6
Stavo
correndo, il terreno era sconnesso sotto i miei piedi nudi, ma non me ne
curavo.
La paura di essere catturata, e uccisa,
era superiore al dolore che provavo nel colpire con forza il terreno durante la
mia fuga precipitosa e senza meta.
Il sibilo degli spari
dietro di me era minaccioso e ferale, e la pallida falce di luna che sorrideva
nel cielo notturno non mi dava alcun conforto.
Ero troppo impegnata a
concentrarmi sui miei nemici, per apprezzarla appieno.
Caddi, sbucciandomi le
mani e le ginocchia sul terreno accidentato.
Imprecando tra i denti,
percepii un dolore cocente a una gamba, quando una pallottola penetrò le mie
carni, ferendomi.
Urlai, trattenendo con
le mani il sangue che colava dalla ferita mentre i passi pesanti dei cacciatori
si facevano sempre più forti.
Si stavano avvicinando
a me, pronti a darmi il colpo di grazia.
Fu a quel punto che un
enorme lupo bianco balzò di fronte a me, le fauci spalancate e gli occhi
iniettati di furore puro.
Attaccò i cacciatori
senza lasciarne vivo neppure uno.
Osservai la scena restando
a terra ferita e dolorante, e lui tornò da me, il pelo della gorgiera sporco di
sangue e le zanne snudate che luccicavano ferali alla luce della luna.
Ma non ebbi paura. Lui
era lì per me.
Gli accarezzai il muso
appuntito, sporcandomi col sangue dei cacciatori che aveva ucciso per salvarmi
e lui, dopo un istante, si chinò a leccarmi la ferita, che subito si rimarginò.
Fu a quel punto che mi
risvegliai, il respiro affannoso e gli occhi spalancati.
Non compresi subito
dove mi trovavo; la mia mente era ancora troppo confusa da ciò che aveva visto,
per essere lucida e attiva.
Le pareti verde oliva
della tenda mi disorientarono per un momento ma, nel percepire il peso leggero
di una mano sul mio fianco, tutto mi tornò alla mente.
Duncan. La fuga. Le wiccan. Ogni cosa.
Mi volsi lentamente,
percorrendo con lo sguardo il braccio di Duncan che, protettivo, mi cingeva la
vita.
Sorridendo, mi chiesi
se il suo potere avesse fatto intervenire il lupo nel mio sogno per salvarmi.
Tutto era possibile, a quel punto.
Un attimo dopo, i suoi
occhi smeraldini si posarono sul mio viso e un lento sorriso si dipinse sul suo
volto nel sussurrarmi: “Buongiorno… tutto bene?”
Indicando il braccio
che ancora riposava sulla mia vita, gli domandai: “Sei stato tu?”
“Ti agitavi nel sonno…
è servito?” assentì, guardandomi pensieroso.
Annuii a mia volta,
prima di dire: “Mi hai salvata dai cacciatori. Grazie.”
Si adombrò un poco, nel
saperlo, e borbottò: “Non era davvero un bel sogno, allora.”
“No” ammisi, mentre il
suo braccio abbandonava il mio fianco. “Spero di non averti disturbato. Hai
bisogno di riposo, per riprendere le forze.”
Duncan scosse il capo,
un sopracciglio leggermente sollevato con ironia, e mi fece notare un particolare,
a quanto pare, per lui molto importante.
“Non sono così debole, Brianna… e no, non mi hai
disturbato. “Hai iniziato ad agitarti meno di mezz’ora fa.”
“Meno male” sorrisi,
tirando un sospiro di sollievo nel mettermi a sedere.
Osservai divertita le
pareti di tela arrotondata della tenda e i nostri due corpi ripiegati
all’interno, e mi venne voglia di liberare la risata che aleggiava ai lati
della mia bocca.
In compagnia di
Elspeth, con cui di solito dormivo in campeggio, ero sempre stata solita ridere
della mia decisione di comprarmi un affare così grosso e ingombrante.
Ora che lo dividevo con
Duncan, non mi parve più così grande.
Anzi, mi stupii che,
durante la notte, non ci fossimo presi a gomitate nei fianchi.
Da par mio, sapevo di
non agitarmi durante il sonno ma, a quanto pareva, neppure Duncan era una
persona dal riposo agitato.
Tanto meglio.
Ero più che certa che,
se lui mi avesse centrato con un gomito, avrei collezionato ben più di un
livido.
Sorprendentemente, il
fatto di aver dormito fianco a fianco con un perfetto sconosciuto, all’interno
dello spazio ristretto della tenda, non mi aveva procurato alcun problema.
Ancora una volta, ebbi
la sensazione di conoscere Duncan da una vita intera, e non solo da un giorno.
Ma, forse, questo dipendeva
dai miei poteri appena risvegliati e dal fatto non indifferente che il mio dono
– dono? – mi permetteva di comprendere al volo le intenzioni di Duncan.
A quanto pareva, erano
tutto tranne che losche.
Non che il venire a
conoscenza di questo fatto mi rendesse felice.
O meglio, ero contenta
che Duncan non avesse cattive intenzioni, ma il come fossi riuscita a comprenderlo ancora mi dava parecchia noia.
Non ero abituata a fare
i conti con argomenti così fuori
dagli schemi.
Se già accettare la
licantropia di Duncan era stato un traguardo, il venire a patti con me stessa
sarebbe stata un’impresa titanica.
Speravo solo di non
impazzire nel tentativo di venire a capo di tutto.
In ogni caso, avrei
sicuramente ragionato meglio dopo aver ingerito qualcosa da mangiare, perciò mi
mossi per uscire dalla tenda e preparare la colazione
Duncan, però, mi trattenne
per un braccio e sussurrò: “Aspetta… non vorrai spaventarlo.”
“Spaventare chi?” esalai,
sgranando gli occhi.
“Il cerbiatto che si
sta abbeverando al torrente” mi spiegò, come se nulla fosse.
“Che!? Un cerbiatto!?”
esclamai a gran voce, tutta eccitata dalla notizia.
Duncan rise
sommessamente, mentre lo scalpiccio improvviso di zoccoli sbattuti sulla
superficie del torrente mi disse che il cerbiatto mi aveva sentita.
Colpendomi la fronte
con una mano per la mia idiozia, feci la linguaccia a Duncan perché stava
continuando a ridere con sempre maggiore gusto.
Con gesti rigidi, uscii
dalla tenda e ringhiai: “Cosa pretendevi? Potevi anche dirmelo con maggiore
tatto.”
“Non sapevo saresti
stata così entusiasta della cosa” si discolpò, uscendo carponi dalla tenda,
tutto allegro.
Sbuffai, ignorandolo
completamente e, stando ben attenta a non scivolare sulle rocce della riva del
torrente, mi piegai su un ginocchio e affondai le mani nell’acqua gelida per
sciacquarmi il viso.
Lui mi imitò, il lungo
e possente corpo ripiegato su se stesso mentre compiva quelle semplici
abluzioni.
Solo in quel momento mi
accorsi di un particolare che, durante la nostra fuga rocambolesca, non avevo
notato.
I suoi piedi nudi
poggiavano con disinvoltura sulla roccia fredda.
Fin dai nostri primi
passi nel bosco, avevano camminato su terriccio, fogliame, pietre e rami senza
che lui accennasse anche solo minimamente a un qualche tipo di fastidio.
“Scusa se non ho
pensato alle scarpe, ma temo che quelle di Patrick non ti sarebbero comunque
andate bene” mi premurai di dirgli, alzandomi e spazzandomi le mani bagnate sui
pantaloni da trekking che indossavo.
Duncan si guardò un
momento i piedi prima di alzarsi a sua volta e replicare: “Nessun problema… non
mi fanno male. Anzi, ho maggiore sensibilità, così.”
“Non rischi di ferirti
con qualcosa?” gli chiesi, tornandomene al campo con lui.
“Non sarebbe un
problema, se ben ricordi e poi no, è davvero difficile che possa ferirmi a
questo modo” mi rassicurò, osservando poi il cielo ingombro di nubi.
Annusò l’aria dubbioso e,
aggrottando la fronte, mi avvertì di un particolare che avrei preferito non
sapere.
“Prima di sera,
pioverà.”
“Ah, ottimo” sbottai.
Mi sorrise comprensivo,
prima di dire: “Impiegheremo più o meno due giorni ad attraversare questo
bosco, visto che non possiamo procedere speditamente a causa mia. La pioggia ci
rallenterà un poco ma, in compenso, cancellerà qualsiasi nostra traccia, casomai
avessero sguinzagliato i cani… o i traditori che hanno cercato di
assassinarci.”
Le ultime parole quasi
le sputò. Era davvero furioso, anche se faceva di tutto per non lasciar
trapelare la sua rabbia.
“Pensi che il capo-clan
di Glasgow stia dando la caccia ai golpisti?” mi informai.
“E’ quasi certo… anzi,
spero proprio che li abbia già trovati” commentò sprezzante, prima di calmarsi
un poco e aggiungere: “Sarebbe un vantaggio anche per noi. Se anche solo uno
dei traditori mi avesse riconosciuto, potrebbe condurre i Cacciatori al mio
branco, e questo sarebbe davvero un disastro.”
Annuii alle sue parole.
Sì, era un pericolo non
indifferente ma purtroppo, almeno per il momento, l’unica cosa che potevamo
fare era raggiungere quanto prima Matlock.
E sperare che non ci
fosse un comitato di benvenuto, armato di fucili con munizioni in argento.
Aperto lo zaino per
estrarre un paio di barrette energetiche, ne passai una a Duncan, asserendo:
“Sarà meglio partire in fretta e mettere quanta più strada possibile tra noi e
i cattivi, prima che venga giù il diluvio universale.”
Lui annuì, prendendo la
barretta dalla mia mano e, dopo averla scartata, mi osservò mentre, con abili
gesti, sistemavo la tenda all’interno della sua sacca.
Fatto ciò, allacciai le
maniglie allo zaino e lo issai sulle spalle, assaporando segretamente quel peso
familiare.
Fare trekking e portare
pesi era una cosa normale per me e, almeno quello, non mi avrebbe mandata in
confusione.
Lavorare di cervello
mentre mi trovavo in un ambiente a me caro, e che aveva sempre contribuito a
snebbiarmi la mente, mi avrebbe giovato allo spirito e al corpo. Dovevo venire
a patti con la realtà, e prima l’avessi fatto, meglio sarebbe stato per tutti.
Duncan, piegando di
lato il capo e scrutandomi dubbioso, mi
domandò: “Non vuoi che lo porti io?”
“Faremo a turno, okay?”
gli proposi, incamminandomi con un sorriso sul volto. “Già camminare richiede
un certo sforzo, per te. Tenerti leggero ti aiuterà a riprenderti prima… e non
mi guardare come se fossi una mamma rompipalle, è chiaro?!”
Duncan scoppiò in una
risatina divertita dopo aver finito il suo ultimo pezzo di barretta energetica
e, guardandomi malizioso, ghignò: “Ti ho guardato così male, prima?”
“Sì” sogghignai, dando
uno strattone alle stringhe dello zaino per allacciarmele in vita.
A quel modo, sarebbe
stato più stabile durante la camminata.
“Prometto di non
pensare a te come a una madre rompipalle, allora. Anche perché sarebbe
materialmente impossibile vederti come tale, credimi” ammiccò, infilandosi in
tasca la carta.
“Dovrei averti avuto in
un’altra vita, in effetti” ridacchiai per diretta conseguenza, guardandomi
intorno per capire da che parte dirigermi.
“Già!” esclamò lui,
unendosi alla mia ilarità.
Procedendo lentamente verso
sud, raggiungemmo una serie di collinette dai dolci declivi e le verdeggianti
sponde, ricoperte di radi boschetti di noci e di carpini dal fusto sottile.
Tutt’intorno a noi la
natura riluceva nella sua maestosa bellezza.
Avevo quasi
l’impressione di essere immersa in un luogo in cui la mano dell’uomo, e la sua
presenza, non fossero mai state viste prima del nostro arrivo.
Ma sapevo perfettamente
che nulla, in quelle terre amene, era stato lasciato incontaminato o immutato.
Nel notare a terra i
resti di un pic-nic – probabilmente, qualche cacciatore o alcuni escursionisti
indisciplinati – mi fece tornare ben presto con i piedi per terra.
Di umani ce n’erano
anche troppi, in giro e, ben presto, avremmo dovuto fare i conti anche con
loro.
E con la stanchezza di
Duncan.
A giudicare dall’affanno
che ne piegava le ampie e robuste spalle, anche quei brevi e apparentemente
docili pendii stavano esaurendo più velocemente del previsto la sua energia
fisica.
Non mi fu difficile
comprenderne il motivo.
Di certo, il cibo di
cui disponevo non era sufficiente a sopperire l’incredibile dispendio di
energie che, il suo corpo, stava richiedendo per ripulire il sangue dagli
effetti dell’argento.
Aveva sicuramente
bisogno di proteine in gran quantità.
Doveva cacciare ma,
debole com’era, non poteva ancora mutare in lupo.
Il suo incedere,
perciò, era difficoltoso, anche se la pista che stavamo seguendo non era così
difficile da percorrere.
Decisi così di
accollarmi le colpe delle numerose soste che mi auto imposi per permettergli di
riposare, inventandomi dolori che non avevo o una stanchezza che non provavo.
Verso mezzogiorno, però,
quel giochetto gli venne a noia e, fissandomi con espressione esasperata, sibilò
rigido: “Non ho davvero bisogno che tu mi faccia da balia, credimi.”
Sogghignai ironica e, puntando
le mani sui fianchi, replicai schietta: “Ti saresti mai fermato di tua
spontanea volontà, se io non avessi finto di averne bisogno?”
Lui si mise a fissarmi
stizzito, le scure sopracciglia aggrottate e l’aria offesa, ma non parlò.
Ringalluzzita dal suo
silenzio, proseguii dicendo: “Appunto. Non ammetteresti mai di aver bisogno di
riposo, da bravo homo poco sapiens quale
tu sei, per cui deve intervenire l’intelligenza femminile per sopperire a
quella maschile, notoriamente ben poco sviluppata.”
Duncan sgranò gli
occhi, palesemente sorpreso dalla mia battuta di spirito.
Passandosi una mano tra
le onde corvine con un’espressione tra il divertito e l’esasperato, mugugnò:
“Va bene, d’accordo… non l’avrei mai ammesso. Ma risparmiami i tuoi commenti da
giovane femminista, okay?”
“Non sono una di quelle
che dicono che le donne sono uguali, o superiori, agli uomini, tranquillo. Ci
hanno fatti diversi per un motivo, e la cosa mi sta bene. Pensa che noia, se
fossimo tutti uguali? Non potrei neppure punzecchiarti. Sarebbe una barba
incredibile.”
“Potrei anche accettare
un po’ di noia, credimi” ma, nel dirlo, ridacchiò a sua volta.
Io sorrisi con lui e,
più seriamente, gli spiegai i miei intenti.
“Non importa se ci
dobbiamo fermare venti volte in un’ora, Duncan. Hai bisogno di queste pause o il tuo fisico non reggerà, anche se
sembri la controfigura di Rambo. Purtroppo, non ho cibo abbastanza energetico
da darti. Non ero preparata a questo, ma possiamo sopperire permettendo al tuo
corpo di riposarsi più spesso.”
Mi fissò per un momento
prima di abbassarsi fino a sfiorare la sua fronte con la mia e, da quella
distanza ravvicinata, mi guardò con caldi occhi smeraldini, sussurrando:
“Obbedirò alle tue giuste argomentazioni, wicca.
Hai ragione nel dire che il mio corpo necessita di riposo. Non sarò più così
testardo.”
“Dubito ci riuscirai”
riuscii a dire sebbene il mio cervello, in quel momento, fosse un po’ troppo
concentrato sul suo profumo muschiato, e ben poco sull’argomento di cui stavamo
parlando.
Duncan mi sorrise per
un attimo prima di scostarsi, puntando il viso verso sud mentre io lo osservavo
con occhi attenti.
Doveva essere
difficile, per un uomo così forte e dal temperamento così indomito, dover
sopportare una simile limitazione fisica.
E, ancora di più, accettare
che una ragazzina gli dicesse cosa fare, o come comportarsi.
Eppure sopportava ogni
cosa con stoicismo, senza lamentarsi. Non faceva specie che fosse un leader,
all’interno del suo branco.
Sedendomi su un masso
coperto di licheni marroni e gialli, lo sguardo sempre puntato su di lui, che
sembrava studiare i profumi presenti nell’aria alla ricerca di eventuali
pericoli, gli chiesi: “Hai detto che il vecchio Fenrir si è preso cura di te,
quando si è saputo che saresti stato il suo erede. Che intendevi, esattamente?”
Duncan tornò a volgere
lo sguardo verso di me.
“Le nostre famiglie ci
affidano temporaneamente ai nostri mentori per un periodo che varia da uno a
tre anni e, durante quel periodo di tempo, veniamo istruiti ai nostri compiti
specifici all’interno del branco.”
“E una volta che
ottenete il potere, che succede? Siete vincolati a esso?”
Aggrottò un momento la
fronte, prima di sospirare e ammettere: “In gran parte sì, anche se è ovvio che
ci viene concesso di trovare la nostra strada anche all’interno della società
umana. Non ci è più consentito non interagire con loro già da parecchi secoli.
Ma, in ogni caso, non possiamo mai operare troppo distanti dal branco.”
“Hai detto che
interagite con gli umani, ma in che modo?” gli domandai aggrottando la fronte,
pensierosa. “E’ mai capitato che qualcuno al di fuori della cerchia dei
Cacciatori scoprisse chi siete in realtà?”
Duncan mi fissò con
aria palesemente sorpresa.
Forse, non si aspettava
che sviscerassi quell’argomento fino a quel punto, però era una cosa che, fin
dall’inizio, mi era parsa strana.
Possibile che i
licantropi fossero giunti sino a oggi mantenendo puro il loro sangue, senza
alcuno scambio tra la razza umana e quella mannara?
Se la genetica non era
un’opinione, quel rimestio di DNA comune avrebbe dovuto portarli all’estinzione
secoli addietro. Eppure non era successo.
Appoggiandosi a un
giovane faggio dal tronco macchiato di licheni e leggermente ripiegato su un
fianco, Duncan mi fissò ironico e sì, ammirato.
“Chapeau, Brianna. Hai colto al volo la pecca del nostro sistema.”
“Ebbene?”
Lo incitai a parlare
con un gesto leggero della mano.
Lui mi sorrise,
chiudendo un momento gli occhi come per concentrarsi meglio dopodiché, con un
sospiro, tornò a fissarmi e mi spiegò: “Siamo sempre meno, e gli umani sempre
di più; per sopravvivere a questo mondo, dobbiamo adeguarci.”
“Adeguarvi nel senso
che penso io?” lo imbeccai perché proseguisse.
Annuendo, Duncan mormorò:
“I clan che si dimostrarono più coriacei nel portare avanti la tradizione di
non … beh, di non mutare gli umani in licantropi per generare prole con sangue
misto, morirono nel corso di pochi secoli così, molti di noi decisero di
ovviare, venendo meno al veto di non dire nulla agli umani. E’ già difficile di
suo, portare avanti una gravidanza per le nostre femmine, ma senza sangue nuovo
non saremmo più neppure riusciti a generare figli.”
“DNA troppo mescolati
tra loro?” ipotizzai.
Lui annuì ma aggiunse:
“Non solo.”
“In che senso?” volli
sapere, vagamente confusa.
Cosa poteva esserci,
oltre al problema genetico?
“Dipende dalla luna,
oltre che dagli incroci di sangue. Conosci la genetica, immagino” mormorò,
sorridendomi appena.
Al mio assenso,
continuò dicendo: “In parte, come hai tu stessa accennato, dipende dal fatto
che molte famiglie di licantropi si sono incrociate troppo spesso tra loro,
creando intere generazioni di femmine sterili, che hanno portato così alla
morte interi clan. Ma poi c’è anche il problema della luna. Finché una femmina
è giovane, per lei è difficile non sentire il richiamo della bestia durante il
plenilunio e, se mutasse in lupa durante la gestazione, il feto morirebbe.”
Quella notizia mi
paralizzò.
Potevo capire la
faccenda dei geni incrociati troppe volte. Succedeva anche tra gli umani. Ma la
luna? Perché?
Rispondendo alla mia
espressione chiaramente interrogativa, sussurrò mesto: “Noi non nasciamo
licantropi, o meglio, siamo licantropi allo stato passivo. Diventiamo attivi
con il … beh, il risveglio sessuale.”
Mi fissò, come per
capire se l’argomento fosse troppo personale, ma io scossi la testa e precisai:
“Ricordi che ti ho detto che voglio studiare medicina? Capisco cosa vuoi dire;
quando le ragazze hanno il primo ciclo mestruale e i maschi diventano fertili,
giusto?”
“Esatto” annuì, più
tranquillo. “La Mutazione avviene in quel momento. Non prima. Se una femmina
mutasse in lupa durante la gravidanza, il feto non potrebbe cambiare con lei, e
morirebbe.”
“E quindi?” ansai,
timorosa in parte di sapere.
“Il più delle volte, le
femmine attendono di raggiungere un’età abbastanza avanzata per avere un
figlio, cioè quando sono sufficientemente potenti per resistere al richiamo
della luna. Ma questo pregiudica anche la possibilità di avere più di un
figlio. Se si tratta di donne umane, invece, tendenzialmente i figli vengono
concepiti prima della trasformazione in licantropo. In quel caso, i bambini
nascono sicuramente con il nostro genoma, perché ha la supremazia sul vostro.”
Quella seconda ipotesi
mi incuriosì parecchio.
Chissà con quale logica
queste donne venivano messe al corrente della verità?
“Come decidete a chi raccontare il vostro
segreto? E succede solo per le donne, o vale anche per gli uomini? E come si
diventa licantropi?” domandai a quel punto, desiderosa di dare una risposta a
tutti i miei dubbi.
“Si diventa licantropi
tramite il morso, il ferimento da artiglio o lo scambio di sangue quando un
licantropo è in forma animale” mi spiegò Duncan, prima di aggiungere: “Per quel
che riguarda i potenziali partner umani, è difficile trovare persone così fidate
cui raccontare tutta la verità e, a volte, si impiegano anni per capire se una
persona è adatta o meno per essere annoverata tra coloro che possono conoscere
la realtà dei fatti. Alcune volte, gli esiti
non sono stati così… eccellenti.”
Preferii sorvolare
sulle emozioni che percepii, quando Duncan pronunciò quell’ultima parola –
sicuramente sintomo di qualche grave incidente avvenuto all’interno dei clan.
Mi concentrai
maggiormente su una questione che mi stava particolarmente a cuore.
“I figli interamente
umani continuano a far parte del branco?” chiesi preoccupata.
“Ma certo!” esclamò,
forse addirittura indignato per la domanda. “Vengono protetti con ancor più
fervore degli altri. Sono figli del branco a tutti gli effetti, anche se sono
umani.”
“Davvero?” esalai
sorpresa. “Ed è mai capitato che, invece, loro vi tradissero?”
Si azzittì di colpo,
reclinando lo sguardo a guardarsi i piedi nudi affondati tra il fogliame secco,
e io preferii non andare avanti nella mia esplorazione del mondo dei
licantropi.
Era evidente che
qualcosa, nella loro storia passata, fosse legata un po’ troppo strettamente a
quella domanda in particolare.
“Ho soddisfatto la tua
curiosità?” mi chiese, dopo alcuni minuti di silenzio imbarazzato.
“Ancora una domanda”
sussurrai con un sorrisino di scuse.
“Dimmi” mormorò,
scrollando le spalle.
“I figli nati umani,
quindi, anche se feriti da un licantropo, non mutano?”
“Non i neutri, o nulli,
come li chiamiamo noi. C’è un antigene che li protegge dalla mutazione” scosse
il capo Duncan. “Ci provammo, in passato, ma non funzionò mai. Per quelli interamente umani, è invece possibile la
mutazione, se lo vogliono.”
Dopo alcuni attimi di
silenzio, aggiunse: “E’ tutto?”
“Sì, credo di averti
rotto le scatole a sufficienza, per oggi” sorrisi, alzandomi in piedi.
Lui mi imitò,
scostandosi dal tronco e muovendosi con la stessa grazia che avrebbe avuto un
ballerino.
Guardandolo con un
misto tra invidia e ammirazione, ne studiai l’imponente struttura fisica e la
linea perfetta dei tratti.
Contemporaneamente, mi
chiesi se, anche in forma animale, fosse altrettanto bello e possente. Con
tutta probabilità, sì.
***
La pioggia si abbatté
su di noi al crepuscolo, colorando di tinte fosche e da inferno dantesco il
cielo visibile attraverso le chiome delle piante che ci circondavano.
In pochi minuti, ci
inzuppammo come pulcini appena usciti dall’uovo.
Il riparo offerto dagli
alberi si rivelò del tutto inutile, a causa della violenza del temporale estivo
che ci aveva raggiunti senza scampo.
Montai alla svelta la
tenda, nonostante le mani rese scivolose dalla pioggia infernale che stava
cadendo a secchiate dal cielo.
Dopo neppure un minuto
di quel diabolico lavorio, ci infilammo
al suo interno per evitare di annegare in quel mare d’acqua che Dea-Eventi-Atmosferici
aveva deciso di scaricare sulle nostre teste.
Tra brividi violenti e
imprecazioni indirizzate a questo o quel politico, poggiai finalmente lo zaino
in un angolo del nostro rifugio d’emergenza.
Fatto cio, mi
accoccolai a terra, battendo i denti come una vecchia macchina da scrivere,
frizionando ripetutamente le braccia per scaldarmi un poco.
La temperatura, da mite
che era, crollò drasticamente, dandomi l’impressione di essere appena uscita da
una ghiacciaia.
Duncan si avvicinò per
aiutarmi, frizionando a sua volta le mie braccia con le sue mani enormi e
bollenti mentre la sua pelle, letteralmente, emanava vapor d’acqua, neanche si fosse
seduto su una stufetta.
Più che mai sorpresa e
curiosa assieme – com’ero solitamente, cioè – gli chiesi a bruciapelo: “Hai un
termosifone incorporato?”
Ridacchiò, scuotendo il
capo e, ammiccando, asserì: “Il potere
dei licantropi mi consente di aumentare la mia temperatura corporea e potrai
farlo anche tu, una volta venuta a conoscenza di quel che c’è da sapere sui
tuoi doni.”
“Ah” esalai,
continuando a fissare la sua pelle asciugarsi a tempi record.
“Dovresti toglierti i
vestiti e cambiarti. Rischi di prendere un raffreddore, se tieni quegli abiti
bagnati addosso. Hai un cambio, con te?” mi fece subito notare Duncan, massaggiandomi
le mani intirizzite dal freddo.
Dire che il suo tocco fu
piacevole, sarebbe stato un insulto. In quel momento ero molto vicina alla
beatitudine.
Fuori, l’acqua
continuava a cadere con una violenza spaventosa, neanche avessero aperto tutte
le cateratte del cielo giusto per renderci la traversata più divertente.
Annuii, prima di
sorridere imbarazzata e dire: “So che ti sembrerà sciocco, ma ti dispiacerebbe
voltarti, o almeno chiudere gli occhi? Sai com’è.”
“Nessun problema. So
che voi umani avete tabù diversi dai nostri” mi sorrise tranquillo, chiudendo
gli occhi e coprendoli con le mani per darmi ulteriore prova della sua buona
volontà.
Sollevando un
sopracciglio con aria interessata, cominciai a curiosare nello zaino, mormorando
pensosa: “E’ per quello che non hai battuto ciglio, quando sono entrata nella
cantina e ho visto… beh, insomma,… com’eri?”
Io ero quasi morta
d’infarto ma lui, probabilmente, non ci aveva neppure fatto caso.
“Infatti” dichiarò
lapidario.
Appunto.
“Siamo creature legate
alla natura, e in natura non esistono certi tabù. E poi, obiettivamente,
sarebbe anche abbastanza assurdo, per noi, badare a certe cose. Durante la
mutazione, i vestiti si distruggono e, quando torniamo umani, difficilmente
abbiamo il cambio con noi. Non sapremmo dove tenerlo, durante la fase animale.
Alcuni di noi, si portano dietro uno zaino con il necessario, che lasciano nel
bosco, così da potersi rivestire una volta di ritorno dal nostro luogo di
potere. Di solito si tratta dei membri che abitano più lontano ma, per la
stragrande maggioranza, nessuno di noi bada a cose simili” mi spiegò in tutta
tranquillità, mentre io trafficavo con la camicia inzuppata e i pantaloni
incollati alle gambe.
Era difficile cambiarsi
in quello spazio ristretto senza correre il rischio di toccarlo anche
accidentalmente.
In tutta onestà, non
ero del tutto sicura che sarei stata in grado di contenere i battiti del mio
cuore, se ciò fosse accaduto.
Da brava diciannovenne
sana di mente e di corpo, trovarmi vicino a un uomo come Duncan sortiva in me
una certa gamma di emozioni superficiali.
Queste infide portavano
il mio cuore a pompare con più energia del necessario, e nei momenti
decisamente più sbagliati.
Ero più che certa che
lui percepisse tutte quelle variazioni nel mio corpo con fastidiosa precisione.
Quindi, più fossi stata
attenta a non toccarlo, meno possibilità avrei avuto di rendermi ridicola.
Perché non potevo farci
nulla.
Duncan era davvero
troppo bello per non lasciarmi andare a qualche occhiata più del necessario.
E io non ero un pezzo
di legno.
Certo, non ero ai
livelli di Nancy che, sicuramente, avrebbe fatto di tutto e di più per
infrangere l’armatura da rispettoso cavaliere che Duncan aveva indossato fin da
quando ci eravamo trovati in quella situazione.
Non potevo comunque neppure
definirmi frigida.
Gli occhi ce li avevo,
funzionavano benissimo, e quel che vedevano era davvero degno di nota.
A fatica, riuscii a
togliermi i pantaloni, finendo tra l’altro per dare un calcio a un ginocchio di
Duncan, che ridacchiò e ironizzò dicendo: “Che fai? Scalci come una puledra?”
“Quasi…” sogghignai. “…
scusa.”
“Non preoccuparti… non
ti ho neppure sentito” scrollò le spalle.
Mi strofinai in fretta
le gambe con una salviettina di spugna, dopodiché infilai i pantaloncini di riserva
e imprecai tra me per aver messo degli shorts nello zaino.
In quel momento, un
secondo paio di brache da trekking sarebbero state un lusso.
Quando venne il turno
della camicia, notai con disgusto che il reggiseno era fradicio e, pur non
amando stare senza, non potei fare altro che toglierlo.
Sperai davvero che, nei
giorni seguenti, vi fosse abbastanza caldo per farlo asciugare assieme al resto
degli abiti.
Indossai in fretta
anche la camicia, sbirciando a tratti Duncan che però, come promesso, non aprì
gli occhi da bravo gentiluomo quale sembrava essere.
Dopo essermi sistemata
le falde nei pantaloncini, ripiegai gli abiti bagnati mettendoli di fianco allo
zaino e infine dissi: “Puoi riaprirli.”
Duncan obbedì e mi
fissò un po’ sorpreso le gambe e i piedi nudi, prima di chiedermi dubbioso:
“Non hai freddo, così?”
“Non ho pensato al
diluvio universale, quando ho preparato lo zaino.”
Feci la lingua,
cercando di ironizzare sulla situazione in cui ci trovavamo.
“Posso?” mi chiese
allora lui, indicando i miei piedi arrossati.
L’aria era decisamente
umida e fredda e, pur con il riparo offerto dalla tenda, la temperatura era
comunque bassa.
Le mie dita erano già
rosse come ciliegie mature. e le unghie stavano prendendo un preoccupante
colore violaceo.
Nonostante ciò, mi
rattrappii su me stessa, non del tutto sicura di voler approfittare oltre dei
suoi servigi e, cauta, domandai: “Che intendi fare?”
“Se me lo permettessi,
potrei scaldarli… o scaldarti” mi propose, allargando leggermente le braccia
come a mostrarmi che non portava armi di alcun genere.
Già, a parte la sua
forza spaventosa e le travi che aveva al posto dei bicipiti.
Mi leccai nervosamente
le labbra, desiderosa di scaldarmi e, al tempo stesso, intimidita all’idea di
lasciarmi abbracciare nuovamente da lui.
Certo, mi ero lasciata
consolare da Duncan quando ero scoppiata in lacrime, ma lì la faccenda era
completamente diversa.
Sì, lui aveva detto che
il fatto di toccarsi, per i licantropi, era del tutto normale, e sapevo
perfettamente che i suoi intenti non erano certo quelli di sedurmi o
approfittare di me, però il fatto rimaneva.
Lui era un estraneo,
gentile e premuroso fino allo sfinimento, ma un estraneo.
“Permetti ti asciughi
almeno i capelli? Non è bene che tu li tenga fradici” mi propose a quel punto,
notando la mia riluttanza a lasciarlo fare.
Annuii, timorosa di
dire qualcosa che potesse offenderlo – o forse lo avevo già fatto, rifiutandomi
di lasciarlo avvicinare.
Senza dire nulla,
Duncan si portò dietro di me e prese le ciocche bagnate dei miei capelli tra le
mani, lasciando che il suo potere facesse il resto.
Potevo percepire
perfettamente il calore emanato dalle sue dita lunghe ed eleganti, stese sui
miei capelli per trattenere il maggior quantitativo di ciocche per volta.
Quel tepore benefico,
mi portò a chiudere gli occhi per poterlo assaporare con ogni poro della pelle.
Il suo potere
avvolgente si estese fino a circondarmi completamente, come se Duncan mi avesse
coperto con un mantello di velluto morbidissimo.
Senza neppure
accorgermene, mi lasciai scivolare addosso al suo petto ampio e villoso.
Come se quel mio gesto
lo avesse sbloccato – come aveva sbloccato me – , le sue braccia mi cinsero
delicatamente la vita.
La sua guancia andò a
poggiarsi sul mio capo, contribuendo a emanare il maggior quantitativo di
calore possibile.
Ogni parte del mio
corpo era avvolta dalla sua aura.
Protetta da quel
bozzolo di pura energia, mi riscaldai gradatamente le membra intirizzite e, nel
contempo, cancellai dalla mia mente l’imbarazzo iniziale causato dalla sua
vicinanza.
Non c’era nulla, nelle
sue carezze come nel suo potere, che suonasse sbagliato.
Stava semplicemente
prendendosi cura di un membro del branco.
Io ero per lui come un
membro umano del clan, da accudire con molta più sollecitudine degli altri.
Erano i miei tabù umani
a crearmi dei problemi, non quello che stava facendo.
Tolti i tabù, restava
solo l’atto altruistico di una persona nei confronti di un’altra, bisognosa di
aiuto.
“Grazie” sussurrai a
occhi chiusi, dopo alcuni minuti di silenzio.
“Di nulla” mi rispose,
risollevando la testa e scostandosi un poco da me. “Ora, però, hai bisogno di
pettinarli.”
Ridacchiai nel tastarmi
i capelli nuovamente asciutti, ora arruffati e pieni di nodi e, annuendo, mi
voltai verso di lui, inginocchiandomi tra le sue gambe ripiegate.
Emanava ancora calore,
come se la sua energia non potesse semplicemente essere spenta come pigiando un
interruttore.
Fissandolo negli occhi,
dissi: “Ti sono grata per quello che fai per me, Fenrir di Matlock.”
Lui si fece serio e,
con un cenno ossequioso del capo, replicò: “E’ un onore prendermi cura di te, wicca.”
“Sarà difficile
imparare a gestire i miei… poteri?” chiesi dopo un momento, mordendomi un
labbro con fare pensieroso.
“La Lupa Madre è saggia
e potente. Ti aiuterà. Noi tutti ti aiuteremo” mi promise, prima di propormi:
“Hai una spazzola? Te li sistemo io.”
“Lo faresti? Adoro
quando mi pettinano i capelli” ridacchiai subito, sedendomi nuovamente tra le
sue gambe e offrendogli la chioma disordinata.
“Lo faccio con piacere.
Dove la trovo?” mi domandò, prendendo in mano il mio zaino.
“Tasca in basso, quella
esterna” lo informai, tutta sorridente. “Senti Duncan…”
“Dimmi” sussurrò,
armeggiando con lo zaino.
Un attimo dopo, la sua
mano sollevò una ciocca dei miei lunghi capelli e io, socchiudendo gli occhi, mormorai:
“Ti prenderesti cura di me anche se non fossi una wicca?”
“Certo” mi disse di
getto, senza neppure pensarci. “Perché?”
“Così… volevo solo
saperlo” scrollai le spalle, fingendo indifferenza.
In realtà, mi interessava
parecchio.
Avevo notato subito con
quanta devozione parlasse delle wiccan
e, sebbene mi facesse sinistramente piacere il fatto che lui fosse così
disponibile con me, allo stesso tempo mi dava fastidio.
Non avevo ancora deciso
di controllare i motivi di questo fastidio – al momento avevo ben altro di cui
occuparmi – ma sapevo che c’era.
Era lì, acciambellato
nella mia mente, un gatto sornione e infido che non aspettava altro che di
graffiarmi con i suoi lunghi artigli affilati.
Dovevo solo dargli l’imbeccata
giusta per farglielo fare.
Beh, per il momento lo
avrei ignorato. Non volevo altri grattacapi oltre quelli che già avevo.