Capitolo
secondo. “Red”
“Stasera sto da Christine. Mangia
roba del frigo. NO ristorante. Bye bye. Greg”
“Ace!! Ace
ti prego apri!! Sono Chris, ti prego aprimi!! Per favore…”
Le ubbidii.
Era in lacrime, distrutta. Il macigno l’aveva travolta. Aveva la morte dipinta
nelle iridi notturne. Ma, in quegli attimi, non riuscivo a provare pietà per
nessuno – non per la sua ragazza, non per i suoi genitori, non per i suoi
amici. Non per me.
“Greg… Greg
è…”
“L’hanno
ucciso. L’ho visto in tv.”
“…vuoi che
entri?…”
“No.”
Richiusi
l’uscio in malo modo. Dirigendomi nella mia stanza, mi riflessi nel piccolo
specchio rotondo appeso al muro. Facevo paura, tanto sembravo morto.
Mi
accasciai sul letto, come corpo privo d’anima.
Il cervello
rifiutava di connettersi. Negava che le immagini appena viste corrispondessero
alla realtà, che quell’unico resto appartenesse a lui.
Era un film, solo un film, un film
realistico, ma un film. Tutta finzione, menzogna, irrealtà…
Doveva
essere solo un brutto sogno.
Ma c’era
una vocina –piccola, sottile, quasi incalcolabile- che mi avvertiva che, anche
se mi fossi svegliato, avrei odiato anche la verità.
Risultandomi
detestabile restare fermo, impiegai le ultime forze per un’insensata camminata
avanti e indietro per il nostro piccolo appartamento, mangiandomi le unghie con
isteria. Dovevo fare qualcosa che mi distrasse. O sarei impazzito ancora di
più.
“Non è vero non è vero non è vero
non è vero non è vero non è vero non è vero…”
Ripetendo
mille volte la stessa frase ad alta voce, tentavo di convincere il mondo intero
(me stesso) che ogni cosa che il
telegiornale aveva trasmesso era tutta una bugia.
Senza
accorgermene, tornai dinanzi lo specchio. Guardai il riflesso: vi era ritratta
una persona che non conoscevo: i tatuaggi, l’orecchino, quelli erano miei, ma
quegli occhi infossati, quel volto bianco, diafano –vene visibili- non potevano
appartenere a me.
Non sono io, quello… io indosso una
maschera, l’allegria, non posso essere io quel morto vivente…
Toccai la
superficie liscia e fredda dello specchio con le dita.
Ero io.
Colpii il
riflesso con un pugno, mandandolo in frantumi. Alcune schegge mi entrarono
nella mano.
Per il
dolore bruciante di corpo e anima, iniziai a piangere per la prima volta dopo
aver visto la televisione.
“Greg… mi
fa male… ti prego… medicami… per favore… io non lo so fare… non so fare niente
da solo… Greg… ti prego…”
Non volli
nessun funerale per lui. Mi opposi con forza, perché lui non credeva in nessun
dio. Credeva nelle persone e basta.
Rubai la
sua testa dalla polizia, per tenerla solo per me, come un uccello impagliato.
I suoi
genitori non si fecero sentire.
Christine
marciva dentro – ad agosto, il tanto agognato matrimonio.
Gli
inquirenti mi fecero, con malcelato disinteresse, le domande di routine. Il
caso Redrum era così oscuro che ogni cosa pareva inutile. Avrei voluto
ucciderli tutti nell’istante in cui uno sbadigliò nel chiedermi informazioni su
Greg.
Io mi resi
inavvicinabile. Dal due al sei maggio, come lui era ufficialmente morto, io ero
scomparso dal mondo , scappando dalle sue persone – mi chiusi in casa, fuggendo
ogni contatto.
Per quei
giorni non mi lavai, non mangiai, non dormii. Sopravvissi come una pianta, ma
nutrendomi di ombre (la luce non era più per me). Privato di lui, ogni cosa per
me aveva perso di bellezza, di splendore.
Lui era per
me quello che per i bambini è un genitore – il nido a cui far ritorno, il punto
di riferimento. Era indispensabile come l’aria. Come i marmocchi hanno radicato
nel profondo il puro, intenso sentimento nei confronti di chi dà loro la vita,
così era per me, perché lui me l’aveva ridata. E cos’ero io, se non un fottuto
moccioso? Come si può privare una creatura del suo unico sostegno?
Vivere è la cosa più rara del mondo.
La maggior parte della gente esiste, e nulla più, diceva uno scrittore. Per me, anche
esistere era dannatamente difficile – impossibile. Poiché svegliarmi mio
malgrado ogni giorno, trovare la casa vuota, era orrendo, più di quanto potessi
immaginare. Ogni volta era una nuova pugnalata. Spesse volte, nell’arco di una
singola giornata, prendevo piatti, bicchieri, frantumandoli a terra, urlando
istericamente. Spesse volte desiderai con intensità che il mio corpo si
tramutasse in porcellana. In fine, preziosa, fragilissima porcellana…
“Ace?”
“Mamma.”
“Perché non
vieni a stare a casa da noi?”
“No.”
“Non ti fa
bene rimanere lì…”
“Qui c’era
Greg. Resterò qui.”
“Ma…”
“Io starò
sempre con lui.”
“Ma, Ace…”
“Arrivederci,
mamma. Vedi di non telefonare più per queste cazzate.”
In quei
quattro giorni, in mezzo alla morte e alla vendetta, mi capitò anche di
impazzire. Ma fu una pazzia lucida, un’allucinazione di cui ricordo ogni minimo
particolare.
Il sei
maggio, di mattino presto, fui svegliato presto da un odore dolce. Ne fui
rapito e mi alzai, come se qualcuno mi tirasse su ma con una contemporanea
dolcezza nel gesto (esattamente come
faceva Greg). Mi diressi in cucina.
Lì vidi Greg.
“Amen,
allora esisti. Sono appena tornato. Sono rimasto da Christine più del previsto
e mi sono totalmente scordato di avvertirti, mi dispiace. Per farmi perdonare
almeno un po’ ti ho comprato un sacco di paste così potrai ingozzarti, okay?”
Era ritto,
in piedi. Vivo. Niente di lui era
diverso da quattro giorni prima. I capelli neri, un po’ lunghi –odiava
andarseli a tagliare, quindi lo faceva da solo quando ne aveva il tempo-, ma
ordinati e puliti; la bocca dalle labbra leggermente screpolate. Le mani, che
preparavano la tavola, grandi e ruvide, rovinate per il lavoro a cui era stato
abituato sin da piccolo. L’espressione un po’ dura, levigata dal tempo e le
intemperie –come le rocce, come le pietre, come la grandine–, il cipiglio un
po’ severo, sotto il quale era autorizzato a vedere solo chi lui amava di più.
Gli occhi
iniziarono a bruciarmi per le lacrime che obbligavo a morire prima di segnarmi
la pelle.
“Beh, che
hai?”
Avevo il
corpo totalmente scosso da brividi. Tutto ciò che avevo passato nei giorni
trascorsi era scomparso sotto la luce del mio migliore amico.
“Sei…
tornato…”
“A quanto
pare, sì.”
Lo
abbracciai, stringendolo forte.
“Non andare
più via…”
“Mh…”
“Ti prego…”
“Mi
dispiace…”
“Di che pa…”
Alzai
leggermente lo sguardo. Lo fissai. Gli occhi si era svuotati. Perdeva denso
liquido rosso dalle palpebre e dal collo. Mi sporcò.
“Ace…aiutami…”
Gridai con
tutto il fiato che avevo nei polmoni.
Sparì.
Mi ritrovai
sdraiato sul freddo pavimento.
Niente più
odore.
Niente più
voce.
Niente più
calore.
Niente più Greg.
Iniziai ad
urlare, urlare, urlare fino a che la gola non iniziò a dolermi, tenendomi il
capo con le mani, piangendo come non mai, come se solo in quel momento
cominciassi a capire quel ch’era successo.
Rimasi in
quello stato pietoso per ore mentre, dentro di me, scattò qualcosa che,
immediatamente, fui incapace di classificare. Un’ emozione parente dell’odio,
ma più costruttiva, più utile –lacerante, distruttiva, infettiva, ma con uno
scopo- del detestare semplice e della rabbia pura. Mentre gli arti smettevano
di tremarmi e la bocca di farmi male, esso si fece più vivo, quasi palpabile,
così tanto che riuscii a dargli un nome.
Avrei reso
io stesso Redrum carne per avvoltoi, sarei stato io a recidere il filo della
sua vita sostituendomi alle Parche.
Appena mi
resi conto di tutto ciò, come un pazzo scesi in strada, incurante del mio
aspetto esteriore – che doveva essere di certo terribile. Nessun pensiero
traversava la mia mente, nessun’idea, nessun piano: era solo attecchita in me
l’assoluta certezza che in un modo o nell’altro lo avrei trovato.
Esattamente
come se il mio cervello fosse del tutto partito, corsi di qua e di là, senza meta,
come se avessi potuto trovarlo in un bar o in un negozio di scarpe.
Nel mio
vagabondare come un forsennato, mi ritrovai in periferia, dinanzi una fabbrica
abbandonata. Fui per un attimo disorientato, poi i miei occhi furono guidati
verso il logo oramai rovinato da tempo e insetti e mi ricordai di quella
vecchia ditta di giocattoli, andata in fallimento quando avevo dieci anni. D’un
tratto, mentre tentavo di decifrarne il nome, le orecchie mi si riempirono di
urla strazianti di donna e le narici di odore di sangue. Venivano dall’interno:
le andai in soccorso, inutilmente.
Lì, lo
vidi.
Capelli
color rubino, pelle nivea – come il cuore umano prima di Adamo ed Eva –, capo
chino. Come una fiera sulla sua vittima, aveva appena iniziato a divorarne le
carni per potersene cibare.
Lui non uccideva perché era pazzo –
in quel momento lo compresi: lui mieteva così tante vittime per poter
sopravvivere a sua volta. Necessitava di carne umana per vivere.
Non
riuscivo a muovermi, le gambe erano come paralizzate: osservai quel
terrificante spettacolo senza che un muscolo riuscisse a compiere mezza azione
– come un incubo a cui ero obbligato a fare da spettatore. Mi risvegliai da
quello stato quando il folle stava lasciando la sua firma. Di scatto, senza
pensarci, gli saltai addosso.
“Tu…tu
l’hai ucciso… e ora morirai anche tu… maledetto figlio di puttana!!”
Non avendo
armi, tentai di soffocarlo.
Per tutta
risposta, lui sorrise.
Il suo era
uno strano sorriso. Era come quello dello Stregatto, come uno spicchio di luna
– troppo sottile per poter illuminare alcunché.
“Ah, tu
devi essere Ace!”
Appena
pronunciò il mio nome, il respiro si fermò in gola e le mani smisero
d’esercitare pressione. La paura s’impadronì di me, il disgusto e l’orrore,
immobilizzandomi ogni arto. Prendendomi alla sprovvista, Redrum capovolse la
situazione, scaraventandomi a terra, bloccandomi. Avvicinò il volto al mio
collo, annusando l’odore della pelle. Tentai di fuggire, ma mi fu impossibile.
“Ti
conosco, io! Sei l’amico di quello che mi sono mangiato poco tempo fa, no? Uno
alto, capelli neri, deboluccio… la voce roca…”
Pronunciai
flebilmente il nome di Greg, privato d’ogni forza. Rise.
“Sai, sai,
lui ti ha pensato anche nell’ultimo momento… mica eravate froci?”
“Crepa,
pezzo di merda…”
“Ha gridato
‘Ace, aiutami…’ mentre iniziavo a mangiarlo dal collo.”
Come… come nella mia visione…
“Sai, di
solito non mangio carne viva, ma lui me lo sono fatto mentre ancora respirava…
è stato divertente! Non prendertela, non ce l’avevo con lui, era per provare
qualcosa di nuovo ogni tanto… ha sentito il dolore fino all’ultimo momento. Ah,
gli ho guardato nel portafogli, per curiosità, e lì c’era una tua foto, per
questo so chi sei.”
Parlando,
aveva la bocca incurvata di felicità come un bambino. Era possibile leggere la
gioia nelle iridi sanguigne, mentre mi denudava solo per poter sentire l’odore
che il mio corpo emanava. Per lui era tutto un gioco: mi sfiorava con le dita
sporche di sangue, unicamente per poter avvertire il piacere di un corpo vivo,
di carne che ancora pulsava di vita e sangue e che di lì a poco avrebbe
dilaniato.
“Uhm…
potrei usare lo stesso trattamento che ho riservato al tuo amico…”
Fai pure, volevo dirgli, ma non ne avevo la
forza.
In poche
frasi mi aveva svuotato d’ogni cosa. Vendetta, odio, rabbia, dolore – tutto
svanito nel nulla. Neppure la rassegnazione mi riempiva.
Non me ne fregava
niente di niente.
Mi fissò
negli occhi. Non udendo risposta alcuna, una scintilla gli traversò lo sguardo.
Un’idea. Un
pensiero. Qualcosa di malvagio.
“Anzi! Con
te voglio proprio giocare…”
Mi lasciò
andare nell’istante in cui pronunciò l’ultima parola. Andò a sedersi su una
pila di scatoloni, con le gambe ciondolanti.
“Bloody
Carnival!” esclamò, battendo le mani.
“Che
cosa?...”
“E’ il nome
del nostro gioco! L’amichetto era per te la persona più importante? Rispondi,
su!”
Accennai un
affermazione col capo. Abbassai lo sguardo.
“E mi
detesti con tutto te stesso perché l’ho fatto fuori, no?”
Ripetei
l’azione.
Non
riuscivo bene a capire perché rispondessi alle sue domande, o perché non
ritentavo di ucciderlo. Era come se fossi sotto un incantesimo. Come se mi
ipnotizzasse.
“Beh, ho un
modo per farlo tornare in vita!”
Era
evidente quanto si divertisse a tenermi nelle sue mani come un burattino.
Per un
decimo di secondo la speranza mi illuminò. Poi la ragione la uccise,
ricordandomi, con la solita e fredda severità intransigente, che una cosa del
genere era del tutto impossibile.
“Stai
pensando che sia impossibile? Credevi anche che quelli come me non ci fossero
più, no? E invece eccomi qui! L’anima, il soffio della vita e tutte quelle
cagate lì possono essere riprodotti facilmente. Se mi dai retta quello tornerà
in vita. Anche con la stessa memoria! Per il corpo non ci vorrà molto. In fondo
il corpo umano è fatto d’acqua, carbonio, calce, ammoniaca, fosforo, sale,
salnitro, zolfo, fluoro, ferro, silicio e altra robaccia, non sarà difficile
procurarmela.”
Qualcosa,
in lui, mi induceva a credergli, per quanto fosse folle, impossibile.
“… che
dovrei fare?”
Mormorando
quelle parole ad un tono a malapena udibile, accettavo incoscientemente ogni
sua condizione.
Gli occhi
gli brillarono. Si leccò le labbra e cominciò a parlare con tono evidentemente
eccitato.
“Benissimo,
ragazzo! Ecco le regole: entro trenta giorni, cioè entro il sei di giugno,
dovrai portarmi, in questo luogo esatto, sei cadaveri di persone che ami,
quelle per cui il tuo affetto è smisurato. Dovrai ucciderle quando il tuo
sentimento per loro è al culmine e ognuna con un metodo diverso, il
divertimento prima di tutto. All’alba, quando la luna è ancora ben visibile,
alle sei di mattina, posizione le tue vittime in cerchio. Prendi uno specchio
e, col sangue di ognuno di loro che avrai ovviamente conservato misto al tuo,
scrivi l’Ave Maria al contrario. Quel giorno, l’amichetto resusciterà! Ch’è poi
l’unica cosa che vuoi, nooo?”
“Chi mi
dice che non sia tutta una cazzata?! In fondo nessuno crede nelle resurrezioni…
mi sembra tutta una cagata!! Insomma, non sei Dio, come pensi di riuscirci?!
Creerai un fantoccio?!”
“Io sono la
tua unica speranza, Ace.”
Quest’ultima
affermazione fu pronunciata come se, all’interno di Redrum, coesistesse
un’altra persona che ne aveva preso il posto – un adulto dimentico del senso
del ‘divertimento del gioco’.
“Puoi non
credermi e finire nel baratro nero che hai già ben troppo bene sperimentato in
passato. Puoi avere fiducia in me e anelare alla luce. Io sono in grado di fare
ciò che ti sto promettendo, e lo faccio solo perché sono altamente sicuro che
mi farai divertire un sacco. Sono anni che mi nutro di uomini, ma mi sono fatto
scoprire solo ora per movimentarmi un po’ la vita. Cos’altro, se non un
magistrale incantesimo, avrebbe permesso tutto ciò?”
Il sorriso
da Stregatto tornò. Mi fissò intensamente, tamburellando con le dita sporche
sulla scatola ove era seduto.
“Ebbene?”
“…”
“Su, Ace,
che hai da perdere? Niente vale più del tuo amico, no? Tutti gli altri sono
sacrificabili per lui, no?”
“…”
“Allora?”
“…accetto.”
Credevo di
essere completamente pazzo, invece ero del tutto lucido e conscio delle mie
azioni. Quello che aveva detto era vero, totalmente.
“Benissimo!”
Iniziò a
ridere, sguaiatamente, di gusto. Rideva di me, della mia stupidità, della mia
pazzia.
“Si dia
inizio al Carnevale di Sangue, allora!”
In un
attimo si volatilizzò, lasciandomi solo con la testa bruna della vittima. Corsi
via, per non essere preso per Redrum.
Tutto era iniziato.