuto il dubbio di essere scoperto, ma in molti casi si era
trattato di suggestione; raramente gli umani erano tanto acuti.
Era
forse la seconda volta in tutta la mia esistenza che qualcuno intuiva il nostro
segreto. La situazione era critica e non potevo sottovalutarla: Brian non era
amichevole né bendisposto a tollerare la nostra presenza. Minacciarlo o
spaventarlo perché tacesse non sarebbe servito e non era quello che volevo per
me e la mia famiglia. Volevo vivere in un clima che fosse il più sereno
possibile, non condizionare la vita di un ragazzino. Provare a parlargli per
portarlo dalla nostra parte non sarebbe servito; ci considerava demoni
pericolosi, creature del male da combattere, e non escludo che ci avrebbe
provato, con tutti i rischi del caso. L’unica soluzione che vedevo era la fuga.
L’ennesima
e inevitabile.
Ma
cercai ulteriori conferme.
-
Credi che potremmo
convincerlo a fidarsi di noi?
“No,
Carlisle.”
Edward
era sempre fermo davanti a me; conosceva già la mia decisione.
“Vado
a casa a prepararmi per la partenza: avevo detto a Emmett e Rosalie di tenersi
pronti.”
“Hai
fatto bene. Vai avanti; io ho delle cose da sistemare. Vi raggiungerò a breve.
Punteremo verso la penisola di Olimpia; è molto tempo che non andiamo laggiù.
Un ottimo posto per noi.”
“Ma
là ci sono i licantropi, te ne sei dimenticato?”
“No,
ma basterà non violare i loro territori. Facemmo un patto a suo tempo; credo
sia ancora valido.”
Così
partimmo precipitosamente quella sera stessa. Lasciai all’ospedale la solita
lettera di dimissioni che tenevo sempre pronta per ogni evenienza. Per Brian
sarebbe stata la conferma della sua teoria, ma poco importava. L’importante era
allontanarsi da Toronto il più velocemente possibile.
Tre
giorni dopo eravamo a Seattle.
Pensavo
che avrei potuto trovare un impiego presso l’ospedale della città, ma mi
dissero che l’organico della struttura era al completo; a causa della guerra i
finanziamenti erano pochi, quindi la direzione amministrativa aveva chiuso le
assunzioni. Fu così che mi parlarono della piccola cittadina di Forks e del suo
nuovo ospedale che ricercava medici specializzati e nuove attrezzature.
All’epoca si trattava di un piccolo centro abitato che si sarebbe ingrandito
col passare degli anni, collocato a nord della penisola, in un territorio umido
e piovoso circondato da foreste, luogo perfetto per viverci, dove il sole
usciva assai di rado.
Così
decidemmo di stabilirci lì.
Forks
negli anni sarebbe diventato un luogo stabile per noi, dove tendevamo a tornare
periodicamente.
Appena
presentai le mie referenze all’ospedale mi assunsero senza indugi di alcun
genere.
Comprammo
casa laggiù, a qualche chilometro dalla città vera e propria, una grande casa
bianca in stile coloniale, con un grande portico che si affacciava sulla foresta
che sorgeva attorno.
Si
trattava della prima vera dimora che io e Esme decidemmo di acquistare, un
luogo fisso dove saremmo sempre potuti tornare.
I
licantropi si ricordavano ancora di noi; vennero a controllarci, perché il
nostro numero era aumentato di due unità. Stabilito che non eravamo una
minaccia per la comunità ci lasciarono in pace, rammentandoci di rispettare il
patto per evitare scontri futuri.
Li
rassicurammo che avremmo mantenuto la parola.
Ci
trovammo davvero bene a Forks.
Una
cittadina anonima ma in espansione, dove nessuno aveva mai sentito parlare dei
Cullen.
Un
clima umido, cieli grigi e piovosi, temperature basse.
Attorno,
chilometri e chilometri di foreste che si estendevano fino ai confini del
Canada, una fauna ricca e varia, alci, orsi, puma più a nord, le prede
preferite di Edward.
Era
il luogo ultimo dove tutti i tasselli del quadro della mia vita si sarebbero
composti dando forma all’immagine finale e compiuta.
Tutti
i fili intrecciati dell’arazzo si tesero definitivamente cinque anni dopo il
nostro arrivo a Forks.
Era
il 1950.
Avevo
finito il mio turno all’ospedale ed ero rientrato da poco a casa. Esme era
seduta al tavolo della sala; stava correggendo i compiti dei suoi studenti. Rosalie
aveva trascinato Emmett in città per negozi, ma sarebbero rientrati a breve.
Solo Edward era in casa. Se ne stava chiuso nella sua stanza disteso sul divano
a fissare il soffitto bianco, lasciandosi vincere dalla noia, come a volte
faceva. Sembrava tutto stranamente tranquillo, però io mi sentivo come se
dovesse accadere qualcosa d’incredibile. Un presentimento. Ne avevo a volte.
Pochi
secondi dopo Edward uscì dalla sua stanza, corse in sala e lì si fermò in
attesa. Chiamò tutti noi a raccolta.
Aveva
avvertito i pensieri di due individui che si stavano avvicinando molto
velocemente alla casa, troppo velocemente per essere degli umani e non si
trattava di Rosalie e neppure di Emmett.
Erano
immortali, sicuramente.
La
cosa più bizzarra fu ciò che disse Edward per annunciare i nuovi visitatori.
“Stanno
venendo qui; si tratta di qualcuno che potremmo conoscere. C’è qualcosa di
strano…”
Nell’immediato
pensai al clan di Eleazar, ma Edward mi smentì subito.
“No.
Si tratta di un uomo e una donna. Lui non lo conosco, ma lei ha qualcosa di
famigliare; l’abbiamo già incontrata.”
Non
riuscivo proprio a immaginare di chi parlasse. Passai in rassegna tutti gli
immortali che avevo conosciuto, richiamando alla memoria volti e nomi vecchi di
secoli. Edward pareva perplesso, ma era assolutamente tranquillo, merito di
quel vampiro sconosciuto che aveva il potere di controllare le nostre emozioni,
come comprendemmo in seguito. Ci preparammo ad accoglierli.
La
porta di casa si spalancò su due immortali; una ragazza piccola, minuta, pareva
un folletto uscito dalla fiaba di Peter Pan per come si muoveva, agile,
scattante e allegra; ciocche ribelli di capelli neri tagliati corti
incorniciavano un viso sbarazzino. Il suo compagno era un vampiro biondo dalla
testa leonina che emanava una strana calma attorno a sé. Eravamo tutti
rilassati, fatto assai inconsueto quando ci si trova in presenza di vampiri
sconosciuti, ma c’era una ragione molto semplice. Il ragazzo non lo avevo mai
visto prima, ma lei sì.
Ora
era molto diversa da quando l’avevo conosciuta, ma anche così, non avrei potuto
confondere quella ragazza con nessun altro: era la giovane paziente che avevo
incontrato nel manicomio di Madison, la piccola veggente.
Alice.
Non
era più umana, però.
L’incarnato
pallido in un ovale perfetto e bellissimo, gli occhi dorati come i nostri,
vivaci e curiosi, il profumo seducente tipico della nostra specie non
lasciavano dubbi sulla sua natura.
Improvvisamente
mi tornò alla mente Lucien, il vampiro innamorato di lei, che voleva farne la
sua compagna. Che fine aveva fatto?
Perché
non era al suo fianco?
E
questo sconosciuto dagli occhi color cremisi che la seguiva, chi era? Da dove
veniva?
Quando
era entrato nella sua vita?
Queste
e molte altre domande prendevano d’assalto la mia mente; il tempo e le
circostanze favorevoli mi avrebbero dato tutte le risposte. Una per una.
Si
trattava solo di aspettare.
Giorni,
magari anni.
Non
avrebbe avuto importanza.
Avevo
davanti l’eternità.
Continua…
Eccomi qui con un altro capitolo.
Ho aggiornato prima, questa volta. Sono stata brava, eh?
Sì, lo so, dovrei farmi perdonare per tutte le volte che mi sono
fatta aspettare.
Ormai siamo quasi in dirittura d’arrivo e la storia a questo
punto si scrive quasi da sola. Vi è piaciuto questo capitolo? Forse sembrerà
frettoloso, ma si trattava di concentrare alcuni fatti particolari nell’arco di
pochi anni e non volevo dilungarmi in situazioni che non erano fondamentali.
Spero possa convincere nel suo sviluppo complessivo.
Direi che mancano ancora un paio di capitoli, e poi potrò
scrivere la parola fine. Spero che mi seguirete fino ad allora; avete resistito
fin qui, meritereste un premio alla pazienza, un ultimo sforzo e poi vi lascerò
in pace.
Un po’ mi dispiace, lo ammetto, ma una conclusione doveva
arrivare e volevo che fosse coerente con gli sviluppi successivi della saga di
Twilight scritta dalla Meyer.
Devo ringraziarvi tutte per la vostra costanza e per il
gradimento che avete dimostrato per questa storia. Spero di non deludervi fino
alla fine.
A presto.
Ninfea.