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Autore: Elizabeth_Tempest    18/06/2012    2 recensioni
Amore sbagliato. Un amore che non ha sempre ragione, che non è sempre una favola.
"La gente pensa sempre che l’amore sia bello, allegro, privo di preoccupazioni. Uno stato delle cose in cui non esiste né dolore né dispiacere, una specie di perfetto (e perverso, a ben vedere) locus amoenus, che ci viene inculcato fin dalla culla. E così, nella nostra infanzia è un susseguirsi di principesse salvate da aitanti principi, personaggi dei cartoni che irrimediabilmente s’innamoreranno dell’eroico protagonista e povere contadinotte elevate a regine da amabili re." (dal primo capitolo)
Scritta per il Love (Never) Fails contest di Flaren 97
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Atto II, Scena I- Dramma

Iniziai ad uscire con Jay circa sei mesi dopo averlo conosciuto: si era attirato la mia simpatia coi suoi modi di fare e le sue osservazioni… o forse con la sua bellezza.

Più avanti avrei capito che le sue osservazioni “argute” erano in realtà banali e vuote di riflessione e logica e che la sua musica, oltre che sterile, era anche tecnicamente pessima.

All’inizio si era dimostrato un ragazzo affettuoso, dolce, pacato e romantico, mi portava fuori il più spesso possibile: concerti, ristorantini, passeggiate, festival e manifestazioni, ogni occasione era buona per stare assieme.

C’era sempre qualcosa da fare, qualcosa da vedere, fiori, regali e biglietti, canzoni scritte per me e attenzioni. Mi innamorai follemente di lui ed iniziai a rivedere anche le mie idee sull’amore, che iniziarono a parmi fin troppo ciniche e cattive: forse davvero le ragazze banali potevano attirare l’attenzioni di perfetti e talentuosi adoni o educati e poetici gentleman.

E io ero e sono la quint’essenza della banalità: capelli castani (no, non color mogano, né castano dorato, né dai riflessi color miele: castani, stop), che si aggrovigliano in una matassa riccia e crespa indefinita; pelle abbronzata, ma non dorata come quelle delle attrici di film per adolescenti: un marroncino chiaro, tipico delle popolazioni mediterranee, un po’ slavato per la mia tendenza a chiudermi in casa con un buon libro, invece che indossare flip flop e bikini e passeggiare sulla spiaggia assolata; fisico un filino troppo sovrappeso, tette poche, sedere tanto. Non ero una bellezza hollywoodiana, di certo, ma l’idea che Jay mi trovasse attraente mi fece sentire la Bella Swan della situazione.

Quello fu un errore, uno dei tanti che commisi, con lui e che avrebbe irrimediabilmente segnato la mia vita.

Penso fosse maggio, quando, per la prima volta, ebbi una dimostrazione di chi fosse veramente Jay. Sì, doveva essere maggio, poiché ricordo che era una giornata bellissima e le temperature erano decisamente al disopra delle medie stagionali: insomma, quel genere di giorni che ti ispirano buon umore e in cui non può accadere nulla di cattivo per forza di cose.

Almeno questo era il mio pensiero.

Jay, ormai ufficialmente il mio ragazzo, dopo quattro mesi di uscite, era venuto a vivere da me e quella mattina avevo deciso di preparargli la colazione.

Mi ci misi d’impegno, padellando e ascoltando la radio, che trasmetteva le ultime hit o pezzi storici… che sciocchezze sto scrivendo… non ricordo nulla del mio sedicesimo compleanno, nemmeno la torta, ma ricordo ogni insignificante dettaglio di quella mattina.

Ad un certo punto Jay si alzò, entrando in cucina e sedendosi al tavolo, senza salutare.

La sera prima era tornato tardi, ufficialmente lui e i suoi amici si erano fermati fino a tardi da uno di loro…

Ricordo che l’emittente radofonica mise su “Keep me hanging on” di Kim Wilde. Feci una battuta spiritosa… qualcosa come “adesso non si usa più salutare?”, insomma, cose che mi diceva mia nonna quando avevo quattro anni.

Poi ho un black out di diverse ore. So per certo che Jay mi picchiò fino a farmi perdere i sensi e poi mi portò in ospedale, dove mi diagnosticarono due costole incrinate. So per certo che raccontai, terrorizzata e ancora spaventata di essere caduta dalle scale. So per certo che ero scesa a patti col mio nemico per la prima volta e che a quella ne sarebbero succedute delle altre, moltissime altre.

Da ragazzina avevo sempre disprezzato quelle donne che si facevano maltrattare e mettere i piedi in testa dagli uomini. Per me anche già il solo far decidere agli uomini dei propri figli era un segno di inammissibile debolezza in una madre; era per me inammissibile essere un soprammobile che accrescesse lo sfarzo del focolare domestico, come lo era stata mia madre, ma farsi picchiare o violentare da un uomo… no, quello, nella mia mente di ragazza benestante e beneducata, era molto peggio. Significava essere deboli, indegne di essere considerate donne.

Mi era stato inculcato, come è stato per molti altri giovani prima di me e per come sarà per molti altri dopo la mia generazione, che quelle donne erano donne sbagliate: queste cose succedevano solo a ragazze di dubbia morale o forza mentale. Di botto, venni catapultata nella più atroce realtà.

E l’abbassarmi a coprire Jay non fu segno di scarsa morale: fu paura, istinto di sopravvivenza e soprattutto, una disperata voglia di non vedere. Nonostante le costole doloranti, i lividi e le escoriazioni, non volevo –né potevo- ammettere che l’uomo di cui mi ero follemente e stupidamente innamorata fosse un violento. Archiviai l’episodio come incidente e la vita riprese.

Forse, se fossi stata più esperta, avrei fatto armi e bagagli subito, cambiato città e gettato il telefonino nel primo cestino. Non lo feci e ben presto alle mie spese se ne aggiunse  una fissa: il fondotinta, che mai avevo usato prima e che ora mi serviva per mascherare il fiorire di fiori violetti e giallognoli sulla mia pelle.

   
 
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