2
Mi guardai intorno
freneticamente, l’adrenalina che fluiva nel mio sangue simile a combustibile
infiammabile.
Mi dava la forza
necessaria per non crollare in preda al panico, ma non sapevo per quanto
sarebbe durata.
Sentivo già strisciarlo
sulla mia schiena, come un serpente gelido e pronto a mordere.
Duncan, addossato a me
e ansimante, mi scrutò con occhi incupiti dal dolore.
Non potendo proseguire,
senza il rischio di vederlo crollare a terra in tutto il suo metro e novanta
circa di altezza, mi fermai, esalando in preda all’ansia: “Basta! Qui va bene.
Ora stendo il sacco a pelo e ti ci siedi sopra.”
Lui annuì, troppo
stordito anche solo per parlare mentre le mie mani, muovendosi il più
velocemente possibile, stesero a terra il sacco a pelo, sprimacciandolo più e
più volte.
Con dita tremanti,
aprii la cassetta del pronto soccorso che tenevo nel mio zaino ed estrassi
alcune salviettine detergenti per disinfettarmi, prima di iniziare il lavoro
vero e proprio.
Una volta fatto questo,
indossai i guanti sterili e ripulii dal sangue la pelle di Duncan, sentendogli
dire con tono ansante: “Devi… devi togliere…il proiettile…”
Lo sapevo, dannazione,
ma non ero certa di avere il coraggio di tagliuzzarlo mentre lui era ancora
cosciente.
Avevo sentito Mary B
parlare dei suoi interventi mille e mille volte.
Affascinata da ciò che
era in grado di fare con bisturi e filo, non mi ero mai persa le sue
spiegazioni mentre, tra un commento e l’altro, sorseggiavamo the o mangiavamo
pasticcini.
Ma ora che ero io a dover operare, la cosa non mi
emozionava più. Tutt’altro. Ne ero terrorizzata.
“Non ho antidolorifici tali da permetterti di
non sentire l’incisione che dovrò farti” precisai, allungando le mani verso la
sua schiena, tastandola con dita tremanti per individuare il proiettile.
Lo schifoso era proprio
sottopelle, lo potevo sentire senza problemi.
“Non… funzionano… non
hanno effetto… su di noi” sussurrò
lui, ansimando con forza.
Lo fissai sconvolta –
era pazzo, forse? Come, non facevano effetto? – prima di concentrarmi sul suo
aspetto emaciato.
Era pericolosamente
pallido e il suo rantolo non mi piaceva affatto.
In poco meno di
mezz’ora era peggiorato tantissimo, e non avevo idea di quanto avrebbe potuto
resistere ancora.
Dovevo sbrigarmi, indipendentemente
da tutte le sciocchezze che mi stava propinando.
“Quindi, se anche ti
dessi un quintale di novocaina, non ti farebbe nulla?” gli chiesi, cercando il
mio coltellino svizzero nella tasca interna dello zaino.
Ma dove diavolo era?!
“Esatto” annuì,
chiudendo un momento gli occhi prima di riaprirli a fatica e aggiungere: “Sento
la tua paura. Ma non devi aver timore di farmi male.”
Ottimo,
mi fiuta pure? Ma chi diavolo è?, pensai contrariata e
confusa.
Evidentemente, la mia
faccia doveva essere un libro aperto sulle mie emozioni sconclusionate.
Altrimenti, come
avrebbe potuto capire che ero letteralmente terrorizzata all’idea di mettergli
le mani addosso?
Deglutii a fatica e mugugnai:
“Senti, devo inciderti con il mio coltellino, il che non è il massimo. Ma non
potevo andare a svaligiare la borsa di Mary B, o se ne sarebbe accorta.”
“E’ un medico?” mi domandò,
accennando un mezzo sorriso.
“Sì. E vorrei
diventarlo anch’io. Mi sono iscritta al primo anno di Immunologia, alla UCL di
Londra, e dovrei iniziare a ottobre” farfugliai nervosamente mentre
disinfettavo la lama con l’ennesima salviettina antibatterica. Parlare a ruota
libera mi aiutava a non pensare a quello che, entro breve, avrei dovuto fare.
“Allora… sarò… il tuo
primo… paziente” cercò di ironizzare,prima di aggrottare la fronte.
“Ti fa male?”
sussurrai, mettendo mano alla sua spalla per tenerlo fermo.
Lui scrollò debolmente
le spalle, prima che una smorfia di dolore alterasse i suoi lineamenti perfetti.
Preso un gran respiro,
mi apprestai a incidere.
La lama lacerò la pelle,
affondando nella carne senza problemi.
Parve non provocare
alcun dolore a Duncan che, immobile, sopportò stoicamente senza battere ciglio.
Quella ad avere dei
problemi, in quel momento, ero io.
A quanto pareva,
l’adrenalina era finita, e il mio corpo cominciava a risentire della vista del
sangue e della carne viva, esposta al mio sguardo allucinato.
Come se fossero state
le mie stesse dita a perforare la pelle, percepii distintamente la viscida
parete di carne sanguinante esposta all’aria e la morbidezza dei fluidi
corporei, che stavano scivolando fuori da essa.
Fu quasi troppo, per
me.
Da quando, ero
diventata così sensibile a ciò che vedevo? O era solo il panico?
Mi morsi a sangue un
labbro, sperando che il dolore provato mi allontanasse da quelle sensazioni fin
troppo violente e che, a stento, riuscivo a comprendere.
Duncan, sorpreso,
sussurrò: “Ti sei fatta male?”
“N-no, perché?”
balbettai, quasi tremando. Che intendeva dire?
“Sento odore di sangue”
mi informò.
“Ovvio” sbottai,
posando a terra il coltello per prendere una pinzetta, con l’intenzione di
estrarre il proiettile.
Lui accennò una
risatina e precisò: “Non il mio… il tuo.
Riconosco la differenza.”
Ah, bene! Perfetto!
Voleva anche fare dell’ironia?!
Perché continuava con
quella storia della licantropia? Perché voleva convincermi a tutti i costi di
essere un uomo lupo?
Eppure,
questo spiegherebbe tutto!, ribatté quella perfida
parte di me che ancora credeva alle streghe e ai folletti.
Taci,
me stessa! Ne riparleremo dopo!, rispose per contro la
mia parte obiettiva e logica, desiderosa di averla vinta sull’altra Me.
Sperai la smettessero
alla svelta di litigare. In quel momento, dovevo rimanere concentrata, e non
assistere a un incontro di catch all’interno della mia testa.
Con la mano tremante
bloccata a pochi centimetri dalla spalla insanguinata di Duncan, ansai
nervosamente: “Cristo,… non so se ci riesco.”
“Devi. O morirò entro le prossime dodici ore. Il mio corpo comincerà
ad assimilare dentro di sé il proiettile e, a quel punto, l’argento farà il
resto” mi spiegò, crudo e lapidario.
Un pugno in piena
faccia avrebbe fatto meno male.
“Come… assimilare?!” esalai, afferrando con la
mano libera il polso malfermo nel chiaro intento di bloccare il mio tremore
convulso.
Duncan sospirò e aggiunse
con minore enfasi: “Guariamo in fretta e, se avessi dell’argento dentro di me
durante la fase di guarigione, io…”
“Non. E’. Possibile” gracchiai,
stridula. Era davvero folle!
“Devi credermi. Non ti sto raccontando fandonie. So che è una
situazione tremenda, e che tutto ciò che ti sto dicendo ti sembrerà assurdo, ma
è la pura e semplice verità. Chiediti solo una cosa: perché il tuo patrigno mi
teneva in una gabbia ricoperta d’argento, e legato con catene dello stesso
materiale? Chieditelo!”
Era assurdo, totalmente
fuori dalla norma, eppure… avevo pur visto i suoi occhi cambiare colore.
E quelle sensazioni…
quello sguardo che sembrava nascondere molto
altro.
La mia parte razionale
urlava di non credergli, di estrarre il proiettile e poi fuggire a gambe levate
da quel pazzo furioso.
L’altra, del resto…
quella sognatrice, quella che per anni avevo soffocato dietro un muro di
silenzi, mi pregò di concedere il beneficio del dubbio a quell’uomo.
Prima
di tutto, sii solerte con il prossimo, bambina mia. Non puoi mai sapere cosa
potrebbe capitarti nella vita, ed essere gentili e disponibili può portare solo
del bene.
Perché le parole di mia
nonna mi rimbalzarono nel cervello, e proprio in quel momento? Perché?
Guardai la mano che
teneva la pinzetta, sinistramente scintillante sotto i raggi del sole, e il
sangue scarlatto della ferita che, incessante, continuava a fuoriuscire dalle
sue carni.
Annuendo debolmente tra
me, ringhiai: “Al diavolo. Va bene.”
“Grazie… non so …
davvero come potrei fare, senza il tuo aiuto” mormorò, cercando di parlare
nonostante il dolore che stava provando.
Il sudore copioso su
tutto il suo corpo, così come i suoi ansiti strozzati, parlavano per lui.
Scossi il capo, prima
di darmi una sberla in faccia e sbottare con veemenza: “Forza, ragazza,
sveglia!”
“Mi spiace tanto”
sussurrò Duncan.
“Mica ti sarai fatto
sparare addosso di proposito, spero” celiai, tornando ad avvicinarmi alla sua
spalla.
Grida e sangue.
Un lampo dell’incubo
che mi aveva destata colpì la mia corteccia prefrontale come un colpo di gong, all’improvviso. Perché mi era
tornato alla mente?
“Non del tutto” buttò
lì Duncan, aggrottando la fronte. “Fai attenzione… di solito usano… usano
proiettili con ogive… piene di nitrato d’argento.”
“Cazzo!” mi sfuggì dalle
labbra, mentre sgranavo gli occhi per la sorpresa. “Ma che razza di armi
usano?!”
“Se sopravvivo, te lo
spiegherò” mi promise lui.
“Non morirai, questo te
lo assicuro. Non voglio cominciare così la mia esperienza medica” gli promisi,
aggrottando la fronte e imponendomi di darmi una calmata.
Dovevo solo pensare al
proiettile e alla pinza che lo avrebbe cinto per estrarlo dalla carne di
Duncan.
Già, una vera
passeggiata.
Respirai affannosamente,
quando il metallo della pinzetta scivolò all’interno del taglio che avevo
praticato col coltello.
Muovendomi cauta,
cercai a tentoni la capocchia del proiettile, finché non avvertii qualcosa all’estremità
della mia perlustrazione.
“Eccolo” sussurrai,
ormai senza voce per l’ansia che mi divorava il petto.
Duncan era immobile e
silenzioso, in attesa.
Un movimento sbagliato
e avrei potuto rompere l’ogiva, lasciando che il liquido argentato contaminasse
il suo sangue.
Beh, non dovevo
commettere errori, questo era sicuro.
Annuii tra me, mentre
la pinza prendeva possesso del proiettile e, con mano stranamente ferma,
cominciai a estrarlo, un millimetro alla volta.
L’immobilità di Duncan
poteva essere paragonata solo a quella di una statua.
Immaginai, comunque,
quanto dolore gli procurasse quel mio procedere così lentamente
nell’estrazione.
Quando riuscii
finalmente a vedere la capocchia dell’ogiva, il mio cuore si fermò un istante –
paura e gioia ballavano a braccetto dentro di me.
L’istante seguente
riprese iperattivo, pompando ora rabbia e dolore nel mio corpo.
Non potevo credere che
Patrick potesse aver sparato un proiettile simile, e a un altro essere umano.
Magari era stato
proprio lui a ferirlo, e questo mi fece stare ancora peggio.
Lo estrassi del tutto,
gettandolo lontano e con stizza, prima di applicare una pezzuola pulita sulla
ferita e mormorare con un sospiro tremulo: “Okay, sei a posto.”
Duncan prese un gran
respiro liberatorio e, voltando il capo verso di me per concedermi un sorriso, ansò
grato: “Davvero brava. I miei complimenti.”
Mi leccai nervosamente
le labbra, un tremore sempre crescente che mi invadeva le viscere e, con voce
gracchiante, domandai: “Ora che sei a posto, posso piangere?”
Mi guardò comprensivo,
mentre le prime lacrime solcavano le mie gote sicuramente pallide.
Nel volgersi un poco di
più, mi tolse di mano la pezzuola che tenevo contro la spalla, spiegandomi con
tono quasi spiacente: “La ferita si rimarginerà in pochi minuti, ora che
l’argento non è più nel mio corpo.”
Continuando a piangere
in silenzio, il cuore che lentamente stava svuotandosi di tutte le mie ansie e
i miei timori, annuii a più riprese, stordita.
Non ero del tutto certa
di aver capito appieno quanto mi aveva appena detto, concentrata com’ero stata
solo su quello che avevo fatto.
Nonostante i miei
incubi peggiori, ero riuscita a portare a termine l’operazione senza fare
danni.
Gli occhi lucidi di
lacrime, dopo qualche momento passato a guardare le mie mani tremanti,
tornarono a scrutare la spalla appena operata di Duncan.
Allibita, fissai la sua
magica guarigione – fu come osservare un documentario, in cui viene mostrata la
crescita di una pianta a velocità accelerata – mentre tutto, in me, sembrò
capovolgersi.
Stava guarendo realmente a una velocità pazzesca.
Era mai possibile che
tutto quello che mi aveva detto fosse vero?
Era veramente possibile che esistessero i
licantropi e che Patrick li cacciasse?
Certo, se tutto ciò
fosse stata la cruda realtà, si sarebbero spiegate molte cose.
Ma come credere,
nonostante lo spettacolo eccezionale a cui stavo assistendo a occhi sbarrati?
Duncan mi fissò
comprensivo, le mani ora rilasciate in grembo, mentre io continuavo a osservare
i lembi di pelle saldarsi millimetro dopo millimetro.
Stavano formando una
linea rosea e rigonfia di tessuto cicatriziale, guarendo letteramente dinanzi a
me.
Aprii e chiusi la bocca
diverse volte, indecisa su cosa dire, ma nulla sgorgò dalle mie labbra,
rinsecchite al pari della gola.
Ero basita di fronte a
quel, beh, miracolo era l’unica
parola che mi veniva in mente.
“Questo è parte di ciò
che sono. Puoi accettarlo?” mi chiese, sbirciandomi con i suoi occhi
smeraldini, quasi timoroso di spaventarmi.
Beh, ero ben oltre lo
spavento.
La parte analitica della
mia mente, stava lavorando febbrilmente per dare una spiegazione scientifica a
quel meraviglioso quanto unico processo di rigenerazione.
Il mio Io più
irrazionale, invece, stava letteralmente urlando dentro la mia testa: ‘ci ha trovati!’, ‘ci ha trovati!’.
Ma trovati, chi?
Dire che ero in
confusione, era un eufemismo. Una pallida imitazione della realtà.
Mai, nella vita, mi era
capitato di essere così in disaccordo, o in disarmonia, con me stessa e nel
contempo, di desiderare che tutte le mie rigide credenze finissero in un
cestino.
Volevo lasciare libero
spazio a ciò che di miracoloso, e incredibile, c’era nel mondo.
La razionale Brianna
soppiantata da quella creativa?
Beh, da quel che
sembrava stesse succedendo all’interno del mio cervello in subbuglio, sembrava
proprio esserci in atto un ammutinamento e, per qualche strano motivo, ne fui
lieta.
Preso il toro per le
corna, fissai perciò Duncan in viso e, deglutendo un paio di volte prima di
trovare il coraggio di parlare, esalai con voce gracchiante: “Non mi stavi
mentendo, allora, vero?”
“No.” Scosse
semplicemente il capo, senza aggiungere altro.
D’accordo. Era realmente un licantropo.
Io cosa dovevo fare,
allora? Scappare? Urlare? Svenire?
Cosa?!
“Ti sono debitore” aggiunse
poi all’improvviso, sorridendomi e spiazzandomi completamente.
C’era qualcosa di molto
formale, in quello che aveva appena detto.
Non si era limitato a
ringraziarmi; quel che era insito nelle sue parole aveva un significato più
profondo, come se quello che avevo appena fatto per lui lo avesse toccato
nell’animo.
“Mi mangerai?” riuscii
a dire, pur sentendomi un’idiota nel mettere a parole le mie paure.
Lui scoppiò in una
risata così bella che mi colse ancor più di sorpresa.
Come potevo aver paura
di un uomo che sapeva ridere così? Era impossibile.
Duncan si passò una
mano tra i capelli umidi di sudore, prima di tornare a guardarmi e rassicurarmi
col suo dire.
“Noi licantropi non ci
cibiamo di esseri umani e, meno che meno, io farei del male alla donna che mi
ha salvato senza timore del pericolo.”
Ancora quella
sensazione di pace, di tranquillità, come se la sua presenza fosse logica, accanto a me.
In effetti, non avevo
paura di lui, e cominciavo a familiarizzare con l’idea, di per sé assurda, che
lui fosse veramente un licantropo.
Tutto ciò andava oltre
l’immaginabile, eppure mi sembrava… giusto.
Dio solo sapeva il
perché. In ogni caso, risposi con un sorriso incerto e replicai: “Sono ancora
terrorizzata a morte, quindi eviterei di dire ‘senza timore del pericolo’,
perché non è realistico.”
Fattosi serio, Duncan ribadì
il suo dire.
“Ma tu sei stata coraggiosa, Brianna. Quante
altre persone si sarebbero fidate ciecamente di uno sconosciuto, e l’avrebbero
aiutato come hai fatto tu?”
Già, quante? Ben poche.
Forse nessuna.
Ma io mi ero sentita spinta ad aiutarlo e, forse, lui poteva
spiegarmi perché.
Scossi il capo,
confusa, e feci spallucce, incapace di dare una risposta alla sua ovvia
domanda.
“Dai pure la colpa al
fatto che sono una girl scout.”
Lui mi sorrise un
attimo, prima di accigliarsi e sentenziare: “Ora, però, sono restio a lasciarti
tornare a casa. Sicuramente, il tuo patrigno non impiegherà molto a comprendere
il tuo coinvolgimento nella mia fuga, e ti punirà.”
Mi irrigidii
all’istante, nel sentirlo parlare a quel modo e lui, addolcendo i tratti del
viso, si arrischiò a sfiorarmi una mano con la propria, aggiungendo: “Lungi da
me è l’idea di farti del male, Brianna. Non leverei mai un dito, contro di te.”
“Ma?” sussurrai,
incitandolo a proseguire.
La sua mano calda, che
sfiorava la mia solo con la punta delle dita, sembrava emanare una specie di
corrente elettrica a basso voltaggio.
Era come se avessi
avvicinato la mano a un oggetto elettrificato, e sentissi la pelle sfrigolare
leggermente al contatto con l’energia statica.
Lui sospirò, ritirando
la mano ma non annullando di fatto la sensazione di prurito, che si estese a
tutto il mio corpo, dandomi l’impressione di essere accarezzata da morbide
piume.
Ma che mi succedeva?!
Volgendo lo sguardo a
scrutare le coltri di rami e foglie, che inibivano in parte la visuale del
cielo terso del mattino, Duncan mormorò roco: “Temo per la tua incolumità, e
non vorrei mai che Patrick usasse te per giungere a me. Non ti ripagherei mai
così, dandoti in mano a un potenziale assassino.”
Nel sentire quella
parola, assassino, rabbrividii e, con
la mente, tornai alla visione di lui chiuso in gabbia, completamente nudo e in
catene.
Sul momento avevo
preferito non pormi troppe domande ma lì, sola con Duncan, e messa di fronte ai
suoi timori più che fondati, non potei esimermi dal chiedergli: “Volevano
davvero… ucciderti?”
Annuì, il volto
indurito da ricordi che preferivo non conoscere in quel momento.
“Mi hai chiesto dei
Cacciatori. Non sono le classiche persone dotate di licenza di caccia, come tu
avrai già capito. Noi chiamiamo così le persone che cacciano noi.”
“Ma… ma è…” tentennai,
mordendomi un labbro, indecisa se proseguire o meno.
Ci pensò Duncan a
mettere a parole i miei dubbi.
“Illegale? Certo che lo
è. Per il bel mondo, noi siamo comuni esseri umani, visto che ne abbiamo le
sembianze. Ma i Cacciatori sanno bene
cosa siamo in realtà. E se ne infischiano delle regole vigenti.”
“Quindi…cacciano i…i…?”
borbottai, non riuscendo ancora a dire quella benedetta parola, pur sapendo che
era la sola risposta alle mie domande.
Accettarlo mentalmente era un conto, metterlo a parole,
a quanto pareva, era più difficile.
Ma non potevo essere un
po’ meno con i piedi per terra?!
Duncan mi sorrise
comprensivo, forse intuendo le mie difficoltà, forse percependo la mia ansia.
Non sembrava comunque
impaziente di sentirmi enunciare l’ovvio – si fa per dire – perciò, preso un
bel respiro, mi fissò attento prima di parlare per me.
“Sì, Brianna. I
licantropi. Nel vero senso della parola. Siamo sudditi devoti della Luna, figli
della Madre Terra e legati a Lei a doppio filo, molto più di quanto i
Cacciatori stessi non immaginino.”
Sbattei le palpebre
diverse volte mentre, stralunata, osservavo quel volto abbronzato e dai
lineamenti decisi, immaginando un lupo dietro quelle sembianze umane.
Un’ombra pallida
scivolò nella mia mente, un altro residuo dell’incubo e, con esso, avvertii
calore, morbidezza e… familiarità.
Perché?
La sensazione di
formicolio tornò, quando lui aggiunse con voce dura: “Loro ci cacciano fin da
quando il primo uomo venne a conoscenza della nostra esistenza. Ed è una lotta
che non avrà mai fine. Mai! Per questo, non posso lasciarti tornare a casa.
Sarebbe troppo rischioso per te, e io non permetterò che tu corra dei rischi.”
Okay. Una creatura
suddita della luna. Un mito ancestrale. Beh, non tanto, a quanto pareva.
Forse potevo farcela.
Dopotutto, era fatto di carne e sangue, e poteva rimanere ferito o morire, da
quel poco che avevo visto. Non era poi così
diverso da noi.
Non era tanto difficile
da comprendere.
Poggiai entrambe le
mani sul petto, come a voler trattenere il mio cuore palpitante e, preso un
gran respiro, protestai debolmente: “Patrick non arriverebbe a farmi del male.”
“Quanto ne sei certa?”
replicò Duncan, alzandosi in piedi e passeggiando nervosamente dinanzi a me.
Il formicolio aumentò,
tanto da costringermi a massaggiare le braccia per il fastidio. Perché
continuavo a percepire quelle strane sensazioni? Non avevo toccato erbe
urticanti, perciò, che diavolo mi stava accadendo?
Bloccandosi a metà di
un passo, quando mi vide massaggiare le braccia con una frenesia quasi assurda,
sollevò un sopracciglio con aria evidentemente sorpresa.
I suoi occhi, attenti e
meditabondi, intensificarono la loro analisi e, per un istante, desiderai
schiaffeggiarlo. Perché mi guardava a quel modo?
Come se si fosse stato
spento un interruttore, il formicolio cessò.
Che i miei recettori
sensoriali fossero fuori uso, a causa dello spavento preso e delle novità che
stavo assimilando in quel momento? Difficile dirlo.
Duncan, comunque, aveva
smesso di fissarmi, il che fu un bene per entrambi.
Più tranquilla – ora
che il formicolio era passato, ero in grado di ragionare più agevolmente – ammisi:
“Non lo so… ammetto che non lo so.”
“Allora non tornerai a
casa” sentenziò, perentorio.
Quel tono sferzante mi
fece accigliare all’istante e, alzandomi a mia volta – certo, non ero
abbastanza alta per apparire minacciosa – replicai rigidamente: “Non sei nella
posizione di impormi nulla.”
“Sento il dovere di
proteggerti, per cui non ti lascerò andare. Anche se mi spiace intromettermi
così nella tua vita, non vedo altre soluzioni” ribatté, fronteggiandomi e
guardandomi dall’alto in basso con aria arcigna.
Sì, lui faceva
sicuramente più paura di me.
Mi guardai intorno
smarrita, osservando in lontananza la piccola sagoma della mia auto e,
arrampicandomi sugli specchi, brontolai: “Non posso venire con te. Non appena
Patrick scoprirà che non ci sono, chiamerà la polizia per segnalare la targa
della mia auto, e noi saremo spacciati.”
“Non andremo via in
auto” ci tenne a precisare, rabbonendo lo sguardo e fissandomi con aria spiacente.
“Come?!” esclamai basita,
prima di notare un bagliore sinistro nei suoi occhi.
Aggrottai la fronte,
subodorando guai, prima di intimargli: “Specifica chiaramente cosa stai tramando.”
Duncan lanciò uno
sguardo all’auto con cui avevamo raggiunto il boschetto e, sospirando, ammise:
“Mi spiace, ma dovrà finire nel bacino idrico. Non devono trovare tracce, o
potremmo trovarceli alle spalle prima di essere abbastanza distanti da loro.”
Finire. Nel. Bacino.
Erano tre parole che
non mi piacevano per niente. E glielo dissi con veemenza.
Duncan si scusò
nuovamente, ma fu irremovibile.
Io sarei andata con lui
– dove, ancora dovevo scoprirlo – e la macchina sarebbe dovuta sparire. Un
disastro dietro l’altro, insomma.
D’accordo aiutarlo. Non
avrei mai permesso a nessuno, tantomeno a Patrick, di fare del male a Duncan,
sebbene non lo conoscessi.
D’accordo salvargli la
vita. Avrei rifatto altre mille volte quell’incisione, a costo di farmi venire
un infarto per la paura, pur di togliere quel proiettile killer.
Ma d’accordo scappare?
Ero pronta? Lo volevo realmente?
Fu a quel punto che
Duncan mi prese per le spalle e, abbassandosi quel tanto che gli bastò per
fissarmi negli occhi, mi confidò: “Avrai tutta la protezione del branco,
Brianna. Con noi non sarai in pericolo e, quando riterrò che le acque si siano
calmate a sufficienza per permetterti un rientro in totale sicurezza, allora
potrai tornare a casa.”
Non mi sembrava di
avere molte carte a mio favore, da mettere sul tavolo.
Quel che stava dicendo
Duncan era vero.
Non potevo sapere come
l’avrebbe presa Patrick, o peggio, la sua cricca di amici.
Avrebbero potuto
davvero usarmi per giungere a Duncan che, mosso dal senso di colpa, si sarebbe
smascherato per salvarmi.
Non potevo permettermi
di rischiare, specialmente dopo aver scoperto quale fosse l’hobby di Patrick.
Niente vietava che lui
riversasse su di me la sua collera anche in maniera più che violenta, visto
quanto avevo fatto.
Era tutto
maledettamente giusto, eppure… eppure i miei piedi non volevano muoversi di un
millimetro.
C’era una persona
troppo importante che mi impediva di allontanarmi.
Al confronto, la mia
sicurezza e la mia salvaguardia non contavano nulla, se paragonate a lui.
Come potevo fargli
questo?
Mary B era buona e
gentile, la persona migliore che avremmo mai potuto sperare di trovare, dopo
ciò che era successo ai nostri genitori ma… Dio, come potevo pensare di
lasciare Gordon?
E senza alcuna
spiegazione, per giunta?
Duncan parve capirlo
perché addolcì i tratti del volto e, sfiorandomi la guancia con una mano, la carezzò
debolmente, comprensivo.
“Non preoccuparti per
tuo fratello. Non appena avremo raggiunto casa mia, potrai metterti in contatto
con lui per rassicurarlo.”
Quella frase mi
rincuorò non poco.
Fu come se un enorme
peso mi venisse tolto dalle spalle, accompagnato da una strana sensazione di
piacere, come se qualcuno mi stesse nuovamente carezzando con mille piume
morbidissime.
Preferii non analizzare
troppo sui motivi di quel piacere – ero troppo stanca fisicamente, e
psicologicamente, per potermi permettere un tale esercizio mentale.
Mi limitai a godere di quelle
sensazioni, sperando che non scomparissero troppo velocemente.
Era bello, per qualche
attimo, essere cullati da quella calda piacevolezza, anche se non avevo la
minima idea di dove provenisse.
Fiorì un sorriso sulle
mie labbra, mentre la sensazione di piacere svaniva come un alito di vento
scivolato tra le fronde.
Duncan, a quel punto,
si raddrizzò e mi informò circa le sue intenzioni.
“Vado a sistemare
l’auto. E’ meglio se non guardi.”
“Dalle un bacio da
parte mia” esalai, reclinando il viso e sospirando in maniera melodrammatica.
Lui sbatté le palpebre
diverse volte, prima di ridacchiare e scuotere il capo.
Si incamminò poi verso
la mia Mini Minor che, entro breve, avrebbe esalato il suo ultimo respiro
affondando inesorabilmente nel bacino idrico.
Per distrarmi – la sola
idea di vederla sprofondare mi inorridiva – cominciai a ripiegare il sacco a
pelo ma, non appena udii lo sciabordio violento dell’acqua, mi volsi sorpresa.
A occhi sgranati,
fissai Duncan tornare a passo tranquillo, come se nulla fosse successo.
“Aspetta solo un
dannatissimo momento! Non hai acceso il motore, l’avrei sentito! Eppure…
eppure…”
Come diavolo era
riuscito a farla finire in acqua in pochi istanti? Non era possibile! A meno
che…
Impallidii leggermente,
mentre lui mi fissava sempre più spiacente, e sbottai.
“Quanto sei forte!?”
“Meglio che non te lo
dica ora” affermò, afferrando il mio zaino per aiutarmi a indossarlo.
Prima la guarigione
miracolosa, e ora la forza sovrumana.
Quanto c’era di vero,
nelle leggende? E potevo definirle ancora tali, a quel punto?
“Andiamo?” mi chiese,
fissandomi speranzoso.
Mi guardai indietro
un’ultima volta, pensando a quanta gente si sarebbe preoccupata per me, a quanti
guai sarebbero sorti.
Immaginando, però, cosa
avrebbe potuto farmi Patrick per recuperare Duncan, mi decisi e, annuendo
convinta, sentenziai: “Andiamo pure.”
E che io fossi dannata
se avevo idea di cosa sarebbe successo dopo.
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N.d.A. Spero di non aver sconvolto nessuno, con la scena dell'estrazione del proiettile, ma era importante per dare i primi indizi di ciò che sta avvenendo a Brianna. Per un po', niente scene truculente, promesso. :)