3
Camminammo per diverse ore, tenendo un ritmo piuttosto blando a causa
della debolezza di Duncan.
Pur con tutto il suo impegno, non si era ancora ripreso dal principio di
avvelenamento da argento.
Io, nel frattempo,
avevo preferito non addentrarmi troppo nel suo mondo così strano, preferendo
concentrarmi su quel poco che avevo scoperto in quel breve lasso di tempo.
Scartai definitivamente
l’idea che potesse essere pazzo.
Ai pazzi non si
rimarginano le ferite a velocità record, e non sollevano auto con una mano.
Cercai perciò di
ricordare quel che sapevo del mito dei licantropi, andando a sbattere sempre su
storie ancestrali risalenti ai Celti, ai Nativi Americani o agli dèi nordici,
gli Asi.
Rammentai la figura di
Fenrir, ma ben poco sul suo ruolo all’interno della mitologia nordica, il che
mi fu di ben poco aiuto per chiarirmi le idee.
Optai quindi per le
leggende sui Nativi Americani, che parlavano di uomini in grado di mutare in
lupi, o del mito del Dio Lupo adorato dai lakota
e da altre tribù del centro degli Stati Uniti.
Tutto questo girovagare
all’interno della mia personale libreria sui miti, però, non mi portò da
nessuna parte.
Andai sempre a sbattere
contro un muro liscio e privo di imperfezioni, a cui non avrei potuto
aggrapparmi neppure se fossi stata un geco.
Senza l’intervento
esterno offerto dalle spiegazioni di Duncan, sarei andata poco lontano.
Quando infine ci
fermammo per pranzare e riposarci, mi ritenni sconfitta e dovetti dar voce alla
mia curiosità insoddisfatta.
Lo fissai di straforo, borbottando:
“D’accordo, da sola non arrivo a capo di nulla. Spiegami quel che sta
succedendo.”
Lui sorrise.
Forse aveva intuito il
mio tumulto interiore e, da persona educata quale sembrava essere, mi aveva
lasciata in pace perché meditassi per conto mio.
Si sedette, incrociando
le gambe su un morbido tappeto di foglie ed erba verde come i suoi occhi
limpidi.
Dopo aver atteso che io
lo imitassi, prese dalle mie mani una barretta energetica ai cereali e mi chiese
educatamente: “Da dove vuoi che cominci?”
“Quanto c’è di vero nei
miti?” esclamai di getto, prima di addentare la mia barretta.
“A quali ti riferisci,
in particolare?” replicò per contro lui.
“Quelli europei. Non
credo che… che voi abbiate qualche
attinenza con i Nativi Americani, giusto?” specificai, prima di aggiungere:
“Sì, insomma, il mito di Shung Manitu
Tanka, o storie affini.”
“Posso dirti dove tutto
nacque. Può darsi che il mito dello spirito del dio-lupo dei lakota derivi da storie raccontate da
miei antenati, che si stabilirono in America millenni addietro” scrollò le
spalle lui, prima di proseguire nel suo racconto.
“Il primo uomo lupo di
cui si ha memoria nella nostra storia, risale a circa cinquemila anni addietro.
Esso non aveva un nome, poiché i lupi non hanno bisogno di nomi, ma la donna
che lui volle con sé si rivolse sempre a lui chiamandolo Fenrir. Dalla loro
unione nacquero Hati e Sköll, i primi di una lunga e ininterrotta famiglia di
licantropi. La loro unione, però, fu osteggiata dagli abitanti della tribù dove
era nata la compagna di Fenrir, Avya. Suo fratello Fryc cercò con ogni mezzo di
riportarla in seno alla famiglia, non riuscendovi.”
Lanciò un’occhiata
verso il folto bosco, crucciato, come se quello sgarbo pesasse sulle sue spalle
come, immaginai, fosse pesato ad Avya e Fenrir, a suo tempo.
Ugualmente, però,
riprese a parlare.
“Fenrir e Avya
abbandonarono perciò la casa dove avevano vissuto fino all’arrivo degli uomini
di Fryc, portando con loro i due bambini e, per decenni, riuscirono a sfuggire
all’occhio attento dei loro inseguitori che, insoddisfatti, continuarono a
cercare la vendetta per l’onta
subita. Hati e Sköll crebbero e si unirono a donne umane per creare a loro
volta nuove famiglie ma, a quel punto, i discendenti di Fryc riuscirono a
trovarli, e ne nacque una guerra.”
Si interruppe
nuovamente, come se quel che mi stava raccontando fosse successo solo pochi
giorni prima, e non migliaia di anni prima.
Io, da par mio, cercai
di ascoltare con il cuore e la mente più aperti che potessi, ma mi fu difficile
credere a tutto quello che mi stava raccontando.
Era come se avessi
aperto il vaso di Pandora e vi stessi guardando dentro per scorgere i mali del
mondo. Una cosa da folli.
Lui riprese mesto, mormorando:
“La guerra venne interrotta e poi ripresa varie volte, nel corso dei secoli,
man mano che i clan si spostavano o aumentavano di numero. Molti miei antenati
salparono dalle lande del nord per dirigersi verso est, in Scandinavia, nella
speranza di trovare terre dove prosperare senza l’assillo continuo dei
Cacciatori, gli eredi di Fryc, ma non servì. L’odio li seguì, e a odio venne
risposto con altro odio. Finché …”
“Finché?” lo
incoraggiai, piegandomi verso di lui con espressione sempre più curiosa.
“Il dominio romano
lambì le terre più a nord, dove noi avevamo i clan più potenti e numerosi e,
avvertendo il pericolo per noi e la nostra gente, decidemmo di unire le forze
contro l’invasore, stringendo un’alleanza con alcune tribù locali. Conosci i
Pitti?”
“Sì, so chi sono” assentii,
rammentando più che bene le lezioni di storia riguardanti il piccolo popolo
originario del nord dell’Inghilterra.
“Ci volle un po’ ma,
alla fine, le forze romane indietreggiarono, lasciando però sul campo di
battaglia molti di noi e dei Pitti. Tutte quelle guerre, e quello spargimento
di sangue amico, ci convinsero a radunarci nei luoghi più impervi per
allontanarci dall’uomo e dal dolore, mentre le tribù dei Pitti si spinsero più
a sud per trovare territori più ameni e lontani da noi.
“L’alleanza era stata
accettata contro un male comune, ma era ovvio quanto, i rispettivi clan, poco
si fidassero gli uni degli altri” mi spiegò, finendo la barretta e annodando la
carta plasticata che l’aveva contenuta.
“Ma… non credo siate
rimasti soli molto a lungo” ipotizzai a quel punto.
Lui scosse il capo,
infastidito.
“No, infatti. L’uomo si
riproduceva a una velocità incredibile, molto più di noi, e così i nostri clan
vennero nuovamente a contatto con gli umani.”
“I Cacciatori?” mi
interessai, preoccupata dal potenziale sviluppo di quella storia.
“Erano un numero esiguo
poiché, dopo l’alleanza coi Pitti, molti clan cancellarono la faida di sangue
nei nostri confronti, lasciando i Cacciatori a loro stessi. Con il passare dei
decenni, la nostra storia divenne mito, e le poche famiglie di Cacciatori
rimaste non costituirono più un pericolo come in precedenza. Un lupo senza
branco non è così pericoloso” nel dirlo,
sogghignò, facendo scintillare i denti bianchissimi.
“Cosa successe,
allora?” mormorai, gli occhi sbarrati e fissi sul suo viso.
Esprimeva una gamma di
emozioni variegata, tale da chiedermi cosa realmente stesse provando in quel
momento, raccontandomi le memorie della sua gente.
“Nascondemmo la nostra
natura per non creare problemi. Sarebbe stato troppo duro dover combattere
ancora, dopo la ritrovata libertà e, come ti ho detto, i Cacciatori erano
facilmente gestibili, poiché erano in numero troppo limitato per costituire una
minaccia” mi spiegò, scrollando le spalle e scrutando il bosco con espressione
meditabonda.
Era pensieroso, perso
in qualche ricordo, o forse indeciso su cosa dirmi, o quanto dirmi.
Storsi il naso, non del
tutto convinta – cosa nascondeva il suo sguardo indecifrabile? – e chiesi: “E i
Cacciatori non vi hanno mai smascherato, quando si resero conto di aver perso
dei… beh, dei potenziali alleati?”
Un lampo scintillò nel
suo sguardo, prima di borbottare: “Siamo in cima alla catena alimentare,
Brianna. I Cacciatori sono abili, ma anche stranamente leali. Non avrebbero mai
messo in pericolo degli innocenti. A loro interessava, e interessa tuttora,
cacciare noi, non mettere in mezzo
coloro che non sanno nulla delle nostre vere origini.”
Rabbrividii, percependo
un gelo di cui non comprendevo la natura – la temperatura era più che gradevole.
Impulsivamente, mi
massaggiai le braccia per scacciare quella sensazione fastidiosa dal corpo,
cercando nel contempo di concentrarmi sulle parole di Duncan.
Segreti, menzogne
perpetrate per secoli, cacciatori sempre alle calcagna, il pericolo dietro ogni
porta.
Non doveva essere stata
una bella esistenza, la loro, pur essendo in cima alla catena alimentare come
aveva detto Duncan.
Duncan che, fissandomi
ancora una volta con aria meditabonda, quasi sorpresa, sorrise curiosamente al
mio indirizzo.
Come già mi era
capitato, il gelo smise di colpo di percuotere il mio corpo intorpidito, neanche
me lo fossi soltanto immaginata.
Sbattei le palpebre,
confusa, prima di guardarlo smarrita e lui, dubbioso, mi chiese: “Perché hai
fatto così?”
“Ho sentito freddo. So
che è stupido, visto che è una bella giornata” ammisi, indicando il bel sole
che splendeva in cielo.
Lui aggrottò la fronte,
intrecciando le braccia sul petto possente e io, non potendolo evitare, lo
fissai prima di arrossire leggermente.
Era difficile non
badare al fatto che era un bell’uomo.
Somigliava troppo a
Brad Pitt in Troy, per non guardarlo
con apprezzamento ogni volta che potevo.
Speravo solo non mi
prendesse per una ninfomane.
C’era già la mia amica
Nancy a detenere quel primato. E io non avevo nessunissima intenzione di ambire
al suo trono.
Pensare a lei mi fece sorridere
e, tra me, me la immaginai al mio posto, seduta in un bosco assieme a Duncan.
Sicuramente, gli
sarebbe saltata addosso nel giro di cinque minuti, e avrebbe dato a me della
sciocca per essermi limitata a lustrarmi gli occhi senza dire, o fare, assolutamente niente.
Lasciai perdere quel
pensiero, non appena mi accorsi che Duncan continuava a fissarmi dubbioso.
Dava l’idea che la mia
esternazione non gli fosse sembrata un’idiozia, ma andasse vagliata
attentamente, come se in essa vi fosse nascosta una risposta che lui voleva
assolutamente conoscere.
Stetti a guardarlo per
un po’ prima di sentirgli dire quasi sovrappensiero: “Hai gli occhi di un
lupo.”
Sobbalzai leggermente –
sì, lo sapevo – prima di annuire.
“Ambrati, sì. Sono
curiosi. Sono stati motivo di miriadi di battute per anni interi. I capelli,
per lo meno, sono normalissimi.”
Mi tirai una ciocca dei
lunghi capelli castano chiari – ora più simili a un groviglio di paglia, che a
una chioma ordinata – e ridacchiai, aggiungendo: “Magari li avessi come mia
madre. Erano biondi. Come le mie sopracciglia.”
“Ti stanno bene così” replicò,
prima di chiedermi: “Posso sapere cosa successe ai tuoi genitori? Perché tu e
tuo fratello vi trovate qui?”
Un brivido e un crampo,
all’altezza del cuore. Era sempre così, quando li sentivo nominare.
Per un momento, mi
chiesi quanti anni ancora sarebbero dovuti passare, prima che il dolore si
affievolisse fino a diventare… beh, accettabile.
Non volevo parlarne, ma
lui era stato sincero con me, per cui…
Tornai seria e mormorai:
“Morirono quattro anni fa in un incidente stradale. Un ubriaco tagliò loro la
strada. Erano a Boston per vedere un concerto.”
“Boston? Ecco il perché
del tuo accento. Hai vissuto in America” asserì, un po’ sorpreso.
“E pensare che credevo
non si sentisse” sogghignai, abbozzando un sorrisino.
“Come mai vi trasferiste
negli Stati Uniti?” mi domandò ulteriormente, come se quei quesiti
apparentemente slegati tra loro potessero condurlo alla risposta che stava
cercando.
“Beh, da quel che so
io, mio padre ebbe un aspro litigio con i suoi genitori, così decise di partire
portandoci a Chicago, dove si trovava la sede della ditta di informatica per
cui lavorava. Mamma era incinta di Gordon,… era al settimo mese” gli spiegai,
pensierosa, come se quel particolare fosse importante.
“Chissà perché tanta
fretta” borbottò Duncan, rimuginando tra sé.
“Non mi hai detto come
finisce la storia!” precisai, volendo cambiare alla svelta argomento.
Non mi piaceva parlare
dei miei genitori, anche se erano già passati quattro anni dall’incidente che
ce li aveva tolti per sempre.
Ricordavo ancora
tremendamente bene la telefonata che un agente di polizia ci fece nel cuore
della notte, dicendoci ciò che era successo.
La nostra babysitter
era rimasta con noi tutta la notte, dopo quel che le avevo riferito. Non se
l’era sentita di abbandonarci neppure per un minuto.
La mattina seguente, un
assistente sociale si era presentato alla nostra porta assieme alla polizia.
Ci avevano accompagnato
in un Istituto, in attesa che qualcuno della nostra famiglia inglese venisse a
reclamarci.
Erano passati quattro
mesi dall’incidente quando, una mattina di luglio, bella come il sole, Mary
Beth era entrata nell’Istituto per venirci a prendere.
Non la conoscevo,
all’epoca.
Di tutti i nostri
parenti, nessuno ci aveva più contattato, da quando ci eravamo trasferiti in
America, e i miei genitori ne erano stati oltremodo felici.
Solo la nonna materna –
l’unica in vita della famiglia di mia madre – ci aveva seguiti a Chicago.
Aveva condiviso con noi
i suoi ultimi anni prima di morire, una notte piovosa d’autunno, stroncata da
un infarto.
La mamma e il papà ne
avevano sofferto tantissimo, e così pure io e Gordon che, in lei, avevamo
sempre visto ben più di una nonna allegra e chiacchierona.
Era stata la nostra
seconda madre, quando mamma era stata impegnata come giornalista in ogni angolo
degli Stati Uniti.
Ci aveva visti
crescere, mentre il resto della nostra famiglia paterna ci aveva ignorato.
Nostro padre l’aveva
accolta ben volentieri con noi, e la nonna lo aveva sempre ringraziato per aver
portato via sua figlia da quella ‘terra ricca di pericoli’.
Non avevo mai capito
cosa avesse voluto dire.
Fino alla sua morte,
però, ogni volta che l’argomento ‘Inghilterra’ era tornato nei loro discorsi,
quelle parole erano uscite dalla sua bocca, tesa in una smorfia.
Duncan, riportandomi al
presente, si limitò a dire: “C’è ben poco altro. I nostri clan iniziarono a
vivere all’interno delle società umane, nascondendosi in piena vista, per così
dire.”
“Allora, tutta la
storia di Odino, e gli altri dèi, che legano Fenrir a una roccia per impedirgli
di mangiarsi tutti… è pura fantasia?” borbottai, storcendo la bocca.
Purtroppo, ricordavo
talmente poco di mitologia norrena che i miei appigli erano davvero labili.
Lui rise sardonico,
fissando per un istante la chioma dell’albero più vicino, prima di tornare a
posare i suoi occhi di smeraldo su di me.
“Non posso sapere cosa
ha portato gli uomini a raccontare un fatto, piuttosto che un altro. Ciò che so
io di Fenrir differisce in parte dal mito, anche se alcune cose rispondono a
verità. Nessuno di noi, però, sa che fine fece.”
Si torse le mani,
meditabondo, prima di continuare con tono sommesso il finale del suo racconto.
“Ciò che sappiamo della
sua storia ci venne tramandata dai suoi figli che, a loro volta, la
raccontarono alla loro progenie. Né Hati né Sköll vennero mai sapere della fine
del loro padre, dopo la morte di Avya. Di lui sappiamo solo che se ne andò
dalla loro casa dopo aver parlato con un uomo che i figli non conoscevano.
Quindi, può essere stato tratto in inganno e ucciso, o chissà cos’altro.
Forse, la versione del
mito che tu conosci è stata tramandata per tranquillizzare le genti. E’ molto
più sicuro pensare a un licantropo in catene, e immobilizzato per l’eternità,
piuttosto che a uno libero di muoversi.”
“Immagino possa essere
vero” annuii cauta.
“Credi nel mito?” mi
irrise bonariamente Duncan, sorridendomi più tranquillo.
“Tutto può essere. Non
si può sapere se Fenrir fosse realmente figlio di un dio, me l’hai detto tu.
Conosci solo una parte della storia” precisai, rimuginando sulle sue ultime
parole.
“Vero, non posso dirti
se Fenrir abbia sangue divino nelle vene, o no. Posso solo darti la mia
versione dei fatti, sperando ti basti” assentì, guardandomi con attenzione.
Annuii a mia volta,
immagazzinando quell’ennesimo pezzo del puzzle all’interno di una metaforica
scatola mentale.
L’avevo costruita in
tutta fretta per riporre quel genere di informazioni e, tornando al discorso
principale, gli chiesi: “Non è mai capitato, quindi, che qualcuno tradisse la
vostra fiducia? O potete anche capire se una persona mente?”
Ormai, potevo
aspettarmi di tutto e di più, visto quello che mi stava raccontando.
“Oh, certo. Vi furono
dei delatori, ma vennero tutti prontamente… beh, eliminati, come coloro che
ebbero la sventura di venire a conoscenza dei nostri segreti, decidendo di
tradirci, o farci del male” mi spiegò, sorridendomi spiacente, come se parlarmi
di fatti così cruenti lo facesse sentire a disagio.
Io mi limitai a
deglutire, cercando di non pensare a ignoti corpi di uomini, o donne, dilaniati
da fauci possenti o ferali artigli.
Pensare al sangue e
alla morte avrebbe distrutto quella sottile, esile bava di ragno che teneva
ancora in piedi il mio equilibrio psico-fisico.
“Vennero… tutti…
uccisi?” riuscii a chiedere, non sapendo bene perché volessi conoscere la
verità a tutti i costi.
Duncan si passò una
mano tra i molli riccioli corvini, pensieroso, prima di ammettere: “Alcuni
vennero … persuasi a tacere.”
Deglutii ancora a
fatica, più confusa che mai e lui, come per spiegarsi meglio, aggiunse: “Non
furono morti incolpevoli, se è questo che temi e, se possibile, le evitammo di
buon grado. Ma era di importanza vitale che nessuno tirasse fuori l’argomento,
o avremmo rischiato una guerra civile inutile, oltre che dannosa per entrambe
le parti. I clan che se lo poterono permettere utilizzarono le capacità di
alcune persone per… convincerli a non
parlare.”
“Capacità? Che intendi?
Stile medium, o roba simile?” esalai, sorpresa.
Voleva forse dire
questo?
Lui scosse il capo, indubbiamente
restio a proseguire. “No. Non esattamente.”
“Non capisco.” ammisi.
Cosa non voleva dirmi?
Mi fece un breve
sorriso di scuse, spiegandosi poi meglio.
“Ci sono persone… speciali… persone che non sono
licantropi, ma hanno affinità con noi e con il mondo degli Spiriti. Persone che
possono… plasmare i pensieri degli
altri, a volte anche degli umani, se hanno abbastanza potere. Una di queste
persone abita ad Aberdeen, e si chiama Kate Alexander.”
Aggrottai la fronte,
confusa, prima di borbottare: “Vuoi forse dirmi che è una… maga?”
“E’ una wicca” esalò lui alla fine, come se dire
quella parola lo turbasse.
Di sicuro turbò me.
Nel mio cervello in
subbuglio avvertii un clack
improvviso, come di una serratura aperta di colpo.
In un attimo fuggevole
come un respiro, sentii la voce flebile di mia nonna rivolgersi a mio padre, ed
esclamare: “Nessuna wicca può cadere in mano loro. Devi portarle
via!”
Il pensiero venne e
passò come una folata di vento, lasciando dietro di sé il profumo di mia nonna
e una miriade di dubbi non risolti.
Scossi il capo,
indecisa su cosa chiedere e Duncan, sfiorandomi la spalla con una mano, mi chiese
preoccupato: “Tutto bene?”
Ancora quel calore
dilagante che si propagava dalla sua mano a ogni centimetro del mio corpo.
Ancora quel senso di
soverchiante morbidezza, come se le sue parole fossero velluto caldo e
avvolgente.
Sospirai, passandomi le
mani sulle braccia e, sovrappensiero, sussurrai: “E’ così caldo.”
La sensazione scomparve
immediatamente, lasciando al suo posto lo sguardo incredulo di Duncan e la sua
bocca leggermente spalancata, quasi volesse parlare ma gliene mancasse la
volontà,… o il coraggio.
Lo fissai preoccupata,
non sapendo bene cosa aspettarmi da quell’espressione e lui, come
costringendosi a calmarsi, prese un gran respiro e mormorò: “Puoi dirmi come si
chiamava tua madre?”
La domanda mi spiazzò.
E con essa tornò la
calma.
“Elizabeth McKenna,
perché?” asserii senza esitazioni.
Fu come veder
accendersi una lampadina nei suoi occhi.
Un lento sorriso sorse
sul suo volto, e qualcosa di molto simile all’orgoglio balenò su ogni
centimetro visibile della sua pelle abbronzata, tanto da farmi temere che fosse
impazzito di colpo.
Che avevo detto di così
eccitante da meritare una reazione tanto spropositata?
La sentivo persino
sulla pelle, quella sua gioia sempre più evidente.
Era come essere immersa
nel cioccolato fuso.
“Ma che diavolo…?”
sbottai, guardandomi infastidita.
I miei nervi stavano
impazzendo, per lanciarmi dei segnali così strani e contraddittori?
Il suo sorriso si
allargò e, battendosi una mano sulla gamba, eccitato, mi domandò: “Posso
chiederti cosa ti ha portato da me?”
Accigliata – il suo
comportamento eccessivamente allegro stava cominciando a darmi sui nervi –
borbottai: “Ho avuto un incubo che mi ha svegliata… a quel punto, ho sentito i
pick-up e sono corsa alla finestra per curiosare in cortile.”
Rimuginai attentamente,
cercando di non tralasciare nulla, dopodiché proseguii nel raccondo.
“Lì, ho visto che
stavano portando un animale nella cantina. Te, a questo punto. Così sono scesa
a dare un’occhiata. Io sono un’ambientalista convinta, e non amo l’hobby di
Patrick… beh, insomma, quello che pensavo
fosse il suo hobby. Sapendo a cosa
da la caccia, semplicemente lo detesto con tutta me stessa, adesso.”
Quel commento gli fece
molto piacere, ma non lo distolse dal suo terzo grado, perché proseguì con le
sue domande apparentemente assurde.
“Che incubo era?”
Sbuffando, gesticolai
con le mani e mugugnai: “Urla… e sangue.”
Non appena lo dissi, la
mia mente venne letteralmente invasa da flash di immagini, sempre più veloci,
sempre più violente.
Come se la mia memoria
avesse deciso di collaborare solo su richiesta di Duncan, rammentai esattamente
quello che avevo visto durante l’incubo che mi aveva spinto a svegliarmi.
Impallidii e mi portai
le mani al viso, come a voler cancellare quelle immagini tremende, ma ormai il
mio personale filmino mentale era iniziato, e non esisteva un tasto per lo
stop.
Le mie labbra tremanti
lasciarono fuoriuscire parole sconnesse che sapevano di paura, di dolore e di
morte.
Duncan, da allegro che
era, divenne dapprima serio e poi furioso.
Mi morsi un labbro,
prima di balbettare: “C’era talmente tanto sangue, talmente tanta … paura… non
potevo sopportarlo. Non potevo.”
Duncan mi riscosse
scrollandomi leggermente con una mano, cancellando di colpo l’incubo a occhi
aperti che stavo vivendo.
Rilassai gradatamente i
muscoli, mentre il mio respiro tornava a livelli regolari e lui, fissandomi con
espressione più che seria, sentenziò: “Sei wicca.
Ora ne sono più che sicuro.”
Ancora quella parola.
“Che cosa?!” esalai
sconvolta.
Il solo sentirla mi
fece accapponare la pelle e Duncan, notando la mia reazione, aggiunse lesto:
“Non avere paura… non è una cosa negativa.”
“Come… come puoi
dirlo?” gracchiai, gli occhi sgranati per l’ansia.
Il respiro tornò a
farsi ansante, irregolare.
Il cuore mi rombava
nelle vene gonfie di sangue mentre il mio cervello, solitamente iperattivo,
sembrava essere andato in tilt.
Mi era precluso
qualsiasi tipo di ragionamento, più o meno facile che fosse. Neanche mi
avessero riempito di novocaina la materia grigia.
Duncan mi prese il viso
tra le mani cercando un contatto visivo con me e, con voce bassa e roca, mormorò
suadente: “Le wiccan erano mistiche
in grado di creare un’unione tra umano e divino, tra gli Spiriti della Terra e
il potere della luna, da cui tutti noi traiamo forza. Esse erano, e sono,
nostre guide spirituali e consigliere fedeli, le uniche umane di cui ci siamo
sempre senza timore alcuno. Sono sempre state creature benefiche, non maligne.
E lo sono tutt’ora, per lo meno le poche che ancora sopravvivono.”
I suoi occhi smeraldini
tennero in trappola i miei, finché il mio cuore non tornò alla normalità.
Quando ritenne che
fossi abbastanza tranquilla, lasciarono la presa, liberandomi dalla loro
stretta ipnotica.
Le pupille leggermente
dilatate e l’aria vagamente spaesata, riuscii comunque a dire: “Cosa… te lo fa…
pensare?”
“Innanzitutto, il nome.
Tra le donne dei McKenna, è sempre stata presente una stirpe di wiccan. Secondariamente, il tuo incubo.
Hai sognato l’evento che mi ha condotto da te. E, non da ultimo, le tue
reazioni” mi spiegò cheto, sorridendomi gentilmente
“Le mie… reazioni?”
ripetei, ampiamente confusa.
Cosa intendeva dire?
Che ero un fenomeno da baraccone?
Dio, sapevo di non
essere propriamente la classica teen-ager ma, da lì a essere una, …come l’aveva
chiamata, lui? Una mistica? Beh, ce ne correva davvero molto!
Annuì, spiegandomi i
motivi che l’avevano portato a quell’intuizione.
“Ho notato che ti sei
sfregata spesso le braccia mentre ti guardavi intorno confusa, quasi avessi
prurito su tutto il corpo, o sensazioni simili.”
Impallidii leggermente.
“Beh, non fa specie,
visto che le wiccan possono avvertire
in maniera sensoriale le nostre emozioni” aggiunse Duncan, come se nulla fosse.
A quel punto dovetti
essere diventata cinerea in viso, perché Duncan mutò espressione ed esclamò:
“Brianna, respira, sei pallidissima!”
Presi un gran respiro, come
ordinatori da lui e, sentendomi quasi esplodere il cuore in petto quando il
sangue venne nuovamente pompato nelle mie arterie, esalai: “Cosa sarei? Una
strega?!”
“No, Brianna, no… non
vederla in questo modo” scosse il capo con veemenza, cercando le mie mani.
Dopo averle strette tra
le sue, calde e protettive, mi massaggiò i polsi con i pollici con movimenti
lenti e circolari. Ipnotici come lo erano stati i suoi occhi.
L’iniziale terrore
prese a scemare e mi calmai progressivamente, riuscendo persino a chiedere con
voce quasi umana: “Allora, cosa sarei?”
“Per me, un dono del
cielo” mi disse per tutta risposta, continuando con il suo massaggio
tranquillizzante. “Più in generale, il termine wicca significa ‘saggia’. Quindi non ha connotazioni negative. Penso
saprai che, negli ultimi decenni, il
culto della Wicca è risorto, e che molti lo seguono devoti… ma tutto questo non
ha a che fare con ciò che tu sei, se non a un livello puramente teorico. Sia i
cultori della Wicca che tu stessa, seguite la Madre Terra, ma le similitudini
finiscono lì. L’essere una wicca, per
te, significa ben altro.”
Non badai gran che a
tutta la sua spiegazione.
L’unica parte che mi
rimase impressa nella mente, e che servì a calmare il mio cervello ai limiti
del red out, furono le sue prime
parole.
Per
me, sei un dono del cielo.
______________________________________
1: Red out: espressione usata solitamente in aviazione. E’ lo stato fisico in cui il cervello risulta in assenza di ossigeno, (spesso dovuto alla forza G e anti-G del volo acrobatico sugli aerei) perdendo così conoscenza.