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Autore: Mikaeru    09/01/2007    2 recensioni
“Benissimo, ragazzo! Ecco le regole: entro trenta giorni, cioè entro il sei di giugno, dovrai portarmi, in questo luogo esatto, sei cadaveri di persone che ami, quelle per cui il tuo affetto è smisurato. Dovrai ucciderle quando il tuo sentimento per loro è al culmine e ognuna con un metodo diverso, il divertimento prima di tutto. All’alba, quando la luna è ancora ben visibile, alle sei di mattina, posizione le tue vittime in cerchio. Prendi uno specchio e, col sangue di ognuno di loro che avrai ovviamente conservato misto al tuo, scrivi l’Ave Maria al contrario. Quel giorno, l’amichetto resusciterà!" {dal secondo capitolo}
Genere: Triste, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo secondo. “Red”

 

“Stasera sto da Christine. Mangia roba del frigo. NO ristorante. Bye bye. Greg”

 

“Ace!! Ace ti prego apri!! Sono Chris, ti prego aprimi!! Per favore…”

Le ubbidii. Era in lacrime, distrutta. Il macigno l’aveva travolta. Aveva la morte dipinta nelle iridi notturne. Ma, in quegli attimi, non riuscivo a provare pietà per nessuno – non per la sua ragazza, non per i suoi genitori, non per i suoi amici. Non per me.

“Greg… Greg è…”

“L’hanno ucciso. L’ho visto in tv.”

“…vuoi che entri?…”

“No.”

Richiusi l’uscio in malo modo. Dirigendomi nella mia stanza, mi riflessi nel piccolo specchio rotondo appeso al muro. Facevo paura, tanto sembravo morto.

Mi accasciai sul letto, come corpo privo d’anima.

Il cervello rifiutava di connettersi. Negava che le immagini appena viste corrispondessero alla realtà, che quell’unico resto appartenesse a lui.

Era un film, solo un film, un film realistico, ma un film. Tutta finzione, menzogna, irrealtà…

Doveva essere solo un brutto sogno.

 

Ma c’era una vocina –piccola, sottile, quasi incalcolabile- che mi avvertiva che, anche se mi fossi svegliato, avrei odiato anche la verità.

 

Risultandomi detestabile restare fermo, impiegai le ultime forze per un’insensata camminata avanti e indietro per il nostro piccolo appartamento, mangiandomi le unghie con isteria. Dovevo fare qualcosa che mi distrasse. O sarei impazzito ancora di più.

“Non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero…”

Ripetendo mille volte la stessa frase ad alta voce, tentavo di convincere il mondo intero (me stesso) che ogni cosa che il telegiornale aveva trasmesso era tutta una bugia.

Senza accorgermene, tornai dinanzi lo specchio. Guardai il riflesso: vi era ritratta una persona che non conoscevo: i tatuaggi, l’orecchino, quelli erano miei, ma quegli occhi infossati, quel volto bianco, diafano –vene visibili- non potevano appartenere a me.

Non sono io, quello… io indosso una maschera, l’allegria, non posso essere io quel morto vivente…

Toccai la superficie liscia e fredda dello specchio con le dita.

Ero io.

Colpii il riflesso con un pugno, mandandolo in frantumi. Alcune schegge mi entrarono nella mano.

Per il dolore bruciante di corpo e anima, iniziai a piangere per la prima volta dopo aver visto la televisione.

“Greg… mi fa male… ti prego… medicami… per favore… io non lo so fare… non so fare niente da solo… Greg… ti prego…”

 

 

Non volli nessun funerale per lui. Mi opposi con forza, perché lui non credeva in nessun dio. Credeva nelle persone e basta.

Rubai la sua testa dalla polizia, per tenerla solo per me, come un uccello impagliato.

I suoi genitori non si fecero sentire.

Christine marciva dentro – ad agosto, il tanto agognato matrimonio.

Gli inquirenti mi fecero, con malcelato disinteresse, le domande di routine. Il caso Redrum era così oscuro che ogni cosa pareva inutile. Avrei voluto ucciderli tutti nell’istante in cui uno sbadigliò nel chiedermi informazioni su Greg.

Io mi resi inavvicinabile. Dal due al sei maggio, come lui era ufficialmente morto, io ero scomparso dal mondo , scappando dalle sue persone – mi chiusi in casa, fuggendo ogni contatto.

Per quei giorni non mi lavai, non mangiai, non dormii. Sopravvissi come una pianta, ma nutrendomi di ombre (la luce non era più per me). Privato di lui, ogni cosa per me aveva perso di bellezza, di splendore.

 

Lui era per me quello che per i bambini è un genitore – il nido a cui far ritorno, il punto di riferimento. Era indispensabile come l’aria. Come i marmocchi hanno radicato nel profondo il puro, intenso sentimento nei confronti di chi dà loro la vita, così era per me, perché lui me l’aveva ridata. E cos’ero io, se non un fottuto moccioso? Come si può privare una creatura del suo unico sostegno?

Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste, e nulla più, diceva uno scrittore. Per me, anche esistere era dannatamente difficile – impossibile. Poiché svegliarmi mio malgrado ogni giorno, trovare la casa vuota, era orrendo, più di quanto potessi immaginare. Ogni volta era una nuova pugnalata. Spesse volte, nell’arco di una singola giornata, prendevo piatti, bicchieri, frantumandoli a terra, urlando istericamente. Spesse volte desiderai con intensità che il mio corpo si tramutasse in porcellana. In fine, preziosa, fragilissima porcellana…

 

“Ace?”

“Mamma.”

“Perché non vieni a stare a casa da noi?”

“No.”

“Non ti fa bene rimanere lì…”

“Qui c’era Greg. Resterò qui.”

“Ma…”

“Io starò sempre con lui.”

“Ma, Ace…”

“Arrivederci, mamma. Vedi di non telefonare più per queste cazzate.”

 

In quei quattro giorni, in mezzo alla morte e alla vendetta, mi capitò anche di impazzire. Ma fu una pazzia lucida, un’allucinazione di cui ricordo ogni minimo particolare.

Il sei maggio, di mattino presto, fui svegliato presto da un odore dolce. Ne fui rapito e mi alzai, come se qualcuno mi tirasse su ma con una contemporanea dolcezza nel gesto (esattamente come faceva Greg). Mi diressi in cucina.

Lì vidi Greg.

“Amen, allora esisti. Sono appena tornato. Sono rimasto da Christine più del previsto e mi sono totalmente scordato di avvertirti, mi dispiace. Per farmi perdonare almeno un po’ ti ho comprato un sacco di paste così potrai ingozzarti, okay?”

Era ritto, in piedi. Vivo. Niente di lui era diverso da quattro giorni prima. I capelli neri, un po’ lunghi –odiava andarseli a tagliare, quindi lo faceva da solo quando ne aveva il tempo-, ma ordinati e puliti; la bocca dalle labbra leggermente screpolate. Le mani, che preparavano la tavola, grandi e ruvide, rovinate per il lavoro a cui era stato abituato sin da piccolo. L’espressione un po’ dura, levigata dal tempo e le intemperie –come le rocce, come le pietre, come la grandine–, il cipiglio un po’ severo, sotto il quale era autorizzato a vedere solo chi lui amava di più.

Gli occhi iniziarono a bruciarmi per le lacrime che obbligavo a morire prima di segnarmi la pelle.

“Beh, che hai?”

Avevo il corpo totalmente scosso da brividi. Tutto ciò che avevo passato nei giorni trascorsi era scomparso sotto la luce del mio migliore amico.

“Sei… tornato…”

“A quanto pare, sì.”

Lo abbracciai, stringendolo forte.

“Non andare più via…”

“Mh…”

“Ti prego…”

“Mi dispiace…”

“Di che pa…”

Alzai leggermente lo sguardo. Lo fissai. Gli occhi si era svuotati. Perdeva denso liquido rosso dalle palpebre e dal collo. Mi sporcò.

“Ace…aiutami…”

Gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.

Sparì.

Mi ritrovai sdraiato sul freddo pavimento.

Niente più odore.

Niente più voce.

Niente più calore.

Niente più Greg.

Iniziai ad urlare, urlare, urlare fino a che la gola non iniziò a dolermi, tenendomi il capo con le mani, piangendo come non mai, come se solo in quel momento cominciassi a capire quel ch’era successo.

Rimasi in quello stato pietoso per ore mentre, dentro di me, scattò qualcosa che, immediatamente, fui incapace di classificare. Un’ emozione parente dell’odio, ma più costruttiva, più utile –lacerante, distruttiva, infettiva, ma con uno scopo- del detestare semplice e della rabbia pura. Mentre gli arti smettevano di tremarmi e la bocca di farmi male, esso si fece più vivo, quasi palpabile, così tanto che riuscii a dargli un nome.

Avrei reso io stesso Redrum carne per avvoltoi, sarei stato io a recidere il filo della sua vita sostituendomi alle Parche.

Appena mi resi conto di tutto ciò, come un pazzo scesi in strada, incurante del mio aspetto esteriore – che doveva essere di certo terribile. Nessun pensiero traversava la mia mente, nessun’idea, nessun piano: era solo attecchita in me l’assoluta certezza che in un modo o nell’altro lo avrei trovato.

Esattamente come se il mio cervello fosse del tutto partito, corsi di qua e di là, senza meta, come se avessi potuto trovarlo in un bar o in un negozio di scarpe.

Nel mio vagabondare come un forsennato, mi ritrovai in periferia, dinanzi una fabbrica abbandonata. Fui per un attimo disorientato, poi i miei occhi furono guidati verso il logo oramai rovinato da tempo e insetti e mi ricordai di quella vecchia ditta di giocattoli, andata in fallimento quando avevo dieci anni. D’un tratto, mentre tentavo di decifrarne il nome, le orecchie mi si riempirono di urla strazianti di donna e le narici di odore di sangue. Venivano dall’interno: le andai in soccorso, inutilmente.

Lì, lo vidi.

Capelli color rubino, pelle nivea – come il cuore umano prima di Adamo ed Eva –, capo chino. Come una fiera sulla sua vittima, aveva appena iniziato a divorarne le carni per potersene cibare.

Lui non uccideva perché era pazzo – in quel momento lo compresi: lui mieteva così tante vittime per poter sopravvivere a sua volta. Necessitava di carne umana per vivere.

Non riuscivo a muovermi, le gambe erano come paralizzate: osservai quel terrificante spettacolo senza che un muscolo riuscisse a compiere mezza azione – come un incubo a cui ero obbligato a fare da spettatore. Mi risvegliai da quello stato quando il folle stava lasciando la sua firma. Di scatto, senza pensarci, gli saltai addosso.

“Tu…tu l’hai ucciso… e ora morirai anche tu… maledetto figlio di puttana!!”

Non avendo armi, tentai di soffocarlo.

Per tutta risposta, lui sorrise.

Il suo era uno strano sorriso. Era come quello dello Stregatto, come uno spicchio di luna – troppo sottile per poter illuminare alcunché.

“Ah, tu devi essere Ace!”

Appena pronunciò il mio nome, il respiro si fermò in gola e le mani smisero d’esercitare pressione. La paura s’impadronì di me, il disgusto e l’orrore, immobilizzandomi ogni arto. Prendendomi alla sprovvista, Redrum capovolse la situazione, scaraventandomi a terra, bloccandomi. Avvicinò il volto al mio collo, annusando l’odore della pelle. Tentai di fuggire, ma mi fu impossibile.

“Ti conosco, io! Sei l’amico di quello che mi sono mangiato poco tempo fa, no? Uno alto, capelli neri, deboluccio… la voce roca…”

Pronunciai flebilmente il nome di Greg, privato d’ogni forza. Rise.

“Sai, sai, lui ti ha pensato anche nell’ultimo momento… mica eravate froci?”

“Crepa, pezzo di merda…”

“Ha gridato ‘Ace, aiutami…’ mentre iniziavo a mangiarlo dal collo.”

Come… come nella mia visione…

“Sai, di solito non mangio carne viva, ma lui me lo sono fatto mentre ancora respirava… è stato divertente! Non prendertela, non ce l’avevo con lui, era per provare qualcosa di nuovo ogni tanto… ha sentito il dolore fino all’ultimo momento. Ah, gli ho guardato nel portafogli, per curiosità, e lì c’era una tua foto, per questo so chi sei.”

Parlando, aveva la bocca incurvata di felicità come un bambino. Era possibile leggere la gioia nelle iridi sanguigne, mentre mi denudava solo per poter sentire l’odore che il mio corpo emanava. Per lui era tutto un gioco: mi sfiorava con le dita sporche di sangue, unicamente per poter avvertire il piacere di un corpo vivo, di carne che ancora pulsava di vita e sangue e che di lì a poco avrebbe dilaniato.

“Uhm… potrei usare lo stesso trattamento che ho riservato al tuo amico…”

Fai pure, volevo dirgli, ma non ne avevo la forza.

In poche frasi mi aveva svuotato d’ogni cosa. Vendetta, odio, rabbia, dolore – tutto svanito nel nulla. Neppure la rassegnazione mi riempiva.

Non me ne fregava niente di niente.

Mi fissò negli occhi. Non udendo risposta alcuna, una scintilla gli traversò lo sguardo.

Un’idea. Un pensiero. Qualcosa di malvagio.

“Anzi! Con te voglio proprio giocare…”

Mi lasciò andare nell’istante in cui pronunciò l’ultima parola. Andò a sedersi su una pila di scatoloni, con le gambe ciondolanti.

“Bloody Carnival!” esclamò, battendo le mani.

“Che cosa?...”

“E’ il nome del nostro gioco! L’amichetto era per te la persona più importante? Rispondi, su!”

Accennai un affermazione col capo. Abbassai lo sguardo.

“E mi detesti con tutto te stesso perché l’ho fatto fuori, no?”

Ripetei l’azione.

Non riuscivo bene a capire perché rispondessi alle sue domande, o perché non ritentavo di ucciderlo. Era come se fossi sotto un incantesimo. Come se mi ipnotizzasse.

“Beh, ho un modo per farlo tornare in vita!”

Era evidente quanto si divertisse a tenermi nelle sue mani come un burattino.

Per un decimo di secondo la speranza mi illuminò. Poi la ragione la uccise, ricordandomi, con la solita e fredda severità intransigente, che una cosa del genere era del tutto impossibile.

“Stai pensando che sia impossibile? Credevi anche che quelli come me non ci fossero più, no? E invece eccomi qui! L’anima, il soffio della vita e tutte quelle cagate lì possono essere riprodotti facilmente. Se mi dai retta quello tornerà in vita. Anche con la stessa memoria! Per il corpo non ci vorrà molto. In fondo il corpo umano è fatto d’acqua, carbonio, calce, ammoniaca, fosforo, sale, salnitro, zolfo, fluoro, ferro, silicio e altra robaccia, non sarà difficile procurarmela.”

Qualcosa, in lui, mi induceva a credergli, per quanto fosse folle, impossibile.

“… che dovrei fare?”

Mormorando quelle parole ad un tono a malapena udibile, accettavo incoscientemente ogni sua condizione.

Gli occhi gli brillarono. Si leccò le labbra e cominciò a parlare con tono evidentemente eccitato.

“Benissimo, ragazzo! Ecco le regole: entro trenta giorni, cioè entro il sei di giugno, dovrai portarmi, in questo luogo esatto, sei cadaveri di persone che ami, quelle per cui il tuo affetto è smisurato. Dovrai ucciderle quando il tuo sentimento per loro è al culmine e ognuna con un metodo diverso, il divertimento prima di tutto. All’alba, quando la luna è ancora ben visibile, alle sei di mattina, posizione le tue vittime in cerchio. Prendi uno specchio e, col sangue di ognuno di loro che avrai ovviamente conservato misto al tuo, scrivi l’Ave Maria al contrario. Quel giorno, l’amichetto resusciterà! Ch’è poi l’unica cosa che vuoi, nooo?”

“Chi mi dice che non sia tutta una cazzata?! In fondo nessuno crede nelle resurrezioni… mi sembra tutta una cagata!! Insomma, non sei Dio, come pensi di riuscirci?! Creerai un fantoccio?!”

“Io sono la tua unica speranza, Ace.”

Quest’ultima affermazione fu pronunciata come se, all’interno di Redrum, coesistesse un’altra persona che ne aveva preso il posto – un adulto dimentico del senso del ‘divertimento del gioco’.

“Puoi non credermi e finire nel baratro nero che hai già ben troppo bene sperimentato in passato. Puoi avere fiducia in me e anelare alla luce. Io sono in grado di fare ciò che ti sto promettendo, e lo faccio solo perché sono altamente sicuro che mi farai divertire un sacco. Sono anni che mi nutro di uomini, ma mi sono fatto scoprire solo ora per movimentarmi un po’ la vita. Cos’altro, se non un magistrale incantesimo, avrebbe permesso tutto ciò?”

Il sorriso da Stregatto tornò. Mi fissò intensamente, tamburellando con le dita sporche sulla scatola ove era seduto.

“Ebbene?”

“…”

“Su, Ace, che hai da perdere? Niente vale più del tuo amico, no? Tutti gli altri sono sacrificabili per lui, no?”

“…”

“Allora?”

“…accetto.”

Credevo di essere completamente pazzo, invece ero del tutto lucido e conscio delle mie azioni. Quello che aveva detto era vero, totalmente.

“Benissimo!”

Iniziò a ridere, sguaiatamente, di gusto. Rideva di me, della mia stupidità, della mia pazzia.

“Si dia inizio al Carnevale di Sangue, allora!”

In un attimo si volatilizzò, lasciandomi solo con la testa bruna della vittima. Corsi via, per non essere preso per Redrum.

Tutto era iniziato.

  
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