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Autore: _Nazariy_    10/07/2012    2 recensioni
Allora, è la prima volta che scrivo una FF.
Il protagonista ha il mio carattere, quindi cerco di far andare la storia come se fossi io al posto suo, perciò avrà dei risvolti diversi dal gioco, inoltre è una 'What if?' perché Amata lo seguirà fuori dal Vault. u.u
All'inizio, nel Vault, sarà simile al gioco, ma poi ci saranno problemi amorosi e tutte 'ste cose. Comunque alla fine la potrebbe leggere anche una persona che non conosce il gioco, dal momento che è descritto tutto dall'inizio. ^^
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Qui è dove sono cresciuto, qui è dove vivo ed è qui che morirò, sì, sì, lo so. L’ho sentito dire centinaia di volte. Ora, mentre cercavo di addormentarmi, questa frase non usciva più dalla testa. Mi rifugiai sotto le coperte, sperando che le parole rimbalzassero contro di loro e si disperdessero da qualche parte in aria. Tuttavia riuscivano a trovarmi anche là sotto. Mi rassegnai e mi misi sdraiato con le braccia spalancate osservando il soffitto, poi alzai quello sinistro e guardai il Pip-Boy. È da nove anni che lo portavo al braccio, senza mai toglierlo. Lo schermo era ancora acceso.

Ogni abitante del Vault 101 ne ottiene un modello al suo decimo compleanno. Il mio è il Pip Boy 3000, è il più vecchio, però mio padre dice che è il più resistente... E io... beh, gli credo, non ricordo nemmeno quante volte si sarebbe dovuto rompere per come lo tratto. Questo è un aggeggio che mostra le funzioni cardiache, il tuo stato vitale, le malattie che hai, è un sacco figo. Ha anche una lucina incorporata, che sballo..

Stanley Armstrong era il tecnico della manutenzione del Vault. È stato lui a regalarmelo. Credo fosse il regalo migliore della giornata. Ah, no... Il regalo migliore è stato quello. Quel giorno fui stato portato nella sala comune del Vault, una sorta di mensa. Era un locale non troppo grande, ma abbastanza da far entrare tutti gli invitati ( non che ce ne fossero molti ). Quanto vi entrai, davanti a me c’era mio padre col suo solito camice bianco. Avrà messo da parte molto del suo lavoro per organizzare questa festa. Era una sorta di medico nel Vault, avevo cercato spesso di vedere cosa conserva nel suo computer, ma l’unica schermata che riuscivo a vedere era quella dove bisognava digitare la password. Dietro di lui c’era Amata Almodovar, la mia amica d’infanzia e nientemeno che la figlia del Soprintendente del Vault 101, Alphonse Almodovar. Era una sorta di... capo? Beh, sì, colui che faceva le leggi e le faceva rispettare. Quella principale era di non uscire mai dal Vault. Dopo la guerra nucleare il mondo era pericoloso, la gente è qui fin da prima che le bombe cadessero sugli Stati Uniti, nel 2077. Dopo duecento anni nessuno sa come si sono evolute le cose all’esterno, diceva. Nessuno entra e nessuno esce. La regola numero uno. Perciò la gente doveva rimanere qui, in questo bunker sotterraneo. L’unico mondo che noi conoscevamo. Quando i nostri sguardi si incrociarono, lui si avvicinò a me e si mise a fare un discorso sulle responsabilità, sul fatto che a dieci anni si era già grandi e cose del genere. Mi interessai di più quando mi mostrò il Pip-Boy. L’avevano tutti gli adulti, era importante perché permetteva di ricevere i segnali della radio del Vault e percepiva le condizioni vitali di una persona, inviando dei segnali, nel caso il proprietario stesse male, verso il centro medico. Quando me lo misi al braccio ero consapevole che non l’avrei più tolto. Era la regola. Dopo aver fatto il suo dovere, il Soprintendente tornò a parlare con l’agente Gomez, che stava bevendo qualcosa che non era esattamente da servire in una festa per bambini.

«Allora?», Amata si avvicinò a me.
«Allora cosa?», replicai.
«Non vuoi il tuo regalo di compleanno?», mi chiese prolungando l’ultima sillaba della parola ‘compleanno’ e avvicinando la sua faccia alla mia.
«Davvero mi hai fatto un regalo?», chiesi io sorpreso. Beh, Amata aveva ancora nove anni. Dove andavi a nove anni a comprare le cose?
Amata ridacchiò. «Indovina che cos’è!­­»
«Uhm, un appuntamento con Christine Kendall?»
«Non fare lo stupido», rispose lei e mi mise in mano qualcosa. Era il numero quattordici di ‘Grognak il Barbaro’, un fumetto prebellico. Alcuni numeri erano finiti nel Vault e passavano dai genitori ai figli, quindi era piuttosto difficile possederne tutti i numeri.
«L’ho trovato tra la roba di mio padre, non credo che gli interessi più», sorrise.
La ringraziai e sfogliai le pagine. Il barbaro stava lottando contro un drago che sputava fiamme, ma l’uomo le deviava abilmente con la spada. Chissà se c’erano queste creature in superficie.

Dopo mi misi a guardare gli invitati. Tra di loro c’era anche quel odioso di Butch DeLoria. Quel ragazzino aveva la madre alcolizzata e si comportava come se fosse lui a comandare. Beh, a dire il vero alcuni seguaci (che io chiamerei leccaculo) ce li aveva. Ora stava chiacchierando con Paul Hannon Jr, un ragazzino piuttosto calmo, però ero sicuro che se fosse rimasto per molto con Butch sarebbe cambiato. Distolsi lo sguardo da loro e notai che al tavolino vicino a me era seduta la signora Palmer, forse l’abitante più vecchia del Vault. Come regalo, mi diede un dolce fatto da lei. Piuttosto ironico, considerando il fatto che c’era la torta, che sarebbe bastata per tutti. Tuttavia la ringraziai, cercava sempre di fare il meglio per tutti. Sempre meglio di Beatrice, che ‘regalava’ a tutti delle poesie scritte da lei. La consideravo sempre una spilorcia.
Dopo nemmeno un minuto, il robot (che qualcuno aveva affidato alla cucina) stava tagliando la torta. Con la motosega incorporata. La lama rotonda stava affettando la torta. Il piatto. Il banco da cucina. I pezzi di torta finirono in faccia alle persone vicine e sui muri.
«Ma che diavolo ha combinato quel coso??», urlò Butch. «È per quella che ero venuto!», poi guardò me. «Ehi tu! Dammi quel rotolo dolce che hai in mano!»
«È meglio che non parli con me, Butch, non sono stato io ad invitarti», non perdeva occasione di innervosirmi.
«Stai zitto e dammi quel coso!», ribadì.
Ormai incominciavo a non sopportarlo più. «Sei venuto per il dolce perché tua madre è troppo ubriaca per distinguere lo zucchero dal sale?» Ops, forse non avrei dovuto dirlo.
Butch si alzò. Non era un buon segno. Cominciai ad indietreggiare guardandomi intorno per notare qualche volto che stesse osservando la scena, ma nulla. Butch era già vicino a me. Sentii un dolore alla mascella prima che mi accorgessi del pugno di quello stronzo. Ok, ora un ragazzo a terra non era così difficile da notare. L’agente Gomez fu subito vicino a noi e stava portando Butch da qualche parte, mio padre era vicino a me e mi stava parlando. Raggruppando le parole che stava dicendo, capii il suo discorso.
«...problemi in famiglia. Per questo devi lasciarlo perdere. Non ci sono molti bambini della tua età nel Vault, quindi volevo che ci fossero più invitati possibile.»
«Sì, è stata un po’ anche colpa mia, però sai che io a quello non lo sopporto...», dissi rialzandomi.
«Dai, ora non ti preoccupare. C’è un altro regalo importante che ti aspetta. Scendi nel Livello Reattore, nel deposito, Jonas ti sta aspettando con una sorpresa.»
«Davvero?» Jonas era un grande amico di mio padre, una sorta di scienziato come lui, doveva essere qualcosa che non avevano tutti.
«Certo, vai! Sono sicuro che gli invitati potranno fare a meno della tua presenza per un pochino.» Sorrise. Ma a me bastava solo un altro incoraggiamento e fui già nel corridoio. Mentre stavo scendendo, vidi Beatrice che stava per girarsi. Voltai l’angolo appena in tempo. Era imbarazzante guardarla negli occhi e sentirla recitare una poesia ogni anno. Girando a sinistra presi la strada più lunga, ma dopo nemmeno cinque minuti fui di fronte alla porta del deposito.
«Sei ancora qui?»
Mi girai e vidi mio padre che si stava dirigendo verso di me.
«Ah, è che...», non sapevo cosa dire.
«Forza, apri la porta!», si vedeva che era entusiasta anche lui, doveva essere qualcosa di grandioso.
Grazie papà, mi hai salvato.
Entrai nel deposito. Jonas era vicino ad un tavolino, sistemando dei rottami e gettandoli nel secchio. Appena sentì il rumore della porta che si apriva si girò verso di noi.
«Oh, ecco il nostro festeggiato!», esclamò.
«Ciao Jonas!», quello che era poggiato vicino al tavolino era il mio regalo?
«Auguri, campione», prese quella cosa e me la porse.
Era un fucile. Un vero fucile ad aria compressa. Era considerata una vera arma qui nel Vault.
Io non dissi nulla, ma la mia faccia non nascose lo stupore.
«L’abbiamo costruito usando questa roba vecchia, ci crederesti? E poi è stata una fortuna che Butch avesse lasciato il suo coltello a molla fuori dalla sua stanza.»

Non riuscii a trattenere la risata. Ringraziai Jonas e mio padre, i quali mi incoraggiarono subito di andarlo a provare. C’era un poligono da tiro non lontano da lì. Quando sparai, sentii il rinculo, ma ero abbastanza forte da non perdere il controllo dell’arma. Dopo un paio di tentativi, colpì il bersaglio al centro. Loro si congratularono con me, dopo di che mio padre guardò dietro alle mie spalle e sorrise.
«Sii spietato ora.»
Jonas rise silenziosamente. Mi girai e vidi spuntare da dietro ai cassoni, sopra i quali erano poggiati i bersagli, uno scarafaggio radioattivo. Questo era abbastanza grosso, tanto da farmi spaventare la prima volta che lo vidi. Sarà stato lungo quasi un metro. Ricaricai il fucile e presi la mira. La bestiaccia si era accorta di me e si stava avvicinando. Mio padre si preparò ad avvicinarsi, ma non ce ne fu bisogno. Sparai due volte. Il primo piombino colpì una zampa allo scarafaggio, mozzandogliela. Il secondo lo colpì dritto in quella che sarebbe dovuta essere la testa. Formò un profondo buco, facendo un rumore particolare, come quello che facevo mangiando le patatine. Crock. Roba verde gli uscì dal foro e quella creatura schifosa si accasciò a terra, senza vita.
«Sei incredibile», mio padre sorrise e tirò fuori la macchina fotografica che diede a Jonas. «Dai, fammi una foto con mio figlio, ora che è diventato un uomo.»

Un lungo flash. Ed ora stavo osservando la foto di nove anni fa sul comodino vicino al letto. Non avevo dormito molto, dato che le luci erano ancora spente, qualcuno mi aveva svegliato. Vidi un’ombra che mi scuoteva.
«Svegliati, devi svegliarti subito!»

Era Amata.
 
 
  
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