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Autore: Mary P_Stark    18/07/2012    5 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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7

 

 

 

 

  Un lupo dorato stava ululando alla luna pallida nel cielo, un grido disperato e sopraffatto da una tensione che percepivo in maniera palpabile.

Ogni fibra del suo corpo sembrava tesa in direzione di quella goccia di perlaceo splendore, che scintillava solitaria nel cielo.

Quasi quel rilucente astro nel manto cupo della notte potesse, in qualche modo, porre un termine alla sua ansia.

Attorno a lui, distanti e vicini al tempo stesso, altri lupi.

Stesi a terra su erba fresca e umida di rugiada notturna, attendevano pazienti di potersi unire a quel canto accorato e pieno di speranza e timore.

Un secondo lupo, dal manto corvino, si unì al lupo rossiccio.

A quel punto, tutti eruppero in una sentita preghiera in direzione della luna, che si mescolò al vento e al profumo dei gelsomini.

Mi risvegliai con uno sbadiglio e un profumo di fiori nelle narici, la mente già pronta a dare il buongiorno al mio compagno di viaggio.

Quando, però, mi volsi verso Duncan, mi accorsi subito che qualcosa non andava.

Le sue narici erano dilatate, gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate, come se fosse concentrato su qualcosa di estremamente importante.

I riccioli morbidi gli danzavano attorno al viso apparentemente riposato e fresco, ma la sua espressione mi fece capire che qualcosa lo turbava.

Non appena mi vide sveglia, rilassò impercettibilmente i tratti del viso e, roco, mi chiese: “Cos’hai sognato, Brianna?”

“Eh?” esalai, ancora un po’ confusa. Quella domanda mi spiazzò.

“Pensa a cos’hai sognato, per favore” insisté gentilmente Duncan mettendosi a sedere, le narici ancora dilatate e vibranti.

Lo imitai e, a sorpresa, percepii ancora il profumo di gelsomino nell’aria.

Confusa, gli domandai: “Sono fuori di testa, o c’è profumo di gelsomino?”

“Sei tu a emanarlo, Brianna” mormorò distrattamente lui.

Io sgranai gli occhi a palla per diretta conseguenza e Duncan, accorgendosi subito di quel che aveva appena detto, mi sorrise spiacente.

“Non spaventarti; è uno dei tuoi poteri. Solo, mi chiedevo perché proprio il gelsomino.”

Completamente frastornata, la mente appena desta che già chiedeva requie, esalai scioccata: “Cioè, no… aspetta… cos’è questa storia?!”

Passandosi una mano sul viso con l’aria di essersi pentito amaramente di aver aperto bocca, mi sfiorò subito dopo il viso con dita leggere e calde.

Gentilmente, sussurrò suadente: “I sogni delle wiccan, spesso e volentieri, non sono solo parti incoscienti della mente, ma autentici messaggi.”

“E posso anche emettere… profumo?” ansai, ancora abbastanza turbata.

Fico. Potevo fare dei sogni premonitori in 4D?

Ero da ricovero. Sicuramente.

Lui ridacchiò impacciato, notando la mia espressione ai limiti del panico.

Scivolando con le mani a prendere le mie, fredde come ghiaccioli, iniziò a sfiorarmi i polsi con i pollici in lenti e incantevoli massaggi circolari.

Con parole appena sussurrate, mi spiegò ciò che ancora faticavo a digerire.

“Se è importante, sì. E per me lo è, ma vorrei essere certo di non sbagliarmi. Per questo, ti ho chiesto cos’hai sognato.”

“Lupi” riuscii a dire, deglutendo a fatica.

Il suo massaggio era ipnotizzante, e anche rammentare una cosa semplice come il sogno di cui ero stata protagonista, sembrava un’impresa titanica.

“Cioè, no… licantropi. Mi hai detto che Hati e Sköll hanno manti nero e biondo-rossiccio, per cui erano sicuramente loro. C’erano altri lupi che li circondavano, e stavano ululando alla luna. Il vento si è levato a portar via le loro voci, assieme al profumo di gelsomino… non ricordo altro.”

Mi sorrise allegro, persino eccitato e, stringendomi in un rapido abbraccio stritolante, esclamò: “Grazie, Brianna!”

“E di che?” borbottai, parecchio confusa.

Mi scompigliò gaiamente i capelli prima di dirmi, al settimo cielo: “Ora so che Lance è vivo, e mi attende assieme al branco. Il profumo di gelsomino che hai sentito è quello delle piante che si trovano nel giardino di casa mia.”

Rammentai quello che mi aveva detto sull’incidente, che l’aveva diviso dal suo Hati e dal resto degli altri licantropi.

Pur se ancora un po’ sconvolta da quell’ennesima novità, di cui avrei preferito non sapere assolutamente nulla, fui ugualmente felice di essergli stata utile.

Sorrisi impacciata e dissi la prima cosa che mi venne in mente.

“Hai dei gelsomini?”

Lui annuì, spiegandomi: “Sì, gelsomini e rose. Percorrono tutto il perimetro della casa.”

“Parlamene” gli chiesi.

Avevo bisogno di qualcosa di coerente a cui pensare come le mura di una casa, o il suo giardino, o avrei perso il contatto con la realtà e sarei finita a rosicchiare le sbarre di una cella in un manicomio.

E, di certo, non volevo fare quella misera fine.

“Abito poco fuori Matlock, nel paesino di Farley e, dietro la mia casa, si estende un boschetto di mia proprietà dove si trova il nostro luogo di potere. Tutt’intorno a casa, come ti ho detto, ho dei gelsomini e delle rose, mentre un’alta siepe di pini protegge l’intera proprietà” mi spiegò lui con voce tranquilla, un lieve sorriso accennato sul volto.

Le mani erano tornate attorno ai miei polsi, riprendendo il meraviglioso massaggio che, in precedenza, aveva interrotto per abbracciarmi.

“Di fianco a casa ho una piccola stalla, dove si trovano i box dei cavalli. Ne ho tre.”

“Cavalli?” esalai, un po’ sorpresa.

Duncan annuì e aggiunse: “Sono un veterinario, e quei cavalli li ho salvati da proprietari non troppo zelanti. Sai cavalcare?”

“Sì. Con la sella all’americana, però” annuii.

“Ho anche quella” mi sorrise maggiormente lui. “Vedrai, ti piaceranno.”

“Gli animali non sentono che sei un predatore?” domandai, vagamente confusa.

“Sanno che qualcosa non va ma, proprio grazie alle mie doti particolari, sono in grado di curarli meglio di un veterinario umano” mi spiegò con calma Duncan. “E’ comunque un caso anomalo, in effetti.”

“Puoi sicuramente capirli meglio di un umano, anche se dici che è anomalo” dichiarai, divertita mio malgrado.

Se lui si credeva anomalo, io potevo stare tranquilla.

“Ma toglimi una curiosità. Come fai a salvare i gelsomini? Non sono piante molto adatte al nostro clima.”

“Lo so. In inverno, le copro accuratamente con alcune serre posticce, così che non debbano sopportarne i gelidi rigori di quella stagione. Inoltre, una siepe di pini ripara la casa dai venti freddi provenienti da nord, per cui il giardino è adeguatamente riparato” mi spiegò, continuando nel suo massaggio rilassante.

“Mi piace il loro profumo” sussurrai quasi tra me, rammentando l’aroma che avevo percepito al mio risveglio.

Lui si limitò a sorridere nel sentirmelo dire.

Dopo aver preso un grosso respiro – cercando, nel contempo, di non sospirare di piacere a causa del massaggio ai polsi sempre più delicato - lo fissai negli occhi e mormorai: “Quindi, quello che sogno ha sempre un significato?”

“Non sempre… ma alcune volte, sì” asserì, prima di sospirare e aggiungere: “Mi spiace. Vorrei recuperare più in fretta le forze, e portarti dalla nostra Lupa Madre per permetterti di comprendere meglio la situazione. Io posso esserti di così poco aiuto.”

“Ma mi sei di aiuto!” precisai subito, sgranando gli occhi e staccandomi dalle sue mani per stringergli le braccia, così da dar maggiore peso al mio dire.

“Se tu non fossi qui a spiegarmi tutte le follie che mi stanno capitando in queste ore, sarei già impazzita da tempo” aggiunsi con ancor maggior fervore.

“Se io non fossi qui…” replicò lui, torvo. “…tu non avresti mai saputo del tuo dono. I poteri delle wiccan si destano – e diventano attivi – solo se esse si trovano nelle vicinanze di un licantropo, diversamente restano sopiti, anche per tutta la vita. Per questo, non hai mai provato nulla di tutto ciò.”

“Oh, capisco. Quindi, se io non ti avessi mai incontrato…” esalai, lasciando lentamente la presa dalla sua pelle morbida e fresca.

“Esatto. E me ne dispiace” sospirò Duncan, reclinando  un poco il capo.

“Perché?” esalai, turbata.

“Non fraintendermi. Io sono felice di averti conosciuta, e non solo perché mi hai salvato la vita. Per noi licantropi, le wiccan sono importantissime, e il fatto di incontrarne una è per noi fonte di estrema gioia…” mi spiegò con un sorriso triste. “… ma mi rendo perfettamente conto che, con il mio comportamento egoista, ti ho messo in un mare di guai.”

“Beh, se per egoista intendi l’esserti salvato la pelle e avermi trascinato via da un potenziale pericolo, ti permetto di essere ancora più egoista di così” ironizzai, facendolo ridere.

Subito dopo, tornai seria e aggiunsi: “Ammetto che la situazione non è idilliaca, e queste continue novità non mi aiutano ad affrontare come vorrei questo casino, ma credo di potercela fare… se tu mi aiuterai.”

“Su questo puoi contare” mi promise lui.

“Allora, siamo a cavallo” sorrisi. “Solo, una cosa…”

“Cioè?”

“Murati la bocca, appena sveglio, così eviterai di farmi morire di paura” gli consigliai.

A quel punto, Duncan scoppiò in una calda risata di gola che mi confortò.

Il momento di panico era venuto e passato. E sperai davvero di non subire un altro risveglio così traumatico …almeno per i prossimi vent’anni.

Non che ci contassi molto, però.

***

La pioggia del giorno precedente aveva lasciato segni importanti nel sottobosco.

Piccoli avvallamenti si erano formati nelle zone più friabili del terreno, rendendo tutto estremamente scivoloso e sdrucciolevole.

Dopo aver fissato spiacente i piedi di Duncan, immersi nel fango misto a fogliame, accennai un sorriso e mugugnai: “Sicuro che non ti buscherai un raffreddore, così?”

“Tendenzialmente, non ci ammaliamo, Brianna. Il raffreddore potrebbe venirmi se avessi sangue meno puro nelle vene, ma non è il mio caso. E poi, i fanghi fanno bene alla pelle” ironizzò, scrollando la tenda prima di infilarla nel suo sacco di tela e buttarsela su una spalla. “Andiamo pure.”

“D’accordo. In che direzione?” domandai, guardandomi intorno.

“Debbo controllare una cosa, e mi serve un centro abitato, per farlo. Conosci qualche posto, qui vicino?” mi spiegò, cominciando a camminare in quella confusione di fango, sassi e foglie schiacciate che era diventato il sottobosco.

“Non dovremmo essere troppo distanti da Drumclog, secondo me. Dista circa una dozzina di miglia da Eaglesham, il paesino che abbiamo attraversato per raggiungere i bacini di contenimento. Secondo me, a piedi, dobbiamo aver percorso più o meno metà della strada” gli spiegai, meditabonda.

“Bene, dirigiamoci lì, allora. Sai dov’è, di preciso?” mi domandò, annusando l’aria con fare distratto.

“E’ leggermente a sud-est rispetto a Eaglesham… ti basta?” esalai, speranzosa.

“Mi basta. Il resto, lo affiderò al naso. Il fetore dei gas di scarico delle auto mi sarà d’aiuto” sogghignò, ammiccando.

“Oh, bene… lavora, lavora di naso, allora” annuii, ricevendo per diretta conseguenza un’occhiataccia da parte sua.

Ridacchiai e mi accodai a lui, cercando di seguire le sue tracce per non affondare più del necessario nel terreno fangoso e accidentato.

L’aria era tremendamente umida, e i profumi del bosco più intensi del solito.

Il sentore della terra, colma di vita, si fondeva con quello delle foglie secche e del materiale organico in decomposizione.

Tutto sembrava più vivido, quella mattina, grazie alla pioggia caduta.

 Pur disprezzando il fango, apprezzai le tinte accese delle foglie lucide di acqua e i riflessi luminosi della terra baciata dal sole, che scivolava attraverso le fronde degli alberi per giungere fino a noi.

Era in quei momenti, in cui la forza della natura si ritirava placida dopo uno sfogo violento, che riuscivo ad apprezzare ancora di più ciò che mi circondava.

Il fatto che, per poter ammirare quello spettacolo, mi stessi inzuppando in maniera orrenda, poco contava.

Inoltre, osservare gli effetti del ‘lato oscuro’ di Madre Terra mi aiutava a non rimuginare troppo sul perché mi trovassi in un bosco.

Con un licantropo.

Quando raggiungemmo un rio immerso nella boscaglia, rigonfio d’acqua scura e gorgogliante, osservai Duncan muoversi con la sicurezza tipica di un animale.

 Allungandomi una mano, mi aiutò a oltrepassare il torrentello dalle erte rese pericolose dalle piogge.

Elegante e dal passo felpato e leggero, non fece alcun caso al terreno fangoso e scivoloso, conducendomi sulla sponda opposta senza mai rischiare di perdere l’equilibrio.

I suoi muscoli possenti si muovevano con grazia ferina, gonfiandosi e distendendosi a ogni passo.

Nulla sembrava disturbare il suo incedere flessuoso e, per un momento, lo invidiai.

Anche se uomo, conservava innata l’eleganza maestosa e sopraffina della bestia che era acciambellata nel suo animo, pronta al primo invito per balzare fuori dal suo guscio di carne e mostrarsi al mondo.

“Toglimi una curiosità…” esordii, scavalcando un masso adunco e cercando di non pensare più al modo fin troppo sensuale in cui si muoveva.

Lui ridacchiò e, nel voltarsi a mezzo, domandò ironico: “Cos’ha escogitato la tua mente vulcanica, stamattina?”

Gli feci la linguaccia ed esposi il mio quesito.

“Mi chiedevo se non sarebbe stato più facile parlare del vostro segreto al mondo, e chiedere collaborazione contro i Cacciatori.”

Rise con ferocia, sorprendendomi.

“Oh, c’è chi ci ha pensato, a suo tempo, ma siamo onesti, Brianna. Pensi che non si sarebbero coalizzati contro di noi? Ci avrebbero fatti diventare delle cavie da laboratorio, invece di ammazzarci senza troppo ritegno. Non sarebbe stata una gran soluzione.”

“Ma la Convenzione di Ginevra…” cominciai col dire, prima di interrompermi da sola. “… non vi riterrebbero degli esseri umani, e perciò non sareste protetti, giusto? Perché aiutare voi che, come hai detto tu, siete in cima alla catena alimentare? I Cacciatori, invece, conoscono parte dei vostri segreti, e potrebbero essere loro utili per catturarvi e studiarvi. Sì, ha più senso.”

“Non ci teniamo a finire su un tavolo da laboratorio. Preferiamo combattere le nostre guerre private in santa pace, piuttosto che far intervenire terze persone – per quanto potenti – e rischiare che ci si rivoltino contro. Ricorda, la legge è uguale per tutti solo quando conviene a colui che ha scritto quella legge” brontolò Duncan.

“Già, meglio togliersi da soli le castagne dal fuoco” ammisi a bassa voce, ridacchiando nervosamente.

Lui annuì, scuro in volto.

“I Cacciatori ci considerano dei portatori di sventura, oltre che degli esseri indegni di vivere. Se finissimo sulla bocca di tutti, non passerebbe molto tempo prima di veder comparire le gogne nelle piazze, o peggio. Ricordati che l’uomo ha sempre avuto paura di ciò che non conosce, e in particolar modo di noi.”

Rabbrividii leggermente a quelle parole e lui, volgendosi a mezzo per guardarmi, mi chiese: “Sai cosa dice la leggenda?”

“Non ricordo tutto. A che ti riferisci?” replicai, sentendomi un po’ a disagio sotto quello sguardo così carico d’odio e risentimento.

Era evidente quanto, la collaborazione con gli umani, fosse per lui una possibilità talmente assurda da rasentare l’abominio.

Ragnarök. Il Crepuscolo degli Dèi” ringhiò, con un tono più cupo della notte appena passata.

Rabbrividii nuovamente, ma lui proseguì nel suo dire.

“La leggenda narra che Hati e Sköll divoreranno Sol e Mani, che rappresentano rispettivamente il sole e la luna, mentre Fenrir e gli altri dèi oscuri del pantheon norreno attraverseranno il Bifröst per raggiungere l’Asghard e distruggere tutto. I Cacciatori ci braccano da secoli, per evitare tutto ciò. Come se pensassero realmente che le leggende potessero concretizzarsi!”

“Pensano davvero che distruggereste il mondo? Che quel mito ancestrale sia vero?” sussurrai, sconvolta.

“Ne sono assolutamente convinti, come sono convinti che la nostra stessa esistenza sia come una peste nera giunta sulla Terra, e debba essere debellata da loro, gli Eletti. Tra le loro fila si fanno chiamare così,… quei folli” nel dirlo, sogghignò maligno.

Rimase in silenzio per alcuni attimi, scostando un ramo basso perché passassi oltre, prima di continuare.

“Quello di cui non hanno mai tenuto conto, però, è che il finale di quella stupida storia creata dall’uomo sarà differente. Noi ci riapproprieremo della Terra, non la distruggeremo, è un po’ diverso. L’uomo è destinato all’autodistruzione. Noi non faremo altro che raccogliere i cocci della loro stupidità per ricostruire un mondo più sano” nel dirlo, sbuffò infastidito.

Beh, effettivamente, non era difficile credere a questo.

L’uomo si stava davvero impegnando con tutte le sue forze per distruggere quello che, Madre Natura, aveva messo a sua disposizione per sopravvivere.

Non faceva specie che Duncan pensasse che, alla fine, i licantropi sarebbero tornati a dominare sulla Terra.

Da quel poco che avevo compreso, loro erano un tantino più rispettosi nei confronti delle leggi del Creato.

Non ritenevo comunque possibile che si potesse sperare nella fine del mondo. E glielo dissi.

Lui si fermò per guardarmi, gli occhi inondati da una tristezza palpabile e, afferrandomi per le spalle, esclamò con enfasi: “Non desidereresti anche tu che tutto questo avesse una fine? Non vorresti la foresta libera dal giogo degli umani? Non agogneresti a un mondo in cui tutto è in equilibrio?”

“Sì, ma…” tentennai, indecisa su cosa dire. “… ma non desidero la morte di nessuno.”

Duncan sospirò, passandosi una mano tra le onde di riccioli scuri e, con aria affranta, asserì: “Non credermi un insensibile, Brianna. So cosa intendi, e neppure io desidero la morte degli umani. Ci sono persone buone anche tra di loro. Molte. Ma sono loro stessi la causa del declino a cui ci stiamo avvicinando. Non saremo noi a condurli al baratro, come invece i Cacciatori temono – e hanno sempre temuto – fin dai tempi in cui il mito venne creato dalle menti timorose degli uomini. Ci stanno andando da soli, con le loro gambe.”

“Lo so” sussurrai mogia. “Ma non mi piace sentirti parlare della fine del mondo con così tanta rabbia.”

“Ho le mie ragioni, Brianna” mormorò, diventando una maschera di pietra.

Il suo potere mi sfrigolò addosso come lame di ghiaccio e io, rabbrividendo, arretrai di un passo, chiedendomi cosa gli fosse capitato per portarlo a covare un simile livore in corpo.

Certo, i Cacciatori lo avevano quasi ucciso, ma sembrava una rabbia più profonda, la sua, con radici antiche.

Subito, il vento gelido smise di martellare la mia pelle e Duncan, reclinando il capo, disse contrito: “Perdonami. Tu non c’entri con quello che mi angustia.”

“Ma potrei aiutarti a sopportarlo” replicai, riavvicinandomi per prendergli una mano con forza.

Lui fissò per un momento le nostre mani giunte, prima di sorridere mesto.

“Nulla può risolvere il mio problema, ma ti ringrazio per l’interessamento.”

Continuai a tenergli la mano e, accennando un sorriso, gli proposi: “Potrò aiutarti a cambiare idea sugli umani?”

“Non penso male di voi, Brianna, te l’ho detto. Leggo soltanto i segni, e non sono belli, credimi.”

Sorrise tristemente, prima di aggiungere: “Proseguiamo. Voglio scoprire al più presto come stanno le cose.”

“Riguardo a me?” gli chiesi, proseguendo al suo fianco e tenendogli la mano. Lui me lo lasciò fare.

Era poco, ma forse sarebbe bastato a ridargli un minimo di buonumore.

Annuì, e mi spiegò: “Vorrei capire fino a che punto si sono spinte le ricerche della polizia e, ascoltando i dialoghi delle persone di paese, dovrei riuscire a captare qualcosa di interessante.”

“La mia brava parabola satellitare” ridacchiai, ammiccando maliziosa.

Ghignando, lui mi fissò per un momento, prima di chiedermi: “Mi chiedo come tu sia sopravvissuta fino a ora. Non hai mai trovato nessuno che desiderasse farti la pelle per la tua faccia tosta?”

Mi allargai in un sorrisone tutto denti e replicai: “Forse, ma poi mi comportavo in maniera così adorabile da far cadere tutti ai miei piedi.”

“Non stento a crederlo” ammiccò, tornando a guardare dinanzi a sé e spiazzandomi con le sue parole.

Che cosa aveva voluto dire?

***

Drumclog non era altro che un piccolo agglomerato di case, niente più di un puntolino infinitesimale su una cartina ma, per i nostri scopi, fu più che sufficiente.

La notte mascherava le nostre forme, confondendoci con tutto ciò che ci circondava.

Seguendo la sagoma scura del licantropo dinanzi a me, mi accostai guardinga alle case di periferia assieme a lui, sperando che Duncan potesse usare i suoi poteri per scoprire qualcosa.

Accucciatami dietro una bassa siepe di bosso assieme a Duncan, attesi con impazienza che dalla sua bocca uscisse qualche notizia, qualsiasi genere di notizia.

Quando Duncan, infine, mi fece segno di allontanarmi dalla casa a cui ci eravamo avvicinati, erano passati non meno di dieci minuti.

Obbediente, indietreggiai gatton gattoni fino a perdermi nell’oscurità della notte, favorita anche dal cielo coperto di nuvole scuri, pronte a scaricarci addosso altra pioggia fredda e indesiderata.

Un attimo dopo mi raggiunse e, con una smorfia, mormorò: “Sembra proprio che abbiano sguinzagliato la polizia di tutta l’isola. Ne parlavano al telegiornale, poco fa.”

“Ottimo… Mary B avrà chiamato suo cugino Angus” sbuffai infastidita, prima di spiegarmi meglio. “E’ un poliziotto. Immaginavo si sarebbe mossa ma, a quanto pare, ha superato se stessa.”

“Direi di sì” annuì pensieroso, guardandosi intorno e notando, sicuramente, molti più particolari di quanti non ne vedessi io.

Lo osservai scandagliare le sagome scure delle case per alcuni minuti, forse in cerca di segnali sonori a me sconosciuti quando, all’improvviso, sogghignò.

Si alzò in piedi e, intimandomi di restare ferma, se ne andò via correndo con leggerezza sull’erba, agile come una gazzella e altrettanto aggraziato.

Quel paragone mentale mi fece sghignazzare – sì, una gazzella mannara – e, tappandomi la bocca con entrambe le mani, cercai di darmi un contegno per non esplodere in una risata fragorosa.

Avrei attirato fin troppa attenzione, nel silenzio di tomba che regnava nella campagna.

Duncan fu di ritorno in un minuto e, trascinandomi via in silenzio, mi fissò curioso, forse domandandosi perché tenessi le mani premute sulla bocca.

Meglio non dirglielo. Decisamente meglio.

Quando raggiungemmo un lungo filare di piante, che fungeva da spartiacque naturale tra la campagna e il corso di un torrente, ci nascondemmo dietro quel riparo improvvisato.

Lì, con un sorrisino dipinto sul volto, Duncan mi offrì un foglio.

“Mary Beth ha sicuramente sguinzagliato ben più della polizia, pur di ritrovarti.”

Accesa una piccola torcia, fissai a occhi sgranati la mia faccia in bianco e nero, stampigliata sul foglio che Duncan mi aveva appena consegnato.

Era la foto dell’ultimo Capodanno passato con Mary B e famiglia.

Mi ero fatta i boccoli, quella sera, e avevo indossato un dolcevita bianco a trama larga e una lunga gonna dello stesso colore, con eleganti stivaletti neri di pelle ai piedi.

Alle orecchie, avevo messo i pendenti dono dalla nonna mentre al collo, ben evidente sul maglione, splendeva il ciondolo a forma di mezzaluna della mamma.

In quella foto, i miei occhi avevano fissato con chiara ironia quelli del fotografo; Mary B.

“Molto elegante” mi disse Duncan, accennando un sorrisino.

Di sicuro, più di quanto non fossi in quel momento.

Sporca com’ero di terra, con le foglie attaccate agli scarponi e i polpacci e coi capelli in disordine, non dovevo apparire certo al meglio.

Mossi imbarazzata una mano per sistemare una ciocca di capelli, prima di spiegargli: “Era la festa di Capodanno.”

“Occhi nocciola?” lesse Duncan, scorrendo con lo sguardo la didascalia sotto la foto.

“Già. Sulla carta d’identità, sono registrati così. Non esiste il color ambra” gli spiegai distrattamente.

La mia attenzione era tutta incentrata sulla specie di guazzabuglio che avevo in testa e, da quel che sentivo, potevo sembrare senza problemi la Medusa del mito greco.

Che disastro.

“Ci può essere d’aiuto…” ammise Duncan, prima di notare i movimenti secchi della mia mano e bloccarla. “… non preoccuparti, Brianna. Nessuno pretende che tu sia perfetta, in questa situazione. Avremo tempo di andare anche dalla parrucchiera, vedrai. Ho un’amica che farà quel che vorrai.”

“Avrò bisogno di un trattamento completo, temo” ridacchiai, pur sentendomi tremendamente imbarazzata.

“Lo avrai. Non ti farò mancare nulla” mi promise.

Lo ringraziai e tornai a guardare il foglio.

Dio, Mary B aveva davvero messo in campo tutta la sua inventiva.

Forse, aveva addirittura sguinzagliato l’aeronautica, pur di tirarmi fuori dal buco nero in cui mi ero ficcata da sola.

Un caccia della RAF decise di fare il suo intervento rumoroso proprio in quel momento, sfrecciando nel cielo notturno come un angelo vendicatore e procurandomi un mezzo infarto per la paura.

Maledetto lui!

Duncan ne seguì la scia notturna per alcuni attimi, fissandomi poi con sguardo divertito.

“Beh, che c’è?”

“Niente. Stavo pensando a chi potesse avere coinvolto Mary B nella sua caccia personale, quando quell’affare maledetto è spuntato dal nulla… beh, mi ha terrorizzato a morte” sbuffai, accartocciando il foglio e infilandomelo in tasca.

Ridendo piano, Duncan replicò: “Non credo sia arrivata a tanto, ma non temere. Non appena saremo a Matlock, farò un paio di telefonate. Abbiamo parecchi licantropi, nella polizia, e sarà facile depistare le indagini.”

“Ottimo” brontolai.

Duncan tornò serio, a quel mio commento piuttosto acido, e mi chiese turbato: “Brianna, che ti succede?”

Sospirai esasperata e sbottai.

“Niente, Duncan, tu non c’entri nulla. Sono solo paturnie da donna. Penso solo a quante persone siano rimaste coinvolte in questo casino, ecco tutto.”

“Non è colpa tua ma, se vogliamo saltarne fuori interi, dobbiamo accettare qualche disagio.”

“Non lo metto in dubbio, ma…” sospirai nuovamente e mugugnai: “… questo cambierà la mia vita per sempre, vero?”

“Solo se tu lo vuoi. Nessuno ti obbliga a fare nulla, men che meno io. Ma di certo, d’ora in poi, dovrai stare allerta” mi predisse, accigliandosi leggermente.

“Lo immaginavo… e io che speravo di andarmene a Londra a studiare medicina come una qualsiasi altra ragazza” sbuffai, sedendomi a terra con fare scocciato. “Sai che avevo già anche trovato un appartamentino e dato una caparra per i primi tre mesi?!”

Mi fissò spiacente, prima di dire: “Vorrei assicurarti che potrai andare a Londra senza problemi, perché questo guaio si risolverà in fretta, ma temo che sarebbe una clamorosa bugia.”

“E io posso sentire le tue menzogne meglio di un radar… che sfortuna colossale” brontolai sconsolata, coprendomi il viso con le mani e portandomelo alle ginocchia.

“Vuoi che monti la tenda? Ti vuoi riposare?” mi chiese premuroso.

“Vorrei soltanto che il mondo andasse per il verso giusto, per una volta” mugugnai incavolata, pur sapendo di essere sciocca ed egoista, a dirlo.

Duncan era del tutto incolpevole, non aveva senso sfogare il mio risentimento contro di lui.

Io mi ero voluta sobbarcare quell’impegno, io l’avevo tirato fuori dalla cantina, io l’avevo seguito.

Non potevo incolpare che me stessa, se ora mi sentivo così giù di morale.

Lui non mi disse niente, limitandosi ad aprire la tenda su uno spiazzo erboso nelle vicinanze del torrente, che serpeggiava a poca distanza da noi.

Con gentilezza, mi tolse lo zaino dalle spalle e vi frugò dentro per estrarre il necessario per la cena.

Io me ne ristetti seduta su un masso per tutto il tempo in religioso e uggioso silenzio, osservandolo muoversi con la scioltezza di chi è abituato a cavarsela da solo.

Non mi aveva mai parlato della sua famiglia.

Forse, i genitori non vivevano con lui. O, forse, erano in rotta. Chissà.

Imbronciata, e ben decisa a non cambiare quello stato di cose, fissai la fiamma azzurrognola prodotta dal fornellino da campo desiderando, per un momento, di essere in tutt’altro posto fuorché lì.

Che mi aveva detto, il cervello, la mattina in cui ero sgattaiolata fuori dalla mia stanza? Era fuori uso, per caso?

Avevo temuto fin dall’inizio che, prima o poi, la grandezza disumana della situazione in cui mi ero cacciata, mi sarebbe crollata addosso con tutto il suo peso titanico.

Non avrei mai pensato, però, di non riuscire a sopportarla.

Da brava idiota, avevo creduto di essere abbastanza forte per sopportare tutto stoicamente.

Ora che sbattevo il naso contro la cruda realtà dei fatti, invece, mi rendevo conto di non essere in grado di affrontare la cosa.

Centinaia di persone erano in pena per me e mi cercavano per mezza Inghilterra, convinti che fossi in pericolo, o chissà che.

Gordon e Mary B sicuramente erano in ansia, mentre Patrick e la sua cricca stavano certamente portando avanti le loro ricerche in separata sede.

Erano anche loro ansiosi di trovarmi, ma per tutt’altro motivo.

Loro erano gli unici a non essere preoccupati per la sottoscritta. Tutt’altro.

Come se ciò non fosse bastato, stavo forse dicendo addio al mio futuro, imprigionata in quella situazione caotica di cui non vedevo una fine.

Inoltre, cigliegina sulla torta, stavo per mettere in subbuglio un’intera comunità con il mio arrivo a sorpresa.

Insomma, con una sola mossa, avevo scompaginato il gigantesco scacchiere della mia vita, dove miriadi di pezzi ora erano sparpagliati ogni dove, senza nessuno a governarli.

Lacrime amare scesero sulle mie gote rosse di rabbia e Duncan, scorgendole, corse subito al mio fianco, sussurrando ansioso: “Tutto bene?”

“Ho fatto un casino” singhiozzai, portandomi le mani al viso per nascondermi al suo sguardo preoccupato.

“No! Hai salvato una persona dalla morte. Mi sembra un buon motivo per essere felici, ti pare?” replicò, scostando le mie mani intirizzite per asciugarmi le lacrime con le sue dita ruvide.

“Già, e ho aperto un vaso di Pandora gigantesco” sbuffai contrariata, cercando di allontanare le sue mani dal mio volto.

“Sì, forse… ma non devi recuperare i mali del mondo da sola. E non ti sognare nemmeno di sentirti in colpa per questo!” sentenziò lapidario.

Con un movimento veloce dei polsi, schivò la mia presa per tornare a posare le mani sul mio viso dopodiché, avvicinandosi a me, mi fissò a meno di un centimetro dal mio naso.

“Il fato compie le sue scelte. Il tuo era quello di salvarmi, il mio è quello di aiutarti. Prima lo accetterai, prima smetterai di angustiarti.”

“Non sono abituata a farmi aiutare, né a dare tante preoccupazioni agli altri” ammisi, cercando di non singhiozzare o, peggio, di mettermi a urlare.

Mamma e papà ci avevano sempre insegnato a non aspettare la cavalleria, a usare le nostre sole forze per non dipendere dagli altri.

Non avevamo mai pianto per un ginocchio sbucciato o per una febbre alta.

Non perché avessimo paura di mostrare le nostre debolezze, ma perché avevamo sempre confidato nelle nostre capacità.

La fiducia in noi stessi, e nei nostri mezzi, era la lezione più importante che i nostri genitori ci avessero lasciato in eredità, ma ora sapevo che essa non sarebbe bastata a tirarmi fuori dai guai.

O dalla depressione che sentivo sulle spalle.

Mi serviva aiuto, ma non sapevo come chiederlo.

Fino a quel momento, mi ero fidata di lui come guida per i boschi o come spalla su cui piangere in un momento di panico, ma non avevo mai realmente chiesto aiuto per qualcosa.

Forse, era giunto il momento di farlo, ma non sapevo da che parte cominciare.

Lui venne incontro al mio bisogno di aiuto, mormorando con un mezzo sorriso: “Orgogliosa e testarda ragazzina, quando capirai che devi solo aprire la tua boccuccia e dirmi quello che vuoi?”

Ridacchiai nervosamente, lasciando andare fuori dal mio corpo un po’ dell’ansia che tenevo dentro.

Più tranquillo, Duncan aggiunse: “Nessuno potrebbe mettere in dubbio la tua forza d’animo e le tue capacità di adattamento, Brianna, ma anche l’umano più forte di questa terra ha bisogno di aiuto.”

“Anche un licantropo, può aver bisogno di aiuto?” chiesi allora, la voce un po’ arrochita dal pianto che covava dietro le mie parole.

“Anche un licantropo” annuì. “E se io ho chiesto aiuto a te, Brianna, tu puoi chiedere aiuto a me, per qualsiasi cosa.”

“Anche se ti sembrerò una sciocca?” mugugnai in risposta, arrossendo al pensiero di quel che volevo da lui  in quel momento.

“Non potresti mai sembrarmi sciocca” precisò, aprendosi in un sorriso.

“Allora… potresti… abbracciarmi?”

L’ultima parola la sussurrai, tanto mi vergognavo di aver bisogno di un appoggio morale cui aggrapparmi.

Lui non mi rispose neppure, limitandosi a stringermi a sé e massaggiarmi la schiena con lenti passaggi delle ampie mani.

“Tutto qui? Avevi paura di chiedermi un abbraccio?” mi irrise benevolo.

“Mi sento un’idiota. Di solito, non ho bisogno di queste smancerie, eppure, adesso…” mugugnai, apprezzando la duplice carezza delle sue mani e del suo potere. “… mi è piaciuto, l’altra notte, quando ti sei preso cura di me, e ….”

“… e volevi sentirti protetta un’altra volta. Non c’è nulla di male, specialmente visto quello che stai passando in questo momento” asserì lui, continuando il suo massaggio. “Non è sbagliato chiedere protezione, e non vuol dire essere deboli, Brianna, ricordalo.”

“Ma è da bambini” brontolai, pur apprezzando il fatto di trovarmi tra le sue braccia.

“Affatto. Mi rinfranca averti vicina. Fare questo viaggio da solo mi avrebbe angustiato parecchio, credimi” replicò Duncan, scostandosi un momento per guardarmi negli occhi e dare maggiore enfasi alle sue parole.

Pur sapendo che diceva la verità, leggerla nei suoi occhi mi confortò molto più del suo dire.

Un poco più tranquilla, riuscii a chiedergli: “Quindi, non mi giudichi una poppante, vero?”

“Hai così tanta paura che io ti giudichi tale. Perché?” mi domandò, più che curioso di conoscere la mia risposta.

“Perché tu sei tanto più grande di me che ho pensato…” brontolai, indecisa su cosa dire.

“Ho ventotto anni, Brianna, non ottanta. E tu ne hai…”

“Diciannove. Ne farò venti il due gennaio.”

“Bene… non c’è poi così tanta differenza… pensavi che ti giudicassi piccola?” sogghignò, ammiccando comicamente.

“A volte, gli adulti lo fanno.” Feci la lingua. “Ci sottovalutano.”

“Io non lo farò… mai” mi promise, tornando ad abbracciarmi. “E poi, non credere di essere l’unica a volere conforto. Piace anche a me, quando ti prendi cura del sottoscritto, anche se faccio la parte dell’offeso.”

Ridacchiai, l’animo un poco più leggero.

“Voi uomini amate offendervi, quando le donne cercano di evitare che vi facciate del male con le vostre mani.”

“Verissimo” annuì.

Il profumo del minestrone raggiunse le mie nari, facendo contrarre il mio stomaco per la fame.

Sentendolo brontolare, mi ritrovai a ridacchiare contro la spalla di Duncan che, ironico, dichiarò: “Il generale chiama.”

“Sì… sarà meglio sfamarlo” assentii, scostandomi da lui prima di asserire con sicurezza: “Vada come vada… raccoglierò quello che ho seminato.”

“E io sono sicuro che sarà un grande raccolto” mi promise Duncan, aiutandomi ad alzarmi per accompagnarmi al campo.

Lo speravo. Speravo davvero che lui avesse ragione.


  
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