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Autore: Lue    11/08/2012    5 recensioni
E gli sbagli si pagano. John stava pagando al momento, sudato nel suo abito nero, con una fede al dito. Stava pagando con l’immagine degli occhi di Sherlock stampati indelebili nella sua mente e nel suo cuore, stava pagando col pensiero di lui, solo, in una casa vuota che non avrebbe mai più visto il furore delle loro litigate, avvertito il tepore delle loro risate, ma semplicemente ospitato il peso dell’assenza di John e del dolore di Sherlock. Come aveva potuto pensare di potercela fare, di nuovo, senza di lui? E come aveva potuto pensare che Sherlock, abbandonato, non sarebbe crollato?
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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COME MORNING LIGHT


I remember tears streaming down your face
when I said I’d never let you go
When all those shadows almost killed

your light.
I remember you said “Don’t leave me alone”,
But all that’s dead and gone and past tonight.

Just close your eyes,
The sun is going down.
You’ll be alright,
No one can hurt you now.
Come, morning light.
You and I will be safe and sound.

 
Don’t you dare look out your
window,
darling, everything’s on fire.
The war outside our door keeps

waging on.
Hold on to this lullaby,
even when music’s gone.


[Taylor Swift & The Civil War – “Safe and sound”]

18:03, MOLLY: John, mi ha chiamato il fratello di Sherlock, dice che non riesce a contattarti e di andare subito in Baker Street
18:37, MOLLY: John, a quanto pare è una cosa seria
18:54, UNA CHIAMATA PERSA
19:25, MOLLY: Ho provato a chiamarti, hai visto?
19:42, MOLLY: John, è importante, è la dipendenza di Sherlock, credo sia ricominciata
19:45, MOLLY: John?
20:01, MOLLY: Va bene, ci vediamo domani al matrimonio

John spense il telefono.
 
E l’aveva sposata, dunque. John inghiottì un sorso di vino, assordato dalle risate degli invitati. Erano pochi, solo gli amici più stretti, ma forse era solo il disagio di John ad amplificare il volume delle loro parole. Si accorse solo in quel momento che Mary gli stava parlando.
“Scusa, ehm, non ho capito cosa hai detto…”.
“Ho detto che laggiù c’è Molly Hooper che dice di doverti parlare!”, esclamò lei, raggiante nel suo vestito bianco. John si sentiva uno schifo.
“Oh, ah, già. Sì, vado. Torno subito”.
Molly era stretta in un abito a quadretti rossi e neri, e sorseggiava da un calice di vino, nervosamente. Quando lo vide avvicinarsi gli si fece incontro.
“John, ciao…”, si passò il bicchiere da una mano all’altra.
Poi prese un grande respiro.
“Hai ricevuto i miei messaggi?”.
John sospirò, “Sì, Molly, ma non me ne frega niente se Sherlock ha ripreso a fumare…”.
“A fumare!?”, esclamò lei interrompendolo e guardandolo sorpresa, “Non… non parlo del fumo!”.
Ci mise mezzo secondo a capire. E un altro mezzo secondo per sentirsi un totale idiota.
“Oh, merda…”, boccheggiò, “Io non avevo… non credevo che…”.
“Devi andare da lui”, sussurrò Molly con decisione, “Ha bisogno di te e non so… non so davvero perché tu abbia fatto tutto questo, il matrimonio, lei”, indicò Mary che ballava con un amico, “Ma John, una cosa la so. E la so perché ho passato due anni a vedervi fianco a fianco e a… a…”, le tremò la voce, “Sai, no? A sperare che mi vedesse allo stesso modo in cui vedeva te. Ma non è di me che ha bisogno, ora. Ha bisogno di te, e tu devi andare da lui”.
John non sapeva cosa dire.
“Ora io devo… devo andare da Greg”, indicò Lestrade con un sorrisino timido, “Sai, stiamo uscendo insieme, spero che mi vada meglio che con Jim!”, gli lanciò un ultimo sorriso e poi si allontanò.
A John venne un’infinita voglia di piangere.
Guardò Mary. Rideva. Il loro matrimonio: erano passati dieci minuti ed era già lo sbaglio più grande che avesse mai fatto.
E gli sbagli si pagano. John stava pagando al momento, sudato nel suo abito nero, con una fede al dito. Stava pagando con l’immagine degli occhi di Sherlock stampati indelebili nella sua mente e nel suo cuore, stava pagando col pensiero di lui, solo, in una casa vuota che non avrebbe mai più visto il furore delle loro litigate, avvertito il tepore delle loro risate, ma semplicemente ospitato il peso dell’assenza di John e del dolore di Sherlock. Come aveva potuto pensare di potercela fare, di nuovo, senza di lui? E come aveva potuto pensare che Sherlock, abbandonato, non sarebbe crollato? Era stato sciocco e infantile, e stavano entrambi pagando l’irrazionalità e la superficialità con cui John aveva fatto la sua scelta.
Si avvicinò piano a Mary.
“Mary, senti, io devo andare”, davanti al suo sguardo smarrito si sbrigò a spiegare, “Sherlock non sta… non sta molto bene, vado a dargli un’occhiata, ma poi torno, prima che finisca la festa”.
“Ma John”, protestò lei, “Non può andarci qualcun altro?”.
“È una cosa importante!”.
“Anche questo lo è!”, esclamò Mary.
“Lo so, certo, ma… devo andare”, le posò un bacio sulla guancia, “Torno tra poco”.
Mary si sforzò di mantenere il sorriso. Si diresse verso un paio di amiche, raccontando che John aveva avuto un’emergenza sul lavoro, e sarebbe tornato a breve. Ignorò volutamente Sarah, e i suoi occhi fissi su di lei.
Te l’avevo detto, parevano gridare.
 
John scese dal taxi e fece per dirigersi verso il 221B.
Si fermò. Rimase immobile a fissare la porta di legno scuro e le lettere chiare incastonate, ricordando d’un tratto quello che lo aspettava, varcata la soglia. C’era un intero mondo, lì dietro, il mondo straordinario di Sherlock Holmes, del suo violino e delle sue dita bianche, delle sue deduzioni, di un blog abbandonato da tre anni e di uno smile di vernice gialla, in alto sulla tappezzeria.
Ma John quel mondo l’aveva rinnegato nemmeno un’ora prima, sposando Mary. Aveva fatto una scelta. Non poteva semplicemente entrare ed essere trascinato di nuovo nella vita di Sherlock. E non poteva nemmeno riprendere il taxi e tornare alla festa come se niente fosse. Non voleva, più che altro.
Da una parte Sherlock. Dall’altra Mary. Da una parte un amore rumoroso, ingombrante, doloroso. Dall’altra la sicurezza dell’affetto. In mezzo, lui.
Annegando in un mare di confusione, tra quello che desiderava e quello che era giusto, si sedette sui gradini di quella che era stata la sua casa. E rimase lì, per ore.
 
John aveva perso la cognizione del tempo. Aveva spento il telefono, perché Mary continuava a chiamarlo. Stava bene lì, nel suo limbo, sospeso nel mezzo di tutto. Un taxi si fermò davanti a lui. John alzò lo sguardo. Mary abbassò il finestrino.
“Allora?”, lo guardò con freddezza.
“Non sono ancora salito”.
Mary divenne rossa in volto.
“Mi stai prendendo in giro? Sono rimasta lì da sola! E tu non sei nemmeno entrato?”, inspirò profondamente, “Dai, muoviti, sali. Ho preso anche le tue valige, siamo in ritardo”.
John la guardò smarrito. Poi ricordò: il viaggio di nozze.
“Ah, già, giusto”, mormorò, “Dobbiamo andare all’aeroporto”.
Mary si passò le mani tra i capelli.
“Sì, John”, disse esasperata, “Dobbiamo andare all’aeroporto. E siamo già in ritardo, quindi sali su questo maledetto taxi”.
“Va bene”, John si alzò, poi rimase un attimo interdetto, “Dammi solo un secondo!”, esclamò, “Devo soltanto salutarlo!”.
Lei lo fissò sconcertata.
“Stai scherzando?”.
“Dammi un secondo”, ripeté lui, prima di svanire dentro Baker Street (quante ore fa Mrs Hudson gli aveva aperto la porta, convinta che sarebbe entrato, prima o poi?), fregandosi di ciò che era giusto fare e tutte quelle altre stronzate.
 
Saliva le scale e pensava a cosa avrebbe potuto dirgli, ma le parole erano confuse nella sua testa, non sapeva proprio da che parte cominciare.
“Ciao”, John non riuscì a fermarsi, lo disse prima ancora di essere entrato nella stanza.
Sherlock era in vestaglia, seduto sul divano. La manica destra era arrotolata fino a sopra il gomito: non si era premurato nemmeno di nascondere le prove.
“Molly?”, sussurrò Sherlock, alzando gli occhi su di lui. Due enormi occhiaie violacee li circondavano.
John annuì. Avanzò di qualche passo.
“Ci hai messo parecchio ad arrivare”.
“Beh sai”, John alzò le spalle, “Avevo un paio di cose da fare”.
Questo fece ridacchiare Sherlock. John, di riflesso – era un’abitudine che gli era rimasta, evidentemente –, sorrise.
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
“Allora, congratulazioni”, Sherlock parlava con un tono di voce bassissimo.
“Sherlock…”, John si avvicinò ancora.
“Sarai contento, spero”, le sue parole tagliavano come coltelli, “La mediocrità è confortante, no?”.
“Piantala”, disse John, secco.
Sherlock fece spallucce.
“Commentavo semplicemente una tua scelta. Molto meditata, vero? Quanto ci hai messo per decidere, tre minuti?”.
“Sherlock!”, esclamò John, “Non fai più parte della mia vita, non hai il diritto di parlarmi così”.
“Mi hai implorato di tornare, di ‘fermare tutto questo’”, Sherlock lo guardò negli occhi, “E adesso riesci solo a essere… crudele”.
“Cosa ti aspettavi!?”, John si mise le mani tra i capelli, “Mi hai sentito dire quelle cose! E non hai fatto nulla, nulla di quanto ti avevo chiesto! Ti ha fatto ridere, Sherlock, guardarmi piangere, per mesi, per anni? Come hai potuto rimanere lì? Come hai potuto? Saresti dovuto venire da me! Tornare da me! Invece mi hai solo fatto soffrire!”, ansimò.
Sherlock chiuse gli occhi.
“Quello che ho fatto…”, si passò una mano sulle palpebre chiuse, “Ho avuto le mie ragioni. E mi dispiace che le mie azioni ti abbiano fatto male: non era mia intenzione. Ma quello che hai fatto e stai facendo tu ha un solo scopo: ferirmi”.
John scoppiò in una risata priva di allegria.
“Non sei così importante, Sherlock”, mentì.
Lui lo guardò con aria canzonatoria.
“Nemmeno tu”, replicò, “Eppure guarda come siamo finiti”.
Restarono a guardarsi negli occhi, con un misto di dolore e dolcezza nello sguardo.
“Immagino che ora tu debba andare”, mormorò infine Sherlock.
John si riscosse.
“Oh, sì, sì, giusto”, fece un movimento in avanti, come per accarezzargli il viso, ma poi si ritrasse e gli rivolse un mezzo sorriso, “A presto, Sherlock”.
Lui voltò la testa e girò lo sguardo verso la finestra. Non rispose.
Quando John uscì da Baker Street, col cuore in mano, trovò Mary ad aspettarlo, appoggiata al taxi. Sembrava davvero molto arrabbiata.
“Abbiamo perso l’aereo, ormai”, soffiò, stringendo gli occhi.
“Ah”, John non si sentì di dire altro.
“C’è un altro volo stanotte, alle 4 e mezza. Quindi ora sali su questo cazzo di taxi e torniamo a casa. Usciamo verso l’una”.
John non aveva la forza di ribattere. Gettò un ultimo sguardo al 221B, e poi la seguì in taxi. In silenzio.
 
Sherlock guardò il sole calare lentamente. Da piccolo il tramonto gli metteva tristezza. Rimaneva a fissare la luce trasformarsi in buio, seduto sul letto della sua cameretta. Con gli anni era passato. La sera gli lasciava solo un briciolo di malinconia nelle ossa.
Quel giorno Sherlock si sentiva di nuovo un bambino – magro, pallido, strano – che piangeva davanti a un tramonto e voleva essere un pirata, invincibile e ammirato, perché credeva che sulla sua nave il sole non sarebbe mai calato.
L’ultima volta, si disse, stringendo la siringa tra le dita lunghe. E pensò che, insomma, dato che era l’ultima volta tanto valeva usarla tutta.
E la usa tutta, la sente scorrere nelle vene e nel cuore, e si sente finalmente un pirata, così forte, così grande, capace di affrontare ogni cosa. Ma poi un dolore cieco, furioso, prende possesso del suo corpo, Sherlock strappa il violino dal divano e lo sbatte in terra. Le corde schizzano via, insieme ai frammenti di legno di quello che è stato il compagno di una vita. Se ne pente subito, cerca di recuperare tutti i pezzi, ma il violino è distrutto e Sherlock vorrebbe urlare: perché riesce sempre a distruggere tutto quello che c’è di importante nella sua vita?
“Sei un povero sciocco, Sherlock”, c’è Moriarty sul suo divano, la faccia slavata, beffarda, Sherlock scuote la testa, com’è possibile? È un incubo, lui non può essere qui…
“Io sono te, Sherlock. Sono te, sono te, sono te”, ride Moriarty, e quella risata gli gela il sangue, gli mozza il fiato.
“No… Tu non sei me! NO!”, scatta verso il divano, vuole scagliarsi contro Moriarty, ma… dov’è Moriarty? È scomparso, Sherlock era sicuro che fosse lì, e ora la sua risata rimbomba in tutta la casa, Sherlock non sa cosa fare, sta sudando freddo e non riesce a respirare. No, ora Sherlock ha caldo, un caldo improvviso che gli scotta la pelle e Sherlock trema, si sente cadere per terra, annaspare nelle risate di Moriarty che lo schiacciano in terra, e poi silenzio, è finito tutto, la sua fronte poggia sul pavimento freddo, qualcuno urla in sottofondo e poi è tutto buio.
 
“Sì, pronto?”.
“John”.
“Mycroft. È successo qualcosa?”.
“Sì. Ma non allarmarti, ora sta bene”.
“Sta bene? Chi? Sherlock? Cos’è successo?”.
“È andato in overdose. L’ha trovato Mrs Hudson, fortunatamente pochi minuti dopo. Io le avevo dato una dose di Narcan da iniettargli se fosse successo, ma lei è andata nel panico e dopo avergliela somministrata ha chiamato anche l’ambulanza. Comunque, è fuori pericolo”.
“Oh Dio, Dio, Dio, quel cretino… Dove siete? Dov’è? Io arrivo subito”.
 
John cominciò a girare per la stanza, in cerca di chissà cosa, in preda al panico.
“Mary, io devo andare in ospedale, Sherlock ha avuto un’overdose…”.
“E come… come sta?”, mormorò lei, quasi infastidita, stringendosi la borsetta al seno.
“È fuori pericolo. Hai visto la mia giacca?”, John sparì nella stanza accanto, e poi ricomparve con in mano la giacca.
“John, se è fuori pericolo, allora puoi andare a trovarlo quando torneremo dal viaggio…”, osò Mary, stringendo ancora di più la borsa.
“Cos- No! Non posso! Sarà spaventato, e solo!”, lui la guardò come se fosse impazzita.
“Parli di lui come se fosse un bambino, John! Non è un bambino! È un adulto che deve imparare a prendersi cura di se stesso! E io e te dobbiamo partire!”.
“Mary, io non voglio partire, non posso! Con lui in ospedale!”, esclamò John.
“È la terza volta che mi molli da sola oggi per colpa sua!”, le tremarono le labbra.
“Non ti ho mollata da sola!”.
John”, sussurrò Mary, “Devi rimanere qui con me…”.
John scosse la testa piano, stringendo il telefono nella mano.
“Ha bisogno di me”.
Lei fece un passo verso di lui.
“Io ho bisogno di te adesso”, due grossi lacrimoni le scesero lungo le guance, tracciando due righe nere di trucco, drittissime e simmetriche, “Sono tua moglie…”.
John trattenne il fiato per un istante.
“Sherlock è… Io devo andare, Mary”, si infilò la giacca.
Lei gli afferrò il polso e i suoi bracciali tintinnarono.
“John”, soffiò con voce strozzata, “Se vai da lui ora, di nuovo… Non tornare qui… mai più”.
Lui la fissò sorpreso.
“Mary, non puoi chiedermi di scegliere…”.
“Perché sceglieresti sempre lui, non è vero?”, mormorò Mary tra le lacrime, “Sarah aveva ragione, sceglierai sempre lui”.
E John non si azzardò nemmeno a pensare a una risposta anche lontanamente accettabile da darle, perché era tutto chiaro, lo era sempre stato.
“Puoi ancora rimanere, John, io sono tua moglie, siamo sposati, abbiamo fatto una promessa…”, gli occhi di Mary erano immensi e disperati, e John si sentì disgustato da se stesso e da quello che le stava facendo.
Abbassò gli occhi, “Mi dispiace”, fu tutto quello che riuscì a dire.
Scappò fuori dalla porta, cercando di non sentire il pianto di Mary lungo le scale.
Sceso in strada cominciò a correre, nell’aria fredda di ottobre, verso l’ospedale, verso di lui.
 
“Sherlock”, mormorò John, sfiorandogli piano la fronte con le dita. La sua pelle era ancora più pallida del solito, traslucida, quasi trasparente.
E se scomparisse?, si ritrovò a pensare scioccamente. Un panico selvaggio e immotivato gli riempì il cuore. Non poteva perderlo di nuovo, non poteva, non poteva.
Le lacrime scesero prima che potesse fermarle, John piangeva e singhiozzava e poco importava che Mycroft potesse vederlo, da dietro il vetro appannato della camera di ospedale, perché John piangeva e voleva piangere, perché si era reso conto che il suo scopo nella vita non era essere un buon medico, un bravo marito per Mary, era amare Sherlock e vivergli accanto e proteggerlo da ogni cosa, da se stesso in primis.
Ci sarebbe stato tempo per pensare alle conseguenze, tempo per pensare a un annullamento del matrimonio, a come fronteggiare il dolore di Mary, a cosa fare poi. Ora John non ne aveva né la voglia né la forza.
Continuò ad accarezzargli la fronte e piangere, finché Sherlock non diede segno di essersi svegliato, cominciando ad aprire piano gli occhi.
“John…”, la sua voce era roca e impastata. Lo guardò.
“Sono qui, Sherlock”, John si asciugò le lacrime goffamente col dorso della mano.
“Non andare via”.
“Non vado da nessuna parte”.
“Ti prego, non andare via…”.
“Shh”, John lo zittì. Lievemente, quasi avesse paura di ferirlo, gli posò un bacio sulle labbra.
Una lacrima scivolò dall’angolo dell’occhio di Sherlock e finì tra i ricci neri, sparpagliati sul cuscino.
“Non ci lasceremo mai più”, John gli promise, accarezzandogli i capelli, “Staremo bene, io e te”.
“Insieme”, sussurrò Sherlock con la voce rotta.
Insieme”, ripeté John, baciandogli la fronte.
Poi gli si strinse forte, e rimasero lì, insieme, fino a che si addormentarono tra le pareti asettiche di una stanza d’ospedale, mentre la luce del mattino stava già bagnando i loro volti.
 



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Grazie a tutti coloro che hanno recensito questa storia, sembra banale ma le recensioni fanno sempre tanto bene agli autori, è un modo per pensare "ehi, forse il mio lavoro non è andato sprecato". Quindi grazie di cuore per il vostro tempo. Spero che questa storia vi sia piaciuta :)
Un bacio e a presto,
Lu.

   
 
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