Parte Terza
In piedi
sui pedali, mulinavo le gambe spingendo la mia bici alla massima velocità:
avevo un terribile fiatone e provavo una dolorosa fitta al petto, ma non potevo
fermarmi. Non sapevo il motivo, ma dovevo fuggire: la strada sembrava non voler
finire mai, e la sensazione di pericolo non mi abbandonava. Il borsone della
palestra rimbalzava a destra e a sinistra ad ogni pedalata e sembrava pesare
una tonnellata. Me ne sarei sbarazzato volentieri, ma avrei dovuto fermarmi per
farlo, e non riuscivo a smettere di muovere le gambe. Ero pervaso dal terrore e
dentro di me urlavo senza emettere alcun suono. Di solito impiegavo cinque
minuti a rincasare dall’allenamento, mentre questa volta stavo impiegando… Da
quanto tempo pedalavo? Non ne avevo la minima idea. Eppure era la strada
giusta. Solo un po’ più lunga del solito. Molto di più. Poi finalmente accadde
qualcosa e fu rotta la monotonia snervante della fuga immotivata. La ruota
anteriore si bloccò, come se una mano invisibile avesse tirato il freno. La
bici s’impennò ed io fui sbalzato in avanti. Caddi a terra e il dolore esplose,
distorcendo la mia percezione visiva. Quasi subito dopo la caduta comparve un
uomo. Emerse dalla penombra e camminò con calma verso di me. La sua estrema
posatezza mi fece capire immediatamente che non era lì per prestare soccorso,
come avevo pensato inizialmente. L’individuo si mise a parlare, e la sua voce
era una lama di ghiaccio. Allora mi resi conto che era a causa sua che stavo
fuggendo. Non riuscivo a trovare una logica a tutto ciò, ma ero sicuro che
fosse così. Non ero in grado di ragionare, persino il dolore era scomparso:
dentro di me c’era spazio solo per l’orrore. Mentre assorbivo le
terribili parole dello sconosciuto, la mia vista si faceva confusa, sempre di
più, finché il buio fu totale.
Una notte mi svegliai in preda ai
brividi e con un forte senso di nausea: ero nuovamente pervaso dal terrore e a
causa delle ingessature non riuscivo a muovermi, né ad emettere alcun suono.
Pochi secondi dopo udii un rumore: un
tonfo sordo. Cercai di chiamare i miei genitori, ma la mia voce non aveva
consistenza. Urlavo, ma dalla mia bocca non usciva nulla più che l’aria. L’aria
che pian piano stava venendo a mancare. Soffocavo. Stavo per morire. Iniziai ad
agitarmi nel letto, come prigioniero delle lenzuola. Poi il tonfo si ripeté.
Ancora e ancora. Il suono si fece più forte e divenne prolungato: era come se
qualcuno stesse scuotendo le persiane. Fuori dalla finestra, qualcuno o
qualcosa stava tentando di divellere le imposte. Fissai le tende con gli occhi
sbarrati, ormai rassegnato al mio destino. Il legno esplose dietro i vetri e
quelli furono polverizzati dall’impatto. Una sagoma scura apparve sulla soglia
e i suoi occhi luccicarono nel buio. Mentre il misterioso visitatore si faceva
strada verso di me, i miei appelli silenziosi furono finalmente esauditi, e la
porta che dava sul corridoio si aprì. Mio padre entrò gridando e brandendo un
bastone.
Anche il mattino del funerale si
rivelò una terribile esperienza. Ero in chiesa, seduto su una delle panche
della prima fila, e assistevo distrattamente alla predica del prete. Nella mia
testa frullavano mille pensieri terribili e non riuscivo a smettere di
piangere. Casualmente mi girai e lanciai un’occhiata alle mie spalle. Fu con
tremendo sconcerto che mi resi conto di chi sedeva nella fila dietro la mia,
fra le altre persone. Era esattamente dietro di me. Mi stava fissando. Tornai a
girarmi verso l’altare, ma sentivo il suo sguardo trafiggermi la schiena.
Sentii il bisogno di urlare, ma riuscii a trattenermi. Inchiodai i piedi al
terreno e strinsi i pugni lungo i fianchi, serrando con forza gli occhi. In
preda al panico, non mi resi conto che il mio respiro era divenuto molto
rumoroso: indispettita, mia madre si girò verso di me ed iniziò a scrollarmi
con forza, perché la smettessi. Era abituata a queste mie crisi, ma non aveva
mai imparato a conviverci: ogni volta che mi capitava dovevo aspettarmi, il
giorno successivo, di essere trascinato a forza dallo psicologo per far luce
sulla faccenda.
-
Smettila! – sibilò mia madre – Abbi rispetto per
tuo padre. È morto.
-
Pensi che non lo sappia? – mugolai.
Poi non riuscii più a trattenermi e mi
alzai dalla panca, urlando per la disperazione. Con un balzo raggiunsi il
corridoio della navata centrale e zoppicai verso il portale della chiesa.
Un attimo prima che uscissi, una risata malefica risuonò fra le pareti del
luogo sacro. Era la stessa risata che avevo udito quando mio padre era stato
ucciso. In pochi istanti rivissi quella terribile notte di pochi giorni prima,
quando le persiane della mia stanza erano state divelte e sulla soglia era
comparso il mostro.
Il giorno del mio undicesimo
compleanno fu il più triste della mia vita. Addirittura peggio del funerale,
svoltosi un paio di settimane prima. Peggio ancora della notte in cui mio padre
fu ucciso dall’uomo abominevole. Io e mia madre ci trovavamo nella mia
cameretta. Lei era scura in volto mentre riponeva i miei abiti negli scatoloni
dopo averli tolti dall’armadio. Io, con le lacrime agli occhi, accumulavo tutte
le mie cose in una cassa di plastica.
-
Ho fatto, mamma – annunciai.
Anche lei aveva appena finito di
svuotare l’armadio, ma non mi rispose. Si limitò a sollevare lo scatolone e ad
abbandonare la stanza. Io la seguii spingendo la cassa di plastica più velocemente
che potevo, ma lei accelerò ed io rimasi indietro. Quando arrivai all’ingresso,
mia madre aveva già caricato lo scatolone sul camion. Vedendomi, lei si
avvicinò e sollevò la mia cassa. Ripose anche quella, dopodiché mi ordinò di
salire in macchina. Lei andò a chiudere la porta di casa, poi si recò presso
l’abitacolo del camion e disse al guidatore che poteva partire, infine mi
raggiunse in macchina e mise in moto. Partimmo. Lei guidava in preda all’ansia:
spingeva eccessivamente l’acceleratore e affrontava le curve troppo
aggressivamente. Ero seriamente preoccupato per la nostra incolumità e non
riuscivo a smettere di singhiozzare.
-
Ehi, ma la vuoi smettere? – disse lei,
visibilmente infastidita – Si può sapere cos’hai?
-
Io non voglio andarmene da casa! – esclamai.
-
Se non avessi fatto tutta quella scena, ora
saremmo ancora a casa. È solo colpa tua se ci troviamo in questa situazione.
-
Non è vero! – urlai, in preda alla rabbia.
-
Non ho deciso io di abbandonare la casa, così
all’improvviso. È stata la polizia a imporcelo – si difese lei.
-
Bugiarda! Ti odio!
Mi svegliai di soprassalto urlando. Mi
trovavo nella mia auto. Non in quella di mia madre. Lei era morta da ormai tredici
anni. E mio padre da diciannove anni. Era stato tutto un sogno. Un orrendo sogno
in cui avevo rivissuto i giorni peggiori della mia vita. Dopo il trasloco, io e
mia madre avevamo tagliato i ponti con tutti i nostri conoscenti e avevamo
cambiato i nostri nomi, su raccomandazione dell’FBI. C’eravamo ricostruiti una
vita in un paese molto lontano da quello da cui provenivamo. Avevamo vissuto
tranquillamente per sei anni, poi lei era caduta in depressione ed era morta
pietosamente nel giro di pochi mesi. Da allora in poi vissi da solo e i brutti
ricordi legati al periodo passato andarono via via scolorendosi, finché
scomparvero del tutto senza lasciare alcuna traccia. Succede spesso quando si
subisce un trauma particolarmente forte: la mente, per difendersi, cancella
tutti i ricordi ad esso correlati. Così si spiegava il perché dei vuoti di
memoria di cui avevo sofferto negli ultimi anni. Il mostro mi aveva lasciato in
pace per parecchio tempo, ma nel momento in cui era ricomparso, il passato mi
aveva sommerso come un’ondata d’acqua gelida.
Così ora sapevo con cosa avevo a che
fare: un maniaco, probabilmente non umano, che mi perseguitava da quando ero
bambino. Rassicurante! Ma non c’era tempo da perdere: avevo un obbiettivo, e
niente e nessuno mi avrebbe impedito di raggiungerlo. Per di più, quel giorno
c’era un bel sole caldo ad illuminare la strada: non avrei più ceduto allo
sconforto. Dunque, premetti la suola dello stivale sulla tavoletta dell’acceleratore
e ruotai il volante per tornare in carreggiata, ripartendo alla volta
dell’ignoto.
Giunsi a destinazione al tramonto.
Stava dunque per concludersi il secondo giorno. Non avevo tempo da perdere. Attraversai
il paese guidando a bassa velocità, superai il centro cittadino e mi addentrai
nella fitta giungla di cemento della
periferia. Era lì che si trovava il mio obbiettivo. Il covo dei Cacciatori si
nascondeva proprio fra gli anonimi palazzi fatiscenti che iniziavo ad
intravedere in quel momento. Quella notte, malgrado il sonno, mi trattenni al
Bar J. Harcker, punto di ritrovo di certi misteriosi individui che con ogni
probabilità erano quelli che stavo cercando.
Fine
Si
conclude così il diario dell’ennesimo sciagurato perseguitato dai vampiri che
viene a cercare aiuto presso la Confraternita. Quei poveracci non sanno che i
Cacciatori sono un gruppo chiuso, che non accetta reclute. Fino alla fine del
secolo scorso erano ben pochi gli estranei che venivano a farci visita, ma con
l’avvento dell’era informatica e di internet è cambiato tutto. Ora abbiamo
numerosi visitatori ogni anno, e siamo costretti a sbarazzarcene, perché
nessuno deve sapere di noi, che difendiamo gli umani nascondendoci nell’ombra.
La mossa più efficace sarebbe certamente quella di cancellare dalla rete le
pagine che ci riguardano, ma sappiamo che tanto verrebbero riscritte nel giro
di poco. Dev’esserci una talpa nell’organizzazione. Oppure là fuori c’è una
spia che sa fare il suo lavoro maledettamente bene. Altrimenti non potremmo
spiegarci il motivo per cui trapelano tutte queste informazioni sul nostro
conto.
Il tonto
che ha scritto questo diario era talmente disperato da credere seriamente che
un’organizzazione segreta importante come la nostra potesse scrivere
l’indirizzo della propria sede su una pagina di internet. È proprio vero che la
paura di morire porta a fare le cose più assurde. Questo ha addirittura speso
una fortuna per procurarsi gli strumenti adatti (per modo di dire) alla caccia
del vampiro. Sperava di poter entrare nella Confraternita. E invece è morto. Ma
tutto questo è solo un bene per lui: se fosse stato il vampiro ad ucciderlo, la
sua morte sarebbe stata lenta e dolorosa. Inoltre, togliendo la vita a quel
poveraccio, abbiamo fatto un nuovo passo verso la vittoria sul popolo della
notte. Infatti, ogni vampiro nasce con l’obbiettivo di uccidere un umano in
particolare, e fintantoché l’omicidio non sarà compiuto, il vampiro in
questione non raggiungerà la sua piena maturità. Uccidendo l’uomo che ha
scritto questo diario abbiamo di fatto precluso la via dell’immortalità al
vampiro che gli stava dando la caccia. Tale vampiro vivrà una misera vita da umano
e morirà come tutti gli altri. I vampiri che invece riescono ad uccidere il
loro obbiettivo e a prosciugarne le vene ottengono immenso potere e diventano
particolarmente duri a morire. Negli ultimi dieci anni abbiamo fatto lo stesso
scherzetto a circa un centinaio di vampiri.
Archivierò
questo diario su uno scaffale della mia preziosa biblioteca, e spero che in
futuro qualche giovane Cacciatore farà tesoro della storia che narrano queste
pagine, e perché no, magari anche del commento che ho aggiunto io.
T.
J. Smallwood, XXXII Bibliotecario dell’Alta Confraternita dei Cacciatori