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Autore: orphan_account    21/07/2012    7 recensioni
Secondo la società, Lisa è una ragazza ribelle, violenta e menefreghista.
Ma per ogni ragazzo nel carcere minorile di Londra, lei è una divinità.
Secondo la società, loro cinque sono persone per bene, ragazzi da prendere come modelli.
Ma per ogni ragazzo nel carcere minorile di Londra i One Direction sono, per mancanza di termini più fini, froci.
*****
Il martelletto del giudice sbatté due volte contro il tavolo: “Per aver distrutto un edificio pubblico con atti vandalici, aver ferito Francisco De La Cruz con un coltello durante una rissa e aver fatto uso di sostanze stupefacenti, io condanno Lisa Jane Parker ad un anno nel carcere minorile. La sentenza è decisa.” il giudice si fece affaticato per un momento, “Di nuovo.” aggiunse con un sospiro.
Lanciai un'imprecazione urlata: “Porco Dio, sono uscita una settimana fa! Non mi potete sbattere dentro di nuovo.” Sentii la familiare sensazione delle manette che si chiudevano attorno ai miei polsi, e Tim, la guardia, che mi riportava al fresco. Tanto c'ero così abituata che perfino le guardie mi chiamavano per nome, sarebbe stato un po' come tornare a casa dopo una breve vacanza. Mi lasciai scappare un ghigno ferale a quel pensiero.
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zayn Malik
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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*ATTENZIONE*

Il comportamento di Ethan in questo capitolo non è assolutamente da imitare. Con questo racconto non voglio in alcun modo condonare l'uso della violenza, né contro persone né contro animali, e gli atti descritti non hanno l'intenzione di giustificare in alcun modo l'omicidio. Se siete facilmente influenzabili, o se atti di violenza contro altre persone vi turbano, siete pregati di non leggere il capitolo, grazie.

A scanso di equivoci, la parte contenente la violenza fisica è segnalata da cinque asterischi.

 

Purtroppo, Harry era dannatissimamente bravo a recitare. La sua voce si innalzava e abbassava con un'irregolare cadenza melodica. Tutti gli altri ragazzi sembravano rapiti dalla sua voce, o forse dai lenti gesti misurati che rivolgeva ad un immaginario servitore. Con uno sbuffo di fastidio per tutte le attenzioni che stava ricevendo, mi alzai in piedi e mi stiracchiai, la maglietta corta che mostrava il piercing all'ombelico. Le mie palpebre erano pesanti, chiaramente la voce di Harry era ottima per mettermi addosso una sonnolenza anormale. Sentii gli sguardi e i bisbigli spostarsi da Romeo o me, e mi spuntò un sorrisetto divertito. Era così semplice muovere le loro attenzioni, così facile, in effetti, che a volte avevo l'impressione di essere rinchiusa con un branco di cagnolini curiosi e non dei delinquenti che erano sulla buona strada per le carceri di stato.

Prima che l'istruttrice potesse fermarmi per comportamenti non idonei o chiamare le guardie, salii sul palco.

Harry si interruppe nel mezzo del suo bel monologo, girandosi verso di me con la confusione chiara nei suoi occhi. Lo spintonai leggermente lontano dal microfono sotto i risolini divertiti dei miei compagni.

Mi schiarii la voce, fregandomene altamente di tutte le minacce che uscivano dalla bocca della mia istruttrice. Tanto, era una donna così poco autoritaria che il massimo che avrebbe mai fatto sarebbe stato urlare e proferire un destino funesto se non avessi fatto quello che voleva lei, ma non funzionava mai. Anche perché aveva troppa paura per avvicinarsi direttamente a me.

Buon pomeriggio a tutti.” dissi con un sorriso a 300 volt che si spense dopo un secondo, la mia risposta automatica agli applausi e ai fischi dei carcerati. In un angolo della stanza vidi l'espressione tetra di Zayn, accanto al biondo.

Ripresi a parlare, lanciando un'occhiata sfrontata al pakistano: “Come avrete già notato, sono tornata. Bene, sappiate che ora le cose verranno fatte a modo mio, e il primo che osa sfidarmi si ritroverà con la gola tagliata.” dissi a testa alta, fiera di me. Non che ci fosse niente di bello ad avere la fedina penale più sporca di mezza Londra messa assieme, ma era stranamente gratificante. Colsi pezzi di conversazioni bisbigliate, teorie su come ci fossi finita di nuovo dentro di tutti quelli che non avevano sentito la mia conversazione con Ethan in mensa.

La più gettonata era che avevo picchiato un poliziotto, seguita a ruota da una minaccia al primo ministro inglese. Se c'era una cosa che non gli mancava, era proprio la fantasia.

Saltai giù dal palco e lanciai un bacio volante a Harry, che era ancora fermo immobile sul palco, che mi guardava con una faccia allibita. Uscii dalla stanza sotto gli sguardi di ammirazione e venerazione dei miei compagni e le urla isteriche dell'istruttrice che mi diceva di tornare dentro.

I corridoi erano deserti, tutti erano a fare qualche lezione educativa, quindi anche le celle erano vuote. Il silenzio cera paradisiaco alle mie orecchie. Nessuno schiamazzo, nessuna bestemmia da scaricatore di porto, nessuna maledetta campanella. I miei passi risuonavano sul pavimento mentre camminavo verso la mia cella, soffocando uno sbadiglio. Vidi un paio di guardie in giro, ma nessuna cercò di fermarmi, tanto ormai erano abituati a vedermi girare per il carcere. Questa era diventata un po' la mia casa.

Certo, non era come se avessi davvero un'abitazione al di fuori di qua, di solito dormivo a scrocco con uno qualsiasi dei miei compagni di malefatte.

Cercando di fare il meno rumore possibile, aprii la porta con le sbarre arrugginite. Mi buttai con un sospiro di sollievo sulla mia branda, chiudendo gli occhi. Era in quei momenti che potevo veramente lasciarmi andare. Fare la principessa delle tenebre tutto il giorno era complicato, e in fondo, io avevo solo diciassette anni. Ma valeva la pena fare quello sforzo, visti i risultati.

Tesi il collo per vedere l'orologio che c'era proprio fuori dalla mia cella, in corridoio. Con ogni probabilità non mi sarei persa molto, dato che la campana che ci ordinava di far ritorno nelle nostre celle sarebbe suonata tra una mezz'oretta. Potevo permettermi di dormire. Avevo sonno, tanta sonnolenza che mi impediva di formare dei pensieri coerenti. Sbadigliai e mi sistemai più comodamente le coperte attorno, con la testa che sprofondava nel cuscino. Il cuscino era morbido, e io ero talmente stanca!

I miei occhi si appiccicarono assieme, rendendo ancora più complicato stare sveglia. Sinceramente non capivo come mai fossi così priva di energie tutta d'un tratto.

Ma in effetti, se ci pensavo bene, era davvero tanto che non mi riposavo. Ieri sera, prima del processo, ero stata troppo nervosa per dormire. Era strano pensare che dopo tutto questo tempo riuscivo ancora a diventare agitatissima al pensiero dell'aula del tribunale, nonostante ci fossi abituata.

Però questa volta l'avevo combinata grossa, accoltellando un altro ragazzo. Non mi ero mai spinta così oltre, anche se attorno a me ruotavano delle leggende secondo cui io avrei ucciso parecchia gente in tutti i miei anni di vita. E si poteva dire che io avevo fatto di tutto per ingigantire questi miti. Poteva solo fare bene alla mia reputazione, già micidiale per la mia amicizia con Ethan.

Ethan faceva paura a tutto il carcere, salvo alcuni elementi schivi e solitari che erano serial killer, stupratori o cose simili. Perfino io limitavo i miei contatti con soggetti di quel genere, era meglio stargli il più lontano possibile se si teneva alla propria vita. Ma loro mi rispettavano, questo lo sapevo per certo perché ero stata in grado di assicurarmi il loro rispetto. E perché ero una delle pochissime che gli parlava senza paura.

I miei pensieri sconnessi si spezzettarono, distrutti da un'altra ondata di stanchezza. Mi abbandonai tra le braccia di Morfeo. Il mio ultimo pensiero fu che avrei dormito solo dieci minuti.

Il sogno che stavo facendo era senza senso, immagini frammentate di gente che avevo frequentato e perfetti sconosciuti. E poi si stabilizzò sulla faccia di Ethan. Il suo viso cominciò a ringiovanirsi gradualmente, un cambiamento quasi impercettibile, dato che Ethan era rimasto più o meno sempre uguale col passare degli anni. Il rimpicciolimento si fermò più o meno quando lui aveva tredici anni. L'unico cambiamento sostanziale erano i piercing in meno e i lunghi capelli marrone scuro che rendevano il suo viso più dolce, meno simile al criminale patentato che ora era.

E capii cosa stava per cominciare: ancora una volta il solito incubo, di ritorno dai più lontani recessi del mio subconscio. Quando Ethan mi aveva spiegato l'accaduto, dopo aver cercato di convincerlo per più di un anno intero a farmi raccontare la sua storia, avevo avuto quell'incubo per una settimana filata. Ogni tanto tornava ancora a spaventarmi. Oramai lo sapevo, tutte le volte che vedevo quelle scale, e quella casa bianca inondata di luce, sapevo che avrei sognato di nuovo il momento in cui Ethan uccideva la sua famiglia.

 

Mamma, sono a casa!” urlò Ethan subito dopo aver aperto la porta. Come al solito, nessuno rispose.

Ethan appoggiò la cartella di fianco all'ingresso, dirigendosi verso il soggiorno. Sul divano rosso, intenti a coccolare sua sorella, c'erano i suoi genitori, entrambi giovanissimi. Sua madre era rimasta incinta a diciott'anni, e lui non aveva idea di chi fosse il suo padre naturale. Qualche anno dopo aveva incontrato e sposato il suo attuale marito, suo 'padre'. Ethan era stato il frutto di uno sbaglio, nessuno lo aveva voluto veramente. E poi, dieci anni dopo la sua nascita, era nata lei. Era odiosa, con i suoi angelici ricciolini biondi, gli occhi verdi e le fossette quando sorrideva.

Ethan aveva preso tutto da suo padre, e quindi lui e la sua sorellastra non si somigliavano per niente, e ringraziava la sua buona sorte che non gli fossero capitati gli stessi geni, altrimenti sarebbe sembrato un dannato cherubino. Eppure non avrebbero potuto essere più uguali, avevano la stessa identica natura vendicativa e un lato sadico che nascondevano freneticamente. Ma nulla da fare, sua madre preferiva Stefanie a lui.

Lui aveva cercato di darsi una spiegazione logica. Forse erano i suoi occhi color pece a metterla in soggezione, o i buchi nelle orecchie che si era fatto da solo. Ma una madre dovrebbe amare ogni figlio allo stesso modo, no?

Oggi non era differente dal solito: i suoi si sarebbero accorti di lui solo per guardarlo con disgusto e ordinagli di sparire in camera sua per studiare. E infatti, subito dopo, appena la sua testa fece il suo ingresso nel salotto, il marito di sua madre alzò lo sguardo e gli ordinò di andarsene con tono burbero.

Fremendo per la voglia di spaccare qualcosa, Ethan salì le scale a due a due per sfuggire alla sua realtà familiare. Chiuse la porta con uno scatto e fece il terzo dito a suo padre attraverso la porta chiusa prima di gettarsi sul letto disfatto con un tonfo sommesso. Soppresse a fatica uno sbuffo. Non ce la faceva più a sopportare tutto questo. Ogni tanto si chiedeva se non sarebbe stato meglio scappare. Aveva già preparato tutto per una fuga. C'era una copia delle chiavi di casa sotto uno dei tanti vasi di fiori sul suo davanzale, una valigia piena di vestiti e cibo in scatola in quantità nell'evenienza di una fuga veloce. In fondo, lui era il figlio ribelle.

Ci pensava già da un paio di anni di andarsene, ma solo come presa di posizione. I suoi genitori si sarebbero accorti di che enorme errore avessero fatto e si sarebbe sistemato tutto.

Ethan accese il suo i-Pod e si infilò le cuffiette, alzando il volume fino a quando tutto il suo mondo non si restrinse al rumore assordante che gli perforava i timpani. Si perse tra gli assoli di chitarra e la voce armonizzante del cantante, cercando di concentrarsi più sulla rabbia del cantante, che in quel momento stava dicendo che avrebbe dato fuoco al mondo, che sulla sua.

Sentiva ogni muscolo fremere impaziente, cercando di controllare i suoi istinti assassini. Si immaginava già la scena. Lui che entrava nel bagno di Stephanie di soppiatto, guardandola mentre si rilassava pacificamente, appoggiata contro il bordo della vasca da bagno piena di schiuma azzurra, la bocca rosea leggermente dischiusa e la cascata di ricci sparpagliata attorno alla testa come se fosse un piccolo sole. Si sarebbe avvicinato e avrebbe allungato una mano. Poi, molto delicatamente, le avrebbe accarezzato la testa e le sue palpebre si sarebbero aperte con uno sfarfallio leggero. I suoi occhi verdi lo avrebbero trapassato da parte a parte, ma senza timore, perché lei non sapeva cosa la stava aspettando. Voleva che sapesse chi era il suo assassino, e sperava ardentemente che prima di morire si rendesse conto dei suoi errori, della sua maligna presenza che lo aveva allontanato dalle grazie di sua madre. Ma sapeva che era troppo piccola, e che ciò non sarebbe successo. Certo, non avrebbe impedito che il suo sorriso innocente e un malizioso saluto con la sua vocina acuta lo distraessero dal suo compito. L'avrebbe spinta delicatamente sott'acqua, e la sorpresa avrebbe bloccato ogni sua protesta, non avrebbe nemmeno cercato di risalire all'inizio. Dopo qualche istante si sarebbe accorta che Ethan non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare, e allora sì che avrebbe cominciato a dibattersi. Le sue piccole manine avrebbero cercato di arpionare via la mano del ragazzo, che le impediva di respirare. Le sue unghiette affilate lo avrebbero graffiato, e le quantità industriali di bagno schiuma nella vasca avrebbero cominciato a far pizzicare i segni sul dorso della mano, ma un dolore del genere era sopportabile. I suoi piedi avrebbero cominciato a sbattere qua e là, creando piccole onde concentriche nella vasca, dapprima piccole, poi sempre più grandi, che si frastagliavano contro l'orlo della vasca e si rovesciavano con una cacofonia di rumori all'esterno, bagnando il pavimento. Sarebbe passato qualche minuto, e la pressione contro la sua mano si sarebbe allentata gradualmente fino a sparire, e Stephanie sarebbe morta, sparita definitivamente dalla sua vita, fino a diventare non più che un vago ricordo.

Ma ovviamente, non poteva uccidere sua sorella, e si sorprese ad essere soppresso da uno strano senso di colpa. Lui non voleva davvero che Stephanie morisse, vero? O sì?

Ethan non riuscii ad approfondire l'argomento con se stesso perché in quell'istante sentì una scarica di dolore alla cute, e si accorse che doveva essere Stephanie, venuta a chiamarlo per la cena al solito modo, tirandogli i capelli così forte che aveva la sensazione che si sarebbero staccati di lì a poco.

Aprì gli occhi e le ringhiò contro, facendole fare un delicato passo indietro, ma senza scomporsi più di tanto; ormai era abituata all'aggressività del fratello, ma pensava che forse erano solo gli ormoni che lo rendevano così irritabile.

È pronta la cena.” disse con la sua vocina petulante ed affettata, con un sorriso smielato che di fraterno non aveva proprio nulla. E con quelle parole sparì dalla stanza, volteggiando con indosso il tutù viola che le avevano comprato ieri sua madre e suo padre.

Ethan si passò la lingua sulle labbra, bagnandole, e staccò le cuffiette dalle orecchie con uno strappo violento. Il silenzio della stanza si fece improvvisamente profondo, e gli cominciarono a fischiare le orecchie per l'assenza di rumore. Scese le scale e si avviò verso la cucina, notando come fossero tutti molto più rumorosi del solito. Il mistero fu presto svelato: si stavano comportando tutti assurdamente bene perché c'era suo zio in visita. Lo odiava. Odiava la sua persona arrogante e la sua ottusità, chiara come il sole sotto una coltre di pienezza di sé.

La sua giornata già nera sprofondò ancora un po' di più, facendogli credere che la sua buona stella se ne fosse andata completamente, lasciandolo da solo in quella famiglia incasinata.

Ma fece un sorriso allegro e si avvicinò a zio Albert, che per tutta risposta lo squadrò da capo a piedi, nemmeno fosse un vecchio straccio sporco. Si sentì in soggezione, e rimpianse di non aver scelto dei vestiti più eleganti, invece che la solita maglietta nera e un paio di jeans logori.

Ethan... Sei cresciuto. Come sta andando la scuola quest'anno?” domandò, dando in mano a mia madre il suo giaccone e accomodandosi su una delle sedie senza che nessuno gli dicesse niente. Mia madre appoggiò la giacca sull'appendiabiti dietro di lei e ordinò a tutti di sedersi con quella sua voce aspra che mi faceva venire voglia di spaccarle un piatto in testa. Si sedette al solito posto, cercando di trattenere l'impulso di scappare a gambe levate da quella situazione.

Tutto bene, zio.” disse, ricordandosi improvvisamente della domanda che aveva fatto. Suo zio lo scrutò con quei piccoli occhi porcini.

Sei sicuro? L'ultima volta che hai detto una frase del genere ti hanno quasi espulso.” la sua voce arrogante era nasale e nauseante mentre suo padre gli versava un bicchiere di vino e lui se lo scolava in poco più di un sorso.

Sentì un'insormontabile ondata di rabbia sorda e pulsante farsi strada nel suo corpo. Era stato davvero un colpo basso riportare a galla quella faccenda di due anni fa.

Ethan cercò di mantenersi calmo, ma sentiva tutti i muscoli della sua faccia tesi nel tentativo di sembrare neutrale al commento. Stephanie ridacchiò dalla parte opposta del tavolo, e lui sentì ancora quella voglia matta di ucciderla, ma stavolta le avrebbe ficcato la testa nell'acqua bollente. Voleva sentirla urlare, voleva vederla piangere. I accorse che aveva le mani strette a pugno così tanto che le unghie avevano lasciato piccole mezzelune rosse in corrispondenza con le sue unghie.
Le facce inquisitorie rivolte verso di lui indicavano che non aveva sentito qualche domanda che gli aveva posto lo zio. Fece un altro sorriso stentato.

Scusa, avevo la testa per aria.” disse a mo' di spiegazione, evitando di guardare l'espressione incenerante del padre e quella ammonitrice della madre.

Suo zio strinse gli occhi fino a ridurli a due fessure: “Sempre con la testa per aria questo ragazzo. Non è che sarebbe il caso di mandarlo d qualche specialista? Perché secondo me ha il cervello un po' bacato.”

E così, ora era lui ad avere il cervello bacato, no? Non sua madre, che non aveva usato un dannato preservativo mentre faceva sesso, non suo padre, che aveva deciso di sposare una donna single con un figlio da mantenere e che poi si lamentava pure delle spese.

Sentiva la testa girargli da quanto era in preda alle emozioni, tra poco sarebbe scoppiato e poi non si sarebbe più fermato. Questo era troppo anche per lui.

Sua madre cominciò a mettere i piatti in tavola, ed Ethan fu presto costretto a guardare quella roba che sua madre spacciava per cibo ne suo piatto. Sbirciò anche in quello degli altri ma, fedele alla linea di pensiero sua madre, i 'grandi' mangiavano una cosa, mentre i 'piccoli' ne mangiavano un'altra. Ma davanti a Stephanie c'era un piatto pieno di patatine fritte e un hamburger enorme. Fissò il cibo nel suo, riconoscendo la pasta per quel che era. Aveva un aspetto malaticcio, troppo bianca e tutta raggrumata, fino ad essere irriconoscibile. Ne dovette staccare un pezzo col coltello per poi metterselo in bocca, pensando che con ogni probabilità erano i rimasugli del pranzo scaldati nel microonde. Se ne mise un pezzo in bocca. Era viscido, come se si fosse appena messo un bocca un pesce rosso ancora vivo. Ed era disgustoso, così disgustoso che il solo pensiero di avere quella roba in bocca gli faceva venir voglia di vomitare. Ora che ci pensava, il paragone veniva automatico: aveva lo stesso colore dello sperma. Quel pensiero gli fece quasi sputare il boccone, ma si costrinse ad ingoiarlo, sentendo il suo pomo d'Adamo fare su e giù mentre si obbligava ad inghiottire. Bevve velocemente un grosso sorso d'acqua per togliere il sapore viscido dalla lingua.

Com'è che lei mangia quello?” chiese amaramente, puntando il coltello nella direzione di sua sorella. Ma sapeva come sarebbe andata a finire, non era la prima volta che succedeva, e di certo non sarebbe stata l'ultima.

Suo padre tossicchiò e rispose con voce severa mentre il chiacchiericcio si spegneva di botto: “Non fare il bambino, Ethan. Stephanie è piccola, e quella è l'unica cosa che mangia. Per non dire che tua madre ti ha preparato quel pasto con tanto amore, quindi farai meglio a mangiarlo.”

*****

Il pensiero di dover mangiare l'intero piatto lo fece quasi sboccare sul posto, rivoltandogli lo stomaco come un calzino. Si alzò in piedi di scatto, facendo cadere per sbaglio un bicchiere di vino e provocando l'ira di suo padre, a cui per poco non scoppiò una vena.

Siediti, Ethan.”

Altrimenti?” lo provocò, esibendosi nel suo sorrisetto più sfacciato, pur sapendo che non era saggio sfidarlo.

Altrimenti dopo ti insegno io una lezione.” disse, stentoreo, mentre stringeva la forchetta così tanto che le sue nocche erano sbiancate.

La sua mente ebbe un blackout. Troppa tensione, troppa rabbia perché il suo cervello continuasse a ragionare, invece furono i suoi istinti di sopravvivenza a prendere il sopravvento.

Vide tutto al rallentatore, la sua smorfia di odio puro rivolta a tutti i presenti, le sue mani che tremavano mentre afferrava saldamente il piatto. E poi si vide mentre tirava il piatto di ceramica in testa al suo padrigno. Il piatto si frantumò in mille pezzi, e la pasta si tinse rapidamente di rosso quando cadde con un suono floscio sulla sua testa, dandole un'aria ancora più cupa, mentre lui cadeva all'indietro dalla sedia, gli occhi così larghi che praticamente uscivano dalle orbite.

Gli uscì un suono strozzato dalla gola, come una ranocchia agonizzante, mentre si contorceva sul pavimento e cresceva la macchia di sangue sul parquet. Sua sorella scoppiò in un pianto disperato proprio mentre sua madre cominciava ad urlare istericamente e faceva una corsa per il telefono, ancora incerta se chiamare un'ambulanza oppure la polizia.

Ethan capì immediatamente cosa aveva fatto, e per qualche ragione sapere di aver (forse) ucciso il marito di sua madre gli dava un senso di soddisfazione immensa. Ma poi, proprio mentre sua madre afferrava la cornetta e cominciava a premere freneticamente i tasti, sbagliando tutte le volte perché le mani le tremavano troppo, capì che ora era un assassino, e sempre l'istinto di sopravvivenza lo obbligò a fare una decisione molto semplice. O impediva che il suo crimine venisse scoperto, o rischiava l'ergastolo. La scelta fu così ovvia che per qualche secondo si domandò se non ci fosse sotto qualche tranello.

Ma poi smise di pensare e si affidò alle conoscenze del predatore in pericolo che era appena diventato.

Il cuore gli batteva a mille, un po' per la paura di finire in prigione e un po' per l'eccitazione della caccia.

Afferrò sua madre per il collo, allontanandola dal telefono e pensando a come fare per stanarla velocemente. Se avesse fatto troppo rumore i vicini avrebbero potuto insospettirsi e chiamare la polizia. Di zio Albert non aveva paura, perché era ancora fermo sulla sedia a guardare il corpo inerme di suo fratello, che ora aveva smesso di dimenarsi, con gli occhi spalancati e increduli. Stephanie piangeva ancora, le sue urla stridule, ed Ethan seppe con assoluta certezza che voleva tenersi sua sorella per ultima, vedere la consapevolezza nel suo sguardo, la consapevolezza che stava per morire e che nessuno poteva aiutarla stavolta.

L'adrenalina lo stava facendo sragionare, ma non gli importava in questo momento. Spinse la testa di sua madre forte contro il muro, e sentì l'urlo di dolore che seguì. Chiaramente non era stato un colpo abbastanza forte.

Ripeté l'operazione altre due volte, mentre sia lei che sua figlia strillavano come ossesse, e alla quarta volta sentì la testa di sua madre aprirsi come un melone troppo maturo, con un rumore strano che non somigliava a nulla di quello che avesse mai sentito. Un po' di sangue gli colò sulle mani, e lui lo guardò con cupidigia, ansioso di provare di nuovo quella sensazione inebriante che seguiva l'atto di violenza.

Si diresse senza più esitazioni verso suo zio, mentre il corpo senza coscienza di sua madre scivolava per terra.

Stavolta si prese più tempo nel decidere come avrebbe attuato l'omicidio. Ora che il pericolo più grande, quello che la polizia sentisse le urla, era stato evitato, poteva riflettere di più sul lato estetico dell'omicidio.

Alla fine andò in cucina e frugò in lungo e in largo per trovare uno di quei coltellacci da cucina che sua madre usava per affettare la carne. Quando lo trovò, non perse altro tempo e si diresse verso suo zio, che, ancora sotto shock, non si accorse nemmeno del nipote che si avvicinava minacciosamente con un coltellaccio in mano.

Era quasi sul punto di pugnalarlo, quando si ricordò del problema che ponevano le costole. Quindi girò la lama del coltello, tenendola accuratamente in orizzontale in modo da non cozzare contro le ossa.

Si umettò le labbra e spintonò il coltellaccio nel corpo di suo zio, che dopo qualche istante di immobilità cadde in avanti come un sacco di patate, con la lama ancora infilata nella schiena. Il suo corpo andò a far compagnia a quello di suo fratello, e Ethan sentì distintamente il rumore del suo naso che si rompeva mentre finiva a terra, e lo splash della sua faccia massiccia che cadeva nella pozza di sangue uscito dai tagli in testa a suo padre, che sperava fossero abbastanza profondi da averlo stecchito.

Si girò verso Stephanie, il cuore che sembrava sul punto di scoppiargli e il fiato pesante e irregolare. Eppure si sentiva bene, l'ebbrezza dell'omicidio aveva un ché di salutare in lui. Sentiva una luce frenetica negli occhi, e udì le urla di sua sorella farsi sempre più acute e disperate. Si ricordò del sogno ad occhi aperti che aveva fatto prima, in camera, sotto il fracasso degli Slayer. Sapeva come voleva che morisse sua sorella, l'origine di tutti i suoi guai. Adocchiò un cuscino di lana grezza sul divano in pelle, e prese brutalmente in braccio la bimba per portarla vicino al cuscino, un sorriso maniacale in viso. Stephanie si ammutolì di botto, guardando il fratello con due occhioni che avrebbero fatto sciogliere un sasso, ma che in quel momento non sortirono alcun effetto su Ethan.

Fai ciao ciao con la manina.” disse sarcasticamente a sua sorella prima di spingere la sua faccia contro il cuscino. Fu una cosa lenta, ci mise quasi dieci minuti a smetterla di contorcersi, ma lui la tenne premuta contro il cuscino per più a lungo, giusto per essere certo di averla fatta fuori.

Ma era morta di sicuro. Le sue gambe pendevano flosce da sotto il tutù, e le sue mani affusolate, che fino a poco tempo prima cercavano di prenderlo a pugni dovunque arrivassero, ora erano innocue. Il suo viso era mortalmente pallido, con quasi una sfumatura di azzurro. La disgustava, quasi più da morta che da viva. Era assolutamente inutile, per non dire ingombrante.

Il flusso di adrenalina domandava di più, richiedeva che altro sangue fosse versato, altre vite bruciate. Le uniche altre cose che trovò di vive furono il canarino di sua sorella, che mise a cuocere in una pentola di acqua bollente, e il gatto di famiglia, un vecchio siamese che Ethan aveva odiato fin dal primo momento in cui il marito di sua madre se l'era portato in casa. In nome di tutti i casini di cui era stato incolpato per colpa di quel dannato gatto, gli fece fare una fine lenta e dolorosa. Prima gli tagliò la coda e gli legò un laccio emostatico improvvisato in modo che non morisse dissanguato dagli zampilli si sangue cremisi che uscivano dal moncone.

Poi si divertì a staccargli parti del corpo, un orecchio o una zampa spelacchiata. Alla fine morì, anche se lui non era certo di cosa fosse morto, magari gli era pure venuto un infarto, al poveraccio.

Il tempo passò. Lentamente, certo, ma alla fine passò, e poco dopo che le campane ebbero scoccato la mezzanotte si accorse che ora era orfano. E che era un assassino. La consapevolezza del suo gesto cominciò a farsi strada nel suo cervello annebbiato. Decise di chiamare la polizia. Non perché fosse divorato dai sensi di colpa, anzi, era sempre più felice di quello che aveva fatto, ma perché così avrebbe avuto un tetto sopra la testa e qualcosa da mangiare, e non avrebbe dovuto vivere sotto lo stesso tetto di sei cadaveri. Per non dire che in un paio di giorni si sarebbero accorti dell'assenza dei genitori al lavoro, e le sue impronte digitali erano limpide su tutta la casa, quindi era comunque impossibile nascondere il danno.

*****

Prese il cellulare dalla tasca e compose il numero della polizia, attendendo con pazienza mentre il cellulare squillava.

Parla un agente della polizia di stato, qual è la sua emergenza?” una voce annoiata, che probabilmente doveva aver ripetuto meccanicamente quelle parole tutto il giorno, rispose al quarto squillo.

La sua voce era ferma e stabile, ed Ethan era fiero di non essere crollato nel panico o che altro: “Buonasera. Chiamo perché vorrei costituirmi. Ho ucciso sei persone. Beh, non esattamente, quattro persone e due animali.”

Dove abita?” alla voce dell'agente, molto più secca e burbera ora, si unì il rumore di una sirena che cominciò a suonare nel sottofondo.

Lui disse l'indirizzo preciso, aggiungendo ogni informazione richiesta dall'ufficiale, come nome e cognome, età (era rimasto sconvolto nel sapere che Ethan era così giovane) e se faceva uso di medicinali.

Era nella sala ad aspettarli quando finalmente arrivarono, aprì con gentilezza la porta e gli disse di accomodarsi. Se gli ufficiali erano rimasti confusi dall'apparente gentilezza, non lo diedero a vedere, e di certo ogni progresso in positivo fu cancellato dai volti segnati dall'orrore quando entrarono nella cucina e videro tutti i corpi esanimi, constatando che nemmeno uno era sopravvissuto.

Ethan fu ben felice di farsi ammanettare, e disse addio a quella casa degli incubi, che era sicuro che non gli sarebbe mai mancata.

Un suono squillante interruppe il mio incubo, facendomi risvegliare tutta sudata e tremante. Quel sogno riusciva a sconvolgermi tutte le volte, senza eccezioni. Sapevo che ciò che era scaturito dalla sua immaginazione era molto somigliante al vero, dato che mi aveva fatto vedere delle foto della sua famiglia e descritto con cura ogni dettaglio insignificante. Dopo che me l'aveva detto ero rimasta terrorizzata da lui, domandandomi se era il caso di continuare a frequentarlo se era lo psicopatico che sembrava dal racconto. Di certo non sembrava che una misera minaccia potesse scatenare l'ira di Ethan, ma il mio povero amico ne aveva passate fin troppe, e a volte ero anche contenta che si fosse liberato del giogo della sua famiglia.

Mi alzai dal letto con uno sbuffo, leggermente traballante sulle gambe, e uscii in corridoio per il tempo libero.

Odiavo questi momenti, ore e ore di ozio in cui non succedeva quasi mai nulla di interessante. Perlomeno era del tempo che potevo passare sola con Ethan, e quello era l'unico lato positivo della faccenda.

Ero ancora un po' rintronata dal pisolino che mi ero fatta, e non mi ero accorta del casino in corridoio finché non finii quasi addosso ad una povera ragazza, che si girò per guardarmi male, prima di accorgersi che stava per fare un tremendo errore a guardare male Lisa Jane Parker.

Mi costrinsi a svegliarmi completamente e osservai il semicerchio di ragazzi che si era riunito attorno ad altre due persone, di cui una era sicuramente il riccio, il mio compagno di cella.

Spintonai un paio di persone fino ad arrivare proprio in prima fila: “Cosa succede qui?” domandai con un ringhio ferale, scroccandomi le nocche.

L'altro ragazzo, un tipo dai capelli corvini, si girò a guardarmi negli occhi con un'espressione omicida. Ci misi qualche secondo più del solito, ma riconobbi il ragazzo come Gabriel. Ma chiaramente mi stavo sbagliando, perché Gabriel era stato spostato l'anno scorso in un centro di recupero per ragazzi. E che io sapessi era ancora lì.

Ma quello davanti a me non poteva essere che lui: lunghi capelli neri che gli oscuravano metà della vista, occhi del colore del ghiaccio e mortalmente pallido. Era l'unico che potesse conciarsi in quel modo senza sembrare una specie di emo. Certo, aiutava il fatto che nessuno osava avvicinarsi a lui perché avevano tutti troppa paura.

Gabriel Delaware, sei proprio tu?” domandai con un sorriso che andava da una parte all'altra della faccia.

Gabriel era uno di quei tipi poco raccomandabili che nessuno osava avvicinare, ma che per qualche ragione mi aveva presa in simpatia. E avevo scoperto che la sua reputazione non era del tutto dovuta. Magari non era proprio la compagnia ideale, ma avevo visto tipi ben peggiori. Qualche omicidio, un paio di stupri, spaccio di droga e, come mi aveva confessato, prostituzione. Sì, tutto sommato era un tipo abbastanza a posto, ma si era fatto la fama di sociopatico, per qualche misteriosa ragione.

Lui fece un sorriso sornione, e i suoi occhi si placarono: “Lisa! Che bella sorpresa. L'ultima volta che ho sentito eri uscita per buona condotta. Ma a quanto pare in una settimana riesci a cacciarti in parecchi guai” nella sua affermazione c'era la tacita richiesta di sapere quello che era successo.

Che fai, mi spii? Non sapevo che ti fossi dedicato allo stalking ultimamente.” gli feci notare, un sopracciglio inarcato con sarcasmo.

Sul suo volto apparve l'ombra di un sorriso: “Cosa ne dici di incontrarci stasera nella tua cella? Verso le nove, magari.” propose con tono indifferente, ma sapevo bene quanto doveva essere in pena per farmi una richiesta del genere. Lui era più il tipo da sopportare in silenzio, che odiava dover chiedere favori alla gente.

Era arrivato a questo punto solo un'altra volta, ma mi era bastata per appurare che le lodi sul suo conto non erano sprecate.

Annuì: “Nove e un quarto in camera mia, ti mando Ethan a scassinare la serratura della cella.”

Cosa ti devo?” domandò dopo una pausa tesa, come se temesse la risposta.

Non è che per caso hai qualche sigaretta?” domandai con speranza, sentendo il peso dell'astinenza gravare su di me come una minaccia di morte.

Lui annuì, sorridendo maliziosamente: “Certo che sì, per chi mi prendi?”

Oh grazie, sei il mio salvatore.”

Lui aprì innocentemente gli occhi: “Come, non lo sapevi? Salvatore è il mio secondo nome.”

Gli lancia un'occhiata carica di sottintesi tra cui il solito non-fare-lo-scemo.

Gabriel si umettò le labbra suggestivamente: “Allora a dopo, bellezza.” disse con un occhiolino, girandosi e sparendo dal corridoio, manco fosse un fantasma.
“Sciò ragazzi, lo spettacolo è finito.” dissi seccamente alla folla che si era radunata attorno a noi. E poi mi girai a guardare il riccio, che era ancora disteso per terra.

Lo livellai con uno sguardo, cercando di capire in che stato fosse: “Sei suicida, per caso?”

Ne avevo conosciuti tanti di suicidi, e molti decidevano di irritare i soggetti pericolosi finché una mattina non si svegliavano con la gola tagliata. E, nonostante ci fossero così tanti suicidi, molti di più dei ragazzi fuori di testa, finivano tutti quanti stecchiti.

Essendo che l'unica risposta che mi diede fu un'occhiataccia, ritentai: “Allora mi spieghi cosa diavolo è successo qua?” Gli allungai una mano perché si rimettesse in piedi.

Hai davvero intenzione di fare sesso con quel tipo davanti a me e Zayn?” domandò, chiaramente disgustato dalla faccenda. Sinceramente trovavo il suo disgusto alquanto comico, visto che presto sarebbero venuti da me in ginocchio, pregandomi per una scopata.

Certo che sì, ora, vuoi dirmi cos'è successo?”

Harry borbottò, cominciando a camminare in direzione opposta a quella che doveva andare. Lo presi per li fianchi e lo guidai nella direzione giusta, con le mani che forse scendevano più in basso di quanto avrebbe voluto.

Mah, se lo sapessi te lo direi. Stavo camminando verso la sala e all'improvviso mi ritrovo quel tipo davanti. Ha cominciato ad urlare e spintonarmi, bestemmiando anche peggio di te.” staccò le mia mani dai suoi fianchi, ma non senza avermi lanciato un'occhiata di fuoco che non avrebbe spaurito nemmeno un bambino.

L'avrai guardato storto. Gabriel odia essere guardato.” commentai con noncuranza.

Ma ti consiglio di fare attenzione a dove vai, altrimenti ti ritroverai morto in poco tempo.” aggiunsi a titolo informativo, cercando di fare una coda di cavallo che non fosse una schifezza.

Lui mi guardò con la faccia inorridita: “Dio mio, voi siete tutti pazzi. E pensare che Liam aveva anche proposto di andare a fare un concerto di beneficenza in un carcere minorile. Ma sai qual'è la cosa peggiore?”

Lo guardai con un'espressione che chiunque non mi conoscesse scambiava sempre per interessata, ma che in realtà significava solo che mi stavo prendendo gioco del tipo, divertendomi a sue spese.

Lui prese il mio sguardo come un invito a continuare: “È che noi ci stavamo pure pensando seriamente!”

Lo guardai per un secondo, stranita non tanto dalle sue parole ma dallo scintillio nei suoi occhi: “Sei incredibile, riccio.”

Lui socchiuse gli occhi nella mia direzione: “Ed è una cosa buona o cattiva?”

Scrollai le spalle: “E chi lo sa, devo ancora capirlo.”

 

*ANGOLO AUTRICE*

Bentornate care lettrici! No, non sono caduta in un burrone, sono ancora qua a postare le mie storie orripilanti alle undici di sera perché domani devo partire per Shark El Sheikh (che poi, si scrive così?) e devo alzarmi alle tre del mattino e per una settimana non potrò aggiornare, quindi lo faccio adesso.

Chiedo venia per la mia prolungata assenza, spero che non me ne vorrete, ma era un po' in difficoltà riguardo al come scrivere il capitolo, e infatti è da notare come sia venuto una schifezza catastrofica e sia di una cortezza riguardevole. (?) Uso dei paroloni che non sapevo nemmeno di conoscere, oggi...

Non so con che coraggio sono tornata con un capitolo del genere, ma spero veramente che nelle recensioni (se ce ne saranno, poi!) non siate troppo severe. So che non si capisce niente e che è troppo forte e che è confuso e che non serve a niente se non ad anticipare quello che succederà nel prossimo capitolo (se non l'avete ancora capitolo rileggete l'ultima parte) e che alcune di voi mi avevano chiesto quando avrei scritto cosa è successo nella storia di Ethan, e quindi eccolo qui. Spero che non sia stato un disastro completo.

Un bacio a tutte,

Ele :)

   
 
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