7
Un
lupo dorato stava ululando alla luna pallida nel cielo, un grido disperato e
sopraffatto da una tensione che percepivo in maniera palpabile.
Ogni fibra del suo corpo sembrava tesa
in direzione di quella goccia di perlaceo splendore, che scintillava solitaria
nel cielo.
Quasi quel rilucente astro nel manto
cupo della notte potesse, in qualche modo, porre un termine alla sua ansia.
Attorno a lui, distanti
e vicini al tempo stesso, altri lupi.
Stesi a terra su erba
fresca e umida di rugiada notturna, attendevano pazienti di potersi unire a
quel canto accorato e pieno di speranza e timore.
Un secondo lupo, dal
manto corvino, si unì al lupo rossiccio.
A quel punto, tutti
eruppero in una sentita preghiera in direzione della luna, che si mescolò al
vento e al profumo dei gelsomini.
Mi risvegliai con uno
sbadiglio e un profumo di fiori nelle narici, la mente già pronta a dare il
buongiorno al mio compagno di viaggio.
Quando, però, mi volsi
verso Duncan, mi accorsi subito che qualcosa non andava.
Le sue narici erano
dilatate, gli occhi socchiusi e le sopracciglia aggrottate, come se fosse
concentrato su qualcosa di estremamente importante.
I riccioli morbidi gli
danzavano attorno al viso apparentemente riposato e fresco, ma la sua
espressione mi fece capire che qualcosa lo turbava.
Non appena mi vide
sveglia, rilassò impercettibilmente i tratti del viso e, roco, mi chiese: “Cos’hai
sognato, Brianna?”
“Eh?” esalai, ancora un
po’ confusa. Quella domanda mi spiazzò.
“Pensa a cos’hai
sognato, per favore” insisté gentilmente Duncan mettendosi a sedere, le narici
ancora dilatate e vibranti.
Lo imitai e, a
sorpresa, percepii ancora il profumo di gelsomino nell’aria.
Confusa, gli domandai:
“Sono fuori di testa, o c’è profumo di gelsomino?”
“Sei tu a emanarlo,
Brianna” mormorò distrattamente lui.
Io sgranai gli occhi a
palla per diretta conseguenza e Duncan, accorgendosi subito di quel che aveva
appena detto, mi sorrise spiacente.
“Non spaventarti; è uno
dei tuoi poteri. Solo, mi chiedevo perché proprio il gelsomino.”
Completamente
frastornata, la mente appena desta che già chiedeva requie, esalai scioccata:
“Cioè, no… aspetta… cos’è questa storia?!”
Passandosi una mano sul
viso con l’aria di essersi pentito amaramente di aver aperto bocca, mi sfiorò
subito dopo il viso con dita leggere e calde.
Gentilmente, sussurrò
suadente: “I sogni delle wiccan,
spesso e volentieri, non sono solo parti incoscienti della mente, ma autentici
messaggi.”
“E posso anche
emettere… profumo?” ansai, ancora abbastanza turbata.
Fico. Potevo fare dei
sogni premonitori in 4D?
Ero da ricovero.
Sicuramente.
Lui ridacchiò
impacciato, notando la mia espressione ai limiti del panico.
Scivolando con le mani
a prendere le mie, fredde come ghiaccioli, iniziò a sfiorarmi i polsi con i
pollici in lenti e incantevoli massaggi circolari.
Con parole appena
sussurrate, mi spiegò ciò che ancora faticavo a digerire.
“Se è importante, sì. E
per me lo è, ma vorrei essere certo di non sbagliarmi. Per questo, ti ho
chiesto cos’hai sognato.”
“Lupi” riuscii a dire,
deglutendo a fatica.
Il suo massaggio era
ipnotizzante, e anche rammentare una cosa semplice come il sogno di cui ero stata
protagonista, sembrava un’impresa titanica.
“Cioè, no… licantropi.
Mi hai detto che Hati e Sköll hanno manti nero e biondo-rossiccio, per cui
erano sicuramente loro. C’erano altri lupi che li circondavano, e stavano
ululando alla luna. Il vento si è levato a portar via le loro voci, assieme al
profumo di gelsomino… non ricordo altro.”
Mi sorrise allegro,
persino eccitato e, stringendomi in un rapido abbraccio stritolante, esclamò:
“Grazie, Brianna!”
“E di che?” borbottai,
parecchio confusa.
Mi scompigliò gaiamente
i capelli prima di dirmi, al settimo cielo: “Ora so che Lance è vivo, e mi
attende assieme al branco. Il profumo di gelsomino che hai sentito è quello
delle piante che si trovano nel giardino di casa mia.”
Rammentai quello che mi
aveva detto sull’incidente, che l’aveva diviso dal suo Hati e dal resto degli
altri licantropi.
Pur se ancora un po’
sconvolta da quell’ennesima novità, di cui avrei preferito non sapere
assolutamente nulla, fui ugualmente felice di essergli stata utile.
Sorrisi impacciata e
dissi la prima cosa che mi venne in mente.
“Hai dei gelsomini?”
Lui annuì, spiegandomi:
“Sì, gelsomini e rose. Percorrono tutto il perimetro della casa.”
“Parlamene” gli chiesi.
Avevo bisogno di
qualcosa di coerente a cui pensare come le mura di una casa, o il suo giardino,
o avrei perso il contatto con la realtà e sarei finita a rosicchiare le sbarre
di una cella in un manicomio.
E, di certo, non volevo
fare quella misera fine.
“Abito poco fuori
Matlock, nel paesino di Farley e, dietro la mia casa, si estende un boschetto
di mia proprietà dove si trova il nostro luogo di potere. Tutt’intorno a casa,
come ti ho detto, ho dei gelsomini e delle rose, mentre un’alta siepe di pini
protegge l’intera proprietà” mi spiegò lui con voce tranquilla, un lieve sorriso
accennato sul volto.
Le mani erano tornate
attorno ai miei polsi, riprendendo il meraviglioso massaggio che, in precedenza,
aveva interrotto per abbracciarmi.
“Di fianco a casa ho
una piccola stalla, dove si trovano i box dei cavalli. Ne ho tre.”
“Cavalli?” esalai, un
po’ sorpresa.
Duncan annuì e aggiunse:
“Sono un veterinario, e quei cavalli li ho salvati da proprietari non troppo
zelanti. Sai cavalcare?”
“Sì. Con la sella
all’americana, però” annuii.
“Ho anche quella” mi
sorrise maggiormente lui. “Vedrai, ti piaceranno.”
“Gli animali non
sentono che sei un predatore?” domandai, vagamente confusa.
“Sanno che qualcosa non
va ma, proprio grazie alle mie doti particolari, sono in grado di curarli
meglio di un veterinario umano” mi spiegò con calma Duncan. “E’ comunque un
caso anomalo, in effetti.”
“Puoi sicuramente
capirli meglio di un umano, anche se dici che è anomalo” dichiarai, divertita
mio malgrado.
Se lui si credeva
anomalo, io potevo stare tranquilla.
“Ma toglimi una
curiosità. Come fai a salvare i gelsomini? Non sono piante molto adatte al
nostro clima.”
“Lo so. In inverno, le
copro accuratamente con alcune serre posticce, così che non debbano sopportarne
i gelidi rigori di quella stagione. Inoltre, una siepe di pini ripara la casa
dai venti freddi provenienti da nord, per cui il giardino è adeguatamente
riparato” mi spiegò, continuando nel suo massaggio rilassante.
“Mi piace il loro
profumo” sussurrai quasi tra me, rammentando l’aroma che avevo percepito al mio
risveglio.
Lui si limitò a sorridere
nel sentirmelo dire.
Dopo aver preso un
grosso respiro – cercando, nel contempo, di non sospirare di piacere a causa
del massaggio ai polsi sempre più delicato - lo fissai negli occhi e mormorai:
“Quindi, quello che sogno ha sempre un significato?”
“Non sempre… ma alcune
volte, sì” asserì, prima di sospirare e aggiungere: “Mi spiace. Vorrei
recuperare più in fretta le forze, e portarti dalla nostra Lupa Madre per
permetterti di comprendere meglio la situazione. Io posso esserti di così poco
aiuto.”
“Ma mi sei di aiuto!”
precisai subito, sgranando gli occhi e staccandomi dalle sue mani per
stringergli le braccia, così da dar maggiore peso al mio dire.
“Se tu non fossi qui a
spiegarmi tutte le follie che mi stanno capitando in queste ore, sarei già impazzita
da tempo” aggiunsi con ancor maggior fervore.
“Se io non fossi qui…” replicò lui, torvo.
“…tu non avresti mai saputo del tuo
dono. I poteri delle wiccan si
destano – e diventano attivi – solo se esse si trovano nelle vicinanze di un
licantropo, diversamente restano sopiti, anche per tutta la vita. Per questo,
non hai mai provato nulla di tutto ciò.”
“Oh, capisco. Quindi,
se io non ti avessi mai incontrato…” esalai, lasciando lentamente la presa
dalla sua pelle morbida e fresca.
“Esatto. E me ne dispiace”
sospirò Duncan, reclinando un poco il
capo.
“Perché?” esalai,
turbata.
“Non fraintendermi. Io
sono felice di averti conosciuta, e non solo perché mi hai salvato la vita. Per
noi licantropi, le wiccan sono
importantissime, e il fatto di incontrarne una è per noi fonte di estrema
gioia…” mi spiegò con un sorriso triste. “… ma mi rendo perfettamente conto
che, con il mio comportamento egoista, ti ho messo in un mare di guai.”
“Beh, se per egoista
intendi l’esserti salvato la pelle e avermi trascinato via da un potenziale
pericolo, ti permetto di essere ancora più egoista di così” ironizzai,
facendolo ridere.
Subito dopo, tornai
seria e aggiunsi: “Ammetto che la situazione non è idilliaca, e queste continue
novità non mi aiutano ad affrontare come vorrei questo casino, ma credo di
potercela fare… se tu mi aiuterai.”
“Su questo puoi
contare” mi promise lui.
“Allora, siamo a
cavallo” sorrisi. “Solo, una cosa…”
“Cioè?”
“Murati la bocca,
appena sveglio, così eviterai di farmi morire di paura” gli consigliai.
A quel punto, Duncan
scoppiò in una calda risata di gola che mi confortò.
Il momento di panico
era venuto e passato. E sperai davvero di non subire un altro risveglio così
traumatico …almeno per i prossimi vent’anni.
Non che ci contassi
molto, però.
***
La pioggia del giorno
precedente aveva lasciato segni importanti nel sottobosco.
Piccoli avvallamenti si
erano formati nelle zone più friabili del terreno, rendendo tutto estremamente
scivoloso e sdrucciolevole.
Dopo aver fissato
spiacente i piedi di Duncan, immersi nel fango misto a fogliame, accennai un
sorriso e mugugnai: “Sicuro che non ti buscherai un raffreddore, così?”
“Tendenzialmente, non
ci ammaliamo, Brianna. Il raffreddore potrebbe venirmi se avessi sangue meno
puro nelle vene, ma non è il mio caso. E poi, i fanghi fanno bene alla pelle”
ironizzò, scrollando la tenda prima di infilarla nel suo sacco di tela e
buttarsela su una spalla. “Andiamo pure.”
“D’accordo. In che
direzione?” domandai, guardandomi intorno.
“Debbo controllare una
cosa, e mi serve un centro abitato, per farlo. Conosci qualche posto, qui
vicino?” mi spiegò, cominciando a camminare in quella confusione di fango,
sassi e foglie schiacciate che era diventato il sottobosco.
“Non dovremmo essere
troppo distanti da Drumclog, secondo me. Dista circa una dozzina di miglia da
Eaglesham, il paesino che abbiamo attraversato per raggiungere i bacini di
contenimento. Secondo me, a piedi, dobbiamo aver percorso più o meno metà della
strada” gli spiegai, meditabonda.
“Bene, dirigiamoci lì,
allora. Sai dov’è, di preciso?” mi domandò, annusando l’aria con fare
distratto.
“E’ leggermente a
sud-est rispetto a Eaglesham… ti basta?” esalai, speranzosa.
“Mi basta. Il resto, lo
affiderò al naso. Il fetore dei gas di scarico delle auto mi sarà d’aiuto”
sogghignò, ammiccando.
“Oh, bene… lavora,
lavora di naso, allora” annuii, ricevendo per diretta conseguenza
un’occhiataccia da parte sua.
Ridacchiai e mi accodai
a lui, cercando di seguire le sue tracce per non affondare più del necessario
nel terreno fangoso e accidentato.
L’aria era
tremendamente umida, e i profumi del bosco più intensi del solito.
Il sentore della terra,
colma di vita, si fondeva con quello delle foglie secche e del materiale
organico in decomposizione.
Tutto sembrava più
vivido, quella mattina, grazie alla pioggia caduta.
Pur disprezzando il fango, apprezzai le tinte
accese delle foglie lucide di acqua e i riflessi luminosi della terra baciata
dal sole, che scivolava attraverso le fronde degli alberi per giungere fino a
noi.
Era in quei momenti, in
cui la forza della natura si ritirava placida dopo uno sfogo violento, che
riuscivo ad apprezzare ancora di più ciò che mi circondava.
Il fatto che, per poter
ammirare quello spettacolo, mi stessi inzuppando in maniera orrenda, poco
contava.
Inoltre, osservare gli
effetti del ‘lato oscuro’ di Madre Terra mi aiutava a non rimuginare troppo sul
perché mi trovassi in un bosco.
Con un licantropo.
Quando raggiungemmo un
rio immerso nella boscaglia, rigonfio d’acqua scura e gorgogliante, osservai Duncan
muoversi con la sicurezza tipica di un animale.
Allungandomi una mano, mi aiutò a oltrepassare
il torrentello dalle erte rese pericolose dalle piogge.
Elegante e dal passo
felpato e leggero, non fece alcun caso al terreno fangoso e scivoloso, conducendomi
sulla sponda opposta senza mai rischiare di perdere l’equilibrio.
I suoi muscoli possenti
si muovevano con grazia ferina, gonfiandosi e distendendosi a ogni passo.
Nulla sembrava
disturbare il suo incedere flessuoso e, per un momento, lo invidiai.
Anche se uomo,
conservava innata l’eleganza maestosa e sopraffina della bestia che era
acciambellata nel suo animo, pronta al primo invito per balzare fuori dal suo
guscio di carne e mostrarsi al mondo.
“Toglimi una
curiosità…” esordii, scavalcando un masso adunco e cercando di non pensare più
al modo fin troppo sensuale in cui si muoveva.
Lui ridacchiò e, nel
voltarsi a mezzo, domandò ironico: “Cos’ha escogitato la tua mente vulcanica,
stamattina?”
Gli feci la linguaccia
ed esposi il mio quesito.
“Mi chiedevo se non
sarebbe stato più facile parlare del vostro segreto al mondo, e chiedere
collaborazione contro i Cacciatori.”
Rise con ferocia,
sorprendendomi.
“Oh, c’è chi ci ha
pensato, a suo tempo, ma siamo onesti, Brianna. Pensi che non si sarebbero coalizzati
contro di noi? Ci avrebbero fatti diventare delle cavie da laboratorio, invece
di ammazzarci senza troppo ritegno. Non sarebbe stata una gran soluzione.”
“Ma la Convenzione di
Ginevra…” cominciai col dire, prima di interrompermi da sola. “… non vi riterrebbero
degli esseri umani, e perciò non sareste protetti, giusto? Perché aiutare voi
che, come hai detto tu, siete in cima alla catena alimentare? I Cacciatori,
invece, conoscono parte dei vostri segreti, e potrebbero essere loro utili per
catturarvi e studiarvi. Sì, ha più senso.”
“Non ci teniamo a
finire su un tavolo da laboratorio. Preferiamo combattere le nostre guerre
private in santa pace, piuttosto che far intervenire terze persone – per quanto
potenti – e rischiare che ci si rivoltino contro. Ricorda, la legge è uguale
per tutti solo quando conviene a colui che ha scritto quella legge” brontolò
Duncan.
“Già, meglio togliersi
da soli le castagne dal fuoco” ammisi a bassa voce, ridacchiando nervosamente.
Lui annuì, scuro in
volto.
“I Cacciatori ci considerano
dei portatori di sventura, oltre che degli esseri indegni di vivere. Se
finissimo sulla bocca di tutti, non passerebbe molto tempo prima di veder
comparire le gogne nelle piazze, o peggio. Ricordati che l’uomo ha sempre avuto
paura di ciò che non conosce, e in particolar modo di noi.”
Rabbrividii leggermente
a quelle parole e lui, volgendosi a mezzo per guardarmi, mi chiese: “Sai cosa
dice la leggenda?”
“Non ricordo tutto. A
che ti riferisci?” replicai, sentendomi un po’ a disagio sotto quello sguardo
così carico d’odio e risentimento.
Era evidente quanto, la
collaborazione con gli umani, fosse per lui una possibilità talmente assurda da
rasentare l’abominio.
“Ragnarök. Il Crepuscolo degli Dèi” ringhiò, con un tono più cupo
della notte appena passata.
Rabbrividii nuovamente,
ma lui proseguì nel suo dire.
“La leggenda narra che
Hati e Sköll divoreranno Sol e Mani, che rappresentano rispettivamente il sole
e la luna, mentre Fenrir e gli altri dèi oscuri del pantheon norreno attraverseranno
il Bifröst per raggiungere l’Asghard e distruggere tutto. I
Cacciatori ci braccano da secoli, per evitare tutto ciò. Come se pensassero
realmente che le leggende potessero concretizzarsi!”
“Pensano davvero che
distruggereste il mondo? Che quel mito ancestrale sia vero?” sussurrai,
sconvolta.
“Ne sono assolutamente
convinti, come sono convinti che la nostra stessa esistenza sia come una peste
nera giunta sulla Terra, e debba essere debellata da loro, gli Eletti. Tra le
loro fila si fanno chiamare così,… quei folli” nel dirlo, sogghignò maligno.
Rimase in silenzio per
alcuni attimi, scostando un ramo basso perché passassi oltre, prima di
continuare.
“Quello di cui non
hanno mai tenuto conto, però, è che il finale di quella stupida storia creata
dall’uomo sarà differente. Noi ci riapproprieremo della Terra, non la
distruggeremo, è un po’ diverso. L’uomo è destinato all’autodistruzione. Noi
non faremo altro che raccogliere i cocci della loro stupidità per ricostruire
un mondo più sano” nel dirlo, sbuffò infastidito.
Beh, effettivamente,
non era difficile credere a questo.
L’uomo si stava davvero
impegnando con tutte le sue forze per distruggere quello che, Madre Natura,
aveva messo a sua disposizione per sopravvivere.
Non faceva specie che
Duncan pensasse che, alla fine, i licantropi sarebbero tornati a dominare sulla
Terra.
Da quel poco che avevo
compreso, loro erano un tantino più rispettosi nei confronti delle leggi del
Creato.
Non ritenevo comunque
possibile che si potesse sperare nella fine del mondo. E glielo dissi.
Lui si fermò per
guardarmi, gli occhi inondati da una tristezza palpabile e, afferrandomi per le
spalle, esclamò con enfasi: “Non desidereresti anche tu che tutto questo avesse
una fine? Non vorresti la foresta libera dal giogo degli umani? Non agogneresti
a un mondo in cui tutto è in equilibrio?”
“Sì, ma…” tentennai,
indecisa su cosa dire. “… ma non desidero la morte di nessuno.”
Duncan sospirò,
passandosi una mano tra le onde di riccioli scuri e, con aria affranta, asserì:
“Non credermi un insensibile, Brianna. So cosa intendi, e neppure io desidero
la morte degli umani. Ci sono persone buone anche tra di loro. Molte. Ma sono
loro stessi la causa del declino a cui ci stiamo avvicinando. Non saremo noi a
condurli al baratro, come invece i Cacciatori temono – e hanno sempre temuto – fin
dai tempi in cui il mito venne creato dalle menti timorose degli uomini. Ci
stanno andando da soli, con le loro gambe.”
“Lo so” sussurrai mogia.
“Ma non mi piace sentirti parlare della fine del mondo con così tanta rabbia.”
“Ho le mie ragioni,
Brianna” mormorò, diventando una maschera di pietra.
Il suo potere mi
sfrigolò addosso come lame di ghiaccio e io, rabbrividendo, arretrai di un
passo, chiedendomi cosa gli fosse capitato per portarlo a covare un simile
livore in corpo.
Certo, i Cacciatori lo
avevano quasi ucciso, ma sembrava una rabbia più profonda, la sua, con radici
antiche.
Subito, il vento gelido
smise di martellare la mia pelle e Duncan, reclinando il capo, disse contrito:
“Perdonami. Tu non c’entri con quello che mi angustia.”
“Ma potrei aiutarti a
sopportarlo” replicai, riavvicinandomi per prendergli una mano con forza.
Lui fissò per un
momento le nostre mani giunte, prima di sorridere mesto.
“Nulla può risolvere il
mio problema, ma ti ringrazio per l’interessamento.”
Continuai a tenergli la
mano e, accennando un sorriso, gli proposi: “Potrò aiutarti a cambiare idea
sugli umani?”
“Non penso male di voi,
Brianna, te l’ho detto. Leggo soltanto i segni, e non sono belli, credimi.”
Sorrise tristemente,
prima di aggiungere: “Proseguiamo. Voglio scoprire al più presto come stanno le
cose.”
“Riguardo a me?” gli chiesi,
proseguendo al suo fianco e tenendogli la mano. Lui me lo lasciò fare.
Era poco, ma forse
sarebbe bastato a ridargli un minimo di buonumore.
Annuì, e mi spiegò:
“Vorrei capire fino a che punto si sono spinte le ricerche della polizia e,
ascoltando i dialoghi delle persone di paese, dovrei riuscire a captare
qualcosa di interessante.”
“La mia brava parabola
satellitare” ridacchiai, ammiccando maliziosa.
Ghignando, lui mi fissò
per un momento, prima di chiedermi: “Mi chiedo come tu sia sopravvissuta fino a
ora. Non hai mai trovato nessuno che desiderasse farti la pelle per la tua
faccia tosta?”
Mi allargai in un
sorrisone tutto denti e replicai: “Forse, ma poi mi comportavo in maniera così
adorabile da far cadere tutti ai miei piedi.”
“Non stento a crederlo”
ammiccò, tornando a guardare dinanzi a sé e spiazzandomi con le sue parole.
Che cosa aveva voluto
dire?
***
Drumclog non era altro
che un piccolo agglomerato di case, niente più di un puntolino infinitesimale
su una cartina ma, per i nostri scopi, fu più che sufficiente.
La notte mascherava le
nostre forme, confondendoci con tutto ciò che ci circondava.
Seguendo la sagoma
scura del licantropo dinanzi a me, mi accostai guardinga alle case di periferia
assieme a lui, sperando che Duncan potesse usare i suoi poteri per scoprire
qualcosa.
Accucciatami dietro una
bassa siepe di bosso assieme a Duncan, attesi con impazienza che dalla sua
bocca uscisse qualche notizia, qualsiasi
genere di notizia.
Quando Duncan, infine,
mi fece segno di allontanarmi dalla casa a cui ci eravamo avvicinati, erano
passati non meno di dieci minuti.
Obbediente,
indietreggiai gatton gattoni fino a perdermi nell’oscurità della notte, favorita
anche dal cielo coperto di nuvole scuri, pronte a scaricarci addosso altra
pioggia fredda e indesiderata.
Un attimo dopo mi
raggiunse e, con una smorfia, mormorò: “Sembra proprio che abbiano
sguinzagliato la polizia di tutta l’isola. Ne parlavano al telegiornale, poco
fa.”
“Ottimo… Mary B avrà
chiamato suo cugino Angus” sbuffai infastidita, prima di spiegarmi meglio. “E’
un poliziotto. Immaginavo si sarebbe mossa ma, a quanto pare, ha superato se
stessa.”
“Direi di sì” annuì
pensieroso, guardandosi intorno e notando, sicuramente, molti più particolari
di quanti non ne vedessi io.
Lo osservai
scandagliare le sagome scure delle case per alcuni minuti, forse in cerca di
segnali sonori a me sconosciuti quando, all’improvviso, sogghignò.
Si alzò in piedi e,
intimandomi di restare ferma, se ne andò via correndo con leggerezza sull’erba,
agile come una gazzella e altrettanto aggraziato.
Quel paragone mentale
mi fece sghignazzare – sì, una gazzella mannara – e, tappandomi la bocca con
entrambe le mani, cercai di darmi un contegno per non esplodere in una risata
fragorosa.
Avrei attirato fin
troppa attenzione, nel silenzio di tomba che regnava nella campagna.
Duncan fu di ritorno in
un minuto e, trascinandomi via in silenzio, mi fissò curioso, forse domandandosi
perché tenessi le mani premute sulla bocca.
Meglio non dirglielo. Decisamente meglio.
Quando raggiungemmo un
lungo filare di piante, che fungeva da spartiacque naturale tra la campagna e
il corso di un torrente, ci nascondemmo dietro quel riparo improvvisato.
Lì, con un sorrisino
dipinto sul volto, Duncan mi offrì un foglio.
“Mary Beth ha
sicuramente sguinzagliato ben più della polizia, pur di ritrovarti.”
Accesa una piccola
torcia, fissai a occhi sgranati la mia faccia in bianco e nero, stampigliata sul
foglio che Duncan mi aveva appena consegnato.
Era la foto dell’ultimo
Capodanno passato con Mary B e famiglia.
Mi ero fatta i boccoli,
quella sera, e avevo indossato un dolcevita bianco a trama larga e una lunga
gonna dello stesso colore, con eleganti stivaletti neri di pelle ai piedi.
Alle orecchie, avevo
messo i pendenti dono dalla nonna mentre al collo, ben evidente sul maglione,
splendeva il ciondolo a forma di mezzaluna della mamma.
In quella foto, i miei
occhi avevano fissato con chiara ironia quelli del fotografo; Mary B.
“Molto elegante” mi
disse Duncan, accennando un sorrisino.
Di sicuro, più di
quanto non fossi in quel momento.
Sporca com’ero di
terra, con le foglie attaccate agli scarponi e i polpacci e coi capelli in
disordine, non dovevo apparire certo al meglio.
Mossi imbarazzata una
mano per sistemare una ciocca di capelli, prima di spiegargli: “Era la festa di
Capodanno.”
“Occhi nocciola?” lesse
Duncan, scorrendo con lo sguardo la didascalia sotto la foto.
“Già. Sulla carta
d’identità, sono registrati così. Non esiste il color ambra” gli spiegai
distrattamente.
La mia attenzione era
tutta incentrata sulla specie di guazzabuglio che avevo in testa e, da quel che
sentivo, potevo sembrare senza problemi la Medusa del mito greco.
Che disastro.
“Ci può essere
d’aiuto…” ammise Duncan, prima di notare i movimenti secchi della mia mano e
bloccarla. “… non preoccuparti, Brianna. Nessuno pretende che tu sia perfetta,
in questa situazione. Avremo tempo di andare anche dalla parrucchiera, vedrai.
Ho un’amica che farà quel che vorrai.”
“Avrò bisogno di un
trattamento completo, temo” ridacchiai, pur sentendomi tremendamente
imbarazzata.
“Lo avrai. Non ti farò
mancare nulla” mi promise.
Lo ringraziai e tornai
a guardare il foglio.
Dio, Mary B aveva davvero
messo in campo tutta la sua inventiva.
Forse, aveva
addirittura sguinzagliato l’aeronautica, pur di tirarmi fuori dal buco nero in
cui mi ero ficcata da sola.
Un caccia della RAF
decise di fare il suo intervento rumoroso proprio in quel momento, sfrecciando
nel cielo notturno come un angelo vendicatore e procurandomi un mezzo infarto
per la paura.
Maledetto lui!
Duncan ne seguì la scia
notturna per alcuni attimi, fissandomi poi con sguardo divertito.
“Beh, che c’è?”
“Niente. Stavo pensando
a chi potesse avere coinvolto Mary B nella sua caccia personale, quando
quell’affare maledetto è spuntato dal nulla… beh, mi ha terrorizzato a morte”
sbuffai, accartocciando il foglio e infilandomelo in tasca.
Ridendo piano, Duncan replicò:
“Non credo sia arrivata a tanto, ma non temere. Non appena saremo a Matlock,
farò un paio di telefonate. Abbiamo parecchi licantropi, nella polizia, e sarà
facile depistare le indagini.”
“Ottimo” brontolai.
Duncan tornò serio, a
quel mio commento piuttosto acido, e mi chiese turbato: “Brianna, che ti
succede?”
Sospirai esasperata e sbottai.
“Niente, Duncan, tu non
c’entri nulla. Sono solo paturnie da donna. Penso solo a quante persone siano
rimaste coinvolte in questo casino, ecco tutto.”
“Non è colpa tua ma, se
vogliamo saltarne fuori interi, dobbiamo accettare qualche disagio.”
“Non lo metto in
dubbio, ma…” sospirai nuovamente e mugugnai: “… questo cambierà la mia vita per
sempre, vero?”
“Solo se tu lo vuoi.
Nessuno ti obbliga a fare nulla, men che meno io. Ma di certo, d’ora in poi,
dovrai stare allerta” mi predisse, accigliandosi leggermente.
“Lo immaginavo… e io
che speravo di andarmene a Londra a studiare medicina come una qualsiasi altra
ragazza” sbuffai, sedendomi a terra con fare scocciato. “Sai che avevo già
anche trovato un appartamentino e dato una caparra per i primi tre mesi?!”
Mi fissò spiacente,
prima di dire: “Vorrei assicurarti che potrai andare a Londra senza problemi,
perché questo guaio si risolverà in fretta, ma temo che sarebbe una clamorosa
bugia.”
“E io posso sentire le
tue menzogne meglio di un radar… che sfortuna colossale” brontolai sconsolata,
coprendomi il viso con le mani e portandomelo alle ginocchia.
“Vuoi che monti la
tenda? Ti vuoi riposare?” mi chiese premuroso.
“Vorrei soltanto che il
mondo andasse per il verso giusto, per una volta” mugugnai incavolata, pur
sapendo di essere sciocca ed egoista, a dirlo.
Duncan era del tutto
incolpevole, non aveva senso sfogare il mio risentimento contro di lui.
Io mi ero voluta
sobbarcare quell’impegno, io l’avevo tirato fuori dalla cantina, io l’avevo
seguito.
Non potevo incolpare
che me stessa, se ora mi sentivo così giù di morale.
Lui non mi disse
niente, limitandosi ad aprire la tenda su uno spiazzo erboso nelle vicinanze
del torrente, che serpeggiava a poca distanza da noi.
Con gentilezza, mi
tolse lo zaino dalle spalle e vi frugò dentro per estrarre il necessario per la
cena.
Io me ne ristetti
seduta su un masso per tutto il tempo in religioso e uggioso silenzio,
osservandolo muoversi con la scioltezza di chi è abituato a cavarsela da solo.
Non mi aveva mai
parlato della sua famiglia.
Forse, i genitori non
vivevano con lui. O, forse, erano in rotta. Chissà.
Imbronciata, e ben
decisa a non cambiare quello stato di cose, fissai la fiamma azzurrognola
prodotta dal fornellino da campo desiderando, per un momento, di essere in
tutt’altro posto fuorché lì.
Che mi aveva detto, il
cervello, la mattina in cui ero sgattaiolata fuori dalla mia stanza? Era fuori
uso, per caso?
Avevo temuto fin
dall’inizio che, prima o poi, la grandezza disumana della situazione in cui mi
ero cacciata, mi sarebbe crollata addosso con tutto il suo peso titanico.
Non avrei mai pensato,
però, di non riuscire a sopportarla.
Da brava idiota, avevo
creduto di essere abbastanza forte per sopportare tutto stoicamente.
Ora che sbattevo il
naso contro la cruda realtà dei fatti, invece, mi rendevo conto di non essere
in grado di affrontare la cosa.
Centinaia di persone
erano in pena per me e mi cercavano per mezza Inghilterra, convinti che fossi
in pericolo, o chissà che.
Gordon e Mary B
sicuramente erano in ansia, mentre Patrick e la sua cricca stavano certamente
portando avanti le loro ricerche in separata sede.
Erano anche loro
ansiosi di trovarmi, ma per tutt’altro motivo.
Loro erano gli unici a
non essere preoccupati per la sottoscritta. Tutt’altro.
Come se ciò non fosse bastato,
stavo forse dicendo addio al mio futuro, imprigionata in quella situazione
caotica di cui non vedevo una fine.
Inoltre, cigliegina
sulla torta, stavo per mettere in subbuglio un’intera comunità con il mio
arrivo a sorpresa.
Insomma, con una sola
mossa, avevo scompaginato il gigantesco scacchiere della mia vita, dove miriadi
di pezzi ora erano sparpagliati ogni dove, senza nessuno a governarli.
Lacrime amare scesero
sulle mie gote rosse di rabbia e Duncan, scorgendole, corse subito al mio
fianco, sussurrando ansioso: “Tutto bene?”
“Ho fatto un casino”
singhiozzai, portandomi le mani al viso per nascondermi al suo sguardo
preoccupato.
“No! Hai salvato una
persona dalla morte. Mi sembra un buon motivo per essere felici, ti pare?”
replicò, scostando le mie mani intirizzite per asciugarmi le lacrime con le sue
dita ruvide.
“Già, e ho aperto un
vaso di Pandora gigantesco” sbuffai contrariata, cercando di allontanare le sue
mani dal mio volto.
“Sì, forse… ma non devi
recuperare i mali del mondo da sola. E non ti sognare nemmeno di sentirti in
colpa per questo!” sentenziò lapidario.
Con un movimento veloce
dei polsi, schivò la mia presa per tornare a posare le mani sul mio viso dopodiché,
avvicinandosi a me, mi fissò a meno di un centimetro dal mio naso.
“Il fato compie le sue
scelte. Il tuo era quello di salvarmi, il mio è quello di aiutarti. Prima lo
accetterai, prima smetterai di angustiarti.”
“Non sono abituata a
farmi aiutare, né a dare tante preoccupazioni agli altri” ammisi, cercando di
non singhiozzare o, peggio, di mettermi a urlare.
Mamma e papà ci avevano
sempre insegnato a non aspettare la cavalleria, a usare le nostre sole forze
per non dipendere dagli altri.
Non avevamo mai pianto
per un ginocchio sbucciato o per una febbre alta.
Non perché avessimo
paura di mostrare le nostre debolezze, ma perché avevamo sempre confidato nelle
nostre capacità.
La fiducia in noi
stessi, e nei nostri mezzi, era la lezione più importante che i nostri genitori
ci avessero lasciato in eredità, ma ora sapevo che essa non sarebbe bastata a
tirarmi fuori dai guai.
O dalla depressione che
sentivo sulle spalle.
Mi serviva aiuto, ma
non sapevo come chiederlo.
Fino a quel momento, mi
ero fidata di lui come guida per i boschi o come spalla su cui piangere in un
momento di panico, ma non avevo mai realmente chiesto aiuto per qualcosa.
Forse, era giunto il
momento di farlo, ma non sapevo da che parte cominciare.
Lui venne incontro al
mio bisogno di aiuto, mormorando con un mezzo sorriso: “Orgogliosa e testarda
ragazzina, quando capirai che devi solo aprire la tua boccuccia e dirmi quello
che vuoi?”
Ridacchiai nervosamente,
lasciando andare fuori dal mio corpo un po’ dell’ansia che tenevo dentro.
Più tranquillo, Duncan aggiunse:
“Nessuno potrebbe mettere in dubbio la tua forza d’animo e le tue capacità di
adattamento, Brianna, ma anche l’umano più forte di questa terra ha bisogno di
aiuto.”
“Anche un licantropo,
può aver bisogno di aiuto?” chiesi allora, la voce un po’ arrochita dal pianto
che covava dietro le mie parole.
“Anche un licantropo”
annuì. “E se io ho chiesto aiuto a te, Brianna, tu puoi chiedere aiuto a me,
per qualsiasi cosa.”
“Anche se ti sembrerò
una sciocca?” mugugnai in risposta, arrossendo al pensiero di quel che volevo
da lui in quel momento.
“Non potresti mai
sembrarmi sciocca” precisò, aprendosi in un sorriso.
“Allora… potresti…
abbracciarmi?”
L’ultima parola la
sussurrai, tanto mi vergognavo di aver bisogno di un appoggio morale cui
aggrapparmi.
Lui non mi rispose
neppure, limitandosi a stringermi a sé e massaggiarmi la schiena con lenti
passaggi delle ampie mani.
“Tutto qui? Avevi paura
di chiedermi un abbraccio?” mi irrise benevolo.
“Mi sento un’idiota. Di
solito, non ho bisogno di queste smancerie, eppure, adesso…” mugugnai,
apprezzando la duplice carezza delle sue mani e del suo potere. “… mi è
piaciuto, l’altra notte, quando ti sei preso cura di me, e ….”
“… e volevi sentirti
protetta un’altra volta. Non c’è nulla di male, specialmente visto quello che
stai passando in questo momento” asserì lui, continuando il suo massaggio. “Non
è sbagliato chiedere protezione, e non vuol dire essere deboli, Brianna,
ricordalo.”
“Ma è da bambini” brontolai,
pur apprezzando il fatto di trovarmi tra le sue braccia.
“Affatto. Mi rinfranca
averti vicina. Fare questo viaggio da solo mi avrebbe angustiato parecchio,
credimi” replicò Duncan, scostandosi un momento per guardarmi negli occhi e
dare maggiore enfasi alle sue parole.
Pur sapendo che diceva
la verità, leggerla nei suoi occhi mi confortò molto più del suo dire.
Un poco più tranquilla,
riuscii a chiedergli: “Quindi, non mi giudichi una poppante, vero?”
“Hai così tanta paura
che io ti giudichi tale. Perché?” mi domandò, più che curioso di conoscere la
mia risposta.
“Perché tu sei tanto
più grande di me che ho pensato…” brontolai, indecisa su cosa dire.
“Ho ventotto anni,
Brianna, non ottanta. E tu ne hai…”
“Diciannove. Ne farò
venti il due gennaio.”
“Bene… non c’è poi così
tanta differenza… pensavi che ti giudicassi piccola?” sogghignò, ammiccando
comicamente.
“A volte, gli adulti lo
fanno.” Feci la lingua. “Ci sottovalutano.”
“Io non lo farò… mai” mi promise, tornando ad
abbracciarmi. “E poi, non credere di essere l’unica a volere conforto. Piace
anche a me, quando ti prendi cura del sottoscritto, anche se faccio la parte
dell’offeso.”
Ridacchiai, l’animo un
poco più leggero.
“Voi uomini amate
offendervi, quando le donne cercano di evitare che vi facciate del male con le
vostre mani.”
“Verissimo” annuì.
Il profumo del
minestrone raggiunse le mie nari, facendo contrarre il mio stomaco per la fame.
Sentendolo brontolare,
mi ritrovai a ridacchiare contro la spalla di Duncan che, ironico, dichiarò:
“Il generale chiama.”
“Sì… sarà meglio
sfamarlo” assentii, scostandomi da lui prima di asserire con sicurezza: “Vada
come vada… raccoglierò quello che ho seminato.”
“E io sono sicuro che
sarà un grande raccolto” mi promise Duncan, aiutandomi ad alzarmi per
accompagnarmi al campo.
Lo speravo. Speravo davvero
che lui avesse ragione.