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Autore: Seren_alias Robin_    15/07/2012    5 recensioni
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.”
Con quella frase Nizan, quel filosofo sconosciuto, aveva conquistato la sua stima. Non avrebbe avuto dubbi su quale traccia scegliere.
Vera e Matteo.
Altra storiella partorita dal mare, che non completerò mai probabilmente. O si. Che ne so.
Le mie storie restano a metà, perché io sono a metà.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’estate era iniziata, aveva bussato alla sua porta prepotentemente per settimane e ora lei, piccola giovane diplomata, poteva aprire al sole.
Vera era stata promossa con ottimi voti e non vedeva l’ora di sentire il profumo familiare di salsedine riempirle le narici, ascoltare il rumore dolce del mare confondersi con la musica lontana dei lidi e le risate dei bambini. Tutto le sembrava dieci volte più bello man mano che la macchina di suo padre mangiava i chilometri che la dividevano da quel paradiso. La sua spiaggia.
Le veniva voglia di aprire i finestrini e urlare il suo entusiasmo contro i colori caldi del cielo, ma mentre premeva il bottoncino per abbassare il vetro fu richiamata da sua madre: stava facendo entrare aria calda e in auto c’era l’aria condizionata accesa. Sbruffò e cercò il suo Ipod verde nella sacca. Infilò le cuffiette appena in tempo per sentire il ritornello di una delle sue canzoni preferite in quel periodo: Somebody that I used to know. Le note la rilassavano, mentre cercava di tradurre almeno qualche parola. L’inglese non era mai stato il suo forte. Rinunciò quasi immediatamente, in testa le immagini del video di Gotye che considerava una piccola opera d’arte. Si era talmente svuotata la testa che quasi non si accorse di essere arrivata a destinazione.
La piccola casa del mare che condivideva con buona parte della famiglia “allargata” era esattamente come l’aveva lasciata l’anno prima. Il giardino era un po’ troppo vuoto per i suoi gusti, ma c’era ancora l’enorme albero di pesco che suo padre aveva piantato l’anno che era nata lei, e le conchiglie colorate incastrate al muro. La osservava incantata, con le mani incollate al vetro come quando era bambina, impaziente di scendere dall’auto. Negli anni i sentimenti che provava verso quell’abitazione erano mutati molte volte. L’aveva amata da bambina, quando bastava il grande dondolo blu per scacciar via i cattivi pensieri; era caduta così tante volte dallo scalone in giardino, sempre allo stesso modo, eppure non aveva mai pianto ogni volta che succedeva, troppo contenta di essere di nuovo lì.
L’aveva odiata poi, negli anni dell’adolescenza, innamorata persa di un ragazzo che in realtà non esisteva se non nella sua testa e nei suoi diari, impegnata a rincorrere i suoi sogni già spenti. Erano stati anni di scontri, di rifiuto per quel mare troppo grande per lei, che non sapeva consolarla; un mare che, grande com’era, non trovava spazio però per le sue lacrime giovani.
Ma tutte le tempeste finiscono prima o poi. E ora finalmente ritrovava la bellezza di quel posto, come quando era bambina, ma con una consapevolezza diversa. Era tempo di riprovare ad ascoltare il mare.
 
 
Matteo era uno strano ragazzo.
Di certo dava l’impressione di essere un tipo poco raccomandabile, con la testa rasata completamente, a parte la zona di capelli scolpiti a cresta, e i due piercing, al naso e sotto il labbro. Per non parlare poi del braccio sinistro completamente tatuato.
 
Vera era una splendida ragazza di diciannove anni. Aveva capelli lisci e neri che contrastavano nettamente con la carnagione chiara e delicata, ma senza stonare. Nulla stonava in lei.
 
Matteo era stato bocciato a scuola, l’anno della maturità.
Amava la musica, il rock in particolare, ma senza disprezzare gli altri generi. La sua cultura musicale era vastissima. Suonava la batteria, che aveva imparato da autodidatta.
 
Vera suonava il pianoforte da tredici anni. Non era stato amore a prima vista. Amava i colori e quei tasti bianchi e neri le risultavano troppo seri e tristi. Ebbe modo di ricredersi solo dopo aver imparato a suonare Per Elisa. Ma continuò a preferire tutta la vita di gran lunga la chitarra.
 
Matteo era un gran tifoso della Juve. A guardarlo non si sarebbe mai detto che potesse interessarsi di calcio. E amava gli animali, in particolare i cani.
 
Vera amava le lunghe passeggiate in solitudine, o al massimo in compagnia di chi sapesse godersi il silenzio.
A volte passava ore chiusa in camera ad ascoltare Janis Joplin. Non era musica da poter ascoltare sempre. Andava capita, letta, assaggiata, doveva possedere chiunque l’ascoltasse per quattro minuti. Quelle erano le canzoni che ascoltava fino all’ultima nota, secondo, vibrazione.
Amava il calcio, suo padre da piccola la portava allo stadio a vedere le partite. Da allora era nata la sua passione per il Milan.
 
Matteo suonava anche la chitarra. Considerava la sua chitarra meglio di qualunque ragazza. Suonarla era come fare l’amore per lui.
Da qualche tempo aveva lasciato la sua band storica.
 
 
Scese dalla macchina di suo padre e aiutò gli altri a portare dentro le valigie. Sua madre come al solito ci mise un po’ a trovare le chiavi. Le sue borse erano un’arma a doppio taglio. Ci ficcava dentro l’impossibile, e puntualmente perdeva qualcosa. Vera sorrise ricordandole che le aveva infilate in tasca poco prima di partire.
Entrarono tutti: lei, i suoi genitori, gli zii, i nonni.
Quella era decisamente la casa dei miracoli; così piccola, sapeva tenere insieme tutti.
Sua zia le si avvicinò. Vera non riusciva ancora a chiamarla zia, nonostante fosse la moglie del fratello di sua madre a tutti gli effetti da qualche mese: le passava solo dieci anni e per lei era quasi un’amica del cuore.
-          Hanno bocciato mio cugino, lo sapevi? –
La ragazza la guardò alzando un  sopracciglio. Conosceva Matteo solo per sentito dire, e di certo la notizia non la sorprese. – Da quello che mi hai raccontato c’era da aspettarselo. Come l’hanno presa i tuoi zii? –
-          Oh bene, l’hanno cacciato di casa. –
-          Cosa? – sbottò, gridando quasi, mentre iniziavano a disfare le valigie.
-          Ebbene si. Mio zio non ce la faceva più. Quest’ultima bravata gli è costata cara. – rispose sinceramente dispiaciuta. Ma si rianimò quasi subito.
-          Dove andrà ora? – chiese Vera.
-          In realtà passerà un po’ di tempo qui da noi. Ho pensato di invitarlo e i tuoi nonni sono d’accordo, tutti gli altri… -
-          Qui? -  la interruppe. – Non c’è spazio neanche per noi a momenti e tu lo inviti qui? –
-          Dormirà in camera con tuo zio e io dividerò la stanza con te. Contenta? –
Davanti a quell’entusiasmo non poté fare a meno di sorridere. In realtà non le dispiaceva affatto dividere la camera con lei. Era l’ospite a preoccuparla un pochino.
-          Fidati è un bel tipo – disse sua zia quasi a leggerla nel pensiero. – E suona la chitarra meglio di chiunque io conosca. Potrebbe essere l’occasione per rispedirlo sulla via giusta. –
Vera si limitò ad annuire, non le veniva in mente niente di meglio, mentre continuava a sistemare le sue cose nell’armadio. Sperò con tutto il cuore di trovare uno spazio per i suoi libri in un angolo di quella casa già così affollata.
 
 
Matteo si era addormentato nel pullman ascoltando i Guns N Roses. Aveva deciso di coprire le urla di sua madre che ancora facevano eco nella testa, ma si era rivelata un’impresa difficile. Una cupe nube di rimorso aleggiava su di lui. In fondo non voleva causare dispiacere a nessuno.
Si svegliò a causa dei brutti sogni. Si sentiva ansioso come non gli succedeva da tanto ma non ne capiva il motivo. Era libero. Non doveva dare conto a nessuno delle proprie azioni adesso. Non doveva per forza raggiungere sua cugina e la sua famiglia.
Ma capì che un po’ di sabbia nelle scarpe non poteva che fargli bene.
E nel frattempo era iniziata una nuova canzone. Acquiesce.
Lanciò un’occhiata alla sua chitarra, le mani che morivano dalla voglia di sfiorare quelle corde.
L’autista del pullman gli segnalò che quella era la sua fermata. Matteo afferrò la chitarra e l’enorme zaino blu e senza ringraziare scese dal pullman velocemente. Non era ancora il tramonto e un vento caldo scivolò sotto la sua maglietta nera. Era piacevole, dopotutto, quasi confortante dopo il viaggio. Uno strano modo del posto per dargli il benvenuto.
Non era difficile ascoltare il rumore del mare, anche se non era proprio vicinissimo. Lontano ma presente, poteva immaginarlo con i suoi occhi, quegli occhi che avevano rubato un po’ del colore splendente delle onde.
-          Benvenuto, dunque. – sua cugina Nunzia lo aspettava proprio vicino alla fermata, sorridente.
Qualcosa nel suo viso era diverso dall’ultima volta che lo aveva visto. I tratti si erano addolciti, la pelle era più morbida e luminosa, le guancie piene e il sorriso raggiante. Tutto questo le donava tantissimo. Era impossibile non restituire quel sorriso.
Provò a strappargli di mano lo zaino ma Matteo fu più veloce di lei e lo allontanò dalla sua portata.
-          Non sono stanco. Forza, guidami nella mia prossima prigione. –
-          Potresti amarla, questa prigione. Non vedo l’ora di presentarti mia nipote. Ha la tua stessa età. –
-          Si lo so, me ne hai parlato. -  rispose Matteo stancamente. – Immagino che sia un piccolo genio da cento e lode, futura studentessa di medicina, che mi darà ripetizioni di matematica in spiaggia e altre stronzate simili vero? –
-          In realtà Vera ha preso un voto molto più modesto. E le piacerebbe frequentare il DAMS. Perché devi sempre catalogare le persone ancora prima di conoscerle? – rispose stizzita Nunzia.
Era una bella domanda. Di certo, era quello che il resto del mondo faceva con lui.
DAMS. Bello. Avrebbe voluto provarci anche lui, se solo non avesse scelto di farsi bocciare. E ancora non aveva trovato risposta a tutte le domande che aveva sentito in quei giorni. Perché?
Chi doveva punire, a parte se stesso? Si ricordò le parole della sua prof di matematica: “A volte un anno perso è un anno guadagnato.”
Certo. Ma lui non ne aveva affatto bisogno. Non era mai stato stupido. Per lui la maturità poteva essere una passeggiata. Ogni volta che i pensieri miravano verso questa direzione si sentiva talmente male da doverli rimuovere subito.
Come la sera del venti giugno, quando aveva ascoltato al telegiornale le tracce che erano uscite alla prova di italiano. Montale. Crisi e i giovani. Il labirinto. Alcune erano davvero splendide. E poi quella traccia…
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.”
Con quella frase Nizan, quel filosofo sconosciuto, aveva conquistato la sua stima. Non avrebbe avuto dubbi su quale traccia scegliere.
Capì di essere quasi arrivato a casa dei suoceri di Nunzia. Era il cattivo ragazzo che tutti stavano aspettando, come l’attrazione più ambita di un circo. E lui, personificazione del menefreghismo, si sentiva nervoso, scomodo, fastidioso. Era snervante quella sensazione di inadeguatezza.
Nunzia teneva aperto il cancelletto verde per lasciarlo passare. A testa bassa, con lo zaino ancora in spalla, entrò nel giardino della casa. Un dondolo si muoveva piano scricchiolando leggermente, un po’ per il vento pomeridiano che lo aveva seguito fino a lì, un po’ per un piedino che spingeva appena a intervalli regolari. Non poteva ancora vedere a chi apparteneva, finchè due occhi di un verde incredibile fecero capolino dai cuscini del dondolo, sorridenti.
Matteo rimase lì impalato per qualche secondo, mentre la ragazza gli si avvicinava, circospetta.
-          Ciao. – disse, senza entusiasmo.
-          Ciao –   rispose lui, con una punta di ostilità fin troppo percettibile. Non gli piaceva che quella tizia lo scrutasse in quel modo. Forse per i piercing, forse anche un po’ per i tatuaggi, c’era abituato e di solito non ci faceva più neanche caso. Quegli occhi invece erano diversi. Avevano lasciato crollare in un attimo le sue difese.
-          Lei è Vera. – si intromise Nunzia. – Mia nipote. Ma è talmente vecchia che non mi chiama neanche zia.- rise.
Vera lasciò cadere in avanti i lunghi capelli, sulle spalle esili, e per la prima volta sorrise.
-          Sei tu ad essere troppo giovane zietta. – poi si rivolse a Matteo. –Suoni?-
Il ragazzo guardò istintivamente la custodia nera della sua chitarra prima di rispondere. –Ah, questa, si. –
-          Si. – rispose lei. – Nunzia me lo aveva detto. –
-          Mi hai appena fatto una domanda inutile, allora. –
Vera gli lanciò un’occhiata sprezzante e senza aggiungere altro entrò in casa.
-          Bravissimo. – esclamò Nunzia a denti stretti. – proprio bravo cuginetto, non c’è che dire. L’hai proprio conquistata. –
-          Non mi piacciono le saccenti – rispose come a volersi giustificare, intento a guardarsi intensamente
 le unghie dei piedi. Sua cugina sospirò e seguì Vera dentro casa. Matteo, dopo qualche secondo di incertezza, la imitò.
 
 
Le presentazioni furono molto sbrigative, cosa di cui fu estremamente grato a tutti.
Il padre di Vera, un uomo poco più che quarantenne, sembrava severo a buono. Strinse la mano di Matteo guardandolo qualche secondo più del dovuto, e sparì in camera sua. Sua moglie era una donna bellissima dai grandi sorrisi, espansiva forse ma non invadente. Francesco invece, il marito di Nunzia e zio di Vera, era probabilmente il migliore di tutti. Lo salutò con una pacca sulla spalla, mentre i nonni giocavano a carte e lo salutavano con un cenno della mano.
-          Visto? Nessuno qui vuole giudicarti. Anzi, dato che siamo così tanti tra un po’ si scorderanno della tua presenza. – disse Francesco, mentre lo aiutava a disfare quel poco che aveva portato con sé.
La camera che avrebbero condiviso era piccola, giusto lo spazio di due letti singoli dalle lenzuola arancioni, e un armadio. Le pareti erano di un verde rilassante.
-          Fa come se fossi a casa tua. –
Frase di rito. Casa sua. Ma non era a casa sua. Tutta quella gentilezza non era richiesta, non la voleva. Prese a schiaffi il suo cervello. Doveva smetterla di mettersi a sindacare tutto.
-          Grazie. – rispose semplicemente. Un sorriso stavolta sarebbe stato troppo forzato.
Francesco uscì dalla camera chiudendo la porta. Non poteva ancora credere di trovarsi in quella situazione, ospite di sconosciuti che avevano accettato di accogliere il cattivo ragazzo in vacanza con loro. Sospirò pensando a Vera. Era davvero bella, e lui era riuscito a farla innervosire ancora prima di mettere piede in casa. Bella, si. Ma aveva quell’aria antipatica che aveva sempre detestato nelle ragazze.
La maglia che indossava era decisamente troppo sudata. Cercò qualcosa di fresco nello zaino e prese a togliersi la maglia. In quel momento qualcuno aprì la porta.
Era Vera. Si affrettò ad indossare la t-shirt bianca, arrossendo senza riuscire ad evitarlo.
-          Scusami. – disse, senza ombra di imbarazzo. Per evitare di farsi notare, si lasciò cadere sul letto, guardandola.
Indossava un abitino blu con fantasia floreale e sorrideva. Aveva sbagliato. Non era affatto bella. Era splendida.
Prima che potesse dire qualunque cosa lei si sdraiò affianco a lui sul letto, con un piccolo salto. Erano vicinissimi.
-          Senti non fare il sostenuto con me. Non ci riesci ad essermi antipatico. – disse, guardandolo negli occhi.
-          Io sono antipatico con tutti. – rispose, osservandola a sua volta. Sembrava una gara a chi avrebbe distolto per primo lo sguardo.
-          E io non sono tutti. Sono Vera. E penso di meritarmi una possibilità, non credi? –
Matteo si tirò su a sedere. Aveva perso. – Possibilità? –
-          Già. -  rispose lei continuando a fissarlo intensamente.
-          Dovrebbe essere il contrario. Voglio dire, io sono il mascalzone che è stato cacciato di casa. E tu mi chiedi una possibilità? Quand’è che si sono scambiati i ruoli? –
-          Oh ma cosa c’entra. Te l’ho detto, non riuscirai mai a risultarmi antipatico. Voglio dire, sei un chitarrista. –
Matteo sorrise. Era strana forte quella tipa.
-          Va bene. Hai la tua possibilità. –
-          Perfetto. – sorrise anche lei. – Allora metti il costume. –
E veloce almeno come era entrata, uscì dalla camera.
 
 
-          Ma ti sembra orario questo? –
-          A quest’ora non ci sta mai troppa gente e l’acqua è caldissima, dunque taci. –
Effettivamente Matteo notò che la spiaggia al tramonto era quasi deserta, salvo qualche coppietta appartata. Vera lasciò cadere ai suoi piedi il vestito blu, rivelando un bikini dello stesso colore. Lo fece con grazia, senza alcuna malizia.
Lo guardò ridendo prima di tuffarsi in quel mare tranquillo, così in fretta che Matteo non aveva avuto neanche il tempo di sfilare la maglietta. Si affrettò a seguirla.
Era vero. L’acqua era caldissima e splendente, illuminata dagli ultimi raggi di sole della giornata che dipingevano quelle piccole onde di colori. La sua pelle non avrebbe potuto chiedere di meglio: era un moto di sollievo indescrivibile.
Vera lo aveva visto entrare e si era fatta più vicina. Vide che gli occhi di lui erano ancora più belli in mare, ma si guardò bene dal dirlo ad alta voce. Erano occhi rubati un po’ al cielo, un po’ al mare. Troppo belli per le parole.
Anche lui la guardava. Aveva notato un piccolo tatuaggio dietro il collo, ora che i capelli bagnati permettevano una maggiore visuale. Era una fenice. Non ne chiese il significato. Era una di quelle cose che andava scoperta, o meglio ancora immaginata, lasciata intrappolata in quel dubbio che rendeva un tatuaggio ancora più bello.
-          Te la sei giocata bene la possibilità. Devo ammetterlo. – disse poi, quando il silenzio cominciava a pesare un po’ fra i due.
-          Lo so. Questo posto a quest’ora è un paradiso naturale. Sono anni che ci vengo da sola. –
-          A fare il bagno? – chiese stupidamente.
-          No. – rise. – Questa è la prima volta. In realtà vengo qui quando ho bisogno della compagnia della solitudine. Resto sulla spiaggia finchè la luce mi permette di disegnare, e ascolto Einaudi. –
-          Compagnia della solitudine. Che strano concetto. –
-          È semplicissimo invece. Non ti capita mai di voler stare da solo? Quei momenti in cui tutto, anche la voce delle persone che ami, ti risulta fastidioso?
Matteo non rispose. Era una sensazione troppo familiare.
-          Quando capita vengo qui a buttare le mie tristezze in mare. – continuò lei. – A volte non serve a un granché. Ma qualche volta funziona. –
-          E ascolti Einaudi? – chiese infine.
-          Già. Ti piace Einaudi? –
-          Molto. –
-          Credo che Einaudi dipinga la musica. Azzurro, quando ho bisogno di un respiro leggero. Bianco, quando c’è la pace di giorno nuovo. Giallo, quando c’è la musica che prende sottobraccio una bella notizia. –
Avrebbe potuto continuare ad ascoltarla per altri mille tramonti senza mai stancarsi. Si sentiva uno stupido per averla giudicata. Quella ragazza era decisamente strana, ma di quella stranezza meravigliosa. Sentiva che era stata ferita tante volte, che era frutto di qualcosa che le era stato fatto, e che forse lei avrebbe ascoltato un po’ delle sue parole confuse. Ma non era quello il momento di parlare. Voleva continuare ad ascoltarla.
-          E rosso? –
-          Rosso. Non ci sono canzoni rosse di Einaudi. O meglio, non ne ho ancora ascoltate. –
-          Le sue canzoni ingannano. Ti fanno credere tante volte che sia finita, e quando la fine effettivamente arriva, ti coglie impreparato. –
-          E’ vero. -  assentì lei. – ma lascia insoddisfatti. Cosa c’è di peggio che essere estremamente soddisfatti di qualcosa? Morirebbe tutto. Invece così hai sempre modo di tornare ad ascoltarlo e di rimanere insoddisfatto ancora una volta.
Ancora una volta rimase senza parole. Ma non ci fu bisogno di sforzarsi a trovarle. La vide uscire dall’acqua a passi lenti.
-          Tra un po’ farà troppo freddo per uscire da qui. Torniamo a casa, ti va? –
-          Certo. – rispose subito, e la seguì. Lei armeggiò per un po’ con la sua borsa, poi gli passo un telo.
-          Tieni. –
Lui lo prese senza ringraziare e se lo buttò sulle spalle. Fuori dall’acqua il freddo dava i brividi. senza aggiungere altro si incamminarono verso casa, avvolti nei loro teli da mare.
 
 
La madre di Vera li aspettava sulla porta e li rimproverò per aver fatto il bagno a quell’ora quasi serale.
-          Potete ammalarvi con questa corrente, lo sapete? –
-          Andiamo mamma, non siamo stati molto e ho portato i teli per entrambi. Fa un caldo della miseria, non farla tanto lunga che sudi e ti arrabbi solamente. – rispose sorridendole strafottente.
-          Un giorno di questi ti ci affogo nel mare. Venite dentro va, fate una doccia al volo che poi ceniamo. –
Vera si voltò verso Matteo. – Vai prima tu. Io ci metto molto più tempo. –
Le sorrise e annuì, poi andò in camera per prendere il necessario. Una doccia era quello che gli serviva in quel momento. 

   
 
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