Atto
II, Scena I- Dramma
Iniziai
ad uscire con Jay circa sei mesi dopo
averlo conosciuto: si era attirato la mia simpatia coi suoi modi di
fare e le
sue osservazioni… o forse con la sua bellezza.
Più
avanti avrei capito che le sue
osservazioni “argute”
erano in realtà
banali e vuote di riflessione e logica e che la sua musica, oltre che
sterile,
era anche tecnicamente pessima.
All’inizio
si era dimostrato un ragazzo affettuoso,
dolce, pacato e romantico, mi portava fuori il più spesso
possibile: concerti,
ristorantini, passeggiate, festival e manifestazioni, ogni occasione
era buona
per stare assieme.
C’era
sempre qualcosa da fare, qualcosa da
vedere, fiori, regali e biglietti, canzoni scritte per me e attenzioni.
Mi
innamorai follemente di lui ed iniziai a rivedere anche le mie idee
sull’amore,
che iniziarono a parmi fin troppo ciniche e cattive: forse davvero le
ragazze
banali potevano attirare l’attenzioni di perfetti e
talentuosi adoni o educati
e poetici gentleman.
E
io ero e sono la quint’essenza della
banalità: capelli castani (no, non color mogano,
né castano dorato, né dai
riflessi color miele: castani, stop), che si aggrovigliano in una
matassa
riccia e crespa indefinita; pelle abbronzata, ma non dorata come quelle
delle
attrici di film per adolescenti: un marroncino chiaro, tipico delle
popolazioni
mediterranee, un po’ slavato per la mia tendenza a chiudermi
in casa con un
buon libro, invece che indossare flip flop e bikini e passeggiare sulla
spiaggia assolata; fisico un filino troppo sovrappeso, tette poche,
sedere
tanto. Non ero una bellezza hollywoodiana, di certo, ma
l’idea che Jay mi trovasse
attraente mi fece sentire la Bella Swan della situazione.
Quello
fu un errore, uno dei tanti che
commisi, con lui e che avrebbe irrimediabilmente segnato la mia vita.
Penso
fosse maggio, quando, per la prima
volta, ebbi una dimostrazione di chi fosse veramente Jay.
Sì, doveva essere
maggio, poiché ricordo che era una giornata bellissima e le
temperature erano
decisamente al disopra delle medie stagionali: insomma, quel genere di
giorni
che ti ispirano buon umore e in cui non può accadere nulla
di cattivo per forza
di cose.
Almeno
questo era il mio pensiero.
Jay,
ormai ufficialmente il mio ragazzo, dopo
quattro mesi di uscite, era venuto a vivere da me e quella mattina
avevo deciso
di preparargli la colazione.
Mi
ci misi d’impegno, padellando e ascoltando
la radio, che trasmetteva le ultime hit o pezzi storici… che
sciocchezze sto
scrivendo… non ricordo nulla del mio sedicesimo compleanno,
nemmeno la torta,
ma ricordo ogni insignificante dettaglio di quella mattina.
Ad
un certo punto Jay si alzò, entrando in
cucina e sedendosi al tavolo, senza salutare.
La
sera prima era tornato tardi,
ufficialmente lui e i suoi amici si erano fermati fino a tardi da uno
di loro…
Ricordo
che l’emittente radofonica mise su
“Keep me hanging on” di Kim Wilde. Feci una battuta
spiritosa… qualcosa come “adesso
non si usa più salutare?”,
insomma, cose che mi diceva mia nonna quando avevo quattro anni.
Poi
ho un black out di diverse ore. So per
certo che Jay mi picchiò fino a farmi perdere i sensi e poi
mi portò in
ospedale, dove mi diagnosticarono due costole incrinate. So per certo
che
raccontai, terrorizzata e ancora spaventata di essere caduta dalle
scale. So
per certo che ero scesa a patti col mio nemico per la prima volta e che
a
quella ne sarebbero succedute delle altre, moltissime altre.
Da
ragazzina avevo sempre disprezzato quelle
donne che si facevano maltrattare e mettere i piedi in testa dagli
uomini. Per
me anche già il solo far decidere agli uomini dei propri
figli era un segno di
inammissibile debolezza in una madre; era per me inammissibile essere
un
soprammobile che accrescesse lo sfarzo del focolare domestico, come lo
era
stata mia madre, ma farsi picchiare o violentare da un uomo…
no, quello, nella
mia mente di ragazza benestante e beneducata, era molto peggio.
Significava
essere deboli, indegne di essere considerate donne.
Mi
era stato inculcato, come è stato per
molti altri giovani prima di me e per come sarà per molti
altri dopo la mia
generazione, che quelle donne erano donne sbagliate: queste cose
succedevano
solo a ragazze di dubbia morale o forza mentale. Di botto, venni
catapultata
nella più atroce realtà.
E
l’abbassarmi a coprire Jay non fu segno di
scarsa morale: fu paura, istinto di sopravvivenza e soprattutto, una
disperata
voglia di non vedere. Nonostante le costole doloranti, i lividi e le
escoriazioni, non volevo –né
potevo-
ammettere che l’uomo di cui mi ero follemente e stupidamente
innamorata fosse
un violento. Archiviai l’episodio come incidente
e la vita riprese.
Forse, se fossi
stata più esperta, avrei
fatto armi e bagagli subito, cambiato città e gettato il
telefonino nel primo
cestino. Non lo feci e ben presto alle mie spese se ne aggiunse
una fissa: il fondotinta, che mai avevo usato
prima e che ora mi serviva per mascherare il fiorire di fiori violetti
e
giallognoli sulla mia pelle.