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Autore: Mary P_Stark    18/07/2012    6 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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  Stavo correndo, il terreno era sconnesso sotto i miei piedi nudi, ma non me ne curavo.

La paura di essere catturata, e uccisa, era superiore al dolore che provavo nel colpire con forza il terreno durante la mia fuga precipitosa e senza meta.

Il sibilo degli spari dietro di me era minaccioso e ferale, e la pallida falce di luna che sorrideva nel cielo notturno non mi dava alcun conforto.

Ero troppo impegnata a concentrarmi sui miei nemici, per apprezzarla appieno.

Caddi, sbucciandomi le mani e le ginocchia sul terreno accidentato.

Imprecando tra i denti, percepii un dolore cocente a una gamba, quando una pallottola penetrò le mie carni, ferendomi.

Urlai, trattenendo con le mani il sangue che colava dalla ferita mentre i passi pesanti dei cacciatori si facevano sempre più forti.

Si stavano avvicinando a me, pronti a darmi il colpo di grazia.

Fu a quel punto che un enorme lupo bianco balzò di fronte a me, le fauci spalancate e gli occhi iniettati di furore puro.

Attaccò i cacciatori senza lasciarne vivo neppure uno.

Osservai la scena restando a terra ferita e dolorante, e lui tornò da me, il pelo della gorgiera sporco di sangue e le zanne snudate che luccicavano ferali alla luce della luna.

Ma non ebbi paura. Lui era lì per me.

Gli accarezzai il muso appuntito, sporcandomi col sangue dei cacciatori che aveva ucciso per salvarmi e lui, dopo un istante, si chinò a leccarmi la ferita, che subito si rimarginò.

Fu a quel punto che mi risvegliai, il respiro affannoso e gli occhi spalancati.

Non compresi subito dove mi trovavo; la mia mente era ancora troppo confusa da ciò che aveva visto, per essere lucida e attiva.

Le pareti verde oliva della tenda mi disorientarono per un momento ma, nel percepire il peso leggero di una mano sul mio fianco, tutto mi tornò alla mente.

Duncan. La fuga. Le wiccan. Ogni cosa.

Mi volsi lentamente, percorrendo con lo sguardo il braccio di Duncan che, protettivo, mi cingeva la vita.

Sorridendo, mi chiesi se il suo potere avesse fatto intervenire il lupo nel mio sogno per salvarmi. Tutto era possibile, a quel punto.

Un attimo dopo, i suoi occhi smeraldini si posarono sul mio viso e un lento sorriso si dipinse sul suo volto nel sussurrarmi: “Buongiorno… tutto bene?”

Indicando il braccio che ancora riposava sulla mia vita, gli domandai: “Sei stato tu?”

“Ti agitavi nel sonno… è servito?” assentì, guardandomi pensieroso.

Annuii a mia volta, prima di dire: “Mi hai salvata dai cacciatori. Grazie.”

Si adombrò un poco, nel saperlo, e borbottò: “Non era davvero un bel sogno, allora.”

“No” ammisi, mentre il suo braccio abbandonava il mio fianco. “Spero di non averti disturbato. Hai bisogno di riposo, per riprendere le forze.”

Duncan scosse il capo, un sopracciglio leggermente sollevato con ironia, e mi fece notare un particolare, a quanto pare, per lui molto importante.

“Non sono così debole, Brianna… e no, non mi hai disturbato. “Hai iniziato ad agitarti meno di mezz’ora fa.”

“Meno male” sorrisi, tirando un sospiro di sollievo nel mettermi a sedere.

Osservai divertita le pareti di tela arrotondata della tenda e i nostri due corpi ripiegati all’interno, e mi venne voglia di liberare la risata che aleggiava ai lati della mia bocca.

In compagnia di Elspeth, con cui di solito dormivo in campeggio, ero sempre stata solita ridere della mia decisione di comprarmi un affare così grosso e ingombrante.

Ora che lo dividevo con Duncan, non mi parve più così grande.

Anzi, mi stupii che, durante la notte, non ci fossimo presi a gomitate nei fianchi.

Da par mio, sapevo di non agitarmi durante il sonno ma, a quanto pareva, neppure Duncan era una persona dal riposo agitato.

Tanto meglio.

Ero più che certa che, se lui mi avesse centrato con un gomito, avrei collezionato ben più di un livido.

Sorprendentemente, il fatto di aver dormito fianco a fianco con un perfetto sconosciuto, all’interno dello spazio ristretto della tenda, non mi aveva procurato alcun problema.

Ancora una volta, ebbi la sensazione di conoscere Duncan da una vita intera, e non solo da un giorno.

Ma, forse, questo dipendeva dai miei poteri appena risvegliati e dal fatto non indifferente che il mio dono – dono? – mi permetteva di comprendere al volo le intenzioni di Duncan.

A quanto pareva, erano tutto tranne che losche.

Non che il venire a conoscenza di questo fatto mi rendesse felice.

O meglio, ero contenta che Duncan non avesse cattive intenzioni, ma il come fossi riuscita a comprenderlo ancora mi dava parecchia noia.

Non ero abituata a fare i conti con argomenti così fuori dagli schemi.

Se già accettare la licantropia di Duncan era stato un traguardo, il venire a patti con me stessa sarebbe stata un’impresa titanica.

Speravo solo di non impazzire nel tentativo di venire a capo di tutto.

In ogni caso, avrei sicuramente ragionato meglio dopo aver ingerito qualcosa da mangiare, perciò mi mossi per uscire dalla tenda e preparare la colazione

Duncan, però, mi trattenne per un braccio e sussurrò: “Aspetta… non vorrai spaventarlo.”

“Spaventare chi?” esalai, sgranando gli occhi.

“Il cerbiatto che si sta abbeverando al torrente” mi spiegò, come se nulla fosse.

“Che!? Un cerbiatto!?” esclamai a gran voce, tutta eccitata dalla notizia.

Duncan rise sommessamente, mentre lo scalpiccio improvviso di zoccoli sbattuti sulla superficie del torrente mi disse che il cerbiatto mi aveva sentita.

Colpendomi la fronte con una mano per la mia idiozia, feci la linguaccia a Duncan perché stava continuando a ridere con sempre maggiore gusto.

Con gesti rigidi, uscii dalla tenda e ringhiai: “Cosa pretendevi? Potevi anche dirmelo con maggiore tatto.”

“Non sapevo saresti stata così entusiasta della cosa” si discolpò, uscendo carponi dalla tenda, tutto allegro.

Sbuffai, ignorandolo completamente e, stando ben attenta a non scivolare sulle rocce della riva del torrente, mi piegai su un ginocchio e affondai le mani nell’acqua gelida per sciacquarmi il viso.

Lui mi imitò, il lungo e possente corpo ripiegato su se stesso mentre compiva quelle semplici abluzioni.

Solo in quel momento mi accorsi di un particolare che, durante la nostra fuga rocambolesca, non avevo notato.

I suoi piedi nudi poggiavano con disinvoltura sulla roccia fredda.

Fin dai nostri primi passi nel bosco, avevano camminato su terriccio, fogliame, pietre e rami senza che lui accennasse anche solo minimamente a un qualche tipo di fastidio.

“Scusa se non ho pensato alle scarpe, ma temo che quelle di Patrick non ti sarebbero comunque andate bene” mi premurai di dirgli, alzandomi e spazzandomi le mani bagnate sui pantaloni da trekking che indossavo.

Duncan si guardò un momento i piedi prima di alzarsi a sua volta e replicare: “Nessun problema… non mi fanno male. Anzi, ho maggiore sensibilità, così.”

“Non rischi di ferirti con qualcosa?” gli chiesi, tornandomene al campo con lui.

“Non sarebbe un problema, se ben ricordi e poi no, è davvero difficile che possa ferirmi a questo modo” mi rassicurò, osservando poi il cielo ingombro di nubi.

Annusò l’aria dubbioso e, aggrottando la fronte, mi avvertì di un particolare che avrei preferito non sapere.

“Prima di sera, pioverà.”

“Ah, ottimo” sbottai.

Mi sorrise comprensivo, prima di dire: “Impiegheremo più o meno due giorni ad attraversare questo bosco, visto che non possiamo procedere speditamente a causa mia. La pioggia ci rallenterà un poco ma, in compenso, cancellerà qualsiasi nostra traccia, casomai avessero sguinzagliato i cani… o i traditori che hanno cercato di assassinarci.”

Le ultime parole quasi le sputò. Era davvero furioso, anche se faceva di tutto per non lasciar trapelare la sua rabbia.

“Pensi che il capo-clan di Glasgow stia dando la caccia ai golpisti?” mi informai.

“E’ quasi certo… anzi, spero proprio che li abbia già trovati” commentò sprezzante, prima di calmarsi un poco e aggiungere: “Sarebbe un vantaggio anche per noi. Se anche solo uno dei traditori mi avesse riconosciuto, potrebbe condurre i Cacciatori al mio branco, e questo sarebbe davvero un disastro.”

Annuii alle sue parole.

Sì, era un pericolo non indifferente ma purtroppo, almeno per il momento, l’unica cosa che potevamo fare era raggiungere quanto prima Matlock.

E sperare che non ci fosse un comitato di benvenuto, armato di fucili con munizioni in argento.

Aperto lo zaino per estrarre un paio di barrette energetiche, ne passai una a Duncan, asserendo: “Sarà meglio partire in fretta e mettere quanta più strada possibile tra noi e i cattivi, prima che venga giù il diluvio universale.”

Lui annuì, prendendo la barretta dalla mia mano e, dopo averla scartata, mi osservò mentre, con abili gesti, sistemavo la tenda all’interno della sua sacca.

Fatto ciò, allacciai le maniglie allo zaino e lo issai sulle spalle, assaporando segretamente quel peso familiare.

Fare trekking e portare pesi era una cosa normale per me e, almeno quello, non mi avrebbe mandata in confusione.

Lavorare di cervello mentre mi trovavo in un ambiente a me caro, e che aveva sempre contribuito a snebbiarmi la mente, mi avrebbe giovato allo spirito e al corpo. Dovevo venire a patti con la realtà, e prima l’avessi fatto, meglio sarebbe stato per tutti.

Duncan, piegando di lato il capo e scrutandomi dubbioso,  mi domandò: “Non vuoi che lo porti io?”

“Faremo a turno, okay?” gli proposi, incamminandomi con un sorriso sul volto. “Già camminare richiede un certo sforzo, per te. Tenerti leggero ti aiuterà a riprenderti prima… e non mi guardare come se fossi una mamma rompipalle, è chiaro?!”

Duncan scoppiò in una risatina divertita dopo aver finito il suo ultimo pezzo di barretta energetica e, guardandomi malizioso, ghignò: “Ti ho guardato così male, prima?”

“Sì” sogghignai, dando uno strattone alle stringhe dello zaino per allacciarmele in vita.

A quel modo, sarebbe stato più stabile durante la camminata.

“Prometto di non pensare a te come a una madre rompipalle, allora. Anche perché sarebbe materialmente impossibile vederti come tale, credimi” ammiccò, infilandosi in tasca la carta.

“Dovrei averti avuto in un’altra vita, in effetti” ridacchiai per diretta conseguenza, guardandomi intorno per capire da che parte dirigermi.

“Già!” esclamò lui, unendosi alla mia ilarità.

Procedendo lentamente verso sud, raggiungemmo una serie di collinette dai dolci declivi e le verdeggianti sponde, ricoperte di radi boschetti di noci e di carpini dal fusto sottile.

Tutt’intorno a noi la natura riluceva nella sua maestosa bellezza.

Avevo quasi l’impressione di essere immersa in un luogo in cui la mano dell’uomo, e la sua presenza, non fossero mai state viste prima del nostro arrivo.

Ma sapevo perfettamente che nulla, in quelle terre amene, era stato lasciato incontaminato o immutato.

Nel notare a terra i resti di un pic-nic – probabilmente, qualche cacciatore o alcuni escursionisti indisciplinati – mi fece tornare ben presto con i piedi per terra.

Di umani ce n’erano anche troppi, in giro e, ben presto, avremmo dovuto fare i conti anche con loro.

E con la stanchezza di Duncan.

A giudicare dall’affanno che ne piegava le ampie e robuste spalle, anche quei brevi e apparentemente docili pendii stavano esaurendo più velocemente del previsto la sua energia fisica.

Non mi fu difficile comprenderne il motivo.

Di certo, il cibo di cui disponevo non era sufficiente a sopperire l’incredibile dispendio di energie che, il suo corpo, stava richiedendo per ripulire il sangue dagli effetti dell’argento.

Aveva sicuramente bisogno di proteine in gran quantità.

Doveva cacciare ma, debole com’era, non poteva ancora mutare in lupo.

Il suo incedere, perciò, era difficoltoso, anche se la pista che stavamo seguendo non era così difficile da percorrere.

Decisi così di accollarmi le colpe delle numerose soste che mi auto imposi per permettergli di riposare, inventandomi dolori che non avevo o una stanchezza che non provavo.

Verso mezzogiorno, però, quel giochetto gli venne a noia e, fissandomi con espressione esasperata, sibilò rigido: “Non ho davvero bisogno che tu mi faccia da balia, credimi.”

Sogghignai ironica e, puntando le mani sui fianchi, replicai schietta: “Ti saresti mai fermato di tua spontanea volontà, se io non avessi finto di averne bisogno?”

Lui si mise a fissarmi stizzito, le scure sopracciglia aggrottate e l’aria offesa, ma non parlò.

Ringalluzzita dal suo silenzio, proseguii dicendo: “Appunto. Non ammetteresti mai di aver bisogno di riposo, da bravo  homo poco sapiens quale tu sei, per cui deve intervenire l’intelligenza femminile per sopperire a quella maschile, notoriamente ben poco sviluppata.”

Duncan sgranò gli occhi, palesemente sorpreso dalla mia battuta di spirito.

Passandosi una mano tra le onde corvine con un’espressione tra il divertito e l’esasperato, mugugnò: “Va bene, d’accordo… non l’avrei mai ammesso. Ma risparmiami i tuoi commenti da giovane femminista, okay?”

“Non sono una di quelle che dicono che le donne sono uguali, o superiori, agli uomini, tranquillo. Ci hanno fatti diversi per un motivo, e la cosa mi sta bene. Pensa che noia, se fossimo tutti uguali? Non potrei neppure punzecchiarti. Sarebbe una barba incredibile.”

“Potrei anche accettare un po’ di noia, credimi” ma, nel dirlo, ridacchiò a sua volta.

Io sorrisi con lui e, più seriamente, gli spiegai i miei intenti.

“Non importa se ci dobbiamo fermare venti volte in un’ora, Duncan. Hai bisogno di queste pause o il tuo fisico non reggerà, anche se sembri la controfigura di Rambo. Purtroppo, non ho cibo abbastanza energetico da darti. Non ero preparata a questo, ma possiamo sopperire permettendo al tuo corpo di riposarsi più spesso.”

Mi fissò per un momento prima di abbassarsi fino a sfiorare la sua fronte con la mia e, da quella distanza ravvicinata, mi guardò con caldi occhi smeraldini, sussurrando: “Obbedirò alle tue giuste argomentazioni, wicca. Hai ragione nel dire che il mio corpo necessita di riposo. Non sarò più così testardo.”

“Dubito ci riuscirai” riuscii a dire sebbene il mio cervello, in quel momento, fosse un po’ troppo concentrato sul suo profumo muschiato, e ben poco sull’argomento di cui stavamo parlando.

Duncan mi sorrise per un attimo prima di scostarsi, puntando il viso verso sud mentre io lo osservavo con occhi attenti.

Doveva essere difficile, per un uomo così forte e dal temperamento così indomito, dover sopportare una simile limitazione fisica.

E, ancora di più, accettare che una ragazzina gli dicesse cosa fare, o come comportarsi.

Eppure sopportava ogni cosa con stoicismo, senza lamentarsi. Non faceva specie che fosse un leader, all’interno del suo branco.

Sedendomi su un masso coperto di licheni marroni e gialli, lo sguardo sempre puntato su di lui, che sembrava studiare i profumi presenti nell’aria alla ricerca di eventuali pericoli, gli chiesi: “Hai detto che il vecchio Fenrir si è preso cura di te, quando si è saputo che saresti stato il suo erede. Che intendevi, esattamente?”

Duncan tornò a volgere lo sguardo verso di me.

“Le nostre famiglie ci affidano temporaneamente ai nostri mentori per un periodo che varia da uno a tre anni e, durante quel periodo di tempo, veniamo istruiti ai nostri compiti specifici all’interno del branco.”

“E una volta che ottenete il potere, che succede? Siete vincolati a esso?”

Aggrottò un momento la fronte, prima di sospirare e ammettere: “In gran parte sì, anche se è ovvio che ci viene concesso di trovare la nostra strada anche all’interno della società umana. Non ci è più consentito non interagire con loro già da parecchi secoli. Ma, in ogni caso, non possiamo mai operare troppo distanti dal branco.”

“Hai detto che interagite con gli umani, ma in che modo?” gli domandai aggrottando la fronte, pensierosa. “E’ mai capitato che qualcuno al di fuori della cerchia dei Cacciatori scoprisse chi siete in realtà?”

Duncan mi fissò con aria palesemente sorpresa.

Forse, non si aspettava che sviscerassi quell’argomento fino a quel punto, però era una cosa che, fin dall’inizio, mi era parsa strana.

Possibile che i licantropi fossero giunti sino a oggi mantenendo puro il loro sangue, senza alcuno scambio tra la razza umana e quella mannara?

Se la genetica non era un’opinione, quel rimestio di DNA comune avrebbe dovuto portarli all’estinzione secoli addietro. Eppure non era successo.

Appoggiandosi a un giovane faggio dal tronco macchiato di licheni e leggermente ripiegato su un fianco, Duncan mi fissò ironico e sì, ammirato.

Chapeau, Brianna. Hai colto al volo la pecca del nostro sistema.”

“Ebbene?”

Lo incitai a parlare con un gesto leggero della mano.

Lui mi sorrise, chiudendo un momento gli occhi come per concentrarsi meglio dopodiché, con un sospiro, tornò a fissarmi e mi spiegò: “Siamo sempre meno, e gli umani sempre di più; per sopravvivere a questo mondo, dobbiamo adeguarci.”

“Adeguarvi nel senso che penso io?” lo imbeccai perché proseguisse.

Annuendo, Duncan mormorò: “I clan che si dimostrarono più coriacei nel portare avanti la tradizione di non … beh, di non mutare gli umani in licantropi per generare prole con sangue misto, morirono nel corso di pochi secoli così, molti di noi decisero di ovviare, venendo meno al veto di non dire nulla agli umani. E’ già difficile di suo, portare avanti una gravidanza per le nostre femmine, ma senza sangue nuovo non saremmo più neppure riusciti a generare figli.”

“DNA troppo mescolati tra loro?” ipotizzai.

Lui annuì ma aggiunse: “Non solo.”

“In che senso?” volli sapere, vagamente confusa.

Cosa poteva esserci, oltre al problema genetico?

“Dipende dalla luna, oltre che dagli incroci di sangue. Conosci la genetica, immagino” mormorò, sorridendomi appena.

Al mio assenso, continuò dicendo: “In parte, come hai tu stessa accennato, dipende dal fatto che molte famiglie di licantropi si sono incrociate troppo spesso tra loro, creando intere generazioni di femmine sterili, che hanno portato così alla morte interi clan. Ma poi c’è anche il problema della luna. Finché una femmina è giovane, per lei è difficile non sentire il richiamo della bestia durante il plenilunio e, se mutasse in lupa durante la gestazione, il feto morirebbe.”

Quella notizia mi paralizzò.

Potevo capire la faccenda dei geni incrociati troppe volte. Succedeva anche tra gli umani. Ma la luna? Perché?

Rispondendo alla mia espressione chiaramente interrogativa, sussurrò mesto: “Noi non nasciamo licantropi, o meglio, siamo licantropi allo stato passivo. Diventiamo attivi con il … beh, il risveglio sessuale.”

Mi fissò, come per capire se l’argomento fosse troppo personale, ma io scossi la testa e precisai: “Ricordi che ti ho detto che voglio studiare medicina? Capisco cosa vuoi dire; quando le ragazze hanno il primo ciclo mestruale e i maschi diventano fertili, giusto?”

“Esatto” annuì, più tranquillo. “La Mutazione avviene in quel momento. Non prima. Se una femmina mutasse in lupa durante la gravidanza, il feto non potrebbe cambiare con lei, e morirebbe.”

“E quindi?” ansai, timorosa in parte di sapere.

“Il più delle volte, le femmine attendono di raggiungere un’età abbastanza avanzata per avere un figlio, cioè quando sono sufficientemente potenti per resistere al richiamo della luna. Ma questo pregiudica anche la possibilità di avere più di un figlio. Se si tratta di donne umane, invece, tendenzialmente i figli vengono concepiti prima della trasformazione in licantropo. In quel caso, i bambini nascono sicuramente con il nostro genoma, perché ha la supremazia sul vostro.”

Quella seconda ipotesi mi incuriosì parecchio.

Chissà con quale logica queste donne venivano messe al corrente della verità?

 “Come decidete a chi raccontare il vostro segreto? E succede solo per le donne, o vale anche per gli uomini? E come si diventa licantropi?” domandai a quel punto, desiderosa di dare una risposta a tutti i miei dubbi.

“Si diventa licantropi tramite il morso, il ferimento da artiglio o lo scambio di sangue quando un licantropo è in forma animale” mi spiegò Duncan, prima di aggiungere: “Per quel che riguarda i potenziali partner umani, è difficile trovare persone così fidate cui raccontare tutta la verità e, a volte, si impiegano anni per capire se una persona è adatta o meno per essere annoverata tra coloro che possono conoscere la realtà dei fatti. Alcune volte, gli esiti  non sono stati così… eccellenti.

Preferii sorvolare sulle emozioni che percepii, quando Duncan pronunciò quell’ultima parola – sicuramente sintomo di qualche grave incidente avvenuto all’interno dei clan.

Mi concentrai maggiormente su una questione che mi stava particolarmente a cuore.

“I figli interamente umani continuano a far parte del branco?” chiesi preoccupata.

“Ma certo!” esclamò, forse addirittura indignato per la domanda. “Vengono protetti con ancor più fervore degli altri. Sono figli del branco a tutti gli effetti, anche se sono umani.”

“Davvero?” esalai sorpresa. “Ed è mai capitato che, invece, loro vi tradissero?”

Si azzittì di colpo, reclinando lo sguardo a guardarsi i piedi nudi affondati tra il fogliame secco, e io preferii non andare avanti nella mia esplorazione del mondo dei licantropi.

Era evidente che qualcosa, nella loro storia passata, fosse legata un po’ troppo strettamente a quella domanda in particolare.

“Ho soddisfatto la tua curiosità?” mi chiese, dopo alcuni minuti di silenzio imbarazzato.

“Ancora una domanda” sussurrai con un sorrisino di scuse.

“Dimmi” mormorò, scrollando le spalle.

“I figli nati umani, quindi, anche se feriti da un licantropo, non mutano?”

“Non i neutri, o nulli, come li chiamiamo noi. C’è un antigene che li protegge dalla mutazione” scosse il capo Duncan. “Ci provammo, in passato, ma non funzionò mai. Per quelli interamente umani, è invece possibile la mutazione, se lo vogliono.”

Dopo alcuni attimi di silenzio, aggiunse: “E’ tutto?”

“Sì, credo di averti rotto le scatole a sufficienza, per oggi” sorrisi, alzandomi in piedi.

Lui mi imitò, scostandosi dal tronco e muovendosi con la stessa grazia che avrebbe avuto un ballerino.

Guardandolo con un misto tra invidia e ammirazione, ne studiai l’imponente struttura fisica e la linea perfetta dei tratti.

Contemporaneamente, mi chiesi se, anche in forma animale, fosse altrettanto bello e possente. Con tutta probabilità, sì.

***

La pioggia si abbatté su di noi al crepuscolo, colorando di tinte fosche e da inferno dantesco il cielo visibile attraverso le chiome delle piante che ci circondavano.

In pochi minuti, ci inzuppammo come pulcini appena usciti dall’uovo.

Il riparo offerto dagli alberi si rivelò del tutto inutile, a causa della violenza del temporale estivo che ci aveva raggiunti senza scampo.

Montai alla svelta la tenda, nonostante le mani rese scivolose dalla pioggia infernale che stava cadendo a secchiate dal cielo.

Dopo neppure un minuto di quel diabolico lavorio, ci  infilammo al suo interno per evitare di annegare in quel mare d’acqua che Dea-Eventi-Atmosferici aveva deciso di scaricare sulle nostre teste.

Tra brividi violenti e imprecazioni indirizzate a questo o quel politico, poggiai finalmente lo zaino in un angolo del nostro rifugio d’emergenza.

Fatto cio, mi accoccolai a terra, battendo i denti come una vecchia macchina da scrivere, frizionando ripetutamente le braccia per scaldarmi un poco.

La temperatura, da mite che era, crollò drasticamente, dandomi l’impressione di essere appena uscita da una ghiacciaia.

Duncan si avvicinò per aiutarmi, frizionando a sua volta le mie braccia con le sue mani enormi e bollenti mentre la sua pelle, letteralmente, emanava vapor d’acqua, neanche si fosse seduto su una stufetta.

Più che mai sorpresa e curiosa assieme – com’ero solitamente, cioè – gli chiesi a bruciapelo: “Hai un termosifone incorporato?”

Ridacchiò, scuotendo il capo e, ammiccando, asserì: “Il  potere dei licantropi mi consente di aumentare la mia temperatura corporea e potrai farlo anche tu, una volta venuta a conoscenza di quel che c’è da sapere sui tuoi doni.”

“Ah” esalai, continuando a fissare la sua pelle asciugarsi a tempi record.

“Dovresti toglierti i vestiti e cambiarti. Rischi di prendere un raffreddore, se tieni quegli abiti bagnati addosso. Hai un cambio, con te?” mi fece subito notare Duncan, massaggiandomi le mani intirizzite dal freddo.

Dire che il suo tocco fu piacevole, sarebbe stato un insulto. In quel momento ero molto vicina alla beatitudine.

Fuori, l’acqua continuava a cadere con una violenza spaventosa, neanche avessero aperto tutte le cateratte del cielo giusto per renderci la traversata più divertente.

Annuii, prima di sorridere imbarazzata e dire: “So che ti sembrerà sciocco, ma ti dispiacerebbe voltarti, o almeno chiudere gli occhi? Sai com’è.”

“Nessun problema. So che voi umani avete tabù diversi dai nostri” mi sorrise tranquillo, chiudendo gli occhi e coprendoli con le mani per darmi ulteriore prova della sua buona volontà.

Sollevando un sopracciglio con aria interessata, cominciai a curiosare nello zaino, mormorando pensosa: “E’ per quello che non hai battuto ciglio, quando sono entrata nella cantina e ho visto… beh, insomma,… com’eri?”

Io ero quasi morta d’infarto ma lui, probabilmente, non ci aveva neppure fatto caso.

“Infatti” dichiarò lapidario.

Appunto.

“Siamo creature legate alla natura, e in natura non esistono certi tabù. E poi, obiettivamente, sarebbe anche abbastanza assurdo, per noi, badare a certe cose. Durante la mutazione, i vestiti si distruggono e, quando torniamo umani, difficilmente abbiamo il cambio con noi. Non sapremmo dove tenerlo, durante la fase animale. Alcuni di noi, si portano dietro uno zaino con il necessario, che lasciano nel bosco, così da potersi rivestire una volta di ritorno dal nostro luogo di potere. Di solito si tratta dei membri che abitano più lontano ma, per la stragrande maggioranza, nessuno di noi bada a cose simili” mi spiegò in tutta tranquillità, mentre io trafficavo con la camicia inzuppata e i pantaloni incollati alle gambe.

Era difficile cambiarsi in quello spazio ristretto senza correre il rischio di toccarlo anche accidentalmente.

In tutta onestà, non ero del tutto sicura che sarei stata in grado di contenere i battiti del mio cuore, se ciò fosse accaduto.

Da brava diciannovenne sana di mente e di corpo, trovarmi vicino a un uomo come Duncan sortiva in me una certa gamma di emozioni superficiali.

Queste infide portavano il mio cuore a pompare con più energia del necessario, e nei momenti decisamente più sbagliati.

Ero più che certa che lui percepisse tutte quelle variazioni nel mio corpo con fastidiosa precisione.

Quindi, più fossi stata attenta a non toccarlo, meno possibilità avrei avuto di rendermi ridicola.

Perché non potevo farci nulla.

Duncan era davvero troppo bello per non lasciarmi andare a qualche occhiata più del necessario.

E io non ero un pezzo di legno.

Certo, non ero ai livelli di Nancy che, sicuramente, avrebbe fatto di tutto e di più per infrangere l’armatura da rispettoso cavaliere che Duncan aveva indossato fin da quando ci eravamo trovati in quella situazione.

Non potevo comunque neppure definirmi frigida.

Gli occhi ce li avevo, funzionavano benissimo, e quel che vedevano era davvero degno di nota.

A fatica, riuscii a togliermi i pantaloni, finendo tra l’altro per dare un calcio a un ginocchio di Duncan, che ridacchiò e ironizzò dicendo: “Che fai? Scalci come una puledra?”

“Quasi…” sogghignai. “… scusa.”

“Non preoccuparti… non ti ho neppure sentito” scrollò le spalle.

Mi strofinai in fretta le gambe con una salviettina di spugna, dopodiché infilai i pantaloncini di riserva e imprecai tra me per aver messo degli shorts nello zaino.

In quel momento, un secondo paio di brache da trekking sarebbero state un lusso.

Quando venne il turno della camicia, notai con disgusto che il reggiseno era fradicio e, pur non amando stare senza, non potei fare altro che toglierlo.

Sperai davvero che, nei giorni seguenti, vi fosse abbastanza caldo per farlo asciugare assieme al resto degli abiti.

Indossai in fretta anche la camicia, sbirciando a tratti Duncan che però, come promesso, non aprì gli occhi da bravo gentiluomo quale sembrava essere.

Dopo essermi sistemata le falde nei pantaloncini, ripiegai gli abiti bagnati mettendoli di fianco allo zaino e infine dissi: “Puoi riaprirli.”

Duncan obbedì e mi fissò un po’ sorpreso le gambe e i piedi nudi, prima di chiedermi dubbioso: “Non hai freddo, così?”

“Non ho pensato al diluvio universale, quando ho preparato lo zaino.”

Feci la lingua, cercando di ironizzare sulla situazione in cui ci trovavamo.

“Posso?” mi chiese allora lui, indicando i miei piedi arrossati.

L’aria era decisamente umida e fredda e, pur con il riparo offerto dalla tenda, la temperatura era comunque bassa.

Le mie dita erano già rosse come ciliegie mature. e le unghie stavano prendendo un preoccupante colore violaceo.

Nonostante ciò, mi rattrappii su me stessa, non del tutto sicura di voler approfittare oltre dei suoi servigi e, cauta, domandai: “Che intendi fare?”

“Se me lo permettessi, potrei scaldarli… o scaldarti” mi propose, allargando leggermente le braccia come a mostrarmi che non portava armi di alcun genere.

Già, a parte la sua forza spaventosa e le travi che aveva al posto dei bicipiti.

Mi leccai nervosamente le labbra, desiderosa di scaldarmi e, al tempo stesso, intimidita all’idea di lasciarmi abbracciare nuovamente da lui.

Certo, mi ero lasciata consolare da Duncan quando ero scoppiata in lacrime, ma lì la faccenda era completamente diversa.

Sì, lui aveva detto che il fatto di toccarsi, per i licantropi, era del tutto normale, e sapevo perfettamente che i suoi intenti non erano certo quelli di sedurmi o approfittare di me, però il fatto rimaneva.

Lui era un estraneo, gentile e premuroso fino allo sfinimento, ma un estraneo.

“Permetti ti asciughi almeno i capelli? Non è bene che tu li tenga fradici” mi propose a quel punto, notando la mia riluttanza a lasciarlo fare.

Annuii, timorosa di dire qualcosa che potesse offenderlo – o forse lo avevo già fatto, rifiutandomi di lasciarlo avvicinare.

Senza dire nulla, Duncan si portò dietro di me e prese le ciocche bagnate dei miei capelli tra le mani, lasciando che il suo potere facesse il resto.

Potevo percepire perfettamente il calore emanato dalle sue dita lunghe ed eleganti, stese sui miei capelli per trattenere il maggior quantitativo di ciocche per volta.

Quel tepore benefico, mi portò a chiudere gli occhi per poterlo assaporare con ogni poro della pelle.

Il suo potere avvolgente si estese fino a circondarmi completamente, come se Duncan mi avesse coperto con un mantello di velluto morbidissimo.

Senza neppure accorgermene, mi lasciai scivolare addosso al suo petto ampio e villoso.

Come se quel mio gesto lo avesse sbloccato – come aveva sbloccato me – , le sue braccia mi cinsero delicatamente la vita.

La sua guancia andò a poggiarsi sul mio capo, contribuendo a emanare il maggior quantitativo di calore possibile.

Ogni parte del mio corpo era avvolta dalla sua aura.

Protetta da quel bozzolo di pura energia, mi riscaldai gradatamente le membra intirizzite e, nel contempo, cancellai dalla mia mente l’imbarazzo iniziale causato dalla sua vicinanza.

Non c’era nulla, nelle sue carezze come nel suo potere, che suonasse sbagliato.

Stava semplicemente prendendosi cura di un membro del branco.

Io ero per lui come un membro umano del clan, da accudire con molta più sollecitudine degli altri.

Erano i miei tabù umani a crearmi dei problemi, non quello che stava facendo.

Tolti i tabù, restava solo l’atto altruistico di una persona nei confronti di un’altra, bisognosa di aiuto.

“Grazie” sussurrai a occhi chiusi, dopo alcuni minuti di silenzio.

“Di nulla” mi rispose, risollevando la testa e scostandosi un poco da me. “Ora, però, hai bisogno di pettinarli.”

Ridacchiai nel tastarmi i capelli nuovamente asciutti, ora arruffati e pieni di nodi e, annuendo, mi voltai verso di lui, inginocchiandomi tra le sue gambe ripiegate.

Emanava ancora calore, come se la sua energia non potesse semplicemente essere spenta come pigiando un interruttore.

Fissandolo negli occhi, dissi: “Ti sono grata per quello che fai per me, Fenrir di Matlock.”

Lui si fece serio e, con un cenno ossequioso del capo, replicò: “E’ un onore prendermi cura di te, wicca.”

“Sarà difficile imparare a gestire i miei… poteri?” chiesi dopo un momento, mordendomi un labbro con fare pensieroso.

“La Lupa Madre è saggia e potente. Ti aiuterà. Noi tutti ti aiuteremo” mi promise, prima di propormi: “Hai una spazzola? Te li sistemo io.”

“Lo faresti? Adoro quando mi pettinano i capelli” ridacchiai subito, sedendomi nuovamente tra le sue gambe e offrendogli la chioma disordinata.

“Lo faccio con piacere. Dove la trovo?” mi domandò, prendendo in mano il mio zaino.

“Tasca in basso, quella esterna” lo informai, tutta sorridente. “Senti Duncan…”

“Dimmi” sussurrò, armeggiando con lo zaino.

Un attimo dopo, la sua mano sollevò una ciocca dei miei lunghi capelli e io, socchiudendo gli occhi, mormorai: “Ti prenderesti cura di me anche se non fossi una wicca?”

“Certo” mi disse di getto, senza neppure pensarci. “Perché?”

“Così… volevo solo saperlo” scrollai le spalle, fingendo indifferenza.

In realtà, mi interessava parecchio.

Avevo notato subito con quanta devozione parlasse delle wiccan e, sebbene mi facesse sinistramente piacere il fatto che lui fosse così disponibile con me, allo stesso tempo mi dava fastidio.

Non avevo ancora deciso di controllare i motivi di questo fastidio – al momento avevo ben altro di cui occuparmi – ma sapevo che c’era.

Era lì, acciambellato nella mia mente, un gatto sornione e infido che non aspettava altro che di graffiarmi con i suoi lunghi artigli affilati.

Dovevo solo dargli l’imbeccata giusta per farglielo fare.

Beh, per il momento lo avrei ignorato. Non volevo altri grattacapi oltre quelli che già avevo.


  
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