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Autore: Dernier Orage    09/06/2012    4 recensioni
Parigi, Marzo 1997. Due amanti si rincontrano dopo quattordici anni: Ismaël ha una piccola libreria a Parigi, Stéphane è diventato uno scrittore, ha due figlie e tifa l'Arsenal. Storia di una ricostruzione.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Difficilmente faticava a dormire o si svegliava nel mezzo della notte, eppure Ismaël dopo aver passato più di due ore a rigirarsi tra le coperte, aggiungere cuscini sotto la testa, rabbrividire e mettersi una maglietta, aver caldo e toglierla, si arrese ad accettare che il sonno non lo avvolgesse e rimase a guardare i bagliori pallidi, aloni chiari che definivano una grisaille sul soffitto. Si alzò quando la sveglia segnò le sei e mezza di mattina. Aprì la finestra e si sporse dall’abbaino. La strada era deserta e aleggiava una leggera nebbiolina, luminescente per le insegne al neon di un café aperto ventiquattrore su ventiquattro, del ristorante georgiano e dello strip-club. Tempo di preparare la colazione, di svegliare le bimbe, di accompagnarle a scuola e di tornare a casa. Di lasciar dormire Stéphane fino al ritorno, in fondo era il suo compleanno. Aveva anche tempo per infilarsi la giacca da camera ed uscire sulla piccola terrazza a fumare una sigaretta prima di colazione, una che sarebbero diventate due e forse tre, dipendeva soprattutto dai brividi di freddo. Ricoprì Stéphane con le lenzuola e chiuse la porta per non svegliarlo. 
- Oggi è il compleanno di tuo papà - accennò a Louise posando sul tavolino un vassoio con i biscotti. Michelle prendeva il latte esclusivamente con il biberon, così poteva permettersi di rimanere a letto dei minuti in più. 
- Sì, perché è il dieci novembre. È facile da ricordare - esclamò Louise facendo sciogliere i biscotti al cioccolato nel latte, schiacciandoli sul fondo fino a far stare dritto il cucchiaino; - diciannove e sessantaquattro, uno più nove fa dieci, sei più quattro fa dieci. Lui è nato il dieci. L’unica cosa difficile è il mese perché si chiama novembre ma è l’undicesimo - 
- Sei brava in matematica - le disse Ismaël stringendo più del solito la cintura, si era infilato distrattamente dei jeans al buio e aveva beccato un paio di Stéphane, troppo larghi, azzurro sbiadito, candeggiato e con il risvolto che gli lasciava scoperte le caviglie. 
- Non è vero, odio le tabelline. Sei, dodici, diciotto, ventiquattro, trenta, trentasei, e poi? - mormorò la bambina fissando la fotografia attaccata alle piastrelle, ormai riconosceva ogni particolare della raffigurazione del ponte dell'Alma, l'acqua che oltrepassava le ginocchia dello Zuavo, la piena era stata di oltre sei metri. 
- Quarantadue, quarantotto, cinquantaquattro, sessanta, sessantasei, settantadue, settantotto, ottantaquattro, novanta… l’abbiamo superata. Quella del sette? - le chiese Ismaël prevedendo una risposta negativa. 
- La facciamo la settimana prossima - borbottò Louise finendo di fare colazione.
- Inizia così: sette, quattordici, ventuno, ventotto. Il resto la settimana prossima - Ismaël andò nella cameretta a recuperare una Michelle mezza addormentata per vestirla e prepararla per l’asilo. Le allontanò le coperte, scuotendola dolcemente; - tesoro, svegliati, bisogna alzarsi –
 
Ismaël rientrò in casa alle otto e mezza, non accese la luce del corridoio e lasciò le persiane abbassate e le tende tirate. Si spogliò lasciando i jeans e il maglione sul parquet della camera. Si coricò intrecciando le gambe tra quelle distese dello scrittore, un gomito affondato nel materasso, una mano appoggiata sullo stomaco di Stéphane. Un bacio, due, tre. Quattro baci. Quanto amava vederlo semicosciente nel dormiveglia, rispondere confuso al tocco delle labbra. Come amava sentire la pelle liscia e calda sotto le mani, i capelli che piano piano ingrigivano cambiando consistenza; – buon compleanno. Ti devo trentatré baci – gli sussurrò all’orecchio. 
- Devo ancora svegliarmi del tutto. Comincia a baciarmi – borbottò sonnacchioso lo scrittore, raddrizzandosi idealmente tra i cuscini, aprendosi a lui, il corpo come un paesaggio, aggiunse, in un sussurro; - mille baci non basteranno –
- Vediamo dove arrivo? - Ismaël sentì Stéphane irrigidirsi e quasi trattenere il respiro, scendendo in un percorso immaginario dalle labbra al mento, dal pomo d’Adamo all’incisura dello sterno, perdendo tempo in certi punti, ripassandoci, dedicandoci alcuni dei trentatré baci e qualche piccolo morso. Lo stomaco, il ventre dove ricominciavano a delinearsi i muscoli dopo quasi sei mesi di piscina, ci sfregò sopra il viso, facendogli il solletico. Arrivò a venti sull’ombelico, con Stéphane che gli stringeva i capelli ed era incerto tra piegare la testa all’indietro e chiudere gli occhi o guardarlo per non perdersi nessun particolare. Ismaël gli sfilò i boxer ed accennò a continuare. 
- No, no, vieni qua - Stéphane aveva il respiro leggermente accelerato mentre lo aiutava a rialzarsi, per baciarlo sulle labbra tenendolo fermo per il mento. Fuoco, fuoco ovunque. Un calore ustionante che chiedeva di più, ancora, oltre. Le eccitazioni che sfregavano sulle lenzuola, sulla pelle. Un rapporto che perdeva la connotazione di genere, davanti a Stéphane c’era solo Ismaël e il suo corpo gli pareva bellissimo, come i suoi capelli sparsi sul ventre, la sua lingua bollente mentre lui scivolava di nuovo in fondo al letto. La sua mano che giocava con la pelle sottilissima del prepuzio, facendola scorrere e masturbandolo vigorosamente, lasciando scivolare il liquido preorgasmico per rendere il movimento fluido, incandescente e trasformarlo in piacere liquido. 
A Stéphane parve di riemergere dall’acqua e cercare di inspirare più aria possibile, gli sembrava quasi di aggrapparsi all’ossigeno nella stanza, lo spiffero dalla finestra socchiusa che filtrava nella trama delle tende. Tra gli ansiti gli mormorò un baise-moi, lo implorò, lo implorò fino a sentire che tra mille baci sul collo e sul mento si sistemava dentro di lui, schiudendolo con un dito. Ondeggiavano come tra flutti d’acqua, Stéphane gli si strinse contro, lasciandosi sorreggere nel breve tragitto fino al muro, dove si appoggiò con la testa reclinata. Venir penetrato contro il muro, esser riempito dal suo membro turgido, lentamente, profondamente, lasciandosi andare con totale abbandono. Un equilibrio precario, di ginocchia contro il materasso, gomiti contro il muro, cosce strette contro fianchi, mani ad aggrapparsi alla schiena, ad accarezzare volti. Squilibrio, sbilanciamento, discrasia. 
Cadere. Cadere nell’acqua. Cadere nel sonno. 
Riemergere, risvegliarsi. 

L’avvilimento con il quale Ismaël fissava il televisore scosse nel profondo Stéphane. Ismaël era cambiato negli anni, eccome se era cambiato, aveva accettato il naturale corso della vita opponendosi solo agli effetti nefasti dell’ignoranza, Stéphane non riusciva ad immaginare se o con quale tipo di traumi, a che prezzo. Anche se a volte soffiava come un gatto e probabilmente graffiava gli interlocutori, aveva perso la vena egocentrica e la disperazione sensuale del “si dovrebbe morire a vent’anni”, aveva lasciato tutte le aspirazioni riguardo l’essere il migliore in qualcosa, non bravo, il migliore, abbandonandosi ad una vita lineare. La vita, appena si trovava la persona, era tremendo rischiare di perderla, era straziante, diventava la cosa più importante. 
Le immagini di polvere e le frasi concitate della giornalista si sovrapponevano nelle iridi di Ismaël, diluendo gli anelli limbali nel grigio illuminato da luce elettrica. Sessantadue vittime che non sarebbero state ricordate per niente, non morte in guerra, non morte da eroi, morte in vacanza, en passant. Forse con i sorrisi carichi di archeologia, splendori passati e sfarzi impolverati; senza un’idea, qualcosa che rendesse la loro memoria dolorosa, qualcosa che li avrebbe fatti ricordare. È quasi sbagliato morire in vacanza, sicuramente non ha senso. 
“Le esequie di Georges Marchais, segretario del Parti Communiste dal settantadue al novantaquattro, morto ieri all’età di settantasette anni…” la voce del giornalista interruppe le riprese da Luxor, anticipando uno speciale. 
Stéphane si chiese come riuscisse Ismaël a sentire il telegiornale ad un volume così basso, eppure sapeva che era l’indecisione tra il mantenere delle convinzioni di cotone, un mondo fatato per le bambine od essere sinceri, mostrando la realtà. Così teneva il volume al minimo, le lasciava rimanere nella stanza, giocando ad altro, in modo che non si concentrassero sulle immagini, quando il conduttore avvisava della presenza di contenuti crudi cambiava canale. Poteva non pensarci, poteva lasciare perdere, poteva continuare a vivere al solito modo eppure non lo faceva. Non gli imponeva nessuna direttiva per l’educazione ma non lo lasciava neanche completamente spaesato. Era diventato, oltre che per lui, un valore aggiunto anche nella vita delle bambine. Un altro adulto con cui confrontarsi, apprendere, imparare, emulare, ispirarsi. Era un giocare con i principi della coparentalité, riconoscendo però i difetti dell’evoluzione da famiglia multipla a quella nucleare, in fondo l’uomo dovrebbe crescere in un branco, in un’aia ideale dove i cuccioli vengono allevati dagli anziani e i genitori biologici o i partner dei genitori forniscono un sostentamento di natura prettamente materiale. 
L’anelito ad una famiglia poliginandrica, l’evoluzione nei kibbutzim – neanche cent’anni di storia e un lungo viale del tramonto, il creare un’enclave bohémienne. Soluzioni reali quando guardandosi allo specchio si vedeva un riflesso distorto, l’ultimo respiro di una meditazione, del ricercare la profondità. L’idea come i raggi di una bicicletta si evolveva in mindmaps associative, in petali di fiori, in ragnatele illuminate dalla rugiada. 
Cosa sarebbe rimasto? Tutto e niente. 

Marc agli occhi di Stéphane aveva un fascino particolare, un fascino militante, socievole, cordiale, aperto, impegnato. Aveva tra i trentacinque e i quarant’anni, occhi grigioblu magnetici, modi espansivi mantenendo un’aura corrotta, impura ed un’aria accigliata, come un’increspatura nel cotone di una camicia, un dettaglio capace di disorientare ed intrigare. Stéphane aveva aperto la porta al primo scampanellio e lo aveva osservato, la schiena appoggiata alla parete, obliquo sul pianerottolo, le mani cacciate nelle tasche dei pantaloni grigi, la camicia azzurra e la giacca blu come il colore dei sogni di Mirò. Le ciocche bionde arricciate dietro le orecchie, onde ordinate sulla nuca, una bottiglia di Chablis. 
La voce inconsciamente seducente. Stéphane definiva le persone come Marc “potenzialmente pericolose”, in un gioco con la gelosia. Gli fece un cenno per invitarlo ad entrare e perse tempo a sistemargli la giacca sull'attaccapanni. Rimase appoggiato alla parete del corridoio per vederlo salutare le bambine, baciare Ismaël ed accingersi ad aiutarlo ai fornelli. Baciare Ismaël sulle labbra con un tocco morbido ed asciutto. Stéphane non sapeva neanche se gli fosse concesso essere geloso, perché insieme erano speciali ed il carattere di Marc, così cordiale, ammorbidiva le asperità di Ismaël. Era interessante vederli insieme perché racchiudevano in pochi gesti bruschi, scherzosi ed affiatati, interi anni di amicizia. Ed amore, ça va de soi.
La cena in salotto, le conversazioni su politica ed etica, ridette, ridiscusse, senza aver cambiato di un solo punto, ribadite. Il disfacimento del PCF sotto il peso e la nonguida di Robert Hue, l’attualità, le crisi, le bombe e le soluzioni di pace. Il soffocare del Nicaragua sotto i partiti supportati dai contras, gli stessi contras che stupravano ragazze poco più che bambine e che Marc era costretto a calmare, curare, parlando in francese pur di non turbarle con uno spagnolo maschile. E lì c’era rabbia, molta rabbia. 
Tra un bicchiere d’acqua e un pezzo di frittata di zucchine la prepotente fase dei perché di Michelle, rincarata da Louise, tentare di arrivare alla prima questione, alla prima scintilla. Le infinite spiegazioni che Stéphane dava loro con il sorriso sulle labbra, alcune accurate altre strampalate, rigirandosi tra le mani uno dei panini a forma di tartaruga. Li avevano fatti le bambine, palline di pasta di pane dove attaccare dei triangolini per fare le zampe, la testa e la coda, una griglia sul carapace dorato di malto d’orzo. La superficie era croccante, la mollica umida e grumosa. 
Marc si chiese se Louise e Michelle lo stessero a sentire o se si lasciassero cullare dalla sua voce. 
   
 
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