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Autore: Mary P_Stark    12/07/2012    8 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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3

 

 

 

 

  Camminammo per diverse ore, tenendo un ritmo piuttosto blando a causa della debolezza di Duncan.

  Pur con tutto il suo impegno, non si era ancora ripreso dal principio di avvelenamento da argento.

Io, nel frattempo, avevo preferito non addentrarmi troppo nel suo mondo così strano, preferendo concentrarmi su quel poco che avevo scoperto in quel breve lasso di tempo.

Scartai definitivamente l’idea che potesse essere pazzo.

Ai pazzi non si rimarginano le ferite a velocità record, e non sollevano auto con una mano.

Cercai perciò di ricordare quel che sapevo del mito dei licantropi, andando a sbattere sempre su storie ancestrali risalenti ai Celti, ai Nativi Americani o agli dèi nordici, gli Asi.

Rammentai la figura di Fenrir, ma ben poco sul suo ruolo all’interno della mitologia nordica, il che mi fu di ben poco aiuto per chiarirmi le idee.

Optai quindi per le leggende sui Nativi Americani, che parlavano di uomini in grado di mutare in lupi, o del mito del Dio Lupo adorato dai lakota e da altre tribù del centro degli Stati Uniti.

Tutto questo girovagare all’interno della mia personale libreria sui miti, però, non mi portò da nessuna parte.

Andai sempre a sbattere contro un muro liscio e privo di imperfezioni, a cui non avrei potuto aggrapparmi neppure se fossi stata un geco.

Senza l’intervento esterno offerto dalle spiegazioni di Duncan, sarei andata poco lontano.

Quando infine ci fermammo per pranzare e riposarci, mi ritenni sconfitta e dovetti dar voce alla mia curiosità insoddisfatta.

Lo fissai di straforo, borbottando: “D’accordo, da sola non arrivo a capo di nulla. Spiegami quel che sta succedendo.”

Lui sorrise.

Forse aveva intuito il mio tumulto interiore e, da persona educata quale sembrava essere, mi aveva lasciata in pace perché meditassi per conto mio.

Si sedette, incrociando le gambe su un morbido tappeto di foglie ed erba verde come i suoi occhi limpidi.

Dopo aver atteso che io lo imitassi, prese dalle mie mani una barretta energetica ai cereali e mi chiese educatamente: “Da dove vuoi che cominci?”

“Quanto c’è di vero nei miti?” esclamai di getto, prima di addentare la mia barretta.

“A quali ti riferisci, in particolare?” replicò per contro lui.

“Quelli europei. Non credo che… che voi abbiate qualche attinenza con i Nativi Americani, giusto?” specificai, prima di aggiungere: “Sì, insomma, il mito di Shung Manitu Tanka, o storie affini.”

“Posso dirti dove tutto nacque. Può darsi che il mito dello spirito del dio-lupo dei lakota derivi da storie raccontate da miei antenati, che si stabilirono in America millenni addietro” scrollò le spalle lui, prima di proseguire nel suo racconto.

“Il primo uomo lupo di cui si ha memoria nella nostra storia, risale a circa cinquemila anni addietro. Esso non aveva un nome, poiché i lupi non hanno bisogno di nomi, ma la donna che lui volle con sé si rivolse sempre a lui chiamandolo Fenrir. Dalla loro unione nacquero Hati e Sköll, i primi di una lunga e ininterrotta famiglia di licantropi. La loro unione, però, fu osteggiata dagli abitanti della tribù dove era nata la compagna di Fenrir, Avya. Suo fratello Fryc cercò con ogni mezzo di riportarla in seno alla famiglia, non riuscendovi.”

Lanciò un’occhiata verso il folto bosco, crucciato, come se quello sgarbo pesasse sulle sue spalle come, immaginai, fosse pesato ad Avya e Fenrir, a suo tempo.

Ugualmente, però, riprese a parlare.

“Fenrir e Avya abbandonarono perciò la casa dove avevano vissuto fino all’arrivo degli uomini di Fryc, portando con loro i due bambini e, per decenni, riuscirono a sfuggire all’occhio attento dei loro inseguitori che, insoddisfatti, continuarono a cercare la vendetta per l’onta subita. Hati e Sköll crebbero e si unirono a donne umane per creare a loro volta nuove famiglie ma, a quel punto, i discendenti di Fryc riuscirono a trovarli, e ne nacque una guerra.”

Si interruppe nuovamente, come se quel che mi stava raccontando fosse successo solo pochi giorni prima, e non migliaia di anni prima.

Io, da par mio, cercai di ascoltare con il cuore e la mente più aperti che potessi, ma mi fu difficile credere a tutto quello che mi stava raccontando.

Era come se avessi aperto il vaso di Pandora e vi stessi guardando dentro per scorgere i mali del mondo. Una cosa da folli.

Lui riprese mesto, mormorando: “La guerra venne interrotta e poi ripresa varie volte, nel corso dei secoli, man mano che i clan si spostavano o aumentavano di numero. Molti miei antenati salparono dalle lande del nord per dirigersi verso est, in Scandinavia, nella speranza di trovare terre dove prosperare senza l’assillo continuo dei Cacciatori, gli eredi di Fryc, ma non servì. L’odio li seguì, e a odio venne risposto con altro odio. Finché …”

“Finché?” lo incoraggiai, piegandomi verso di lui con espressione sempre più curiosa.

“Il dominio romano lambì le terre più a nord, dove noi avevamo i clan più potenti e numerosi e, avvertendo il pericolo per noi e la nostra gente, decidemmo di unire le forze contro l’invasore, stringendo un’alleanza con alcune tribù locali. Conosci i Pitti?”

“Sì, so chi sono” assentii, rammentando più che bene le lezioni di storia riguardanti il piccolo popolo originario del nord dell’Inghilterra.

“Ci volle un po’ ma, alla fine, le forze romane indietreggiarono, lasciando però sul campo di battaglia molti di noi e dei Pitti. Tutte quelle guerre, e quello spargimento di sangue amico, ci convinsero a radunarci nei luoghi più impervi per allontanarci dall’uomo e dal dolore, mentre le tribù dei Pitti si spinsero più a sud per trovare territori più ameni e lontani da noi.

“L’alleanza era stata accettata contro un male comune, ma era ovvio quanto, i rispettivi clan, poco si fidassero gli uni degli altri” mi spiegò, finendo la barretta e annodando la carta plasticata che l’aveva contenuta.

“Ma… non credo siate rimasti soli molto a lungo” ipotizzai a quel punto.

Lui scosse il capo, infastidito.

“No, infatti. L’uomo si riproduceva a una velocità incredibile, molto più di noi, e così i nostri clan vennero nuovamente a contatto con gli umani.”

“I Cacciatori?” mi interessai, preoccupata dal potenziale sviluppo di quella storia.

“Erano un numero esiguo poiché, dopo l’alleanza coi Pitti, molti clan cancellarono la faida di sangue nei nostri confronti, lasciando i Cacciatori a loro stessi. Con il passare dei decenni, la nostra storia divenne mito, e le poche famiglie di Cacciatori rimaste non costituirono più un pericolo come in precedenza. Un lupo senza branco  non è così pericoloso” nel dirlo, sogghignò, facendo scintillare i denti bianchissimi.

“Cosa successe, allora?” mormorai, gli occhi sbarrati e fissi sul suo viso.

Esprimeva una gamma di emozioni variegata, tale da chiedermi cosa realmente stesse provando in quel momento, raccontandomi le memorie della sua gente.

“Nascondemmo la nostra natura per non creare problemi. Sarebbe stato troppo duro dover combattere ancora, dopo la ritrovata libertà e, come ti ho detto, i Cacciatori erano facilmente gestibili, poiché erano in numero troppo limitato per costituire una minaccia” mi spiegò, scrollando le spalle e scrutando il bosco con espressione meditabonda.

Era pensieroso, perso in qualche ricordo, o forse indeciso su cosa dirmi, o quanto dirmi.

Storsi il naso, non del tutto convinta – cosa nascondeva il suo sguardo indecifrabile? – e chiesi: “E i Cacciatori non vi hanno mai smascherato, quando si resero conto di aver perso dei… beh, dei potenziali alleati?”

Un lampo scintillò nel suo sguardo, prima di borbottare: “Siamo in cima alla catena alimentare, Brianna. I Cacciatori sono abili, ma anche stranamente leali. Non avrebbero mai messo in pericolo degli innocenti. A loro interessava, e interessa tuttora, cacciare noi, non mettere in mezzo coloro che non sanno nulla delle nostre vere origini.”

Rabbrividii, percependo un gelo di cui non comprendevo la natura – la temperatura era più che gradevole.

Impulsivamente, mi massaggiai le braccia per scacciare quella sensazione fastidiosa dal corpo, cercando nel contempo di concentrarmi sulle parole di Duncan.

Segreti, menzogne perpetrate per secoli, cacciatori sempre alle calcagna, il pericolo dietro ogni porta.

Non doveva essere stata una bella esistenza, la loro, pur essendo in cima alla catena alimentare come aveva detto Duncan.

Duncan che, fissandomi ancora una volta con aria meditabonda, quasi sorpresa, sorrise curiosamente al mio indirizzo.

Come già mi era capitato, il gelo smise di colpo di percuotere il mio corpo intorpidito, neanche me lo fossi soltanto immaginata.

Sbattei le palpebre, confusa, prima di guardarlo smarrita e lui, dubbioso, mi chiese: “Perché hai fatto così?”

“Ho sentito freddo. So che è stupido, visto che è una bella giornata” ammisi, indicando il bel sole che splendeva in cielo.

Lui aggrottò la fronte, intrecciando le braccia sul petto possente e io, non potendolo evitare, lo fissai prima di arrossire leggermente.

Era difficile non badare al fatto che era un bell’uomo.

Somigliava troppo a Brad Pitt in Troy, per non guardarlo con apprezzamento ogni volta che potevo.

Speravo solo non mi prendesse per una ninfomane.

C’era già la mia amica Nancy a detenere quel primato. E io non avevo nessunissima intenzione di ambire al suo trono.

Pensare a lei mi fece sorridere e, tra me, me la immaginai al mio posto, seduta in un bosco assieme a Duncan.

Sicuramente, gli sarebbe saltata addosso nel giro di cinque minuti, e avrebbe dato a me della sciocca per essermi limitata a lustrarmi gli occhi senza dire, o fare, assolutamente niente.

Lasciai perdere quel pensiero, non appena mi accorsi che Duncan continuava a fissarmi dubbioso.

Dava l’idea che la mia esternazione non gli fosse sembrata un’idiozia, ma andasse vagliata attentamente, come se in essa vi fosse nascosta una risposta che lui voleva assolutamente conoscere.

Stetti a guardarlo per un po’ prima di sentirgli dire quasi sovrappensiero: “Hai gli occhi di un lupo.”

Sobbalzai leggermente – sì, lo sapevo – prima di annuire.

“Ambrati, sì. Sono curiosi. Sono stati motivo di miriadi di battute per anni interi. I capelli, per lo meno, sono normalissimi.”

Mi tirai una ciocca dei lunghi capelli castano chiari – ora più simili a un groviglio di paglia, che a una chioma ordinata – e ridacchiai, aggiungendo: “Magari li avessi come mia madre. Erano biondi. Come le mie sopracciglia.”

“Ti stanno bene così” replicò, prima di chiedermi: “Posso sapere cosa successe ai tuoi genitori? Perché tu e tuo fratello vi trovate qui?”

Un brivido e un crampo, all’altezza del cuore. Era sempre così, quando li sentivo nominare.

Per un momento, mi chiesi quanti anni ancora sarebbero dovuti passare, prima che il dolore si affievolisse fino a diventare… beh, accettabile.

Non volevo parlarne, ma lui era stato sincero con me, per cui…

Tornai seria e mormorai: “Morirono quattro anni fa in un incidente stradale. Un ubriaco tagliò loro la strada. Erano a Boston per vedere un concerto.”

“Boston? Ecco il perché del tuo accento. Hai vissuto in America” asserì, un po’ sorpreso.

“E pensare che credevo non si sentisse” sogghignai, abbozzando un sorrisino.

“Come mai vi trasferiste negli Stati Uniti?” mi domandò ulteriormente, come se quei quesiti apparentemente slegati tra loro potessero condurlo alla risposta che stava cercando.

“Beh, da quel che so io, mio padre ebbe un aspro litigio con i suoi genitori, così decise di partire portandoci a Chicago, dove si trovava la sede della ditta di informatica per cui lavorava. Mamma era incinta di Gordon,… era al settimo mese” gli spiegai, pensierosa, come se quel particolare fosse importante.

“Chissà perché tanta fretta” borbottò Duncan, rimuginando tra sé.

“Non mi hai detto come finisce la storia!” precisai, volendo cambiare alla svelta argomento.

Non mi piaceva parlare dei miei genitori, anche se erano già passati quattro anni dall’incidente che ce li aveva tolti per sempre.

Ricordavo ancora tremendamente bene la telefonata che un agente di polizia ci fece nel cuore della notte, dicendoci ciò che era successo.

La nostra babysitter era rimasta con noi tutta la notte, dopo quel che le avevo riferito. Non se l’era sentita di abbandonarci neppure per un minuto.

La mattina seguente, un assistente sociale si era presentato alla nostra porta assieme alla polizia.

Ci avevano accompagnato in un Istituto, in attesa che qualcuno della nostra famiglia inglese venisse a reclamarci.

Erano passati quattro mesi dall’incidente quando, una mattina di luglio, bella come il sole, Mary Beth era entrata nell’Istituto per venirci a prendere.

Non la conoscevo, all’epoca.

Di tutti i nostri parenti, nessuno ci aveva più contattato, da quando ci eravamo trasferiti in America, e i miei genitori ne erano stati oltremodo felici.

Solo la nonna materna – l’unica in vita della famiglia di mia madre – ci aveva seguiti a Chicago.

Aveva condiviso con noi i suoi ultimi anni prima di morire, una notte piovosa d’autunno, stroncata da un infarto.

La mamma e il papà ne avevano sofferto tantissimo, e così pure io e Gordon che, in lei, avevamo sempre visto ben più di una nonna allegra e chiacchierona.

Era stata la nostra seconda madre, quando mamma era stata impegnata come giornalista in ogni angolo degli Stati Uniti.

Ci aveva visti crescere, mentre il resto della nostra famiglia paterna ci aveva ignorato.

Nostro padre l’aveva accolta ben volentieri con noi, e la nonna lo aveva sempre ringraziato per aver portato via sua figlia da quella ‘terra ricca di pericoli’.

Non avevo mai capito cosa avesse voluto dire.

Fino alla sua morte, però, ogni volta che l’argomento ‘Inghilterra’ era tornato nei loro discorsi, quelle parole erano uscite dalla sua bocca, tesa in una smorfia.

Duncan, riportandomi al presente, si limitò a dire: “C’è ben poco altro. I nostri clan iniziarono a vivere all’interno delle società umane, nascondendosi in piena vista, per così dire.”

“Allora, tutta la storia di Odino, e gli altri dèi, che legano Fenrir a una roccia per impedirgli di mangiarsi tutti… è pura fantasia?” borbottai, storcendo la bocca.

Purtroppo, ricordavo talmente poco di mitologia norrena che i miei appigli erano davvero labili.

Lui rise sardonico, fissando per un istante la chioma dell’albero più vicino, prima di tornare a posare i suoi occhi di smeraldo su di me.

“Non posso sapere cosa ha portato gli uomini a raccontare un fatto, piuttosto che un altro. Ciò che so io di Fenrir differisce in parte dal mito, anche se alcune cose rispondono a verità. Nessuno di noi, però, sa che fine fece.”

Si torse le mani, meditabondo, prima di continuare con tono sommesso il finale del suo racconto.

“Ciò che sappiamo della sua storia ci venne tramandata dai suoi figli che, a loro volta, la raccontarono alla loro progenie. Né Hati né Sköll vennero mai sapere della fine del loro padre, dopo la morte di Avya. Di lui sappiamo solo che se ne andò dalla loro casa dopo aver parlato con un uomo che i figli non conoscevano. Quindi, può essere stato tratto in inganno e ucciso, o chissà cos’altro.

Forse, la versione del mito che tu conosci è stata tramandata per tranquillizzare le genti. E’ molto più sicuro pensare a un licantropo in catene, e immobilizzato per l’eternità, piuttosto che a uno libero di muoversi.”

“Immagino possa essere vero” annuii cauta.

“Credi nel mito?” mi irrise bonariamente Duncan, sorridendomi più tranquillo.

“Tutto può essere. Non si può sapere se Fenrir fosse realmente figlio di un dio, me l’hai detto tu. Conosci solo una parte della storia” precisai, rimuginando sulle sue ultime parole.

“Vero, non posso dirti se Fenrir abbia sangue divino nelle vene, o no. Posso solo darti la mia versione dei fatti, sperando ti basti” assentì, guardandomi con attenzione.

Annuii a mia volta, immagazzinando quell’ennesimo pezzo del puzzle all’interno di una metaforica scatola mentale.

L’avevo costruita in tutta fretta per riporre quel genere di informazioni e, tornando al discorso principale, gli chiesi: “Non è mai capitato, quindi, che qualcuno tradisse la vostra fiducia? O potete anche capire se una persona mente?”

Ormai, potevo aspettarmi di tutto e di più, visto quello che mi stava raccontando.

“Oh, certo. Vi furono dei delatori, ma vennero tutti prontamente… beh, eliminati, come coloro che ebbero la sventura di venire a conoscenza dei nostri segreti, decidendo di tradirci, o farci del male” mi spiegò, sorridendomi spiacente, come se parlarmi di fatti così cruenti lo facesse sentire a disagio.

Io mi limitai a deglutire, cercando di non pensare a ignoti corpi di uomini, o donne, dilaniati da fauci possenti o ferali artigli.

Pensare al sangue e alla morte avrebbe distrutto quella sottile, esile bava di ragno che teneva ancora in piedi il mio equilibrio psico-fisico.

“Vennero… tutti… uccisi?” riuscii a chiedere, non sapendo bene perché volessi conoscere la verità a tutti i costi.

Duncan si passò una mano tra i molli riccioli corvini, pensieroso, prima di ammettere: “Alcuni vennero … persuasi a tacere.”

Deglutii ancora a fatica, più confusa che mai e lui, come per spiegarsi meglio, aggiunse: “Non furono morti incolpevoli, se è questo che temi e, se possibile, le evitammo di buon grado. Ma era di importanza vitale che nessuno tirasse fuori l’argomento, o avremmo rischiato una guerra civile inutile, oltre che dannosa per entrambe le parti. I clan che se lo poterono permettere utilizzarono le capacità di alcune persone per… convincerli a non parlare.”

“Capacità? Che intendi? Stile medium, o roba simile?” esalai, sorpresa.

Voleva forse dire questo?

Lui scosse il capo, indubbiamente restio a proseguire. “No. Non esattamente.”

“Non capisco.” ammisi.

Cosa non voleva dirmi?

Mi fece un breve sorriso di scuse, spiegandosi poi meglio.

“Ci sono persone… speciali… persone che non sono licantropi, ma hanno affinità con noi e con il mondo degli Spiriti. Persone che possono… plasmare i pensieri degli altri, a volte anche degli umani, se hanno abbastanza potere. Una di queste persone abita ad Aberdeen, e si chiama Kate Alexander.”

Aggrottai la fronte, confusa, prima di borbottare: “Vuoi forse dirmi che è una… maga?”

“E’ una wicca” esalò lui alla fine, come se dire quella parola lo turbasse.

Di sicuro turbò me.

Nel mio cervello in subbuglio avvertii un clack improvviso, come di una serratura aperta di colpo.

In un attimo fuggevole come un respiro, sentii la voce flebile di mia nonna rivolgersi a mio padre, ed esclamare: “Nessuna wicca può cadere in mano loro. Devi portarle via!”

Il pensiero venne e passò come una folata di vento, lasciando dietro di sé il profumo di mia nonna e una miriade di dubbi non risolti.

Scossi il capo, indecisa su cosa chiedere e Duncan, sfiorandomi la spalla con una mano, mi chiese preoccupato: “Tutto bene?”

Ancora quel calore dilagante che si propagava dalla sua mano a ogni centimetro del mio corpo.

Ancora quel senso di soverchiante morbidezza, come se le sue parole fossero velluto caldo e avvolgente.

Sospirai, passandomi le mani sulle braccia e, sovrappensiero, sussurrai: “E’ così caldo.”

La sensazione scomparve immediatamente, lasciando al suo posto lo sguardo incredulo di Duncan e la sua bocca leggermente spalancata, quasi volesse parlare ma gliene mancasse la volontà,… o il coraggio.

Lo fissai preoccupata, non sapendo bene cosa aspettarmi da quell’espressione e lui, come costringendosi a calmarsi, prese un gran respiro e mormorò: “Puoi dirmi come si chiamava tua madre?”

La domanda mi spiazzò.

E con essa tornò la calma.

“Elizabeth McKenna, perché?” asserii senza esitazioni.

Fu come veder accendersi una lampadina nei suoi occhi.

Un lento sorriso sorse sul suo volto, e qualcosa di molto simile all’orgoglio balenò su ogni centimetro visibile della sua pelle abbronzata, tanto da farmi temere che fosse impazzito di colpo.

Che avevo detto di così eccitante da meritare una reazione tanto spropositata?

La sentivo persino sulla pelle, quella sua gioia sempre più evidente.

Era come essere immersa nel cioccolato fuso.

“Ma che diavolo…?” sbottai, guardandomi infastidita.

I miei nervi stavano impazzendo, per lanciarmi dei segnali così strani e contraddittori?

Il suo sorriso si allargò e, battendosi una mano sulla gamba, eccitato, mi domandò: “Posso chiederti cosa ti ha portato da me?”

Accigliata – il suo comportamento eccessivamente allegro stava cominciando a darmi sui nervi – borbottai: “Ho avuto un incubo che mi ha svegliata… a quel punto, ho sentito i pick-up e sono corsa alla finestra per curiosare in cortile.”

Rimuginai attentamente, cercando di non tralasciare nulla, dopodiché proseguii nel raccondo.

“Lì, ho visto che stavano portando un animale nella cantina. Te, a questo punto. Così sono scesa a dare un’occhiata. Io sono un’ambientalista convinta, e non amo l’hobby di Patrick… beh, insomma, quello che pensavo fosse il suo hobby. Sapendo a cosa da la caccia, semplicemente lo detesto con tutta me stessa, adesso.”

Quel commento gli fece molto piacere, ma non lo distolse dal suo terzo grado, perché proseguì con le sue domande apparentemente assurde.

“Che incubo era?”

Sbuffando, gesticolai con le mani e mugugnai: “Urla… e sangue.”

Non appena lo dissi, la mia mente venne letteralmente invasa da flash di immagini, sempre più veloci, sempre più violente.

Come se la mia memoria avesse deciso di collaborare solo su richiesta di Duncan,  rammentai esattamente quello che avevo visto durante l’incubo che mi aveva spinto a svegliarmi.

Impallidii e mi portai le mani al viso, come a voler cancellare quelle immagini tremende, ma ormai il mio personale filmino mentale era iniziato, e non esisteva un tasto per lo stop.

Le mie labbra tremanti lasciarono fuoriuscire parole sconnesse che sapevano di paura, di dolore e di morte.

Duncan, da allegro che era, divenne dapprima serio e poi furioso.

Mi morsi un labbro, prima di balbettare: “C’era talmente tanto sangue, talmente tanta … paura… non potevo sopportarlo. Non potevo.”

Duncan mi riscosse scrollandomi leggermente con una mano, cancellando di colpo l’incubo a occhi aperti che stavo vivendo.

Rilassai gradatamente i muscoli, mentre il mio respiro tornava a livelli regolari e lui, fissandomi con espressione più che seria, sentenziò: “Sei wicca. Ora ne sono più che sicuro.”

Ancora quella parola.

“Che cosa?!” esalai sconvolta.

Il solo sentirla mi fece accapponare la pelle e Duncan, notando la mia reazione, aggiunse lesto: “Non avere paura… non è una cosa negativa.”

“Come… come puoi dirlo?” gracchiai, gli occhi sgranati per l’ansia.

Il respiro tornò a farsi ansante, irregolare.

Il cuore mi rombava nelle vene gonfie di sangue mentre il mio cervello, solitamente iperattivo, sembrava essere andato in tilt.

Mi era precluso qualsiasi tipo di ragionamento, più o meno facile che fosse. Neanche mi avessero riempito di novocaina la materia grigia.

Duncan mi prese il viso tra le mani cercando un contatto visivo con me e, con voce bassa e roca, mormorò suadente: “Le wiccan erano mistiche in grado di creare un’unione tra umano e divino, tra gli Spiriti della Terra e il potere della luna, da cui tutti noi traiamo forza. Esse erano, e sono, nostre guide spirituali e consigliere fedeli, le uniche umane di cui ci siamo sempre senza timore alcuno. Sono sempre state creature benefiche, non maligne. E lo sono tutt’ora, per lo meno le poche che ancora sopravvivono.”

I suoi occhi smeraldini tennero in trappola i miei, finché il mio cuore non tornò alla normalità.

Quando ritenne che fossi abbastanza tranquilla, lasciarono la presa, liberandomi dalla loro stretta ipnotica.

Le pupille leggermente dilatate e l’aria vagamente spaesata, riuscii comunque a dire: “Cosa… te lo fa… pensare?”

“Innanzitutto, il nome. Tra le donne dei McKenna, è sempre stata presente una stirpe di wiccan. Secondariamente, il tuo incubo. Hai sognato l’evento che mi ha condotto da te. E, non da ultimo, le tue reazioni” mi spiegò cheto, sorridendomi gentilmente

“Le mie… reazioni?” ripetei, ampiamente confusa.

Cosa intendeva dire? Che ero un fenomeno da baraccone?

Dio, sapevo di non essere propriamente la classica teen-ager ma, da lì a essere una, …come l’aveva chiamata, lui? Una mistica? Beh, ce ne correva davvero molto!

Annuì, spiegandomi i motivi che l’avevano portato a quell’intuizione.

“Ho notato che ti sei sfregata spesso le braccia mentre ti guardavi intorno confusa, quasi avessi prurito su tutto il corpo, o sensazioni simili.”

Impallidii leggermente.

“Beh, non fa specie, visto che le wiccan possono avvertire in maniera sensoriale le nostre emozioni” aggiunse Duncan, come se nulla fosse.

A quel punto dovetti essere diventata cinerea in viso, perché Duncan mutò espressione ed esclamò: “Brianna, respira, sei pallidissima!”

Presi un gran respiro, come ordinatori da lui e, sentendomi quasi esplodere il cuore in petto quando il sangue venne nuovamente pompato nelle mie arterie, esalai: “Cosa sarei? Una strega?!”

“No, Brianna, no… non vederla in questo modo” scosse il capo con veemenza, cercando le mie mani.

Dopo averle strette tra le sue, calde e protettive, mi massaggiò i polsi con i pollici con movimenti lenti e circolari. Ipnotici come lo erano stati i suoi occhi.

L’iniziale terrore prese a scemare e mi calmai progressivamente, riuscendo persino a chiedere con voce quasi umana: “Allora, cosa sarei?”

“Per me, un dono del cielo” mi disse per tutta risposta, continuando con il suo massaggio tranquillizzante. “Più in generale, il termine wicca significa ‘saggia’. Quindi non ha connotazioni negative. Penso saprai che, negli  ultimi decenni, il culto della Wicca è risorto, e che molti lo seguono devoti… ma tutto questo non ha a che fare con ciò che tu sei, se non a un livello puramente teorico. Sia i cultori della Wicca che tu stessa, seguite la Madre Terra, ma le similitudini finiscono lì. L’essere una wicca, per te, significa ben altro.

Non badai gran che a tutta la sua spiegazione.

L’unica parte che mi rimase impressa nella mente, e che servì a calmare il mio cervello ai limiti del red out, furono le sue prime parole.

Per me, sei un dono del cielo.

 

 


 
 
 
 
 
 ______________________________________
1: Red out: espressione usata solitamente in aviazione. E’ lo stato fisico in cui il cervello risulta in assenza di ossigeno, (spesso dovuto alla forza G e anti-G del volo acrobatico sugli aerei) perdendo così conoscenza.

  
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