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Autore: nathaniel    17/01/2007    2 recensioni
Qualsiasi svolta nella nostra esistenza non si sarebbe verificata se non ci fossimo trovati proprio lì, in quello spazio che in quell’attimo era riservato a noi, proprio nel momento esatto, e non avremmo mai fatto nessun passo in avanti o all’indietro se non avessimo avuto modo di trovarci su di una strada sulla quale camminare.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Nota: primo capitolo precedentemente pubblicato su questo stesso sito come one-shot. E‘ stata riveduta, corretta ed in certa misura variata.



il Quartiere



Il quartiere si chiama Borgo S.S., e merita di essere raccontato perché in esso c’è vita come non ne ho mai vista altrove. Il nome di S.S. è quello della chiesa più importante della zona, dedicata ad un santo che non molti ricordano. San Salvatore, nella vita, non ebbe mai fortuna, e dopo la morte dei genitori lavorò come calzolaio per mantenere la sorella più giovane senza mai perdersi d’animo. Mai nome fu più adatto a descrivere un luogo.

Il cuore pulsante di S.S. è la stazione, delimitata da quattro imponenti arterie di traffico ma anche, talvolta, di sangue, che sono le principali vie di transito della città. E’ situata in uno splendido edificio ottocentesco, con imponenti facciate che un tempo devono avere avuto colori chiari e freschi ed ora sono ingrigite e stanche, forse per i fumi che le hanno rese opache e sporche, forse, come credo, per il peso di tutta la vita che ogni giorno, in tanti anni, è scivolata attraverso di loro, un gravìo di sofferenze e speranze troppo spesso disilluse che nemmeno loro, tanto grandi e forti, hanno potuto sopportare.
In stazione c’è sempre movimento, un infinito viavai di persone che corrono, camminano, passeggiano, alcune con una meta, altre con il disperato desiderio di averne una, lo stesso consueto spettacolo che si osserva in un luogo di passaggio di una qualsiasi grande città come la mia. Ad ogni passo qualcuno chiede, con sguardo spento e colmo di risentimento, elemosina e carità, dice di aver perduto il portafogli e di dover tornare a casa, e chi ascolta sa che non è la verità, vivere da queste parti insegna a trovare in un solo sguardo le risposte che occorrono, ma l’espressione del viso e la bramosia negli occhi, l’obbligo di adempire a necessità che, se disattese, possono costare la vita, sono dettagli che non sfuggono ad un occhio attento, e alla fine si concede lo stesso quanto si può, perché qualcosa, nel tono implorante di quella richiesta, rende chiaro che una sola moneta in quella mano tesa varrebbe molto di più che in una tasca polverosa ed in buona compagnia; c’è poi chi, più fortunato, cerca con impegno di vendere qualcosa, un paio d’occhiali, una borsa fasulla oppure un quadretto fatto a mano, e ci sono le famiglie con bambini e valigie e borse di plastica rattoppate, ed i forestieri che non sanno dove andare e chiedono indicazioni su quel treno o quel tram, c’è chi parla troppo ed infine c’è chi non ha più voce, le ombre nascoste, le anime straziate.

Sono loro l’anima del mio quartiere. La sua particolare architettura romana di grandi vie unite da stretti budelli nascosti a sguardi inesperti ne fa un perfetto rifugio dove scappare quando alla stazione la situazione si fa difficile, oppure di notte, quando è deserta. Due corsi enormi, un fiume ed un parco delimitano questa piccola zone franca, un dedalo di viuzze che s’incrociano, e che, anche se sono quasi tutte parallele, sembrano sempre cambiare di posto per confondere un forestiero, e quando scende la sera s’incrociano e si scambiano di posto senza farsi scoprire e rendono difficile trovare la strada di casa.

Il mio quartiere si trova nella Repubblica, ma non è Italia, gli italiani sono spariti, a poco a poco, hanno venduto le loro case, avevano paura forse, non capivano più l’anima perduta della loro terra, di questa piccola fettina di città. Pochi sopravvivono, qui, ma degni di nota.
Uno di loro si chiama Ennio, ed è il titolare di una libreria incastrata a fatica tra una bottega di stoffe ed un fruttivendolo, il sostentamento del corpo affiancato da quello dello spirito, una vetrina che non è più trasparente da tempo, un occhio cieco su scaffali e scaffali colmi di parole, fantasie, ideali. Da cinquant’anni fa il libraio, ha visto due guerre, ha avuto una moglie, cinque figli, e non si è mai mosso da lì, sempre a vendere i suoi libri mentre i suoi capelli diventavano bianchi. “Io non sono un commerciante” ripete spesso “Io non vendo semplicemente cose. Quello che mi passa tra le mani dà assuefazione, scalda, porta sangue al cuore. Io sono uno spacciatore di sogni.“ Siamo diventati amici, un acquisto dopo l’altro, ogni tanto mi offre un caffè, ed a volte mi racconta dei suoi libri preferiti, pagine di carta che ha amato come linfa, parole di cui ha vissuto, guide cui ha permesso di orientare ogni giorno i suoi passi. Jane Austen, Utopia, le Città Invisibili, sono solo alcune delle tante voci che hanno popolato la sua lunga vita. Lui non ha paura degli stranieri che ora vivono qui, e mi assicura che le paure sono solo fantasie, che la gente può essere crudele, è vero, ma i pregiudizi lo sono molto di più, e non si può che credere ad un uomo che ha fatto la guerra, il disertore e poi il partigiano, che ha rischiato la vita per difendere i propri principi e la propria patria, perché se non è così che si dimostra amore per la propria terra, se non è un uomo del genere a conoscere la vita, allora nessun altro ne può sapere qualcosa.

Solo loro, gli stranieri, che danno vita alle strade ed alle vie. Nel mio quartiere ci sono un milione di colori, suoni e profumi, ci sono mediorientali, centrafricani, indiani, cinesi ed europei dell’est, ed ognuno ha dato il suo personale contributo, con un negozio, con un abito, un’acconciatura, un nuovo accento. Per la strada, tra le finestre, nei cortili fulminati dal sole, si sente un vocio ininterrotto di mille lingue diverse, quelle dai toni alti ed accesi e quelle flautate che sembrano una musica, i dialetti, ed in tutto questo anche l’italiano un po’ stentato ed un po’ cantilenato di chi impara senza desiderio perché non può amare un paese che si rifiuta di accoglierlo.

Qui il commesso dell’esistenza srotola in suo più ampio campionario, ci sono operai, venditori ambulanti, medici, immigrati illegali e docenti universitari, ci sono i market cinesi o marocchini, le pizzerie, i venditori di kebab, i sexi-shop e le aule dell’università e le case degli studenti, c’è un posto per tutti, qui, è la città che non ha posto per il quartiere, per loro, per noi che non vogliamo scappare.

Avah è la mia vicina di pianerottolo. E’ nigeriana, ha ventisette anni e tre bambini che non vede da due. Assiste un uomo anziano che vive in collina, e di notte fa le pulizie in un supermercato e manda ogni centesimo che guadagna alla sua famiglia perché vuole che i suoi bambini possano frequentare la scuola. Non dorme mai, ma ha trovato il tempo di insegnare alle mie coinquiline a preparare le specialità deliziose della sua terra, il tè profumato e le spezie dai colori caldi. Da allora, un po’ di S.S. è entrata in casa mia.

Casa mia. Anche lei vive da queste parti, e vi giuro che ne è felice, ed anche se le sue sorelle che stanno in precollina o dalle parti di Via Roma sembrano molto più curate, non vorrebbe fare scambio per nulla al mondo. Noi le vogliamo bene. L’anno scorso abbiamo ridipinto le sue pareti con colori brillanti, ed ora sembra un uccello esotico strappato dalla sua foresta tropicale, ma ha trovato la sua vera identità, in linea con il condominio, dove, per le scale, sembra un po’ di essere a Rabat ed un po’ sulla Luna di Astolfo, quella delle Cose Dimenticate e Perdute, con l’androne dove nei giorni di mercato il vento porta foglie di lattuga verdi e carta colorata, con l’albero cui sono appese foglie d’alluminio che luccicano al sole. I muri esterni sono un po’ scrostati, è vero, ed i balconi sembrano cadenti, ma quando si avvicina Natale, sul pianerottolo, con Avah e le due famiglie con cui condividiamo il nostro piccolo angolo di mondo, si allineano i tavoli e si cena insieme, Avah prepara il cous-cous, noi portiamo il panettone e Adriana e Tomasz che sono rumeni preparano dei dolci deliziosi, mezza albicocca con intorno zucchero e pastafrolla, il paradiso dei sensi

Di mattina si sente il profumo del caffè, del pollo arrosto del mercato, dello smog e del fiume che non è così lontano. Il mio quartiere è un crogiuolo che ribolle di profumi e storie.

Tuttavia, non è finita qui. Nel mio quartiere ci sono anche i criminali, i ladri, gli spacciatori, le prostitute ingannate e disperate, e talvolta ci sono anche gli assassini. Di notte non è raro vedere qualcuno confabulare in un anfratto, mani che febbrili passano un pacchetto da tasca a tasca, giovani e meno giovani sdraiati a terra, lo sguardo spento, l’orizzonte che si è avvicinato troppo ormai perché si possa ancora chiamare futuro, e ci sono ragazzi che fumano erba per le strade, perché non è che la polizia passi molto spesso da queste parti.

Senza giustificare chi infrange la legge, vivere qui fa scoprire che esistono due specie di criminali, quelli che scelgono questa strada perché redditizia, facile, comoda e veloce, perché per questo “lavoro” non si deve faticare, e quelli che hanno la paura negli occhi e la colpa nel cuore, ma nessuno dei due può zittire la fame.

Quando c’è il sole, a S.S., si cammina sotto i portici, i ladri e gli studenti, chi è onesto e chi non lo è, chi si è appena alzato e chi va a dormire, e c’è chi passa di qui per necessità e cammina in fretta, le mani strette spasmodicamente su borsette e tasche posteriori, ma chi vive da queste parti quando c’è sole li vede, i sorrisi impercettibili, e ricambia di cuore, con un senso d’appartenenza a questo microcosmo che dalla città è stato generato, che la guarda negli occhi, e ancora no, ancora non la ama né è riamato, ma che altro si può fare se non vivere nella convinzione che la storia vada sempre avanti, ed insieme con essa la mentalità comune?

Camminando ogni giorno, osservando chi passa accanto con un poco di poesia, ci si rende conto che ogni vita è straordinaria, che ognuno meriterebbe di essere raccontato. Io non ho ancora finito di scoprire.

  
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