Videogiochi > Kingdom Hearts
Segui la storia  |       
Autore: EvgeniaPsyche Rox    11/06/2012    4 recensioni
Roxas Van Drosten, un giovane sedicenne figlio di un impresario di una grande fabbrica, si trascina faticosamente nella monotonia della sua vita, finchè, un giorno, decide finalmente di darci un taglio e fuggire, lontano da tutti e da tutti.
E si butterà così in una serie di esperienze che segneranno per sempre la sua vita.
-
Non seppe esattamente quanto tempo passò; forse solo alcuni minuti, o forse un paio d'ore.
Eppure nessuno venne a cercarlo.
Sentì solo il pungente freddo di Ottobre pizzicargli la pelle e un immenso vuoto che gli squarciò l'anima; quando rialzò gli occhi stanchi, notò il libro che prima stava leggendo ancora aperto sul gelido pavimento, illuminato dalla luce proveniente dal mondo esterno.
Tremò appena e rilesse più e più volte quella frase che sembrava apparire più delle altre:
''Fra i trentasei modi per evitare un disastro, fuggire è il modo migliore.''

[In sospeso: è estremamente faticoso scrivere i capitoli di codesta storia e il tempo, a causa del Liceo Scientifico, mi sfugge dalle mani. Non la eliminerò perché spero di aggiornarla presto o tardi e, comunque, ci tengo ad essa e non mi pare di averla scritta male.]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Roxas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
HTML Online Editor Sample

II. I am weak and I am tired of feeling like this

 


HTML Online Editor Sample

Gli capitava spesso di rivivere quei ricordi; gli sembrava ancora di sentire le loro vellutate risate risuonare nelle proprie orecchie, di vedere quei campi estesi e il riflesso dei loro sorrisi.
Quelli erano ancora i bei tempi; quando suo padre lo faceva ridere, quando sua madre portava lui e suo fratello al luna-park a prendere lo zucchero filato o al circo per vedere i giocolieri.
E lui, solo un bambino immerso nel mondo infantile, era intento a guardarsi attorno con il mare dei suoi occhi, a costruirsi le sue speranze. Ad immaginare un mondo magnifico dietro le mura della sua grande villa.
Passava il tempo a lanciare sassolini in acqua e ad osservare i cerchi che si formavano, ingrandendosi per poi scomparire del tutto.
Pensava che fosse una magia. Una bellissima magia.
Sentì un improvviso brusio di voci e lo scricchiolio di una porta che poi veniva velocemente richiusa.
«Non devi dirlo a nessuno, mi raccomando!», udì una squillante voce maschile e, successivamente, un altro tono più basso.
«Sì, non preoccuparti...»
Era tutto confuso. Vide un ultima volta il sorriso del suo migliore amico che poi svanì nell'oscurita, rissucchiato nel nulla insieme ai sassolini e allo zucchero filato.
«E' un angelo custode; sicuramente il cielo l'ha mandato per me!», aprì lentamente le palpebre, infastidito da quella rumorosa conversazione.
«Non dire sciocchezze, Demyx: gli angeli volano, non cadono mica.»
«Sarà un angelo caduto!»
Le risate e i campi scomparirono del tutto e lui, con estrema fatica, cercò di tornare alla realtà. Le sue iridi blu vagarono nella piccola stanza: sulla parete vi era un minuscolo poster di una rock-band, mentre, accanto all'armadio blu, spiccava la presenza di una brillante chitarra.
Alla sua sinistra, invece, notò una finestra che rifletteva uno splendido paesaggio di campagna all'esterno che gli dava uno strano senso di tranquillità e pace interiore.
«Guarda: si è svegliato! L'angelo caduto si è svegliato!», roteò un poco lo sguardo, accorgendosi di non essere solo: un ragazzo, sicuramente più grande di lui, dai capelli castani chiari in una stramba acconciatura a spazzola, lo scrutava con i suoi vivaci occhi verde-acqua, il volto appena inclinato su un lato.

«Non urlare troppo, Demyx. Sembra molto stanco.», di nuovo la voce più bassa, quasi impercettibile. Un paio di occhi azzurri, placidi come l'oceano in un tranquillo pomeriggio d'estate, un'espressione preoccupata e, al tempo stesso, quasi indecifrabile; lunghi capelli biondi ricadenti sulle piccole spalle, le labbra sottili appena schiuse, quasi volessero aggiungere qualcos'altro.
«Oh, scusa...», brontolò il giovane, arricciando le labbra in una smorfia dispiaciuta e infantile; lanciò poi una fugace occhiata dietro sé e si illuminò, precipitandosi verso la chitarra e afferrandola saldamente. «Magari se gli suono qualcosa si sentirà più a proprio agio!»
La ragazza sospirò sommessamente, scuotendo un poco la testa, sistemandosi il vestitino bianco che le accarezzava appena le ginocchia prima di dedicarsi esclusivamente all'ospite che, nel frattempo, si strinse timidamente sotto le coperte. «Io mi chiamo Naminè. Naminè Sauer.», quel tono così basso e tranquillo gli ricordò vagamente la figura di sua madre.
Della sua bellissima madre; dei suoi lineamenti delicati e il sorriso appena accennato sul volto solcato da qualche ruga.
«Io sono Demyx Vlak!», si presentò con un allegro sorriso il castano, decidendo di lasciare lo strumento al proprio posto per poi avvicinarsi nuovamente al più piccolo, porgendogli gentilmente la mano. «E diventerò il chitarrista più famoso del mondo!»

Ma lui non rispose alla stretta di mano.
Si limitò ad osservare quei due strani personaggi di fronte a sé, senza battere ciglio e rimanendo con le labbra perfettamente serrate.
Un improvviso silenzio avvolse la piccola stanza, mentre gli ultimi raggi di sole della giornata penetrarono l'ambiente, divertendosi a donare colori agli oggetti e a tutto ciò che incontravano.
«Sei un angelo molto timido?», domandò con soave ingenuità Demyx, sbattendo più volte le palpebre

Quel volto vagamente infantile gli fece vennire in mente l'ombra di suo fratello; la semplicità incarnata nei suoi occhi così simili ai propri, le mani che non facevano altro che afferrare giochi, puzzle e palloni; lo sguardo pieno di una sincerità così disarmante che era sempre in grado di far sorridere le persone che lo circondavano. Le sue gambe vivaci che non erano in grado di stare ferme un attimo; l'avventatezza dei suoi gesti, le sue frasi immature di un qualsiasi sedicenne di città che rieccheggiavano nell'enorme casa. Le risate che riusciva ad ottenere, gli applausi, le attenzioni. Divertente, simpatico e solare, così lo definivano i suoi compagni.
Perché lui invece no? Cos'aveva di diverso, di sbagliato?
Oh, giusto. Era l'erede nella fabbrica di suo padre. Un onore agli occhi degli altri, un peso insostenibile per lui.
«Forse è meglio lasciarlo solo. Sarà molto confuso.», alzò appena le iridi blu cobalto e incrociò lo sguardo della giovane ragazza dai capelli del grano che si era silenziosamente alzata dalla sedia.
S'accorse solo in quel momento che portava al collo una splendida collana dorata a forma di cuore: non seppe esattamente il perché, ma riuscì in qualche modo ad attirare la sua attenzione.
«Comunque non vogliamo farti del male, non preoccuparti.», proseguì poi lei lentamente, mentre Demyx, al suo fianco, annuì meccanicamente.
«Ti porteremo presto qualcosa da mangiare.», concluse accennando un flebile sorriso che gli fece venire una strana malinconia all'anima, prima di recarsi verso la porta di legno, aprendola lentamente per poi uscire, seguita da Demyx.
Udì lo scricchiolio della porta che si chiudeva e rimase solo con i propri pensieri, in quella piccola stanza sconosciuta.
Solo. Era davvero solo.
Tentò faticosamente di alzarsi, ma barcollò e fu costretto ad aggrapparsi alla parete; si ritrovò con il respiro inspiegabilmente irregolare e decise quindi di tornare a sedersi sul morbido letto che aveva una leggera coperta verde.
Si sentì veramente stanco: si guardò attentamente attorno e riuscì a scorgere il proprio zainetto posato in un angolino nascosto e questo lo fece sentire meglio in qualche modo.
Era svenuto e aveva sicuramente dormito. Il vero problema era sapere quanto tempo era passato, ma, soprattutto, venire a conoscenza del luogo in cui si trovava; sospirò, scuotendo la testa e si portò una mano alla nuca, accorgendosi che era ancora nascosta dal cappello nero.
Notò che alla propria sinistra vi era la presenza di un piccolo comodino marrone su cui era posata accuratamente una foto in bianco e nero incorniciata; la afferrò lentamente, quasi impaurito di poter essere in qualche modo visto, e la scrutò a lungo, incuriosito.
Riuscì immediatamente a riconoscere il giovane che poco prima lo aveva scambiato per una specie di angelo; con i suoi occhi vispi e vivaci, i capelli leggermente più corti, le guance paffute e un allegro sorriso stampato sul volto, reggeva in mano un pallone, accanto ad un altro bambino più basso di lui dai lunghi capelli ricadenti sulle spalle e uno sguardo imbarazzato di fronte a colui che aveva scattato quella vecchia fotografia.
Non dovevano avere più di sette anni, disse tra sé e sé, appoggiando la cornice al proprio posto prima di sdraiarsi nuovamente, socchiudendo gli occhi.
Ebbe l'inspiegabile istinto di lasciar ricadere amare lacrime dai propri occhi, ma decise di soffocare il tutto, ancora una volta.
Respirò piano e socchiuse le palpebre, accorgendosi che la propria anima non faceva altro che invocare un pò di riposo, almeno un altro pò; proprio per questo si lasciò scivolare tra le braccia di Morfeo con estrema facilità, svuotando completamente la mente.
O almeno, quasi.
Un pensiero, un breve frammento della sua vita, continuò a rimbombargli nel cervello, quasi temesse in qualche modo di dimenticare:
lui era Roxas Van Drosten, futuro erede della fabbrica di suo padre, nella periferia della città.

                                                                                                  ~

«Scommetto il mio panino che non riuscirai a fare un salto così lungo. E' impossibile!»
«Non scoraggiarlo così, Pence! Io invece dico che se sarà prudente ci riuscirà benissimo.»
Lui sorrise in risposta, stringendo tra le piccole mani la lunga asta di metallo trovata in un cantiere nei d'intorni; fece qualche passo indietro e prese la rincorsa, conficcando l'oggetto nel terreno per poi spiccare un notevole balzo di almeno sette metri, riuscendo così a superare il fiume e a raggiungere l'altra sponda. Atterrò prontamente sulle gambe, barcollando solo un poco, voltandosi poi verso gli altri due; vide l'amico dai capelli castani lasciar cadere il panino incartato sul prato a bocca aperta, mentre, accanto a lui, Olette, una graziosa bambina dagli splendenti occhi verdi, aveva iniziato a battere gioiosamente le mani. «Bravo, Roxas, bravo!»
Lui aveva riso, facendo un breve inchino in cenno di ringraziamento.
Quando fu sveglio, però, niente di tutto ciò arieggiò nella sua mente, anzi: non ricordava assolutamente di aver fatto un sogno del genere, il che poi era solo l'ennesimo frammento della sua infanzia, incorniciata da cieli sereni, aquiloni e riflessi di spensieratezza.
Fece scorrere lentamente l'indice sul trasparente vetro, quando lo scricchiolio della porta lo fece voltare di scatto, notando la presenza di Naminè, la quale stava reggendo un piccolo vassoio di plastica su cui era un uovo strapazzato. «Buongiorno. Mi sono permessa di portarti la colazione, dato che ieri sera nè io nè Demyx siamo più riusciti a procurarti qualcosa da mangiare.»
Lui rimase in silenzio, limitandosi ad osservare la giovane di fronte a sé che sospirò, avvicinandosi a passi felpati. «So che devi essere molto scosso, però... Però io sono sicura che ti sentiresti meglio se provassi a dire qualcosa, davvero.»
Ancora silenzio.
Eppure Roxas avrebbe voluto chiedere tante, tantissime cose. Tanto per cominciare, dove si trovava. Sì, quella era sicuramente la domanda di maggiore importanza. Però non riusciva a dire nulla; era come se la sua voce fosse paralizzata tra le corde vocali, come se un enorme groppo in gola gli impedisse di parlare in qualche modo.
Si sedette sul letto e lei si avvicinò ancora, appoggiando il cibo sul comodino, accanto alla fotografia che aveva osservato il giorno precedente, permettendogli così di afferrare le posate ed iniziare finalmente a mangiare; la ragazza si allontanò poi di qualche timido passo, appoggiando la schiena sulla ruvida parete. «Spero che ti piaccia.», bisbigliò successivamente, mentre lui si era portato alle labbra il primo boccone, lasciando che l'uovo gli accarezzare il palato.
«E' stato difficile prepararlo di nascosto.», continuò dopo un paio di secondi, osservando il pavimento formato da numerose assi di legno.
In realtà a lui non era mai piaciuto particolarmente l'uovo strapazzato, eppure in quel momento aveva così tanta fame che avrebbe mangiato qualsiasi cosa, quindi, effettivamente, lo trovò davvero delizioso.
Avrebbe voluto dirglielo, ma rimase chiuso nel suo ostinato silenzio.
«Vedi, nessuno sa che sei qui. Tranne me e Demyx, ovviamente.», a quell'affermazione il giovane ospite alzò finalmente gli occhi blu cobalto, dedicando completamente l'attenzione alla ragazza che successivamente proseguì. «Demyx ti ha trovato svenuto a qualche metro dal recinto e così ha deciso di portarti qui, rivelando della tua presenza soltanto a me.»
Un breve silenzio per permettergli di analizzare attentamente le numerose informazioni che gli venivano dette; Roxas appoggiò il cucchiaio accanto al piatto ormai vuoto, voltando lentamente lo sguardo verso la finestra.
Lei sembrò prendere respiro prima di continuare, quasi fosse in qualche modo esitante. «Sei in una fattoria. Però nè io nè Demyx ne siamo al capo, per questo non abbiamo potuto parlare agli altri di te. Non siamo sicuri che il padrone ti permetta di restare, capisci?»
Lui abbassò per qualche secondo le iridi blu verso le proprie mani, osservandole attentamente, come se desiderasse trovare qualcosa in particolare; successivamente alzò appena le spalle, irrigidendosi prima di schiudere finalmente le sottili labbra. «Non ho mai detto di voler restare.»
Naminè sussultò al sentire per la prima volta la voce del ragazzo; si sistemò timidamente una ciocca di capelli dorati dietro l'orecchio sinistro, affrettandosi a riprendere la parola. «Certo, ma...», e poi, improvvisamente, ammutolì, senza sapere più cosa dire.
Un soffocante silenzio galleggiò nell'aria e Roxas, dopo aver lanciato una fugace occhiata alla finestra illuminata da un forte sole, tornò ad osservare la fotografia sul comodino; la sfiorò appena con l'indice, quasi volesse rapire il ricordo, rubare quel frammento dell'infanzia di Demyx, farlo proprio, catturarlo in qualche modo.
«Chi è il bambino vicino a Demyx?», si sentì indiscreto, molto indiscreto, a porre una domanda del genere, ma era sempre stato particolarmente curioso e, secondo suo padre, quello era uno dei suoi difetti peggiori.
Una volta da bambino, quando per il suo settimo compleanno gli era stato regalato un magnifico binocolo, lo aveva utilizzato per osservare le case nei vasti quartieri della città; era salito su un'abete e si era seduto comodamente su un ramo, di fronte alla piccola casetta della migliore amica di Sora.
Suo fratello andava sempre a casa di lei e quando tornava gli ripeteva fino alla nausea che si era divertito un sacco; così, a quel punto, lui metteva il broncio, offeso dal fatto che non veniva mai invitato.
Aveva stretto l'oggetto tra le morbide mani con sicurezza, sistemandoselo poi davanti agli occhi, sbattendo più volte le palpebre; dal balcone aperto della stanza della ragazza, era riuscito ad osservare quest'ultima gesticolare animatamente, continuando a muovere le labbra, mentre Sora, seduto sul letto dalle coperte di seta rosa, la ascoltava attentamente, annuendo di tanto in tanto.
Poi era successa una cosa strana. Aveva visto Kairi smettere improvvisamente di chiacchierare e voltarsi verso il fratello; si erano osservati a lungo e poi lei si era lentamente chinata, toccando le labbra del compagno con le proprie per qualche secondo.
Non aveva mai capito il senso di quel gesto. Sapeva solo che si era sentito tremendamente in imbarazzo e si era vergognato come un ladro ad aver assistito abusivamente a quella scena; era sceso così velocemente dall'albero ed era fuggito via alla velocità della luce, travolgendo chiunque aveva incontrato.
Non era mai riuscito a chiedere a Sora spiegazioni. E non capì mai il perché.
«E'... Era un suo amico. Un suo caro amico.», rispose lei con aria assorta dopo una breve indecisione passata a chiedersi se fosse il caso di rispondere o meno. Poi, come se avesse voluto ricambiare la domanda indiscreta, chiese: «Come ti chiami?»
Il biondo sussultò lievemente, mordendosi un poco il labbro inferiore; doveva rispondere. Non poteva di certo chiudersi nuovamente in un ostinato silenzio. Prese un profondo respiro e si fece coraggio. «Io sono Ro...», ma poi, improvvisamente, si fermò, rimanendo con le bocca semiaperta: nessuno gli aveva detto che era costretto a rivelare il vero nome, no?
Si ricompose, stringendosi i pantaloni con nervosismo. «Io sono Roku.», si affrettò così a borbottare; alzò appena gli occhi, notando che, molto probabilmente, lei stava aspettando anche un cognome. Deglutì rumorosamente e proseguì. «Roku Ludwig.»
Successivamente fu istintivo per lui tornare ad osservare il basso, sentendo un velo di malinconia avvolgergli dolorosamente l'anima; utilizzare il cognome del suo migliore amico fu spontaneo, e il ricordo del suo volto sorridente accanto alla sua vecchia casa lo strinse in un'orribile morsa di nostalgia.
«Roku Ludwig», ripetè Naminè, volendo memorizzare bene il nuovo nome. «Non l'avevo mai sentito.»
«Almeno riesco a distinguermi, no?», domandò retoricamente lui, rialzando la testa, lasciandosi illuminare dal bollente sole; spesso Hayner gli diceva così. Gli diceva che era fondamentale imparare a distinguersi dalla massa, dal grigiore della città, del mondo che li circondava: gli ripeteva spesso che dovevano essere diversi, loro. Dovevano essere speciali.
E lui, ridendo, gli rispondeva solo ed esclusivamente in un modo. Sempre lo stesso. «Hayner, ma tu sei speciale.»
Lei sorrise flebilmente e annuì, avvicinandosi nuovamente a lui per poter prendere il vassoio sul comodino, mentre Roxas riprese la parola. «Perché 'era'?»
La ragazza sbattè più volte le palpebre, assumendo un'espressione confusa; il biondo si affrettò così a riformulare meglio la domanda. «Perché hai detto che era un suo caro amico? Perché hai usato il passato?»
Naminè non rispose, limitandosi a sistemare il cucchiaio sul piatto vuoto per poi recarsi verso la porta, aprendola faticosamente, cercando comunque di reggere il vassoio con l'altra mano. «A dopo, Roku.», e richiuse la porta dietro di sé, lasciando il giovane in solitudine con la propria domanda sospesa nel vuoto.
Solitamente avveniva di rado che qualcuno, dopo le presentazioni, lo chiamava per nome; tutti utilizzavano quasi ed esclusivamente il cognome.
Ovviamente Hayner aveva fatto eccezione e, non appena era venuto a conoscenza del suo nome, aveva iniziato ad usarlo, anzi; ricordava benissimo che si era messo anche a ridere, quando si era presentato aggiungendo anche il cognome, rimproverandolo per il fatto che a lui non interessava nulla del cognome degli altri.
Una delle cose che forse più rimpiangeva nella vita, pensò, era che lo spago che collegava il presente all'aquilone della sua infanzia era stato definitivamente tagliato.
Probabilmente da un paio di forbici strette tra le possenti mani di suo padre.

                                                                                                   ~

«Scacco matto.», annunciò apaticamente, sforzandosi di nascondere un lieve divertimento alla vista dell'altro imbronciarsi, incrociando infantilmente le braccia.
«Di nuovo, che ingiustizia! Questo gioco è troppo complicato!», si lamentò sbuffando, alzandosi dal letto su cui era sdraiato un giovane dai capelli dorati, il quale inclinò il volto su un lato. «Non è complicato: devi solo prenderci la mano.»
Demyx sbuffò nuovamente, arricciando il naso per poi afferrare la scacchiera di legno, sistemando i vari pezzi all'interno di essa per poi chiuderla rumorosamente, tornando in pochi secondi a sorridere. «Comunque grazie per avermi fatto da maestro! Ho questo gioco da chissà quanti anni, ma non sono mai riuscito a capire come si giocasse.», e ridacchiò, sistemando il gioco sotto il proprio letto.
«Di nulla.», rispose il giovane, accennando un debole sorriso. «Sono io che devo ringraziare te. Almeno ho passato il tempo in compagnia. Mi ero stancato di contare le assi del pavimento.», a quell'affermazione il castano scoppiò in una squillante risata, tirando una leggere pacca sulla spalla dell'ospite.
«Spero di tornare presto, Roku.»
Roxas assunse improvvisamente un'espressione amareggiata e guardò l'altro con fare implorante. «Te... Te ne devi già andare?»
«Sì, mi dispiace...», borbottò abbassando il tono della voce Demyx, voltando lo sguardo altrove mentre apriva la porta; se c'era una cosa che il biondo aveva notato, era proprio il fatto che quel ragazzo che gli ricordava così tanto Sora si sentiva sempre in qualche modo spaesato di fronte ai sentimenti negativi e cercava immediatamente di scacciarli con le maniere più bizzarre.
Appunto per questo non aveva avuto il coraggio di chiedergli del bambino nella foto. Sentiva in qualche modo che era legato a qualcosa di brutto, di negativo, di inviolabile.
«Ma cercherò di tornare il prima possibile, te lo prometto!», e, dopo aver detto ciò con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, svanì dietro la porta, richiudendola velocemente dietro di sé.
Te lo prometto.
Roxas pensò a lungo a quelle parole e s'accorse improvvisamente che era la prima volta che le udiva.
Nessuno dei suoi familiari o delle persone che lo avevano circondato a lungo avevano la fissa di fare promesse; sembrava quasi che fossero tutti allergici a quelle strane parole. Come se esse potessero in qualche modo infliggere una maledizione, o come se potessero contenere del veleno mortale.
Nemmeno Hayner gli aveva mai fatto promesse. Lui invece sì, una volta.
Così la sua mente tornò a viaggiare; chiuse gli occhi e, quando li riaprì, vide di fronte a sé la finestra che mostrava un cortile bagnato dalla pioggia, la quale stava ormai picchiando la città da qualche ora. Due giovani erano seduti sul davanzale; chi annoiato e scocciato, chi invece affascinato dallo spettacolo dell'acqua.
«Hayner?», aveva improvvisamente interrotto il silenzio, ottenendo l'attenzione dell'altro che si era voltato.
«Sì?»
«Che cos'è per te l'amicizia?», a quell'improvvisa domanda il giovane dagli occhi marroni assunse un'espressione perplessa e sollevò un soppraciglio. «In che senso?»
Questa volta era stato Roxas a sbuffare. «Come 'In che senso?' Non c'è un senso! Ti ho solo domandato che cos'è per te l'amicizia. Cioè, una definizione, ecco.»
Era una di quelle giornate in cui i suoi familiari erano fuori chissà dove, mentre i camieri erano troppo occupati nelle preparazioni dell'ennesimo cenone con qualche nuovo ospite per accorgersi che lui intanto era riuscito a far introfulare nella villa il suo migliore amico; Hayner assunse una smorfia pensierosa e picchiettò con il dito sulla finestra. «L'amicizia siamo io e te, Roxas.», quest'ultimo a quella dolce risposta si era lasciato sfuggire istintivamente un candido sorriso, mentre l'altro aveva continuato: «Noi siamo l'amicizia. Perché noi siamo amici anche se tuo padre non vuole che tu mi frequenti, noi siamo amici anche se tu sei praticamente il ragazzo più ricco della città, se non della regione, e per di più l'erede alla fabbrica di tuo padre, mentre io sono solo un poveraccio da quattro soldi che non sa neanche il nome del proprio padre.», rise amaramente e aveva proseguito ancora. «Perché noi siamo amici anche se tu sei Roxas Van Drosten, mentre io... Io semplicemente Hayner Ludwig.»
A quel punto Roxas aveva allungato la mano, stringendo quella del compagno, senza smettere di sorridere. «No, io sono Roxas e basta. Sono Roxas, il migliore amico di Hayner.»
L'altro aveva annuito energeticamente, ricambiando la stretta. «Hai proprio ragione, sì.»
«Noi saremo amici per sempre, Hayner. Te lo prometto.», e, non appena aveva terminato la frase, aveva visto le iridi dell'altro farsi più scure.
«No, Roxas. Questo no.», aveva sussurrato improvvisamente, lasciando la mano del biondo che lo osservava confuso. «Cosa?»
«Non promettere. Non devi.», mentre aveva detto ciò, non lo aveva neanche guardato, ma si era limitato a posare lo sguardo verso la finestra.
«Ma... Perché? La promessa è solo una cert-»
Hayner aveva tirato un pugno sul davanzale, facendo sussultare il suo interlocutore. «Roxas, le promesse non esistono, ricordatelo bene. Mio padre aveva promesso a mia madre che sarebbe tornato, e invece...», si era morso il labbro inferiore con forza. «E invece l'ha abbandonata senza voltarsi indietro. Non promettere, Roxas.»
Quest'ultimo aveva assunto un'espressione malinconica e aveva voltato anch'egli lo sguardo altrove. «Ma la mia promessa è diversa.»
«Come fai ad esserne sicuro?»
Roxas aveva incastrato il volto tra le spalle prima di rispondere. «Perché io ti voglio bene e so che ti rimarrò amico per sempre.»
Quella semplice e soave affermazione aveva placato completamente la rabbia negli occhi di Hayner che aveva finalmente sorriso con dolcezza. «Visto che ne sei certo, non hai bisogno di promettere.»
E in quel momento entrambi avevano notato che il sole stava cercando di bucare i nuvoloni grigi.
Secondo Hayner quando qualcuno faceva una promessa, significava semplicemente che l'avrebbe infranta; il biondo strinse le coperte, sperando in cuor suo che Demyx non appartenesse a questa categoria di persone, perché avrebbe voluto volentieri vederlo tornare.
Erano passati circa quattro giorni e mezzo dal suo arrivo in quella fattoria e durante tutto quel tempo la sua giornata si era limitata al restare sdraiato su quel letto che aveva iniziato davvero ad odiare; aveva scoperto che si trovava nella camera di Demyx e durante la notte non aveva ancora capito dove quest'ultimo andava a dormire.
La colazione e la cena erano gli unici pasti quasi certi che Naminè riusciva a procurargli; non era niente male ciò che cucinava e lui iniziava a sentirsi davvero un peso per i due compagni, i quali, invece, si ostinavano a ripetergli che adoravano la sua presenza.
Al contrario, il pranzo spesso lo saltava, e di questo la ragazza si sentiva estremamente in colpa; non appena varcava la soglia della porta con in mano il vassoio della cena, iniziava a riempirlo di numerose scuse sul pasto precedente inesistente.
Il che, tra l'altro, era assurdo, dato che Roxas poteva benissimo fare a meno di un pasto; anzi, il suo stomaco stava addirittura meglio.
Insomma, sempre meglio delle abbuffate che era d'abitudine per lui fare a causa dell'enorme quantità di cibo che veniva preparato da tutti i camerieri della casa. Soprattutto quando c'era un'ospite importante.
Qualche volta Demyx veniva a trovarlo, ma non riusciva mai a restare più di una decina di minuti, dato che aveva un sacco da fare al piano di sotto; ogni volta che egli abbandonava la stanza, il biondo si sentiva terribilmente solo e talvolta non riusciva davvero a trattenere un pianto incontrollato.
In quei momenti si sentiva patetico, un bambino di cinque anni; però cercava di non farvi caso e si limitava a piangere, a buttare via tutta l'angoscia, la nostalgia e la solitudine che sentiva addosso. Qualche volta funzionava e si sentiva meglio, altre volte invece le lacrime non facevano altro che peggiorare ulteriormente la situazione.
Una volta aveva anche provato ad uscire dalla finestra, ma, aprendola, si era appunto accorto di trovarsi al secondo piano ed era immediatamente giunto alla tragica conclusione che, se avesse provato a saltare, si sarebbe solamente rotto un paio di costole.
La prima volta nella sua vita che aveva davvero appreso il significato della parola solitudine, era stata a cinque anni, in una tiepida giornata di autunno; con le foglie sul terriccio infangato e la lieve brezza a scuotergli i capelli, aveva guardato i suoi amici e suo fratello di fronte a sé, i quali avevano un'aria piuttosto arrabbiata.
«Sei un barone, Roxas!», aveva tuonato Pence con le braccia incrociate, storcendo le labbra in una smorfia disgustata. «Avevamo detto che non valeva nascondersi a casa tua, ma solo qui fuori!»
Il diretto interessato aveva abbassato istintivamente lo sguardo, disegnando cerchi invisibili con il proprio stivale. «Mi dispiace...»
«Ma è già la seconda volta che lo fai.», spiegò con tono rimprovero un ragazzo dai capelli argentati, Riku, figlio di una coppia di borghesi.
Prima che Roxas potesse giustificarsi in qualsiasi modo, Olette si intromise. «Andiamo, non siate troppo duri con lui! Diamogli un'altra possibilità...»
«No, basta.», aveva replicato Riku, scuotendo la testa con fare saccente. «Ormai non può più giocare.»
«Ma...», aveva tentato di iniziare il biondo, venendo immediatamente interrotto dall'amico dai capelli castani. «No, Roxas, non puoi più giocare.»
Lui era tornato ad osservare il basso, voltandosi per poi iniziare ad incamminarsi verso casa, trascinando con sé la propria cartella.
«Roxas, aspetta...», cercò di chiamarlo la ragazza, mentre Sora, accanto a lei, si era sentito anch'egli in colpa; eppure Riku appoggiò una mano sulla sua spalla. «Deve imparare che non può sempre barare solamente per vincere.»
Quando era tornato in camera propria, era scoppiato a piangere, rimanendo ad osservare i suoi amici che continuavano a giocare all'esterno, sentendo quella strana morsa che poi aveva imparato a chiamare solitudine, la quale lo aveva accompagnato per gran parte della sua esistenza.
Fortunatamente con Olette e Pence riuscì a fare pace già il giorno dopo, dato che la ragazza non era riuscita a stargli lontano a lungo.
Dopo quell'episodio, però, aveva detestato immensamente Riku e aveva iniziato a vederlo come una persona cattiva, dalla quale stare alla larga, forse perché, in parte, vedeva quasi il proprio riflesso; un bambino pieno di soldi, piuttosto chiuso e silenzioso, il quale dentro nascondeva chissà quali insidie che gli altri non riuscivano mai a notare.
I genitori dell'albino avevano sempre cercato di stringere i migliori rapporti con i propri solamente perché speravano di entrare nell'alta società, superando quella della borghesia che in confronto era di poco conto.
Dopo un paio di giorni capì che, quasi sicuramente, la finestra di Demyx si affacciava sul retro della fattoria; questo perché non aveva ancora visto passare nessuno. Oltre a quella piccola camera e all'ambiente riflesso nel vetro trasparente, aveva visto solamente una piccola parte del corridoio fuori dalla porta, visto che Naminè gli aveva indicato il bagno, il quale, fortunatamente, era piuttosto vicino.
Ogni volta che usciva doveva usare moltissima discrezione e controllare accuratamente che non ci fosse nessuno nei paraggi; fino a quel momento era andato tutto bene. Non avrebbe proprio saputo cosa fare se qualcuno diverso da Demyx o Naminè lo avresse visto girovagare nei corridoi. Insomma, avrebbero potuto prenderlo per un ladro, o magari anche peggio.
Il suo momento preferito durante la giornata era senza alcun dubbio la tarda sera; prima di andare a dormire, tirava fuori il mappamondo dal proprio zainetto e Demyx veniva sempre a fargli compagnia, suonandogli diversi brani con la chitarra per dargli la buona notte.
E lui ascoltava attentamente, facendo roteare il mappamondo di fronte a sé, osservando i paesi, le città, gli oceani e i continenti passare di fronte ai propri occhi stanchi.
In quegli attimi scordava tutto. Scordava la propria vita, scordava di essere fuggito e di essersi ritrovato in una fattoria sperduta nella campagna; scordava i momenti di solitudine e di sconforto; scordava i ricordi stessi e si limitava a galleggiare nella spensieratezza, aspettando che il sonno venisse ad impossessarsi della propria mente per permettergli di andare a trovare Hayner.
Improvvisamente scostò le coperte dal proprio esile corpo, balzando in piedi con tale decisione da stupire perfino se stesso; era stanco di rimanere chiuso come un topo in quella camera che gli stava facendo praticamente da prigione. Aveva voglia di esplorare un pò l'ambiente.
Aveva sempre detestato restare ingabbiato nello stesso luogo per troppo tempo, nonostante nella sua vita la maggior parte della giornata l'aveva sempre passata nella sua maledetta villa; essa era diventata per lui ancora più odiosa quando suo padre, nei suoi anni di scuola media, lo aveva punito per un votaccio, costringendolo a restare chiuso in camera per ben una settimana. -Anzi, in realtà avrebbero dovuto essere due settimane, ma, grazie al nobile animo di sua madre, riuscì a dimezzare il castigo- Per lui fu una specie di Inferno, ma, fortunatamente, i domestici qualche volta entravano in camera sua a stargli un pò vicino, probabilmente costretti da un atto di pietà e pena nei suoi confronti.
Afferrò il proprio zainetto e controllò nel piccolo specchio di avere ancora il cappello in testa; ovviamente sì. Aveva deciso di non mostrare i propri capelli dorati, nemmeno a Naminè e a Demyx, i quali spesso gli avevano chiesto il motivo per cui teneva nascosta la sua nuca.
Lui si era limitato a scrollare le spalle, rispondendo che preferiva così e, fortunatamente, loro non avevano insistito.
La verità era che cercava soltanto di mantenere la propria immagine il più nascosta possibile, nel caso qualcuno fosse venuto a cercarlo. In fondo era pur sempre scomparso il futuro erede della fabbrica più importante della regione, il che non era cosa da poco.
Le prime volte si era domandato se Demyx avesse chiuso la stanza a chiave, ma poi aveva constatato che non era così; e, inoltre, anche se davvero l'avrebbe fatto, era quasi certo di riuscire comunque ad uscire, dato che il suo migliore amico gli aveva insegnato come aprire qualsiasi porta con una semplice forcina.
Il trucco stava tutto nel mantenere la calma e cercare di far scattare la serratura il più velocemente possibile.
Forse l'unico problema sarebbe stato proprio trovare la forcina.
Aprì furtivamente la porta, facendo spuntare la testa fuori; si guardò ripetutamente attorno, notando con enorme sollievo che non c'era nessuno per i lunghi corridoi. Iniziò così a camminare lentamente a piedi nudi, senza smettere di far saettare le proprie iridi da una parte all'altra dell'ambiente circostante; intravide il bagno, il quale era diviso in quello per ragazze e per i ragazzi, un lavandino e un paio di docce.
Naminè gli aveva spiegato che quello era il piano dedicato a tutte le stanze; infatti in ognuna delle porte del corridoio vi era scritto il nome del proprietario della camera nelle maniere più incredibili e impensabili.
Sua madre una volta gli aveva detto che già dalla caligrafia di una persona si può leggere una parte del suo carattere e lui era rimasto sorpreso da quella nuova scoperta.
Demyx aveva scritto il proprio nome con una caligrafia piuttosto disordinata e un pennarello blu, mentre, in basso a sinistra, aveva aggiunto un 'futuro chitarrista più famoso del mondo', il che aveva fatto trapelare un sorriso sul volto del biondo.
Di fronte alla stanza del castano vi era la camera di un certo -O forse di una certa, non era ancora riuscito a capire se fosse un uomo o una donna dal nome, e, soprattutto, dal colore che aveva utilizzato- Marluxia: una caligrafia estremamente elegante e curata di un brillante rosa.
Superò successivamente la stanza di Naminè; lei aveva invece utilizzato il celeste e la caligrafia era davvero piacevole da leggere. Non aveva mai visto la sua camera e infatti fu tentato di aprire la porta, ma poi scosse la testa, accorgendosi che sarebbe stato un gesto sicuramente scorretto.
Giunse poi di fronte ad una porta più scura su cui vi era scritto in maniera estremamente disordinata il nome di 'Xaldin'; alla sua sinistra, invece, vi era un foglio su cui la caligrafia era praticamente illeggibile e Roxas spese ben cinque minuti per capire che il nome scritto era 'Xigbar'.
Il seguente nome in cui si imbattè fu 'Saix': un giallo quasi fastidioso agli occhi con una caligrafia piuttosto allungata e stretta.
Voltò ancora lo sguardo verso la porta successiva e incrociò un foglio scritto con il pennarello marrone in stampatello maiuscolo: Lexaeus.
Si ritrovò poi con un'altra scrittura verde illeggibile; dopo un'accurata analisi, riuscì finalmente a capire che ciò che vi era scritto era 'Vexen'.
Assurdo, si ritrovò a pensare, tutti i nomi di quel posto, eccetto quello di Naminè, aveva una x infilata da qualche parte.
Fece per porgersi a leggere la porta successiva, quando dei pesanti passi costrinsero il suo cuore a galoppare come un cavallo imbizzarrito; il suo volto si trasformò in una maschera di puro terrore e il suo corpo si irrigidì completamente sul posto.
Un pensiero dopo l'altro si ammassò nella sua testa, creando la confusione più totale; per un attimo ebbe seriamente paura di svenire in qualche modo, ma, fortunatamente, o forse sfortunatamente, riuscì a rimanere cosciente della situazione.
I passi continuarono ad avvicinarsi e sembrarono essere piuttosto veloci.
No, non poteva essere Naminè. Demyx, forse era lui, si disse. Ma non aveva importanza: non doveva trovarsi lì, così lontano dalla sua stanza.
Provò le stesse sensazioni di quando, due anni prima, aveva rotto involontariamente il prezioso vaso di suo padre proprio nel momento in cui egli era tornato dal lavoro; mai dimenticò le sue urla, la sua rabbia perfettamente incarnata nei suoi occhi.
In mezzo al frastuono nella sua mente, in mezzo all'ansia, alla paura e al terrore, una voce gridò, strillò, superando tutte le altre: Scappa! Corri! Fuggi!
E fu quella che lui ascoltò; si voltò, ma s'accorse solo dopo che era troppo tardi.
«Ehi, tu! Che cosa ci fai qui?»
Se quella dannatissima voce nel suo cervello avesse gridato qualche secondo prima, forse sarebbe riuscito a raggiungere la stanza senza essere visto, chissà.

Nonostante ciò, corse. Corse veloce come il vento, corse allo stesso ritmo del suo cuore.
«Aspetta! Si può sapere chi sei?»
Smise di correre solamente quando giunse di fronte alla stanza di Demyx, accorgendosi che non avrebbe avuto senso nascondersi; il suo inseguitore avrebbe potuto benissimo aprire la porta e lo avrebbero scoperto, senza ombra di dubbio.
Sarebbe stato tutto inutile.
Si voltò e strinse i pugni, alzando lentamente la testa. «Io sono Roku. Roku Ludwig.»
____________________________________________________________________ 

HTML Online Editor Sample

*Note di Evgenia Rox'*
-Parte il flash-back dal capitolo precedente: forse per la pubblicazione del capitolo successivo vi impiegherò un paio di settimane, o forse tre, o ancora un mese, non so.-
E fu così che passarono ben 36 giorni dopo l'aggiornamento della storia.
*Tossicchia con aria ambigua* Che poi magari una persona sana di mente lo avrebbe scritto a pezzetti, pian piano... E invece NO. Io no. L'ho tutto scritto oggi, spendendo praticamente la giornata di fronte a questo benedetto computer e impedendomi così di andare la mare è_é
Che vogliamo farci, ahimè, l'ispirazione quando mi acchiappa, non mi lascia più se non la vomito via su un pezzo di carta. -Che filosofia. <3
Allora, vorrei anzittutto ringraziare tutti coloro che hanno commentato; ho assai apprezzato i vostri complimenti, sul serio. Mi auguro veramente che questo capitolo non vi abbia deluso e che di conseguenza sia stato di vostro gradimento -Dato che sono praticamente impazzita scrivendolo- e... Vi prego di lasciare una recensione, dato che, come ho già detto, tengo tantissimo a questa storia e, tra quelle che ho pubblicato, sì, credo proprio che sia quella a cui tengo di più.
Uhm... Poi vorrei ringraziare la musica gotica al pianoforte, il pane, mia madre -La quale mi ha lasciata in santa pace da sola per tipo quattro ore ;A; - & le ciliegie che mi hanno accompagnata nel corso della scrittura. *Fiss il vuoto* Ohm, che altro dire...
OhMioDioMaQuant'èBelloEssersiFinalmenteLiberatiDallaScuola?! *AAA*
Ahm, sì. Torniamo alla storia, va'.
Well... Nella prima parte del capitolo vediamo il nostro caro protagonista alle prese con Demyx & Naminè, gli unici a conoscenza della sua presenza all'interno della fattoria; nella seconda parte, appunto, il biondo scopre un pò di più di dove si trova, anche se a grandi linee. E, infine, nella terza parte, oltre a riassumere la propria giornata con le proprie sensazioni, decide finalmente di uscire dalla stanza, facendo però -La sfiga nelle mie storie non manca mai.- uno spiacevole incontro. Il tutto, ovviamente, come nel capitolo precedente, frammentato da svariati flash-back, sogni e cose del genere.
Il capitolo che significa appunto 'Sono debole e sono stanco di sentirmi così', è riferito proprio al fatto che Roxas, spossato della propria debolezza e del fatto che non fa altro che fuggire, alla fine decide di affrontare la propria paura e smette di correre, voltandosi e presentandosi con sicurezza. Anyway, il successivo capitolo -Che, diamine, mi auguro di pubblicare prima di 36 fottuti giorni, dato che siamo nella stagione estiva e ho più tempo libero ;A;- sarà sicuramente più... Uhm, 'Movimentato', ecco.
Questa sera spero di poter rispondere a tutte le e-mail e/o recensioni nelle altre storie, anche se non credo, dato che i miei poveri occhi stanno chiedendo pietà ;A; Comunque, prometto che domani mi impegnerò a rispondere! Ho anche creato un nuovo contatto Facebook -e chissenefrega- di cui presto posterò il link, nel caso qualcuno volesse aggiungermi .w.
Detto ciò, commentate, people.
Alla prossima (:
E. P. R.

 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Kingdom Hearts / Vai alla pagina dell'autore: EvgeniaPsyche Rox