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Autore: Rosso Veneziano    14/06/2012    0 recensioni
La storia di Anna Bassi, monaca nel convento Benedettino di San Zaccaria nel XVIII secolo. Una ragazza di umili condizioni coinvolta suo malgrado in strane trame dalla nobile badessa del monastero: Anna non fa una vita contemplativa, serve la superiora ed è una delle sue ancelle: violerà la clausura e partirà per un lungo viaggio per allontanarsi da uno strano fatto accaduto nel convento: una proposta improvvisa ed inaspettata...
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo Secondo
 
Elena Grimani salì lo scalone e raggiunse il proprio appartamento. Ritornava dal colloquio con Pasqualigo. Stava per ordinare a Sorella Anna e all’altra conversa, Suor Bona di trasferirle le cose in una cella per le sue dimissioni quando le soggiunse una cosa.
Suor Bona si trovava nella lavenderia e stava lavando gli abiti abbaziali. Suor Anna, invece, si trovava nella camera da letto e stava piegando alcune lenzuola.
Elena entrò nella camera: Anna si inchinò e notò la sua faccia turbata. Elena si sedette sul letto e le disse: “Il doge è morto!”. Anna le porse le sue condoglianze e le parlò un po’ per rasserenarla. Elena si fece forza e le ordinò di uscire dalla camera perché si sarebbe messa allo scrittoio. Per un buon quarto d’ora vergò missive e lettere, eliminò le bozze buttandole nel camino. La candela per sciogliere la cera era accesa. Appiccò il fuoco alle brutte copie.
Poi chiamò Suor Anna e con tono perentorio le ordinò: “Andate a Ca’ Grimani. Portate questa lettera a mio nipote Marcantonio II. Solo a lui. Non consegnatela a nessun altro. Dite che invia la badessa.”.
Suor Anna disse di sì, prese la busta e vide che il cielo era nuvoloso spiando fuori dalle finestre. Passò per la propria stanze, prese il tabarro e si legò il cappuccio con il nastro poi, salutata la portinaia incontrò la conversa giardiniera, la seguì scambiano qualche chiacchera ed uscì dal cancello. Uscì dal campo verso la parete in cui si trovava il bassorilievo gotico. Sorpassatalo diede un’occhiata ad un palazzo decorato con archi a sesto acuto. Pasò il Rio del Vin sul ponticello e si trovò nella calca della folla in Salizada San Provolo. Donne e mercanti spingevano e rallentavano il cammino: quindi svoltò a destra, poi a sinistra in una calle contorniata da palazzi con finestre e grate: arrivò in un vicolo strettissimo, girò l’angolo ed in Rugheta Sant’Apolonia e si trovò sul Rio del Palazzo: da lì si scorgeva Palazzo Ducale. Un gran trambusto di gente che correva verso la piazza la travolse. Si recavano tutti a Palazzo per sapere del doge. Erano tutti nobili o valletti. Dopo averli mandati al diavolo passò alla Calle Larga di San Marco. Tra calli e campi arrivò a San Zulian. Muovendosi di parrocchia in contrada si trovò in un crocicchio, alla sua destra vedeva la Calle Gregolina, deserta. Da quel vicolo oscuro giunse una voce: “Sorella venite qui.”. Anna non capì e cercò di tirar dritto ma una mano la afferrò per il tabarro e la trascinò dentro la Calle. Li vide due uomini, ma nella penombra non potè riconoscerli: “Che volete?” si limitò a dire. “Non consegnate quella lettera se volete aver salva la vita” la intimidarono i due.
L’altro, che non aveva mai parlato, puntualizzò: “Siete ancora in tempo per tornare a San Zaccaria”.
I due uscirono dalla calle rivelando due abiti da facchini ed un cappello in testa. La parlata sembrava valtellinese: effettivamente la maggior parte dei trasportatori veneziani proveniva proprio da quelle zone della Lombardia, dove si era spinto il dominio di Venezia.
Suor Anna rimase silenziosa e ferma finchè i due non si furono allontanati. Giunse a costeggiare il Rio di San Luca, dove raggiunto il portale di Palazzo Grimani afferò i maniglioni di ferro e li sbattè sul muro.
 
Edvige Casagrande, la governante dei Grimani stava passeggiando nella corte. Venne al portone appena ebbe udito bussare. Aprì l’uscio e vide una monaca con un tabarro e una busta tra le mani.
“Sono Suor Anna, l’oblata che serve la badessa Grimani. Per suo incarico devo far leggere questa lettera al nipote Marcantonio II.”.
La governante annuì. Era anziana coi capelli brizzolati, un po’ sovrappeso, rivestita di un abito nero accollato e stretto in gola da un nastrino bianco.
La donna condusse Anna all’interno del palazzo: era tutto uno splendore di marmi e stucchi cinquecenteschi. Salirono un bellissimo scalone e raggiunsero un anticamera che si affacciava sul Canal Grande. Era ariosa e bellissima. Due cameriere stavano disponendo su di un tavolo alcune buste e fogli di pergamena per vergare lettere da spedire in cui annunciare la morte del doge.
Suor Anna fu fatta entrare nello studiolo di Marcantonio II. Era decorato con mobili e statue e con i dipinti ad olio dei Dodici Cesari. Sul soffitto un bell’affresco indicava la Virtù di Casa Grimani.
Marcantonio stava seduto alla scrivania. Suor Anna chinò il capo e disse: “Buongiorno vossignoria. Questa è la lettera che Sua Reverenza vi manda.”.
L’uomo aveva una quartantina d’anni, portava la parrucca e gli abiti neri del lutto.
Il suo viso sembrava ingenuo ed infantile ma i suoi occhi castani nascondevano una furbizia recondita e misteriosa.
L’uomo lesse la lettera facendo alcune smorfie, scrisse un’altra missiva e la consegnò ad Anna dicendole: “Date questa lettera a Sua Reverenza.”.
Anna si alzò, prese la busta, salutò ed accompagnata da Edvige uscì dal palazzo. Tuttavia ella non sapeva che dalla calle che conduceva al palazzo si sarebbero palesati i due facchini di prima.
 
Marcantonio richiamò Edvige: la sorella aveva dimenticato il tabarro sulla sedia dove si era seduta.
Edvige corse a chiamare l’oblata: fuori dal portone vide i due facchini che urlavano contro la conversa: “Adesso ve ne pentirete di aver consegnato quella missiva!”.
L’altro mise mano ad un bastone. Suor Anna, appoggiata al muro, implorava: “Signori! Calmatevi!”.
Edvige però iniziò ad urlare: “Ah che fate maledetti? Via da qua prima che chiami i gendarmi!”. I due temettero il palesarsi dei servi e dei robusti gondolieri de casada e decisero di darsela a gambe.
“Avevate dimenticato il tabarro.” disse Edvige che la ricondusse all’interno del palazzo. Marcantonio si trovava nella corte e stava parlando con un maggiordomo. Ad un suo cenno il valletto si allontanò: raggiunta Edvige il nobiluomo chiese cosa vi fosse: “La stavano picchiando!” rispose la governante.
Impietosito Grimani ordinò di portare dal gondoliere Piero l’oblata e che questi la conducesse fino a San Zaccaria.
Il barcaiolo era un uomo molto alto, robusto ma decisamente stupido. Si lasciava scappare confidenze fatte dagli altri, chiaccherava per nulla ma era un vigliacco davanti ai Grimani per paura dei padroni.
Piero spiegò subito che la gondola di palazzo era in squero per essere ritinteggiata quindi chiese ad Anna di adattarsi ad una mascareta.
Per Anna  non c’erano differenze così accettò.
Il gondoliere la menò attraverso il Canal Grande ed iniziò a ciarlare di molte cose: su come la morte del doge fosse avvenuta in un periodo particolarmente infausto e sul suo lavoro.
Suor Anna abituata al silenzio della clausura era naturalmente a disagio di fronte a quel cicaleggio senza fine. Tra l’altro era appena uscita da un’aggressione e l’ultima cosa che voleva fare era proprio sorbire le ciance del gondoliere che continuava, inarrestabile: “Temo che in clausura tra voialtre monache non ne dica niente ma il signorino Marcantonio ha un nemico e a me dispiace perché questo è un cugino di sua mamma e si chiama Querini e mi pare faccia Anzolo di nome ed è uno che pensa come certi francesi contro la Chiesa e son robe da disperarsi e…”.
Non volendo udire la solfa anticlericale Anna lo zittì: “Io mi feci oblata di mio genio per la clausura ed il santissimo silenzio. Non turbate le mie orecchie per sconsacrare la mia persona, a Dio solo dedicata.”.
Il gondoliere sbuffò e poi stette zitto: la lasciò sulla Riva degli Schiavoni. Sorella Anna tornò a San Zaccaria ed entrò in monastero.
 
Le oblate erano tutte indaffarate: era mezzogiorno e le monache si trovavano nella Cappella di San Tarasio per recitare l’ora media.
Suor Anna andò a prender posto al tavolo delle converse per mangiare. Il pasto fu servito: consisteva in un risotto seguito da una crema di patate e formaggi vari.
Nessun dolce: solo una pera a fine pasto ed una tazza di spremuta d’arancia. Il pomeriggio trascorse tranquillo: la sera la Badessa diede l’annuncio della morte del Doge e tutte le monache fecero le condoglianze. Si coricarono presto.
 
La mattina si alzarono alle cinque. Le oblate furono svegliate dai canti delle monache che lodavano Dio. Anna si alzò e salì nella camera in cui la Badessa si era trasferita per domandare se avesse avuto bisogno di qualche cosa. Elena rispose di no.
Anna tornò alle sue solite occupazioni: ordinare il guardaroba della Badessa, sistemare le sue cose dopo il trasloco e poi si sedette nella sua cella. Le era concesso di pregare: la sua vita era poco contemplativa. Ad un certo punto sentì picchiare all’uscio. Entrò la Badessa.
 
“Reverenza!” la salutò Anna. “Vorrei farvi una proposta sorella.” disse l’altra, zittendola. “Dite.”
“Diventate monaca. Vi insegnerò io a leggere e a scrivere. Andrete alla chiesa delle Vergini, dove sono stata badessa.”.
“Non potrei sopportarlo.” si oppose Suor Anna.
“Ma la clausura…” tentò Elena.
“Ascoltate: no! Non ne ho desiderio!” ripeteva l’oblata. “Diventate monaca oppure io…” ma subito Elena Grimani si maledì per quelle parole. “Quindi io sarei obbligata a farmi monaca? Non è di mio genio! No! Basta! Se è l’unica cosa che mi sarà consentita fare qui, a San Zaccaria io torno al secolo.” annunciò schiettamente la ragazza.
 
“Vi supplico” incalzava ancora la Grimani mentre Anna scendeva le scale del monastero dopo aver parlato con la Priora in Capite ed aver ottenuto un certificato per il suo ritorno al secolo. Infuriata la vecchia padrona tentava di chiamarla a sé ma l’altra fuggiva meditando che, se la proposta era stata così perentoria sotto c’era qualcosa. La guardiana diede il tabarro ad Anna mentre la Grimani, tutta confusa, la rincorreva. Anna chiuse dietro di sé la porta della stanzetta a fianco del parlatorio. Si tolse l’abito, lo baciò e lo ripiegò. Indossò i vecchi abiti che due anni prima aveva portato, quand’era nel secolo. Le stavano un po’ corti ma il tabarro copriva tutto. Sistemato l’abito lo pose su una ruota che fece girare. La portinaia tolse l’uniforme e passò la chiave. Anna aprì la porta e si trovò nel giardinetto. Là fuori un’altra oblata attendeva che lei restituisse la chiave. Anna gliela ridiede, uscì dal cancello e diede un ultimo sguardo a San Zaccaria.
Poi senza rimpianti abbandonò furiosa il campo: che la Reverendissima Madre andasse al diavolo. Con quel pensiero aveva profanato secoli di ecclesiastica gloria.
Salì a campo San Provolo: davanti alla chiesa si fece un segno di croce. Alla vista del rio attraversò: dietro di lei c’erano solo due persone una cameriera indaffarata ed un’anziana che tossicchiava. Percorse un sottoportico stretto ed angusto poi arrivò ad una calle in cui si affacciavano edifici in muratura. Si volse alle Fondamenta di San Severo: di fronte stava un meraviglioso palazzo. Arrivo al Sotoportego e Calle de Zo così chiamati perché scendevano quasi sottoterra. Arrivò in un punto così buio che si mosse a tentoni, toccando il muro. Poi vide la luce. Si apriva una strada stretta e lunga. La attraversò tutta allegra, sapendo di essere vicina a casa e svoltò. Dal ponte vide Santa Maria Formosa, raggiunse il Campo e girò nel primo sottoportego a destra. Giunse davanti ad una grata e vi spiò dentro: era il giardino di una conosciente. Girò a destra e si trovò sul portico della casa di una vicina. Era giunta nel Campiello dei Orbi dove era cresciuta. I suoi pensieri tornavano alle persone che aveva conosciuto in quel luogo: in quel portico viveva Margherita Marangona, così chiamata per il lavoro del padre: lei aveva fatto la butirante, venditrice di burro, per anni in una bottega a Santa Croce e da una zia aveva ricevuto in eredità un’altra bottega in Ruga Giuffa: già, come dimenticarla sua zia Menica, ebrea convertita, consacratasi all’arte del commercio, così intraprendente e trafficona? Lo zio di Margherita, Sgualdo, era un sanser, un mediatore di contratti di compravendita ed aveva dovuto gestire il difficile acquisto da parte della Scuola Grande di San Marco della casa in Campiello dei Orbi, di proprietà della Scuola dei Ciechi. La trattativa era andata così per le lunghe che alla morte di Sgualdo i debiti contratti dalla Scuola dei Ciechi presso la famiglia di Margherita erano così elevati da aver superato il prezzo dell’edificio. Così per risarcire i famigliari i Ciechi avevano ceduto gratuitamente la casa alla famiglia dei Marangoni.
La prima casa a destra era proprietà delle sorelle Baldine ma l’avevano affittata ad un certo Paternian Capra, un uomo vecchio e un po’ strano. La seconda casa aveva tre porte: questo perché le sorelle Baldine negli anni precedenti avevano diviso in più appartamenti lo stabile, per affittarli: ma alla fine si erano accontentate di tenerne in affitto uno solo così Drusiana e Cordellina occupavano tutto l’edificio. La casa con il giardino era invece di proprietà di Antonio Zancaruol, un vecchio patrizio. Era ormai semiabbandonata. A sinistra c’era l’unica grande casa di Luisa Padovan, la mamma di Anna.
Daniele Bassi, il padre di Anna, era un pestrin, e cioè un commerciante di latte. Aveva una casetta in Calle del Volto a San Lio con la propria bottega ma da un cugino aveva avuto in eredità anche la casa in Campiello dei Orbi.
Daniele veniva da Verona dove era vissuto da bambino. Il suo commercio gli permetteva di mantenere la famiglia e di vivere tutto sommato dignitosamente. Anna aveva dodici anni quando Bassi contrasse il tifo e dopo due mesi di agonia morì lasciando la famiglia senza nessuno che lavorasse. Luisa affittò la casa ad un professore di Padova, Augusto Stevanato, che era precettore nel vicino palazzo Boldù: la donna divenne governante della famiglia Vitturi portandosi appresso la figlia mentre tentava di trovare qualcuno interessato ad acquistare o prendere in affitto la casa in Calle del Fruttariol e la bottega della Caora Bianca.
Anche Anna servì i Vitturi come fantesca.
Aveva quattordici anni quando, scacciato il professor Stevanato dallo stabile con maleducazione, Luisa riprese possesso della casa in Campiello dei Orbi ed affittò il negozio alla famiglia di un giudecchino, Lazzaro Spin.
Per due anni Anna venne mandata da Teresa Padovan, la zia materna, e da Bastian Bissuol: la prima era una baretera e confezionava cappelli di cotone e lana, il secondo lavorava ai Graneri Publici, vicino all’Arsenale, come vagliatore e misuratore dei pesi del grano.
Teresa viveva a Campo San Bartolomeo dove aveva la sua bottega. Con lei vivevano tre apprendiste: Nineta, Aurelia e Assunta. La prima teneva i conti, la seconda e la terza confezionavano le berrette.
Anna aveva appreso il mestiere dalla zia Teresa ma non la aveva appassionata, seppure fosse abbastanza brava. Nelle sua passeggiate intorno a San Marco era giunta a Santo Stefano dove abitavano i Padri Francescani. Aveva conosciuto uno dei frati, padre Antonio e con lui aveva stretto una grande amicizia. A quindici anni Anna espresse il desiderio di farsi monaca a Santa Croce. Teresa ne parlò con Luisa, che propose un periodo di prova come conversa presso le clarisse nell’isoletta di Santa Chiara. Ma c’era una grande differenza tra Santa Croce e Santa Chiara: nelle prima stavano le Clarisse Urbaniste, più libere, nella prima le Clarisse Damianite, più ligie alla Regola.
Il clima di povertà di Santa Chiara non piacque ad Anna, così la madre decise di mandarla a sedici anni come oblata a San Zaccaria.
Appena arrivata, ad Anna venne affidata la custodia di Suor Bernardina Lazzari, una vecchia quasi pazza. Al suo diciassettesimo compleanno fu premiata per la perseveranza e la pazienza venendo chiamata ad essere l’ancella della Badessa.
Così ella aveva vissuto con serenità: ogni tre mesi, secondo accordi prestabiliti, Luisa veniva alla grata per comunicarle le novità. Quei tre mesi sarebbero presto scaduti.

Anna picchiò all’uscio di casa, non certa di trovarvi sua madre. Invece aprì la porta e quando la vide le disse: “Cosa ci fai qui?”.
Anna non voleva deluderla ma neanche mentirle così le disse: “Ho lasciato la clausura.”.
Luisa fece entrare la figlia nel corridoio che saliva al piano superiore. La fece entrare in cucina e sedere su di una panca. Le offrì un liquore che aveva comprato: del rosolio. La ragazza si fece animo e le raccontò delle stane proposte della badessa.
Luisa crollò su di una sedia e le disse: “Ahimè in che guaio ci siamo messe. Lazzaro Spin ha traslocato per andare a Rialto. Non trovo nessun pestrin che voglia vendermi il latte da due mesi. I soldi stanno finendo. I Ruzzini mi hanno proposto di vender loro la bottega e gli appartamenti.”.
“Perché non lo fai mamma?” le domandò Anna.
“Non sai cosa è successo alle Baldine? Paternian Capra ha abbandonato la casa affittata. Non hanno più un reddito. E poi i Ruzzini hanno truffato Margherita, la sua casa a Santa Croce, quella dove aveva fatto la butirante valeva cento scudi. Loro volevano comprarla per la metà: la poveretta ha detto di sì poi hanno abbassato il prezzo a venti scudi. Ha protestato ma i cari Ruzzini le hanno dimezzato il prezzo: se non voleva regalargliela doveva venderla poveretta. Così poteva guadagnarci dieci volte di più e invece che cento scudi ne ha presi dieci.” spiegò Luisa.
“Quanto varrebbe la nostra casetta?” insistette Anna.
“Cinquanta scudi.” rispose la madre bevendo una tazza di rosolio.
“Con cinquanta scudi si può tirare avanti per cinque mesi.” si rallegrò Anna.
“Si ma io da sola. Tu invece? Eh, mi sa che dovrai trovarti un lavoro. Chiederò alla Teresa se può ancora farti far berrette…” stava concludendo Luisa.
“No! Dalla zia no, per favore! Non ho nulla contro di lei ma son stufa di far berrette!” puntualizzò Anna.
“Allora facciamo così! Domani la sorella della Margherita, la Carlotta, che è serva dei Savorgnan viene a trovarci. Le chiederò se può farti far la cameriera a casa dei conti. Hai vitto, alloggio e abito. Anche se lo stipendio è di due soli scudi.” concluse rattristata.
“A me sta bene. Darò a te il mio stipendio. Tu cerca di trovare anche qualche altro acquirente per la Caora Bianca.” concluse Anna.
“D’accordo. Tu però hai bisogno di vestiti. Già… Ecco forse ho trovato: la Margherita ha dei vestiti che le hanno regalato per una sua nipote che ora si è sposata ed è andata a vivere a Mestre. Varranno si e no otto ducati. Va a prenderli e regalale questi soldi che la poveretta ha avuto spese. E poi è successo un tafferuglio con la bottega che ha lei in Ruga Giuffa… Tutte brutte cose di cui è meglio non parlare.”
spiegò Luisa.
Anna si accontentò di questi pochi chiarimenti, andò a casa della vicina, le comprò i vestiti e chiese di poter parlare l’indomani con Carlotta. L’anziana diede il suo beneplacito ed invitò inoltre Luisa e la figlia a pranzo da lei.
Margherita preparò un’arrostino di maiale, patate cotte col burro e per finire crema fritta. Mangiarono tutte e tre di gusto.
 
L’indomani Anna si alzò presto nella sua vecchia camera. Un letto in ferro battuto a due piazze, lenzuola vecchie e lavate col sapone di Marsiglia, una cassapanca come armadio.
Si lavò col catino la faccia e poi scese in cucina. Sulla madia Luisa un disordinato strato di farina segnalava che la pasta messa a lievitare era appena stata tolta. Sul tavolo c’erano alcuni zaleti ricoperti da un po’ di zucchero. Anna mangiò ma non vide sua madre: udì un gran parlare dal cortile e guardò fuori dalla finestra: le sorelle Baldine mettevano nel paniere una ciotola portata da Luisa: stavano andando a far cuocere il pane.
Luisa rientrò in casa salutò la figlia, entrambe bevvero l’infuso anche se Anna lo sorbì con minor piacere rispetto agli anni passati.
Luisa andò a prendere pasta e pesce al mercato di Rialto mentre Anna, rimasta in casa, si mise a rassettare: gettò da una finestra le briciole che caddero nel giardinetto di casa poi lavò alcune pentole ed uscì in corte dove Margherita stava spazzando il portico. Chiaccherarono un po’ fino a quando Luisa non tornò con panieri e borse pieni di generi alimentari. Era stata in diverse lasagnerie per comprare la pasta, cibo per le occasioni importanti. Quel giorno infatti, si sarebbero apprestate a parlare del futuro di Anna: bisognava lusingare Carlotta.
Margherita usò il pesce comprato da Luisa per preparare le granseole mentre Anna e la madre si misero a preparare la pasta. Luisa aveva comprato solo lasagne: così toccò ad Anna tagliare quelle sfoglie e sagomarle per farne altri formati. Li richiuse in barattoli salvo alcuni che si portò dietro per preparare a casa di Margherita.
Al piano superiore dell’abitazione della vicina la stanza più ampia era il salottino dove avevano già provveduto a spostare il tavolo della cucina. In centro un recipiente di ceramica di scarsa qualità conteneva tutta la pasta: attorno ai piatti ed ai bicchieri stavano due anguistare di vetro: la prima d’acqua, la seconda di vino rosso. I tovaglioli erano disposti accanto ai coltelli mentre a ciascuna era posto un vaso di ceramica come coppa per bere.
Anna e Luisa si sedettero su di una panca mettendovi sopra due guanciali portati da casa: le sorelle Baldine tornarono tardi con il pane e si misero sedute su due sgabelli. A capotavola stavano Margherita e Carlotta.
L’arrivo di quest’ultima fu un episodio solenne. Tutte la salutarono e Margherita le spiegò dei problemi di Anna. Carlotta rispose laconicamente che avrebbe chiesto alla zia contessa d’Asolo, una vecchia arcigna rimasta senza la cameriera Zuliana.
Poi nessuna si diede più pensieri: mangiarono di gran gusto trangugiando moltissima pasta, poi passarono alle granseole e bevvero molto vino. Conclusero il pranzo abbastanza tardi e si diedero una mano a sparecchiare mentre Anna si mise a lavare i piatti per sei.
Concluso che ebbero di desinare tornarono alle proprie case per il riposo pomeridiano. Nessuna se ne rendeva conto ma erano tutte donne sull’orlo del baratro. Nonostante la propria tranquillità le Baldine non avevano più redditi: il loro inquilino le aveva abbandonate.
Margherita aveva già avuto dei grattacapi e i Ruzzini ne avevano approfittato. Lei, come più tardi si sarebbe scoperto, nonostante avesse posseduto ben tre case, era la più sfortunata.
Luisa invece era senza nessuno che le prendesse in affitto la bottega e meditava di vendere la Caora bianca anche se probabilmente non le sarebbe convenuto.
Carlotta, che quella sera rimase a dormire a casa delle sorelle, tra tutte era la più umile. Non aveva proprietà ed era una semplice dispensiera. Ma tra tutte si era accontentata e per questo non avrebbe dovuto patire.
 
L’indomani Carlotta tornò a Palazzo Savorgnan mentre un maggiordomo dei Ruzzini venne a casa di Luisa per trattare dell’acquisto della Caora Bianca.
Quella mattina Margherita e Luisa avevano stretto un patto: la prima si sarebbe impegnata a pagare metà del costo dellos tabile così i soldi dell’acquisto sarebbero stati ugualmente spartiti. Il maggiordomo accettò il compromesso e rimandò l’acquisto.
Quel giorno fu lentissimo per la povera Anna: l’indomani ci sarebbero stati i funerali del doge e lei sapeva bene che Suor Bona l’avrebbe sostituita come rappresentante della Badessa. Tuttavia non se ne curò molto. Finalmente l’11 marzo Carlotta venne a casa di Luisa per annunciare che l’indomani la ragazza poteva iniziare a prestare servizio come cameriera personale della zia Contessa d’Asolo.
  
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