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Autore: Mary P_Stark    09/07/2012    6 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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Mi guardai intorno freneticamente, l’adrenalina che fluiva nel mio sangue simile a combustibile infiammabile.

Mi dava la forza necessaria per non crollare in preda al panico, ma non sapevo per quanto sarebbe durata.

Sentivo già strisciarlo sulla mia schiena, come un serpente gelido e pronto a mordere.

Duncan, addossato a me e ansimante, mi scrutò con occhi incupiti dal dolore.

Non potendo proseguire, senza il rischio di vederlo crollare a terra in tutto il suo metro e novanta circa di altezza, mi fermai, esalando in preda all’ansia: “Basta! Qui va bene. Ora stendo il sacco a pelo e ti ci siedi sopra.”

Lui annuì, troppo stordito anche solo per parlare mentre le mie mani, muovendosi il più velocemente possibile, stesero a terra il sacco a pelo, sprimacciandolo più e più volte.

Con dita tremanti, aprii la cassetta del pronto soccorso che tenevo nel mio zaino ed estrassi alcune salviettine detergenti per disinfettarmi, prima di iniziare il lavoro vero e proprio.

Una volta fatto questo, indossai i guanti sterili e ripulii dal sangue la pelle di Duncan, sentendogli dire con tono ansante: “Devi… devi togliere…il proiettile…”

Lo sapevo, dannazione, ma non ero certa di avere il coraggio di tagliuzzarlo mentre lui era ancora cosciente.

Avevo sentito Mary B parlare dei suoi interventi mille e mille volte.

Affascinata da ciò che era in grado di fare con bisturi e filo, non mi ero mai persa le sue spiegazioni mentre, tra un commento e l’altro, sorseggiavamo the o mangiavamo pasticcini.

Ma ora che ero io a dover operare, la cosa non mi emozionava più. Tutt’altro. Ne ero terrorizzata.

 “Non ho antidolorifici tali da permetterti di non sentire l’incisione che dovrò farti” precisai, allungando le mani verso la sua schiena, tastandola con dita tremanti per individuare il proiettile.

Lo schifoso era proprio sottopelle, lo potevo sentire senza problemi.

“Non… funzionano… non hanno effetto… su di noi” sussurrò lui, ansimando con forza.

Lo fissai sconvolta – era pazzo, forse? Come, non facevano effetto? – prima di concentrarmi sul suo aspetto emaciato.

Era pericolosamente pallido e il suo rantolo non mi piaceva affatto.

In poco meno di mezz’ora era peggiorato tantissimo, e non avevo idea di quanto avrebbe potuto resistere ancora.

Dovevo sbrigarmi, indipendentemente da tutte le sciocchezze che mi stava propinando.

“Quindi, se anche ti dessi un quintale di novocaina, non ti farebbe nulla?” gli chiesi, cercando il mio coltellino svizzero nella tasca interna dello zaino.

Ma dove diavolo era?!

“Esatto” annuì, chiudendo un momento gli occhi prima di riaprirli a fatica e aggiungere: “Sento la tua paura. Ma non devi aver timore di farmi male.”

Ottimo, mi fiuta pure? Ma chi diavolo è?, pensai contrariata e confusa.

Evidentemente, la mia faccia doveva essere un libro aperto sulle mie emozioni sconclusionate.

Altrimenti, come avrebbe potuto capire che ero letteralmente terrorizzata all’idea di mettergli le mani addosso?

Deglutii a fatica e mugugnai: “Senti, devo inciderti con il mio coltellino, il che non è il massimo. Ma non potevo andare a svaligiare la borsa di Mary B, o se ne sarebbe accorta.”

“E’ un medico?” mi domandò, accennando un mezzo sorriso.

“Sì. E vorrei diventarlo anch’io. Mi sono iscritta al primo anno di Immunologia, alla UCL di Londra, e dovrei iniziare a ottobre” farfugliai nervosamente mentre disinfettavo la lama con l’ennesima salviettina antibatterica. Parlare a ruota libera mi aiutava a non pensare a quello che, entro breve, avrei dovuto fare.

“Allora… sarò… il tuo primo… paziente” cercò di ironizzare,prima di aggrottare la fronte.

“Ti fa male?” sussurrai, mettendo mano alla sua spalla per tenerlo fermo.

Lui scrollò debolmente le spalle, prima che una smorfia di dolore alterasse i suoi lineamenti perfetti.

Preso un gran respiro, mi apprestai a incidere.

La lama lacerò la pelle, affondando nella carne senza problemi.

Parve non provocare alcun dolore a Duncan che, immobile, sopportò stoicamente senza battere ciglio.

Quella ad avere dei problemi, in quel momento, ero io.

A quanto pareva, l’adrenalina era finita, e il mio corpo cominciava a risentire della vista del sangue e della carne viva, esposta al mio sguardo allucinato.

Come se fossero state le mie stesse dita a perforare la pelle, percepii distintamente la viscida parete di carne sanguinante esposta all’aria e la morbidezza dei fluidi corporei, che stavano scivolando fuori da essa.

Fu quasi troppo, per me.

Da quando, ero diventata così sensibile a ciò che vedevo? O era solo il panico?

Mi morsi a sangue un labbro, sperando che il dolore provato mi allontanasse da quelle sensazioni fin troppo violente e che, a stento, riuscivo a comprendere.

Duncan, sorpreso, sussurrò: “Ti sei fatta male?”

“N-no, perché?” balbettai, quasi tremando. Che intendeva dire?

“Sento odore di sangue” mi informò.

“Ovvio” sbottai, posando a terra il coltello per prendere una pinzetta, con l’intenzione di estrarre il proiettile.

Lui accennò una risatina e precisò: “Non il mio… il tuo. Riconosco la differenza.”

Ah, bene! Perfetto! Voleva anche fare dell’ironia?!

Perché continuava con quella storia della licantropia? Perché voleva convincermi a tutti i costi di essere un uomo lupo?

Eppure, questo spiegherebbe tutto!, ribatté quella perfida parte di me che ancora credeva alle streghe e ai folletti.

Taci, me stessa! Ne riparleremo dopo!, rispose per contro la mia parte obiettiva e logica, desiderosa di averla vinta sull’altra Me.

Sperai la smettessero alla svelta di litigare. In quel momento, dovevo rimanere concentrata, e non assistere a un incontro di catch all’interno della mia testa.

Con la mano tremante bloccata a pochi centimetri dalla spalla insanguinata di Duncan, ansai nervosamente: “Cristo,… non so se ci riesco.”

Devi. O morirò entro le prossime dodici ore. Il mio corpo comincerà ad assimilare dentro di sé il proiettile e, a quel punto, l’argento farà il resto” mi spiegò, crudo e lapidario.

Un pugno in piena faccia avrebbe fatto meno male.

“Come… assimilare?!” esalai, afferrando con la mano libera il polso malfermo nel chiaro intento di bloccare il mio tremore convulso.

Duncan sospirò e aggiunse con minore enfasi: “Guariamo in fretta e, se avessi dell’argento dentro di me durante la fase di guarigione, io…”

“Non. E’. Possibile” gracchiai, stridula. Era davvero folle!

Devi credermi. Non ti sto raccontando fandonie. So che è una situazione tremenda, e che tutto ciò che ti sto dicendo ti sembrerà assurdo, ma è la pura e semplice verità. Chiediti solo una cosa: perché il tuo patrigno mi teneva in una gabbia ricoperta d’argento, e legato con catene dello stesso materiale? Chieditelo!”

Era assurdo, totalmente fuori dalla norma, eppure… avevo pur visto i suoi occhi cambiare colore.

E quelle sensazioni… quello sguardo che sembrava nascondere molto altro.

La mia parte razionale urlava di non credergli, di estrarre il proiettile e poi fuggire a gambe levate da quel pazzo furioso.

L’altra, del resto… quella sognatrice, quella che per anni avevo soffocato dietro un muro di silenzi, mi pregò di concedere il beneficio del dubbio a quell’uomo.

Prima di tutto, sii solerte con il prossimo, bambina mia. Non puoi mai sapere cosa potrebbe capitarti nella vita, ed essere gentili e disponibili può portare solo del bene.

Perché le parole di mia nonna mi rimbalzarono nel cervello, e proprio in quel momento? Perché?

Guardai la mano che teneva la pinzetta, sinistramente scintillante sotto i raggi del sole, e il sangue scarlatto della ferita che, incessante, continuava a fuoriuscire dalle sue carni.

Annuendo debolmente tra me, ringhiai: “Al diavolo. Va bene.”

“Grazie… non so … davvero come potrei fare, senza il tuo aiuto” mormorò, cercando di parlare nonostante il dolore che stava provando.

Il sudore copioso su tutto il suo corpo, così come i suoi ansiti strozzati, parlavano per lui.

Scossi il capo, prima di darmi una sberla in faccia e sbottare con veemenza: “Forza, ragazza, sveglia!”

“Mi spiace tanto” sussurrò Duncan.

“Mica ti sarai fatto sparare addosso di proposito, spero” celiai, tornando ad avvicinarmi alla sua spalla.

Grida e sangue.

Un lampo dell’incubo che mi aveva destata colpì la mia corteccia prefrontale come un colpo di gong, all’improvviso. Perché mi era tornato alla mente?

“Non del tutto” buttò lì Duncan, aggrottando la fronte. “Fai attenzione… di solito usano… usano proiettili con ogive… piene di nitrato d’argento.”

“Cazzo!” mi sfuggì dalle labbra, mentre sgranavo gli occhi per la sorpresa. “Ma che razza di armi usano?!”

“Se sopravvivo, te lo spiegherò” mi promise lui.

“Non morirai, questo te lo assicuro. Non voglio cominciare così la mia esperienza medica” gli promisi, aggrottando la fronte e imponendomi di darmi una calmata.

Dovevo solo pensare al proiettile e alla pinza che lo avrebbe cinto per estrarlo dalla carne di Duncan.

Già, una vera passeggiata.

Respirai affannosamente, quando il metallo della pinzetta scivolò all’interno del taglio che avevo praticato col coltello.

Muovendomi cauta, cercai a tentoni la capocchia del proiettile, finché non avvertii qualcosa all’estremità della mia perlustrazione.

“Eccolo” sussurrai, ormai senza voce per l’ansia che mi divorava il petto.

Duncan era immobile e silenzioso, in attesa.

Un movimento sbagliato e avrei potuto rompere l’ogiva, lasciando che il liquido argentato contaminasse il suo sangue.

Beh, non dovevo commettere errori, questo era sicuro.

Annuii tra me, mentre la pinza prendeva possesso del proiettile e, con mano stranamente ferma, cominciai a estrarlo, un millimetro alla volta.

L’immobilità di Duncan poteva essere paragonata solo a quella di una statua.

Immaginai, comunque, quanto dolore gli procurasse quel mio procedere così lentamente nell’estrazione.

Quando riuscii finalmente a vedere la capocchia dell’ogiva, il mio cuore si fermò un istante – paura e gioia ballavano a braccetto dentro di me.

L’istante seguente riprese iperattivo, pompando ora rabbia e dolore nel mio corpo.

Non potevo credere che Patrick potesse aver sparato un proiettile simile, e a un altro essere umano.

Magari era stato proprio lui a ferirlo, e questo mi fece stare ancora peggio.

Lo estrassi del tutto, gettandolo lontano e con stizza, prima di applicare una pezzuola pulita sulla ferita e mormorare con un sospiro tremulo: “Okay, sei a posto.”

Duncan prese un gran respiro liberatorio e, voltando il capo verso di me per concedermi un sorriso, ansò grato: “Davvero brava. I miei complimenti.”

Mi leccai nervosamente le labbra, un tremore sempre crescente che mi invadeva le viscere e, con voce gracchiante, domandai: “Ora che sei a posto, posso piangere?”

Mi guardò comprensivo, mentre le prime lacrime solcavano le mie gote sicuramente pallide.

Nel volgersi un poco di più, mi tolse di mano la pezzuola che tenevo contro la spalla, spiegandomi con tono quasi spiacente: “La ferita si rimarginerà in pochi minuti, ora che l’argento non è più nel mio corpo.”

Continuando a piangere in silenzio, il cuore che lentamente stava svuotandosi di tutte le mie ansie e i miei timori, annuii a più riprese, stordita.

Non ero del tutto certa di aver capito appieno quanto mi aveva appena detto, concentrata com’ero stata solo su quello che avevo fatto.

Nonostante i miei incubi peggiori, ero riuscita a portare a termine l’operazione senza fare danni.

Gli occhi lucidi di lacrime, dopo qualche momento passato a guardare le mie mani tremanti, tornarono a scrutare la spalla appena operata di Duncan.

Allibita, fissai la sua magica guarigione – fu come osservare un documentario, in cui viene mostrata la crescita di una pianta a velocità accelerata – mentre tutto, in me, sembrò capovolgersi.

Stava guarendo realmente a una velocità pazzesca.

Era mai possibile che tutto quello che mi aveva detto fosse vero?

Era veramente possibile che esistessero i licantropi e che Patrick li cacciasse?

Certo, se tutto ciò fosse stata la cruda realtà, si sarebbero spiegate molte cose.

Ma come credere, nonostante lo spettacolo eccezionale a cui stavo assistendo a occhi sbarrati?

Duncan mi fissò comprensivo, le mani ora rilasciate in grembo, mentre io continuavo a osservare i lembi di pelle saldarsi millimetro dopo millimetro.

Stavano formando una linea rosea e rigonfia di tessuto cicatriziale, guarendo letteramente dinanzi a me.

Aprii e chiusi la bocca diverse volte, indecisa su cosa dire, ma nulla sgorgò dalle mie labbra, rinsecchite al pari della gola.

Ero basita di fronte a quel, beh, miracolo era l’unica parola che mi veniva in mente.

“Questo è parte di ciò che sono. Puoi accettarlo?” mi chiese, sbirciandomi con i suoi occhi smeraldini, quasi timoroso di spaventarmi.

Beh, ero ben oltre lo spavento.

La parte analitica della mia mente, stava lavorando febbrilmente per dare una spiegazione scientifica a quel meraviglioso quanto unico processo di rigenerazione.

Il mio Io più irrazionale, invece, stava letteralmente urlando dentro la mia testa: ‘ci ha trovati!’, ‘ci ha trovati!’.

Ma trovati, chi?

Dire che ero in confusione, era un eufemismo. Una pallida imitazione della realtà.

Mai, nella vita, mi era capitato di essere così in disaccordo, o in disarmonia, con me stessa e nel contempo, di desiderare che tutte le mie rigide credenze finissero in un cestino.

Volevo lasciare libero spazio a ciò che di miracoloso, e incredibile, c’era nel mondo.

La razionale Brianna soppiantata da quella creativa?

Beh, da quel che sembrava stesse succedendo all’interno del mio cervello in subbuglio, sembrava proprio esserci in atto un ammutinamento e, per qualche strano motivo, ne fui lieta.

Preso il toro per le corna, fissai perciò Duncan in viso e, deglutendo un paio di volte prima di trovare il coraggio di parlare, esalai con voce gracchiante: “Non mi stavi mentendo, allora, vero?”

“No.” Scosse semplicemente il capo, senza aggiungere altro.

D’accordo. Era realmente un licantropo.

Io cosa dovevo fare, allora? Scappare? Urlare? Svenire?

Cosa?!

“Ti sono debitore” aggiunse poi all’improvviso, sorridendomi e spiazzandomi completamente.

C’era qualcosa di molto formale, in quello che aveva appena detto.

Non si era limitato a ringraziarmi; quel che era insito nelle sue parole aveva un significato più profondo, come se quello che avevo appena fatto per lui lo avesse toccato nell’animo.

“Mi mangerai?” riuscii a dire, pur sentendomi un’idiota nel mettere a parole le mie paure.

Lui scoppiò in una risata così bella che mi colse ancor più di sorpresa.

Come potevo aver paura di un uomo che sapeva ridere così? Era impossibile.

Duncan si passò una mano tra i capelli umidi di sudore, prima di tornare a guardarmi e rassicurarmi col suo dire.

“Noi licantropi non ci cibiamo di esseri umani e, meno che meno, io farei del male alla donna che mi ha salvato senza timore del pericolo.”

Ancora quella sensazione di pace, di tranquillità, come se la sua presenza fosse logica, accanto a me.

In effetti, non avevo paura di lui, e cominciavo a familiarizzare con l’idea, di per sé assurda, che lui fosse veramente un licantropo.

Tutto ciò andava oltre l’immaginabile, eppure mi sembrava… giusto.

Dio solo sapeva il perché. In ogni caso, risposi con un sorriso incerto e replicai: “Sono ancora terrorizzata a morte, quindi eviterei di dire ‘senza timore del pericolo’, perché non è realistico.”

Fattosi serio, Duncan ribadì il suo dire.

“Ma tu sei stata coraggiosa, Brianna. Quante altre persone si sarebbero fidate ciecamente di uno sconosciuto, e l’avrebbero aiutato come hai fatto tu?”

Già, quante? Ben poche. Forse nessuna.

Ma io mi ero sentita spinta ad aiutarlo e, forse, lui poteva spiegarmi perché.

Scossi il capo, confusa, e feci spallucce, incapace di dare una risposta alla sua ovvia domanda.

“Dai pure la colpa al fatto che sono una girl scout.”

Lui mi sorrise un attimo, prima di accigliarsi e sentenziare: “Ora, però, sono restio a lasciarti tornare a casa. Sicuramente, il tuo patrigno non impiegherà molto a comprendere il tuo coinvolgimento nella mia fuga, e ti punirà.”

Mi irrigidii all’istante, nel sentirlo parlare a quel modo e lui, addolcendo i tratti del viso, si arrischiò a sfiorarmi una mano con la propria, aggiungendo: “Lungi da me è l’idea di farti del male, Brianna. Non leverei mai un dito, contro di te.”

“Ma?” sussurrai, incitandolo a proseguire.

La sua mano calda, che sfiorava la mia solo con la punta delle dita, sembrava emanare una specie di corrente elettrica a basso voltaggio.

Era come se avessi avvicinato la mano a un oggetto elettrificato, e sentissi la pelle sfrigolare leggermente al contatto con l’energia statica.

Lui sospirò, ritirando la mano ma non annullando di fatto la sensazione di prurito, che si estese a tutto il mio corpo, dandomi l’impressione di essere accarezzata da morbide piume.

Ma che mi succedeva?!

Volgendo lo sguardo a scrutare le coltri di rami e foglie, che inibivano in parte la visuale del cielo terso del mattino, Duncan mormorò roco: “Temo per la tua incolumità, e non vorrei mai che Patrick usasse te per giungere a me. Non ti ripagherei mai così, dandoti in mano a un potenziale assassino.”

Nel sentire quella parola, assassino, rabbrividii e, con la mente, tornai alla visione di lui chiuso in gabbia, completamente nudo e in catene.

Sul momento avevo preferito non pormi troppe domande ma lì, sola con Duncan, e messa di fronte ai suoi timori più che fondati, non potei esimermi dal chiedergli: “Volevano davvero… ucciderti?”

Annuì, il volto indurito da ricordi che preferivo non conoscere in quel momento.

“Mi hai chiesto dei Cacciatori. Non sono le classiche persone dotate di licenza di caccia, come tu avrai già capito. Noi chiamiamo così le persone che cacciano noi.”

“Ma… ma è…” tentennai, mordendomi un labbro, indecisa se proseguire o meno.

Ci pensò Duncan a mettere a parole i miei dubbi.

“Illegale? Certo che lo è. Per il bel mondo, noi siamo comuni esseri umani, visto che ne abbiamo le sembianze. Ma i Cacciatori sanno bene cosa siamo in realtà. E se ne infischiano delle regole vigenti.”

“Quindi…cacciano i…i…?” borbottai, non riuscendo ancora a dire quella benedetta parola, pur sapendo che era la sola risposta alle mie domande.

Accettarlo  mentalmente era un conto, metterlo a parole, a quanto pareva, era più difficile.

Ma non potevo essere un po’ meno con i piedi per terra?!

Duncan mi sorrise comprensivo, forse intuendo le mie difficoltà, forse percependo la mia ansia.

Non sembrava comunque impaziente di sentirmi enunciare l’ovvio – si fa per dire – perciò, preso un bel respiro, mi fissò attento prima di parlare per me.

“Sì, Brianna. I licantropi. Nel vero senso della parola. Siamo sudditi devoti della Luna, figli della Madre Terra e legati a Lei a doppio filo, molto più di quanto i Cacciatori stessi non immaginino.”

Sbattei le palpebre diverse volte mentre, stralunata, osservavo quel volto abbronzato e dai lineamenti decisi, immaginando un lupo dietro quelle sembianze umane.

Un’ombra pallida scivolò nella mia mente, un altro residuo dell’incubo e, con esso, avvertii calore, morbidezza e… familiarità. Perché?

La sensazione di formicolio tornò, quando lui aggiunse con voce dura: “Loro ci cacciano fin da quando il primo uomo venne a conoscenza della nostra esistenza. Ed è una lotta che non avrà mai fine. Mai! Per questo, non posso lasciarti tornare a casa. Sarebbe troppo rischioso per te, e io non permetterò che tu corra dei rischi.”

Okay. Una creatura suddita della luna. Un mito ancestrale. Beh, non tanto, a quanto pareva.

Forse potevo farcela. Dopotutto, era fatto di carne e sangue, e poteva rimanere ferito o morire, da quel poco che avevo visto. Non era poi così diverso da noi.

Non era tanto difficile da comprendere.

Poggiai entrambe le mani sul petto, come a voler trattenere il mio cuore palpitante e, preso un gran respiro, protestai debolmente: “Patrick non arriverebbe a farmi del male.”

“Quanto ne sei certa?” replicò Duncan, alzandosi in piedi e passeggiando nervosamente dinanzi a me.

Il formicolio aumentò, tanto da costringermi a massaggiare le braccia per il fastidio. Perché continuavo a percepire quelle strane sensazioni? Non avevo toccato erbe urticanti, perciò, che diavolo mi stava accadendo?

Bloccandosi a metà di un passo, quando mi vide massaggiare le braccia con una frenesia quasi assurda, sollevò un sopracciglio con aria evidentemente sorpresa.

I suoi occhi, attenti e meditabondi, intensificarono la loro analisi e, per un istante, desiderai schiaffeggiarlo. Perché mi guardava a quel modo?

Come se si fosse stato spento un interruttore, il formicolio cessò.

Che i miei recettori sensoriali fossero fuori uso, a causa dello spavento preso e delle novità che stavo assimilando in quel momento? Difficile dirlo.

Duncan, comunque, aveva smesso di fissarmi, il che fu un bene per entrambi.

Più tranquilla – ora che il formicolio era passato, ero in grado di ragionare più agevolmente – ammisi: “Non lo so… ammetto che non lo so.”

“Allora non tornerai a casa” sentenziò, perentorio.

Quel tono sferzante mi fece accigliare all’istante e, alzandomi a mia volta – certo, non ero abbastanza alta per apparire minacciosa – replicai rigidamente: “Non sei nella posizione di impormi nulla.”

“Sento il dovere di proteggerti, per cui non ti lascerò andare. Anche se mi spiace intromettermi così nella tua vita, non vedo altre soluzioni” ribatté, fronteggiandomi e guardandomi dall’alto in basso con aria arcigna.

Sì, lui faceva sicuramente più paura di me.

Mi guardai intorno smarrita, osservando in lontananza la piccola sagoma della mia auto e, arrampicandomi sugli specchi, brontolai: “Non posso venire con te. Non appena Patrick scoprirà che non ci sono, chiamerà la polizia per segnalare la targa della mia auto, e noi saremo spacciati.”

“Non andremo via in auto” ci tenne a precisare, rabbonendo lo sguardo e fissandomi con aria spiacente.

“Come?!” esclamai basita, prima di notare un bagliore sinistro nei suoi occhi.

Aggrottai la fronte, subodorando guai, prima di intimargli: “Specifica chiaramente cosa stai tramando.”

Duncan lanciò uno sguardo all’auto con cui avevamo raggiunto il boschetto e, sospirando, ammise: “Mi spiace, ma dovrà finire nel bacino idrico. Non devono trovare tracce, o potremmo trovarceli alle spalle prima di essere abbastanza distanti da loro.”

Finire. Nel. Bacino.

Erano tre parole che non mi piacevano per niente. E glielo dissi con veemenza.

Duncan si scusò nuovamente, ma fu irremovibile.

Io sarei andata con lui – dove, ancora dovevo scoprirlo – e la macchina sarebbe dovuta sparire. Un disastro dietro l’altro, insomma.

D’accordo aiutarlo. Non avrei mai permesso a nessuno, tantomeno a Patrick, di fare del male a Duncan, sebbene non lo conoscessi.

D’accordo salvargli la vita. Avrei rifatto altre mille volte quell’incisione, a costo di farmi venire un infarto per la paura, pur di togliere quel proiettile killer.

Ma d’accordo scappare? Ero pronta? Lo volevo realmente?

Fu a quel punto che Duncan mi prese per le spalle e, abbassandosi quel tanto che gli bastò per fissarmi negli occhi, mi confidò: “Avrai tutta la protezione del branco, Brianna. Con noi non sarai in pericolo e, quando riterrò che le acque si siano calmate a sufficienza per permetterti un rientro in totale sicurezza, allora potrai tornare a casa.”

Non mi sembrava di avere molte carte a mio favore, da mettere sul tavolo.

Quel che stava dicendo Duncan era vero.

Non potevo sapere come l’avrebbe presa Patrick, o peggio, la sua cricca di amici.

Avrebbero potuto davvero usarmi per giungere a Duncan che, mosso dal senso di colpa, si sarebbe smascherato per salvarmi.

Non potevo permettermi di rischiare, specialmente dopo aver scoperto quale fosse l’hobby di Patrick.

Niente vietava che lui riversasse su di me la sua collera anche in maniera più che violenta, visto quanto avevo fatto.

Era tutto maledettamente giusto, eppure… eppure i miei piedi non volevano muoversi di un millimetro.

C’era una persona troppo importante che mi impediva di allontanarmi.

Al confronto, la mia sicurezza e la mia salvaguardia non contavano nulla, se paragonate a lui.

Come potevo fargli questo?

Mary B era buona e gentile, la persona migliore che avremmo mai potuto sperare di trovare, dopo ciò che era successo ai nostri genitori ma… Dio, come potevo pensare di lasciare Gordon?

E senza alcuna spiegazione, per giunta?

Duncan parve capirlo perché addolcì i tratti del volto e, sfiorandomi la guancia con una mano, la carezzò debolmente, comprensivo.

“Non preoccuparti per tuo fratello. Non appena avremo raggiunto casa mia, potrai metterti in contatto con lui per rassicurarlo.”

Quella frase mi rincuorò non poco.

Fu come se un enorme peso mi venisse tolto dalle spalle, accompagnato da una strana sensazione di piacere, come se qualcuno mi stesse nuovamente carezzando con mille piume morbidissime.

Preferii non analizzare troppo sui motivi di quel piacere – ero troppo stanca fisicamente, e psicologicamente, per potermi permettere un tale esercizio mentale.

Mi limitai a godere di quelle sensazioni, sperando che non scomparissero troppo velocemente.

Era bello, per qualche attimo, essere cullati da quella calda piacevolezza, anche se non avevo la minima idea di dove provenisse.

Fiorì un sorriso sulle mie labbra, mentre la sensazione di piacere svaniva come un alito di vento scivolato tra le fronde.

Duncan, a quel punto, si raddrizzò e mi informò circa le sue intenzioni.

“Vado a sistemare l’auto. E’ meglio se non guardi.”

“Dalle un bacio da parte mia” esalai, reclinando il viso e sospirando in maniera melodrammatica.

Lui sbatté le palpebre diverse volte, prima di ridacchiare e scuotere il capo.

Si incamminò poi verso la mia Mini Minor che, entro breve, avrebbe esalato il suo ultimo respiro affondando inesorabilmente nel bacino idrico.

Per distrarmi – la sola idea di vederla sprofondare mi inorridiva – cominciai a ripiegare il sacco a pelo ma, non appena udii lo sciabordio violento dell’acqua, mi volsi sorpresa.

A occhi sgranati, fissai Duncan tornare a passo tranquillo, come se nulla fosse successo.

“Aspetta solo un dannatissimo momento! Non hai acceso il motore, l’avrei sentito! Eppure… eppure…”

Come diavolo era riuscito a farla finire in acqua in pochi istanti? Non era possibile! A meno che…

Impallidii leggermente, mentre lui mi fissava sempre più spiacente, e sbottai.

Quanto sei forte!?”

“Meglio che non te lo dica ora” affermò, afferrando il mio zaino per aiutarmi a indossarlo.

Prima la guarigione miracolosa, e ora la forza sovrumana.

Quanto c’era di vero, nelle leggende? E potevo definirle ancora tali, a quel punto?

“Andiamo?” mi chiese, fissandomi speranzoso.

Mi guardai indietro un’ultima volta, pensando a quanta gente si sarebbe preoccupata per me, a quanti guai sarebbero sorti.

Immaginando, però, cosa avrebbe potuto farmi Patrick per recuperare Duncan, mi decisi e, annuendo convinta, sentenziai: “Andiamo pure.”

E che io fossi dannata se avevo idea di cosa sarebbe successo dopo.





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N.d.A. Spero di non aver sconvolto nessuno, con la scena dell'estrazione del proiettile, ma era importante per dare i primi indizi di ciò che sta avvenendo a Brianna. Per un po', niente scene truculente, promesso. :)

  
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