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Autore: Flexum Sci_Fi    22/07/2012    0 recensioni
Ho scritto questa storia molto tempo prima di scoprire dell'esistenza di EFP; dato che credo che sarebbe un peccato caricarla tutta in una volta, l'ho divisa in tre capitoli, che pubblicherò a distanza di qualche giorno l'uno dall'altro. Si tratta di una storia già conclusa, senza un possibile seguito, ma i consigli sono pur sempre ben accetti.
Si tratta di una delle prime storie che pubblico su questo sito, e ancora non sono certo che l'apprezzerete, ma scrivendola mi sono impegnato parecchio e ho raggiunto un risultato che personalmente ho molto apprezzato. Spero che avrete la mia stessa impressione.
Ho cercato di rendere il genere della storia nel migliore dei modi selezionandolo fra quelli preimpostati, ma non sono certo che la scelta sia quella esatta. Ad ogni modo sono piuttosto convinto che la storia di un uomo disperato, perseguitato dalle ombre del suo passato, e anche da qualcosa di ben più concreto e spaventoso, possa essere definita come "thriller soprannaturale/drammatico".
Non mi resta che augurarvi buona lettura.
Genere: Drammatico, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte Terza

In piedi sui pedali, mulinavo le gambe spingendo la mia bici alla massima velocità: avevo un terribile fiatone e provavo una dolorosa fitta al petto, ma non potevo fermarmi. Non sapevo il motivo, ma dovevo fuggire: la strada sembrava non voler finire mai, e la sensazione di pericolo non mi abbandonava. Il borsone della palestra rimbalzava a destra e a sinistra ad ogni pedalata e sembrava pesare una tonnellata. Me ne sarei sbarazzato volentieri, ma avrei dovuto fermarmi per farlo, e non riuscivo a smettere di muovere le gambe. Ero pervaso dal terrore e dentro di me urlavo senza emettere alcun suono. Di solito impiegavo cinque minuti a rincasare dall’allenamento, mentre questa volta stavo impiegando… Da quanto tempo pedalavo? Non ne avevo la minima idea. Eppure era la strada giusta. Solo un po’ più lunga del solito. Molto di più. Poi finalmente accadde qualcosa e fu rotta la monotonia snervante della fuga immotivata. La ruota anteriore si bloccò, come se una mano invisibile avesse tirato il freno. La bici s’impennò ed io fui sbalzato in avanti. Caddi a terra e il dolore esplose, distorcendo la mia percezione visiva. Quasi subito dopo la caduta comparve un uomo. Emerse dalla penombra e camminò con calma verso di me. La sua estrema posatezza mi fece capire immediatamente che non era lì per prestare soccorso, come avevo pensato inizialmente. L’individuo si mise a parlare, e la sua voce era una lama di ghiaccio. Allora mi resi conto che era a causa sua che stavo fuggendo. Non riuscivo a trovare una logica a tutto ciò, ma ero sicuro che fosse così. Non ero in grado di ragionare, persino il dolore era scomparso: dentro di me c’era spazio solo per l’orrore. Mentre assorbivo le terribili parole dello sconosciuto, la mia vista si faceva confusa, sempre di più, finché il buio fu totale.

Una notte mi svegliai in preda ai brividi e con un forte senso di nausea: ero nuovamente pervaso dal terrore e a causa delle ingessature non riuscivo a muovermi, né ad emettere alcun suono. Pochi secondi  dopo udii un rumore: un tonfo sordo. Cercai di chiamare i miei genitori, ma la mia voce non aveva consistenza. Urlavo, ma dalla mia bocca non usciva nulla più che l’aria. L’aria che pian piano stava venendo a mancare. Soffocavo. Stavo per morire. Iniziai ad agitarmi nel letto, come prigioniero delle lenzuola. Poi il tonfo si ripeté. Ancora e ancora. Il suono si fece più forte e divenne prolungato: era come se qualcuno stesse scuotendo le persiane. Fuori dalla finestra, qualcuno o qualcosa stava tentando di divellere le imposte. Fissai le tende con gli occhi sbarrati, ormai rassegnato al mio destino. Il legno esplose dietro i vetri e quelli furono polverizzati dall’impatto. Una sagoma scura apparve sulla soglia e i suoi occhi luccicarono nel buio. Mentre il misterioso visitatore si faceva strada verso di me, i miei appelli silenziosi furono finalmente esauditi, e la porta che dava sul corridoio si aprì. Mio padre entrò gridando e brandendo un bastone.

Anche il mattino del funerale si rivelò una terribile esperienza. Ero in chiesa, seduto su una delle panche della prima fila, e assistevo distrattamente alla predica del prete. Nella mia testa frullavano mille pensieri terribili e non riuscivo a smettere di piangere. Casualmente mi girai e lanciai un’occhiata alle mie spalle. Fu con tremendo sconcerto che mi resi conto di chi sedeva nella fila dietro la mia, fra le altre persone. Era esattamente dietro di me. Mi stava fissando. Tornai a girarmi verso l’altare, ma sentivo il suo sguardo trafiggermi la schiena. Sentii il bisogno di urlare, ma riuscii a trattenermi. Inchiodai i piedi al terreno e strinsi i pugni lungo i fianchi, serrando con forza gli occhi. In preda al panico, non mi resi conto che il mio respiro era divenuto molto rumoroso: indispettita, mia madre si girò verso di me ed iniziò a scrollarmi con forza, perché la smettessi. Era abituata a queste mie crisi, ma non aveva mai imparato a conviverci: ogni volta che mi capitava dovevo aspettarmi, il giorno successivo, di essere trascinato a forza dallo psicologo per far luce sulla faccenda.

-          Smettila! – sibilò mia madre – Abbi rispetto per tuo padre. È morto.

-          Pensi che non lo sappia? – mugolai.

Poi non riuscii più a trattenermi e mi alzai dalla panca, urlando per la disperazione. Con un balzo raggiunsi il corridoio della navata centrale e zoppicai verso il portale della chiesa.
Un attimo prima che uscissi, una risata malefica risuonò fra le pareti del luogo sacro. Era la stessa risata che avevo udito quando mio padre era stato ucciso. In pochi istanti rivissi quella terribile notte di pochi giorni prima, quando le persiane della mia stanza erano state divelte e sulla soglia era comparso il mostro.

Il giorno del mio undicesimo compleanno fu il più triste della mia vita. Addirittura peggio del funerale, svoltosi un paio di settimane prima. Peggio ancora della notte in cui mio padre fu ucciso dall’uomo abominevole. Io e mia madre ci trovavamo nella mia cameretta. Lei era scura in volto mentre riponeva i miei abiti negli scatoloni dopo averli tolti dall’armadio. Io, con le lacrime agli occhi, accumulavo tutte le mie cose in una cassa di plastica.

-          Ho fatto, mamma – annunciai.

Anche lei aveva appena finito di svuotare l’armadio, ma non mi rispose. Si limitò a sollevare lo scatolone e ad abbandonare la stanza. Io la seguii spingendo la cassa di plastica più velocemente che potevo, ma lei accelerò ed io rimasi indietro. Quando arrivai all’ingresso, mia madre aveva già caricato lo scatolone sul camion. Vedendomi, lei si avvicinò e sollevò la mia cassa. Ripose anche quella, dopodiché mi ordinò di salire in macchina. Lei andò a chiudere la porta di casa, poi si recò presso l’abitacolo del camion e disse al guidatore che poteva partire, infine mi raggiunse in macchina e mise in moto. Partimmo. Lei guidava in preda all’ansia: spingeva eccessivamente l’acceleratore e affrontava le curve troppo aggressivamente. Ero seriamente preoccupato per la nostra incolumità e non riuscivo a smettere di singhiozzare.

-          Ehi, ma la vuoi smettere? – disse lei, visibilmente infastidita – Si può sapere cos’hai?

-          Io non voglio andarmene da casa! – esclamai.

-          Se non avessi fatto tutta quella scena, ora saremmo ancora a casa. È solo colpa tua se ci troviamo in questa situazione.

-          Non è vero! – urlai, in preda alla rabbia.

-          Non ho deciso io di abbandonare la casa, così all’improvviso. È stata la polizia a imporcelo – si difese lei.

-          Bugiarda! Ti odio!

Mi svegliai di soprassalto urlando. Mi trovavo nella mia auto. Non in quella di mia madre. Lei era morta da ormai tredici anni. E mio padre da diciannove anni. Era stato tutto un sogno. Un orrendo sogno in cui avevo rivissuto i giorni peggiori della mia vita. Dopo il trasloco, io e mia madre avevamo tagliato i ponti con tutti i nostri conoscenti e avevamo cambiato i nostri nomi, su raccomandazione dell’FBI. C’eravamo ricostruiti una vita in un paese molto lontano da quello da cui provenivamo. Avevamo vissuto tranquillamente per sei anni, poi lei era caduta in depressione ed era morta pietosamente nel giro di pochi mesi. Da allora in poi vissi da solo e i brutti ricordi legati al periodo passato andarono via via scolorendosi, finché scomparvero del tutto senza lasciare alcuna traccia. Succede spesso quando si subisce un trauma particolarmente forte: la mente, per difendersi, cancella tutti i ricordi ad esso correlati. Così si spiegava il perché dei vuoti di memoria di cui avevo sofferto negli ultimi anni. Il mostro mi aveva lasciato in pace per parecchio tempo, ma nel momento in cui era ricomparso, il passato mi aveva sommerso come un’ondata d’acqua gelida.

Così ora sapevo con cosa avevo a che fare: un maniaco, probabilmente non umano, che mi perseguitava da quando ero bambino. Rassicurante! Ma non c’era tempo da perdere: avevo un obbiettivo, e niente e nessuno mi avrebbe impedito di raggiungerlo. Per di più, quel giorno c’era un bel sole caldo ad illuminare la strada: non avrei più ceduto allo sconforto. Dunque, premetti la suola dello stivale sulla tavoletta dell’acceleratore e ruotai il volante per tornare in carreggiata, ripartendo alla volta dell’ignoto.

Giunsi a destinazione al tramonto. Stava dunque per concludersi il secondo giorno. Non avevo tempo da perdere. Attraversai il paese guidando a bassa velocità, superai il centro cittadino e mi addentrai nella fitta giungla  di cemento della periferia. Era lì che si trovava il mio obbiettivo. Il covo dei Cacciatori si nascondeva proprio fra gli anonimi palazzi fatiscenti che iniziavo ad intravedere in quel momento. Quella notte, malgrado il sonno, mi trattenni al Bar J. Harcker, punto di ritrovo di certi misteriosi individui che con ogni probabilità erano quelli che stavo cercando.

 

Fine

 

Si conclude così il diario dell’ennesimo sciagurato perseguitato dai vampiri che viene a cercare aiuto presso la Confraternita. Quei poveracci non sanno che i Cacciatori sono un gruppo chiuso, che non accetta reclute. Fino alla fine del secolo scorso erano ben pochi gli estranei che venivano a farci visita, ma con l’avvento dell’era informatica e di internet è cambiato tutto. Ora abbiamo numerosi visitatori ogni anno, e siamo costretti a sbarazzarcene, perché nessuno deve sapere di noi, che difendiamo gli umani nascondendoci nell’ombra. La mossa più efficace sarebbe certamente quella di cancellare dalla rete le pagine che ci riguardano, ma sappiamo che tanto verrebbero riscritte nel giro di poco. Dev’esserci una talpa nell’organizzazione. Oppure là fuori c’è una spia che sa fare il suo lavoro maledettamente bene. Altrimenti non potremmo spiegarci il motivo per cui trapelano tutte queste informazioni sul nostro conto.

Il tonto che ha scritto questo diario era talmente disperato da credere seriamente che un’organizzazione segreta importante come la nostra potesse scrivere l’indirizzo della propria sede su una pagina di internet. È proprio vero che la paura di morire porta a fare le cose più assurde. Questo ha addirittura speso una fortuna per procurarsi gli strumenti adatti (per modo di dire) alla caccia del vampiro. Sperava di poter entrare nella Confraternita. E invece è morto. Ma tutto questo è solo un bene per lui: se fosse stato il vampiro ad ucciderlo, la sua morte sarebbe stata lenta e dolorosa. Inoltre, togliendo la vita a quel poveraccio, abbiamo fatto un nuovo passo verso la vittoria sul popolo della notte. Infatti, ogni vampiro nasce con l’obbiettivo di uccidere un umano in particolare, e fintantoché l’omicidio non sarà compiuto, il vampiro in questione non raggiungerà la sua piena maturità. Uccidendo l’uomo che ha scritto questo diario abbiamo di fatto precluso la via dell’immortalità al vampiro che gli stava dando la caccia. Tale vampiro vivrà una misera vita da umano e morirà come tutti gli altri. I vampiri che invece riescono ad uccidere il loro obbiettivo e a prosciugarne le vene ottengono immenso potere e diventano particolarmente duri a morire. Negli ultimi dieci anni abbiamo fatto lo stesso scherzetto a circa un centinaio di vampiri.

Archivierò questo diario su uno scaffale della mia preziosa biblioteca, e spero che in futuro qualche giovane Cacciatore farà tesoro della storia che narrano queste pagine, e perché no, magari anche del commento che ho aggiunto io.

T. J. Smallwood, XXXII Bibliotecario dell’Alta Confraternita dei Cacciatori

  
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