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Autore: Federico    20/07/2012    2 recensioni
Salve, dopo quasi un anno Federico è tornato per voi! Stavolta vi propongo il seguito della mia vecchia storia Strade d'Oriente, con protagonisti i membri dell'Akatsuki, ambientato molto tempo dopo la prima fic.
1924, Svizzera: Per festeggiare il proprio compleanno, Kakuzu decide di riunire i propri ex compagni di avventure e li invita a casa sua. Tutti accorrono, ma è chiaro che nulla sarà più come prima: la spensieratezza dei vecchi tempi ha lasciato spazio al pessimismo e alla disillusione, che ormai regnano sovrani in Europa squassata dal primo conflitto mondiale e minacciata da povertà, rivoluzioni e dittature. In un modo o nell'altro, tutti e sei i nostri eroi hanno sofferto a causa della guerra, ma finalmente troveranno il coraggio di confidarsi fra loro e dare sfogo ai propri turbamenti, rievocando con nostalgia tempi felici che non torneranno più... Questa fic, a differenza di Strade d'Oriente, non si incentrerà sull'avventura e sull'azione, bensì avrà un taglio introspettivo, dialogico e decisamente malinconico. Leggete e recensite numerosi, spero che vi piaccia!
P.S Quella fic su One Piece che vi avevo annunciato circa un anno fa prima di “sparire” è al momento sospesa a tempo indeterminato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Travellers'
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Abbiamo così visto a quali disavventure siano andati incontro Sasori e Pain. Stasera invece leggeremo cosa è capitato a Deidara e Itachi e quali luoghi lontani hanno visitato. Grazie mille a tutti quelli che mi seguono, alla prossima!

 

I reduci II-Dall'Africa all'Italia

 

Con un ultimo sguardo commosso, Pain, lasciò intendere di aver concluso la propria digressione.

Gli altri quattro avevano ascoltato i due resoconti, stregati e stupiti: si conoscevano ormai da lunghissimo tempo, il pericolo era in un certo senso il loro mestiere e più di una volta avevano visto la morte in faccia nei più disparati e remoti recessi del pianeta, eppure non si capacitavano che Sasori e Pain avessero vissuto esperienze così caratteristiche e complesse, da disastri di portata storica ed avventurose e spericolate azioni militari.

Probabilmente nei loro animi la macchia indelebile della guerra non era ancora stata cancellata e mai lo sarebbe stata, ma almeno ora che si erano sfogati apertamente apparivano più distesi.

Adesso toccava a qualcun altro di loro confessarsi, raccogliendo l'implicita sfida, solo che un certo pudore e una qualche ritrosia del passato impediva loro di raccogliere ordinatamente i pensieri ed esporli; per fortuna a rompere il ghiaccio ci pensò Deidara.

“Devo dire- riflettè l'olandese- che una guerra estesa a tutta l'Europa era l'ultima cosa che mi aspettassi dal secondo decennio del XX secolo, Credevo che come al solito quei vecchi cagnacci avrebbero continuato ad abbaiare senza mordersi. Beh, cosa posso dire di me? Per evitare la completa disperazione di mio padre mi sono prestato per un po' ad assisterlo nella conduzione degli affari, ma che barba i conti e gli appalti! Evidentemente poi deve averlo capito, visto che un bel giorno si è presentato da me e mi ha concesso due o tre anni sabbatici, da impiegare come meglio credessi. E che cosa si aspettava mai che facessi? Ovviamente mi sono subito messo a viaggiare per cercare soggetti e ispirazione, visitare musei e incontrare altri artisti. Sono andato in Belgio e in Germania, sono finalmente tornato a Torino, Milano e Venezia, poi a Barcellona, a Tunisi, in Marocco, infine a Léopoldville, nel Congo Belga. Dopo aver visitato un'esposizione di arte africana in Spagna ne ero rimasto folgorato: che potenza espressiva, che forme! E mi sarei anche dedicato in santa pace agli studi se non fosse arrivata anche là la notizia dello scoppio della guerra”.

Si interruppe brevemente per stringere a pugno le mani e rivolse uno sguardo contrito a Itachi: “Non volermene, Itachi, però devo confessare che in quel momento ho odiato davvero tanto la tua nazione. Ma sappi anche che tutte le volte che vedevo davanti a me un soldato con l'elmetto chiodato in testa provavo un groppo in gola prima di sparare, perchè temevo potessi essere tu”.

“Non ti preoccupare, scuse accettate” rispose pacifico il tedesco. “Anch'io ripensandoci oggi mi rendo conto che il mio paese ha commesso troppi errori. Ma continua pure, non interromperti”.

“Come dicevo, mi sentii fortemente indignato per l'occupazione del Belgio, in quanto paese neutrale. Sul momento ebbi il timore che fosse stata aggredita anche l'Olanda, ma per fortuna seppi che là era tutto tranquillo. In ogni caso avvertivo il bisogno di fare qualcosa: a me piace il Belgio, i suoi abitanti mi stanno simpatici anche perchè sono in larga parte fiamminghi come noi, e non potevo permettere che un paese piccolo e innocente soffrisse per le mire di una grande potenza”.

“Ti assicuro che ho avuto varie esperienze personali con i Belgi e non mi sono piaciuti affatto...Ogni francese degno di questo nome sa che sono tutti matti” ridacchiò Hidan con una punta di benevolo orgoglio campanilistico.

Dopo essersi gustato la battuta, Deidara riprese: “Avrei voluto immediatamente salpare per l'Europa e andare a combattere nelle Fiandre contro i Tedeschi, ma gli amici mi convinsero piuttosto ad arruolarmi nella Force Publique, la gendarmeria belga in Congo. Appresi infatti che gli Alleati avevano già iniziato le operazioni contro le colonie germaniche del Togoland, del Kamerun e del Tanganyika, e che c'era da temere un'invasione da parte delle truppe di quest'ultimo sul confine orientale dei possedimenti belgi. Ma passò più di un anno prima che la Force Publique fosse pronta a partire per il fronte, mesi durante i quali potei impratichirmi alla vita militare e stringere amicizia con numerosi altri stranieri al soldo del governo belga come me. Oh, e ovviamente continuai a disegnare. E' vero, l'atmosfera era rovinata dalla consapevolezza che prima in poi in quelle terre vergini baciate dal Sole ci sarebbe stato un bagno di sangue, ma i paesaggi e la fauna rimanevano sempre gli stessi. Ho tutto un taccuino pieno di schizzi sull'Africa, che forse prima o poi vi mostrerò. Ad ogni modo, all'inizio del'16 cominciò la nostra invasione dell'Africa Orientale tedesca. Per prima cosa combattemmo nella regione del Ruanda-Urundi, attorno ai Grandi Laghi (zona che se non erro è stata in seguito assegnata proprio al Belgio), poi ci addentrammo nel Tanganyika in collaborazione con le armate del Commonwealth e del Portogallo. Tu prima ci hai parlato di eserciti multietnci, Pain, e ti do pienamente ragione: come fate voi Britannici a raccapezzarvi in quella babele di lingue e popoli? Ne ho incontrati di tutti i tipi io: Inglesi, Belgi, Congolesi, Sudafricani, Indiani, Kenyani, Rhodesiani, Ugandesi, Portoghesi, Mozambicani; e come in ogni luogo al mondo, ho trovato rompiscatole e compagni di bevute. Una passeggiata, direte voi: a nostro confronto i Tedeschi disponevano di qualche migliaio dei loro e un certo numero di Askari, come denominavano le loro truppe locali. Niente di più sbagliato! Al loro comando c'era il celebre Paul Emil Von Lettow Vorbeck, e vi posso assicurare che quell'uomo era un genio, un mostro: un giorno era lì, il giorno dopo là, e nel frattempo continuava ad infliggerci danni. Aggiungeteci la disorganizzazione, le rivalità fra i vari contingenti, le malattie, il caldo, il tempo inclemente, i territori malsani e sconosciuti e non ne verrà fuori un quadretto gradevole. Alla fine i valorosissimi Tedeschi si arresero solo tempo dopo l'armistizio, con l'onore delle armi, senza mai essere stati davvero battuti sul campo. Io dal canto mio mi presi un souvenir...”.

Con uno svolazzo estrasse un panno colorato dall'interno del panciotto e lo distese teatralmente sotto i loro occhi: si trattava di una bandiera da guerra della vecchia Marina Imperiale tedesca, che nel quarto superiore riportava il tricolore germanico con la croce di ferro, al centro, incastonata in un'altra croce nera, una bellicosa e rapace aquila munita delle insegne regali.

Tutti sgranarono gli occhi e soprattutto gettarono un veloce sguardo a Itachi, per tentare di intuirne le reazioni emotive: ma il tedesco non si scompose minimamente, senza nostalgia apparente.

“Non fatevi false illusioni,- commentò però Deidara- questa non l'ho catturata in un assalto all'arma bianca. Me lo ricordo ancora: doveva essere più o meno il '16. Io e la mia pattuglia stavamo andando in avanscoperta quando sulla riva di un fiume trovammo incagliata una cannoniera germanica. Tentammo di avvicinarci, ma fummo accolti a fucilate: a bordo scoprimmo un ufficiale, la croce di ferro sul petto bene in evidenza, ferito ma determinato a resistere. Io non c'ero il giorno che Von Lettow Vorbeck si consegnò agli Inglesi, ma scommetto che nei suoi occhi c'era la stessa fierezza. Dopo averlo disarmato lo interrogai e venni a sapere che poco prima si era scontrato più a monte con un'imbarcazione britannica e, avendo perso la maggior parte della ciurma, aveva condotto sui bassifondi la cannoniera danneggiata, incitando i sopravvissuti a salvarsi e incaricandosi di farle la guardia lui stesso. Dopo averlo preso con noi facemmo una foto di gruppo con la bandiera, che poi toccò a me in quanto nessuno voleva disturbarsi a conservarla. Oggi, Itachi, vorrei restituirtela, perchè in fondo è più tua che mia: e perdonami se ci siamo fatti beffe dei tuoi compatrioti, ma devi capirci, in guerra a volte si fanno goliardate e...”.

Con passo lento si era avvicinato al moro e gli aveva porto lo stendardo con sguardo umile e sincero; l'altro lo ricevette e se lo passò di mano in mano, come se rimirasse un oggetto estraneo.

“Questa cosa-proferì serio- mi ricorda di tutti i vessilli che abbiamo strappato ai Russi e agli Italiani, e di tutte le volte che li abbiamo esibiti come trofei: dev'essere un'usanza comune fra soldati. Ad ogni modo grazie mille”.

Sorrise amaramente: “Per fugare i tuoi dubbi, ti rispondo che no, non ho combattuto in Africa, anche se forse avrei preferito il paesaggio. Dopo che le nostre vie si separarono anch'io decisi di “mettere la testa a posto” e collaborare con mio padre alla conduzione del suo impero; quel che mi dispiace è che, per evitare che rinascesse in me il gusto dell'avventura, mi ha sempre tenuto in Germania, e a supervisionare ai nostri interessi in America, in Argentina, in Cina ci mandava sempre amministratori più anziani ma che probabilmente non erano mai andati più in là di Monaco e Strasburgo. Ma ho vissuto anche dei momenti lieti, questo lo posso ammettere: Berlino ci piaceva molto, ma ogni volta non vedevamo l'ora di andare in vacanza sulle Alpi. Peccato che sia stata una felicità effimera. Essendo fortemente immischiato nelle forniture di armi al governo, mio padre non potè che salutare con gioia lo scoppio della guerra, e contemporaneamente mi lasciò intendere che avrei dovuto arruolarmi e tornare possibilmente con qualche medaglia e i galloni sulle spalle”.

Per sciogliere un po' la tensione ebbe l'idea di offrire agli amici un'esilerante imitazione del genitore, il cui caricaturale accento teutonico quando parlava francese o inglese lo aveva più di una volta coperto di ridicolo nei colloqui affaristici e aveva anche rischiato di mandargli a monte qualche delicata trattativa: “Ma kome Itachi, kosa ci fai ankora kvi? Defi andare a kombattere per il Kaiser, per la krande Cermania! Ja, mein Gott! Kvosa stai aspettando? Korri! Nein, nein!”.

Kakuzu, che si stava ristorando con un sorso di champagne, rischiò seriamente di sputare la bevanda in modo poco dignitoso e di strozzarsi, mentre tutti si reggevano la pancia e ansimavano paonazzi in cerca di requie.

Il tedesco li osservò con la dolorosa consapevolezza di quello che avrebbe seguito nella narrazione, e ricominciò: “Decisi allora di arruolarmi nella cavalleria, convinto che là avrei potuto distinguermi meglio (non che nutrissi tutto questo desiderio di gloria personale, ma avete capito come stavano le cose) e per mia gran fortuna, se così posso dire, fummo inviati sul fronte orientale. Se per caso mi avessero spedito in Francia e mi fossi trovato di fronte qualcuno di voi, beh, non so proprio come mi sarei comportato. Invece per i Russi non nutrivo particolare simpatia, soprattutto dopo lo scherzetto che ci avevano giocato nel '10 in Afghanistan, ma nemmeno volevo vederli tutti morti, o li consideravo dei barbari asiatici interessati solo a rubarci le nostre terre. Assieme alla nostra unità poi c'erano anche reparti di Alsaziani e Lorenesi, questo perchè i generali temevano che sul fronte occidentale avrebbero defezionato per disertare o passare ai Francesi. Poveretti, li ho visti usati come carne da cannone, così come ho sentito che i Russi facessero con gli ebrei”.

Si interruppe perchè colse un feroce moto di indignazione negli occhi di Hidan, ma l'amico riuscì per fortuna a calmarsi e cessò di far tremare di rabbia gli avambracci pensando a quei connazionali.

“Secondo la propaganda bellica ufficiale, riportammo vittorie strepitose sulle innumerabili orde asiatiche che già erano penetrate per un buon tratto nella Prussia Orientale, desiderose di saccheggiare le floride terre coltivate dagli operosi coloni tedeschi e di stuprare le loro prosperose femmine. Suppongo che nomi come quelli dei Laghi Masuri e di Tannenberg, oppure dei generali Von Hindenburg e Ludendorff siano tuttora celebri. In realtà, tutto quel che ho visto è stata una strage inutile e senza senso, che ha macchiato di sangue alcuni fra i boschi più belli d'Europa, in cui il nostro vantaggio rispetto ai Russi era quasi ridicolo: quell'esercito era un residuato del secolo scorso, privo di tutto, composto da miseri contadini semischiavi che non sapevano neanche contro chi combattevano e capeggiato da insulsi aristocratici alcolizzati o semplicemente folli. Come potevo non provare pena nel vedere quelle interminabili colonne di prigionieri cenciosi? E così siamo andati avanti per anni, finchè in Russia non hanno fatto la rivoluzione e si sono sganciati dalla guerra. A quel punto tutte le unità che non sarebbero rimaste a presidiare i territori occupati vennero spostate su altri fronti e il mio reggimento fu mandato nel Carso ad aiutare gli Austraici. Abbiamo partecipato anche noi a quella grande offensiva per poco non annientò l'Italia a...com'è che si chiamava? Karfhein? No, ecco, Karfreit!”.

“Mi pare che gli Italiani la chiamassero “Caporetto” ” intervenne Kakuzu col tono di chi la sa lunga. “All'epoca, quando lessi la notizia, pensavo che il Bel Paese fosse già spacciato”.

Itachi scosse la testa con fare benigno: “No. Ho sentito dire molte cose sugli Italiani, ma se ce n'è una che corrisponde a verità è che essi danno il meglio di sé nelle situazioni peggiori. Così si sono rimboccati le maniche e hanno resistito sul Piave. E' stato proprio durante un tentativo di attraversare questo fiume che io venni catturato e portato in un campo di detenzione per militari austroungarici. Ci portarono in Piemonte, nei dintorni di Novara. Devo dire che né l'alloggio né il vitto erano peggiori di quando stavamo in trincea, anzi. In confronto ad alcuni miei conoscenti che erano stati catturati dai Russi, è stato come essere in villeggiatura. I nostri sorveglianti erano spesso più incuriositi che spaventati o assetati di vendetta, e con il tempo abbiamo imparato a conoscerci. E' grazie a loro se ho imparato quel poco italiano che so e per tanti mesi sono vissuto in tranquillità, senza nemmeno udire il rumore di uno sparo. Poi, un giorno di novembre, entra la guardia e dice che possiamo andarcene, che l'Austria ha firmato la pace. Probabilmente non si ricordavano nemmeno che io invece ero tedesco, ma è stato meglio così. Fu proprio durante il mio tragitto attraverso l'Italia del Nord che appresi che anche la Germania aveva ceduto. Non vi nascondo che piansi, ma non perchè ero deluso dall'aver perso la guerra: piangevo al pensiero di quel che avrei

trovato una volta tornato in patria. Quando misi di nuovo piede a Berlino, trovai mio padre molto invecchiato. Non gli importava più delle medaglie o delle industrie, ma di me”.

  
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