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Autore: Mary P_Stark    20/08/2012    4 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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XII.


 

  Strizzai gli occhi, quando un raggio di sole ramingo scivolò sul mio volto assonnato.

  Sollevai cauta le palpebre, non sapendo bene cosa aspettarmi, prima di fissare la mussolina azzurro cielo delle tende, che velavano parzialmente una finestra che non conoscevo.

  Neppure la stanza dove mi trovavo, mi era famigliare.

Sollevandomi di scatto, sorpresa e confusa al tempo stesso, mi ritrovai a scrutare pareti ricoperte di fine carta da parati e uno stupendo specchio a muro, che mi rifletteva per intero… in compagnia di Duncan.

Sconvolta, mi volsi a fissare il bianco lupo sdraiato sul letto accanto a me, ancora addormentato e del tutto tranquillo.

Confusa come non mai, lo guardai a occhi sgranati, chiedendomi il perché della sua presenza nella mia camera.

Come se il mio risveglio avesse destato i suoi sensi, Duncan sollevò le palpebre per fissarmi con quegli splendidi occhi ambrati che avevo imparato a conoscere.

Dubbiosa, esalai: “Ciao… ma che ci fai qui?”

Lui, per nulla turbato, smontò dal letto e trotterellò fuori per poi tornare, un paio di minuti dopo, in vesti umane e con un leggero filo di barba sulle gote.

Come diavolo faceva a essere così perfetto, appena desto?

Lo invidiai senza alcun pudore.

Poggiato contro lo stipite della porta, sorrise debolmente prima di dirmi: “Buongiorno.”

“Ebbene?”

Sollevate le mani in aria, mi alzai da letto e passai una mano tra i folti e lunghi capelli castani.

Come al solito, sembravano un covone di fieno. Altro motivo per cui invidiare Duncan.

Perché i suoi riccioli erano ordinati e lucenti?

“Hai avuto un incubo, stanotte, così ho pensato di venire a vedere cos’avevi. Visto che mi sembrava più… corretto entrare come lupo, sono venuto a controllare in questa forma” mi spiegò, facendo spallucce.

Assentii, non ricordando assolutamente nulla di quell’incubo. Tanto meglio.

“Visto che mi sembravi particolarmente agitata, ho preferito rimanere, casomai avessi avuto bisogno di aiuto ma, alla fine, mi sono addormentato anch’io. Spero di non averti turbata” terminò di raccontare, scrutandomi ansioso.

E da quando era ansioso?

Mi affrettai a tranquillizzarlo – con tutta probabilità, l’incubo riguardava per l’ennesima volta Freki, anche se in quel momento non lo ricordavo.

“Oh, no, hai fatto bene. Mi stavo solo chiedendo cosa fosse successo, tutto qui. Ora, però, è meglio se rimetto in ordine quella specie di caos che ho in testa.”

Lasciandomi passare sotto l’arco del suo braccio, lui replicò: “Non sono così in disordine.”

Ridacchiai, precisando: “Oh, li sono eccome. Aspettati di sentirmi imprecare, quando cercherò di sciogliere tutti i nodi.”

Fu sul punto di dire qualcosa ma, alla fine, rinunciò e scosse il capo, limitandosi a dire: “Vado a scaldare la colazione. Se te la vedi brutta, chiamami.”

“D’accordo” annuii, avviandomi verso il bagno.

Chissà cosa avrebbe voluto dirmi?

Come avevo immaginato, lottare con i miei capelli risultò essere un evento catastrofico al pari di un milione di altre volte.

Considerando, soprattutto, che ero andata a letto con la chioma ribelle ancora umida, non vi trovai nulla di strano.

Imprecai in diverse lingue – lo facevo spesso, anche per allentare la tensione che mi prendeva tutte le volte che dovevo occuparmi della mia testa.

Fu solo molto tempo dopo che riuscii, finalmente, ad avere la meglio.

Alla fine, già stanca e con la mano dolorante per il troppo spazzolare, scesi le scale ed entrai in cucina.

Sospirai deliziata, quando il mio naso inspirò il profumo delizioso di caffè appena fatto e pancake freschi.

Sorridendo a Duncan, chiosai: “Potrei anche abituarmi, sai? Chi ti ha insegnato a essere così efficiente? Tua madre?”

Quel commento innocente sortì un effetto davvero strano.

Il suo corpo si irrigidì di colpo, mentre gli occhi si assottigliarono come se avesse visto qualcosa di brutto, o disgustoso.

Come era venuto, però, quel momento di malumore passò come un lampo nel cielo e, con voce innaturalmente casuale, Duncan mormorò: “Solo l’abitudine a vivere da solo. Tutto qui.”

Ancora una volta, quell’argomento parve rattristarlo o peggio, innervosirlo.

 Cosa c’era di così brutto, nel suo passato, da non poter accennare ai suoi genitori senza sconvolgerlo tanto?

Avevo dato per scontato che, una volta giunti a Farley, sarebbero come minimo venuti a trovare il figlio, invece non era giunto nessuno.

Che fossero morti in una circostanza simile a quella che  aveva portato via i miei genitori? O c’era ben altro?

Cosa nascondevano le profondità dei suoi occhi di smeraldo?

Preferii lasciar nuovamente perdere e, mangiando in silenzio il morbido pancake, osservai di straforo Duncan fare lo stesso.

Era più che ovvio che qualcosa lo tormentava, e non solo la mia domanda inopportuna, perciò alla fine aprii bocca e diedi voce al mio timore.

“Cosa c’è che non va, Duncan?”

Lui mi sorrise appena – ma il suo sorriso non arrivò neppure a lambire gli occhi – e ammise: “Sono un po’ in pensiero per oggi.”

“Perché?” chiesi senza capire.

“Pur avendomi salvato da morte certa, ci sono alcuni lupi del clan che ritengono la tua presenza qui pericolosa per tutti noi, e vorrebbero che io non ti avessi portato entro i confini del nostro territorio” mi spiegò mestamente.

Nostro. Non suo.

Era più che evidente che Duncan non governava come un despota, come invece sembrava fare Alec.

“Capisco” annuii pensierosa. “Ma, come ha detto Jerome, ci sarete voi a difendermi.”

Lui storse appena la bella bocca, replicando accigliato: “Ti fidi così tanto di lui, da consegnare nelle sue mani la tua vita?”

Sorrisi dolcemente e mi limitai a dire: “Mi sembra che, a suo tempo, mi sia fidata ciecamente anche di qualcun altro, pur non avendolo mai visto prima.”

“Già… e ancora non capisco bene perché” mormorò Duncan, con un tono di voce per nulla divertito.

Anzi, sembrava che il nostro strano rapporto gli causasse parecchi pensieri.

Tornando seria, gli strinsi un momento la mano, ben decisa a tirargli su il morale.

“Posso solo dirti quello che sento, Duncan. Mi sono fidata di te perché ho percepito di poterlo fare. E la stessa cosa mi è successa con Jerome, non appena ci siamo stretti la mano.”

Mi guardò con aria combattuta, non sapendo bene cosa dire.

Affondando nel suo sguardo smeraldino, dubbioso come mai lo era stato prima di allora, mi chiesi cosa sarebbe successo se mi fossi avvicinata ulteriormente a lui.

Scuotendosi da quel torpore, Duncan si alzò, allontanandosi da me e, portandosi vicino alla porta, mi informò senza voltarsi a guardarmi: “Stamattina ti accompagnerò a fare un po’ di spese ma, nel pomeriggio, sarò impegnato in clinica, quindi non potrò stare qui con te.”

“Non è un problema. Me la so cavare” replicai, sorridendo appena.

Lui assentì, ben deciso a non voltarsi verso di me e, senza più dire nulla, uscì dalla stanza, lasciandomi sola.

Il suo potere era sigillato.

Non riuscii a percepire niente, neppure un briciolo di ciò che lo tormentava, e questo mi diede da pensare.

Cosa lo arrovellava tanto da spingerlo a chiudersi così in se stesso?

Sospirando, sistemai in lavastoviglie i piatti e le posate, rassettai un po’ la cucina, dopodiché me ne tornai in camera per infilarmi gli scarponi da trekking.

L’acqua della doccia, in bagno, scrosciava feroce su Duncan, forse nel vano tentativo di cancellare le ansie che lo stavano consumando.

***

Matlock non era meno caotica di Glasgow, quanto a traffico.

Le auto sfrecciavano in tutte le direzioni suonando clacson, esibendosi in manovre azzardate e passando attraverso pertugi impossibili.

Tutto, pur di non perdere un nanosecondo di tempo sulla tabella di marcia dei pressanti automobilisti, che circolavano nervosi in quel momento.

Un’Aston Martin lucida come uno specchio evitò per un soffio di finire su un marciapiede, a causa di un ciclista fuori di senno.

Io fissai la scena a occhi sgranati, mentre Duncan procedeva con mano ferma attraverso il traffico cittadino.

Guidava la sua Volvo V50 con assoluta naturalezza, neanche fosse la continuazione stessa del suo braccio.

Ogni sua manovra era ponderata al millimetro, come se percepisse in anticipo le manovre degli altri autisti. E forse era davvero così.

Giungemmo su Bank Road senza che neppure io me ne accorgessi.

Aveva attraversato quasi tutta la città in un batter d’occhio, nonostante la confusione di auto, tram e mezzi autoarticolati.

Beh, era decisamente più bravo di me, nella guida.

Guardandomi intorno incuriosita – non avendo nient’altro da fare – ammirai il bellissimo viale che abbelliva la via in tutta la sua lunghezza.

Gli alberi verdeggianti lambivano case, banche, negozi, cappelle e muriccioli di pietra.

Sui marciapiedi che costeggiavano la strada, una folta schiera di persone era a passeggio per la via.

Chi per lavoro, chi in vacanza, ma tutti sembravano animati dalla stessa frenesia che sembrava essersi impadronita degli automobilisti.

O forse, ero solo io a voler andare al rallentatore, perché l’ansia di Duncan si era infine insinuata anche nel mio cuore.

Da quando aveva accennato alla mia visita al Consiglio, la paura per ciò che sarebbe successo quel pomeriggio si era diffusa dentro di me come un tarlo nel legno.

Lo sentivo rosicchiare le fondamenta delle mie certezze, centimetro dopo centimetro, e non ero in grado di fermare quell’inarrestabile lavorio all’interno del mio animo.

Il mio autista personale non pareva essere più allegro di me e, a dirla tutta, non potei certo biasimarlo.

Da quando eravamo partiti da Farley per raggiungere la città, il suo cellulare non aveva mai smesso di vibrare.

Parlava in continuazione al suo auricolare bluetooth, mentre gli occhi non si staccavano mai dalla strada trafficata.

Le sue mani, sicure e precise, tenevano il volante con fermezza ma, a volte, qualcosa lo disturbava a tal punto da far sbiancare le nocche, tanta era la rabbia a stento trattenuta.

Non compresi gran che delle sue chiamate ma, di certo, dovevano essersi accumulati parecchi problemi, nel mese in cui era mancato.

Ora, sembrava pagarne le conseguenze con gli interessi.

Quando giungemmo a destinazione, sospirò esasperato, estrasse dalla tasca dei pantaloni il portafogli e, con espressione spiacente, mi consegnò il bancomat.

“Scusami, ma devo scappare. Ho un impegno urgentissimo e … insomma, non posso…”

Presi il suo bancomat con un sorriso e chiosai: “L’ho capito dal tono delle chiamate. Vai pure, so comprarmi gli abiti anche da sola. Anzi, intanto che ci sono, farò un salto al market che c’è poco più in là, okay?”

“D’accordo” annuì, prima di darmi il codice del bancomat e scusarsi ancora.

Sospirando contrariata, mi avvicinai al negozio di abbigliamento davanti a cui mi aveva lasciata.

Era un bello stabile in stile Tudor dalle bianche mura, e travi di legno fresche di pittura.

Al primo piano, alcuni vasi colmi di gerani fioriti sporgevano dalle finestre, e graziosi tendaggi di pizzo si intravedevano oltre i vetri baciati dal sole.

Entrai dopo un’ultima breve occhiata alla vetrina del negozio, e sorrisi alla commessa che si materializzò allegramente accanto a me.

 

“Buongiorno, signorina… in cosa posso esserle utile?”

“Buongiorno. Dovrei rifarmi il guardaroba. Purtroppo, la British Airways si è persa i miei bagagli, e ora mio cugino deve rimediare” sorrisi gaia, mentendo spudoratamente e sventolando ghignante il bancomat che Duncan mi aveva dato.

Sorridendo comprensiva, la commessa mi guidò verso il reparto donna, dichiarando con tono consolatorio: “E’ davvero fortunata ad avere un cugino così generoso. E’ americana, per caso?”

E io che pensavo di non avere più il mio bell’accento di Chicago. Pensai divertita.

“Sì, di Albany” mentii ancora.

Non credevo proprio che la ragazza avrebbe percepito la differenza di slang.

“Ho sempre voluto andare a New York… lei c’è stata?” mi chiese la ragazza, prima di mostrarmi un intero scaffale ricolmo di jeans di ogni genere e marca. “Che genere preferisce?”

“Sì, ci sono stata un paio di volte e, tutt’e due le volte, sono stata al Rockfeller Center a vedere delle mostre…” le spiegai distrattamente, guardandomi intorno prima di dire: “…mah, pensavo di stare su un genere molto sportivo. Sa, mio cugino ha dei cavalli, quindi penso ne approfitterò per fare qualche passeggiata in campagna.”

“Molto bene, allora ci vorrà qualche paio di jeans, direi almeno quattro o cinque magliette con relative felpe… oh, sì, questi pantaloni andranno benissimo per una gita fuori porta” cominciò col dire la commessa, estraendo da cassettoni e ripiani tutto ciò di cui avrei avuto bisogno.

Ghignando – di solito, prendevo la prima cosa che mi capitava – mi misi di buona lena per provare tutto ciò che la solerte commessa trovò per me.

Alla fine, mi ritrovai con quattro paia di jeans, cinque magliette dai toni del verde scuro e del viola, felpe in tinta, un paio di pantaloni da trekking e due camicette fiorate.

Nel reparto intimo, presi il minimo indispensabile, niente di elaborato o infiocchettato – non avevo certo intenzione di colpire l’attenzione di qualcuno.

Quando infine arrivai al reparto calzature, presi solo un paio di Nike scure e delle comode ballerine nere dalla punta arrotondata.

Caricai il mio nuovo guardaroba sulla Volvo – Duncan mi aveva lasciato le chiavi – dopodiché mi diressi al minimarket.

All’interno, era tutto un vociare di massaie all’opera e di bambini che scorrazzavano ogni dove, inseguiti da madri ansiose o sorelle inferocite.

Quello spettacolo mi ricordò molto quando anch’io inseguivo per i negozi il mio scapestrato fratello.

Sperai davvero che le notizie che gli avevo sciorinato senza troppa delicatezza, la sera precedente, non lo avessero sconvolto più del necessario.

Di certo, con tutto quello che gli avevo detto, dubitai fortemente che fosse riuscito a dormire.

Sospirando, tornai a concentrarmi sulla mia missione e, inforcato un cestino, cercai uno spazzolino da denti, una spazzola e alcuni cosmetici per la pelle.

Dopo la mia gitarella per i boschi, era tremendamente screpolata, e le mani erano più simili a carta vetrata, che a pelle umana.

Stetti sempre ben attenta a tenere il viso basso – avevo stretto i capelli in una treccia e indossato pesanti occhiali da sole, ma era meglio non rischiare.

Raccolsi tutto ciò di cui avevo bisogno prima di sbirciare in direzione delle casse, accertandomi che non vi fossero volantini con la mia faccia stampigliata sopra.

Nulla trovando, mi avvicinai silenziosa e poggiai tutto sul nastro trasportatore, prima di allungare il bancomat di Duncan.

Avevo idea che gli sarebbe venuto un mezzo collasso, una volta ricevuto l’estratto conto mensile.

Non appena uscii dal market, guardai speranzosa in direzione dell’auto ma, di Duncan, nemmeno l’ombra.

I suoi impegni dovevano essere davvero parecchi, visto che mancava da più di un’ora.

Sconsolata, proseguii nel mio giro e acquistai tutto ciò che poteva occorrermi durante il mio soggiorno a Farley.

Non sapevo quanto sarei rimasta, perciò volevo essere preparata praticamente a tutto. O quasi.

***

Finii il mio tramezzino quando l’orologio della chiesa, nei pressi del parco pubblico dove mi ero rifugiata, segnò le due del pomeriggio.

Di Duncan, nessuna traccia.

Non avevo voluto restare troppo vicina all’auto per non destare sospetti, o l’attenzione dei poliziotti di zona.

Dopo aver chiuso la Volvo, ed essermi allontanata di poco, mi ero infilata in un piccolo parco giochi e lì, appropriatami di una panchina, mi ero messa a pranzare.

Sbadigliai annoiata nel gettare la carta del panino e la bottiglia di acqua, ormai vuota, in un cestino vicino.

Con aria sbattuta, mi volsi a scrutare l’entrata del parco, da cui potevo scorgere la sagoma dell’auto di Duncan.

Ero stata così stupida da non chiedergli quanto, i suoi appuntamenti, lo avrebbero tenuto impegnato.

Al tempo stesso, non avevo neppure pensato di comprare un libro per ingannare l’attesa.

Non ero poi così brava a programmare le cose come mi ero immaginata.

Chiusi gli occhi per un momento e sbadigliai nuovamente, prima di provare a lanciarmi in un esperimento che non avevo ancora tentato di fare, da quando eravamo arrivati.

Lasciai che il respiro si calmasse e tentai di concentrarmi sui rumori che mi circondavano, e su ciò che galleggiava nell’aria assieme ai suoni e agli odori.

Forse, e solo forse, avrei potuto trovare la traccia di potere di Duncan, e capire quanto fosse distante.

Non avevo ancora compreso il meccanismo esatto, ma sapevo riconoscere la sua aura, per cui avrei cercato quella.

Ciò che non mi aspettai di certo fu di percepirne un’altra, e molto vicina.

Sgranando gli occhi, li fissai dinanzi a me e, sul lato opposto della strada, fermo vicino alle strisce pedonali in attesa di passare, vidi un giovanotto sui vent’anni.

Era sbarbato e abbigliato con larghi pantaloni neri a vita bassa, una maglietta scura dei Linkin Park e dei pesanti anfibi ai piedi.

Ammiccò nella mia direzione mentre un’ondata di potere frizzante e caldo si addensò attorno al mio corpo, confermandomi ciò che avevo solo ipotizzato.

Appoggiata allo schienale di ferro della panchina, osservai quel giovane dai capelli neri e tagliati a spazzola avvicinarsi a me con passo dinoccolato.

Prima ancora di sentirlo parlare per presentarsi, seppi che si trattava di Jessie, la sentinella che avevamo incontrato nel bosco.

Lui mi sorrise impacciato, accennando un saluto con il capo.

“Beh, ciao Brianna…”

“Jessie” mormorai, sorridendo di rimando.

Al sentirsi nominare, si illuminò in viso, chiaramente lieto che lo avessi riconosciuto solo attraverso lo sfoggio del suo potere, oltre che del mio.

Allungai perciò una mano e aggiunsi: “Tanto piacere di conoscerti in questa forma.”

“Piacere mio, Brianna” replicò Jessie, stringendo la mia mano prima di sedesi accando a me sulla panchina. “Ti porto un messaggio da parte di Fenrir.”

“Duncan?” esalai un po’ sorpresa.

Lui annuì, tutto serio in viso. Era davvero conscio del proprio compito, e deciso a portarlo a termine nel migliore dei modi.

“E’ spiacente di averti fatta aspettare tanto a lungo, ma entro mezz’ora al massimo ti raggiungerà qui.”

“Cosa è successo, Jessie?” chiesi, turbata.

“Beh, non mi è concesso parlare di cose del branco con gli estranei, anche se tu sei una wicca” mugugnò, chiaramente in imbarazzo.

Scuotendo una mano, replicai tranquilla: “E di certo io non ti obbligherò a cacciarti nei guai, e solo per avermi spifferato qualcosa… fa niente. Aspetterò Duncan.”

“Grazie” mi sorrise allora Jessie, chiaramente tranquillizzato dal mio dire.

Sollevando un sopracciglio con evidente interesse, gli chiesi: “Pensavi ti avrei punito in qualche modo, per non avermi detto quello che ti ho chiesto?”

“Beh, ecco… la Lupa Madre è molto severa, quando… insomma…” tentennò nuovamente, prima di azzittirsi del tutto.

“Tiro a indovinare. Non vuole che il suo ruolo sia sminuito, e se la prende a morte con chi non le porta rispetto?” buttai lì, ammiccando complice. “Specialmente con i giovani lupi?”

Jessie fece l’atto di murarsi la bocca ma, strizzandomi l’occhio, annuì più volte.

“Sì, sì, tu non mi hai detto nulla, tranquillo” ridacchiai, prima di chiedergli speranzosa: “Sarai anche tu nella sala con il Consiglio, più tardi?”

“Oh, no. Io non ho questo onore” esalò, sgranando gli occhi grigi per la sorpresa.

“Ah. Peccato, sarebbe stato meno avvilente, se ci fosse stata un’altra faccia nota, oltre a quelle di Duncan e di Jerome” sospirai sconsolata.

Jessie si guardò intorno per un momento, prima di annusare piano l’aria e sussurrarmi all’orecchio: “Fossi in te, starei attenta a Marjorie Scott. Duncan non l’ha voluta come Prima Lupa, quando il Consiglio gliel’ha proposta, e lei non l’ha presa benissimo. Sapere che tu abiti con il nostro Fenrir, potrebbe mandarla su tutte le furie.”

“Immagino che lei, invece, sia abbastanza potente per essere nel Consiglio” borbottai aspra.

“Già” ammise Jessie, storcendo il naso.

Evidentemente, non doveva stargli molto simpatica.

“Ricevuto, Jessie. Farò in modo di starle alla larga” annuii, levando tre dita come per suggellare un patto tra scout.

Lui sorrise, ma colsi ugualmente l’ansia nei suoi occhi.

La cosa si faceva pericolosa, a quanto pareva.

Quante altre donne avrebbero avuto da ridire, sulla mia sistemazione in casa McKalister?

Se erano in una quantità direttamente proporzionale alla bellezza del soggetto in questione, ero davvero nei guai e senza alcun motivo, visto che non esisteva nulla di cui essere gelose.

Duncan non mi guardava affatto come una donna, ma solo come una ragazzina bisognosa di protezione e, quando gli capitava, come una wicca.

Insomma, sempre l’esemplare di femmina sbagliato.

Sospirando, lasciai perdere quei pensieri assurdi e gli chiesi: “Come la riconoscerò?”

“Tranquilla. Si farà riconoscere lei” mormorò aspramente Jessie. “Ora devo scappare, scusami. Ho un appuntamento con il mio insegnante di musica.”

Ammiccai nel salutarlo, prima di tornarmene a guardare i bambini impegnati a giocare sulle altalene, o nella cassetta della sabbia.

Mezz’ora.

Avevo aspettato per ore, quindi non avrebbe fatto granché differenza attendere ancora un po’.

E così, la Lupa Madre amava essere trattata con ogni riguardo, mentre questa Marjorie Scott si sentiva tradita dal rifiuto di Duncan.

A quanto pareva, le femmine del branco non erano dissimili da tante altre donne che avevo conosciuto.

Non seppi se esserne felice, o delusa.

Come promesso, Duncan si presentò venticinque minuti dopo, il viso tirato e l’espressione torva, come se l’appuntamento cui aveva presenziato avesse peggiorato di molto il suo umore.

Lo salutai con un cenno, e mi alzai dalla panchina per tornarmene con lui all’auto.

In silenzio, lo guardai salire sulla Volvo con aria turbata, mettendo in moto senza neppure dirmi ciao.

Che ne era stato del brillante ed educato lupastro che avevo conosciuto durante il viaggio fino a Matlock?

Lo fissai accigliata, mentre lui si inerpicava lungo la lieve salita di Bank Road per tornare a Farley.

Senza dire nulla, intrecciai le braccia sul petto e attesi impaziente che lui aprisse bocca.

Sarebbe morto d’inedia, prima di sentirmi fare qualche domanda.

Non avevo nessuna intenzione di diventare il capro espiatorio dei suoi malumori!

Insensibile al mio sguardo accigliato e alla mia espressione inferocita, Duncan rimase in silenzio per tutto il viaggio di ritorno.

Lo sguardo era fisso sulla strada, e l’umore sempre più nero.

Le sue sopracciglia aggrottate non facevano ben sperare, e neppure la sua bocca tesa in una smorfia di disappunto.

Cosa mai gli avevano detto?

Quando finalmente entrò nel cortile di casa, parcheggiò l’auto di fianco alla piccola costruzione in vetro e cemento che fungeva da clinica veterinaria.

Lì, sbuffò e continuò a stringere nervosamente il volante, prima di esclamare con voce resa roca dall’ansia: “Sono tutti pazzi!”

“In che senso? Spiegati” esalai un po’ preoccupata, la rabbia in parte disciolta da quell’uscita imprevista.

Con un sospiro, lasciò andare il volante e, volgendo lo sguardo per fissarmi, mormorò serio e cupo in volto: “Vogliono che tu ti apra al potere della nostra quercia sacra durante il novilunio.”

Sgranai gli occhi turbata e confusa assieme e, deglutendo a fatica, esalai: “Cosa vorrebbero, scusa?”

I suoi occhi si incatenarono ai miei ed io, perdendomi nelle sue profondità smeraldine, scorsi una sordida paura crescere dentro di lui.

Incapace di trattenere oltre quella paura, essa si riversò in me come un’onda di piena, rischiando di farmi annegare nel terrore.

Non appena mi ebbe in suo completo potere, il panico strinse con ferocia per ridurmi a brandelli.

Mi sentii soffocare, la gola stritolata dall’ansia che sentivo montare come marea.

Duncan però fu lesto a chiudere le porte del suo potere, non appena si rese conto di ciò che la sua mente mi aveva trasmesso.

Prendendo un gran respiro a pieni polmoni, lo fissai ai limiti della crisi isterica ed esclamai nervosamente: “Spiegami che vuoi dire, o impazzirò sul serio!”

Duncan prese il mio viso tra le mani come per bloccare le mie paure e, sempre tenendomi incatenata al suo sguardo, mormorò con voce il più possibile controllata: “Te l’ho detto. Non lascerò che ti facciano del male. Ma è il Consiglio a chiederlo, e io non posso oppormi, perché è così che prevede la legge, nel mio branco. Se la maggioranza decide una cosa, io non posso contestare quella decisione.”

“Ma tu… sei Fenrir” sussurrai confusa, afferrando le sue mani per impedire che esse si allontanassero dal mio viso.

Ero certa che, se lui si fosse scostato in quel momento, sarei sprofondata in un oceano di terrore da cui non sarei riemersa mai più.

“Lo so, e vorrei che questo potesse contare qualcosa, in questo momento, ma la legge parla chiaro. Nei branchi ove presiede un Consiglio, anche Fenrir deve cedere, se la maggioranza vota contro di lui” sospirò Duncan, scuotendo mestamente il capo, come se quel particolare lo angustiasse tremendamente.

“E… e Marjorie, allora?” gli chiesi, cercando di capire qualcosa in quel caos turbinante.

Mi fissò sorpreso per alcuni attimi, forse chiedendosi come conoscessi quel nome.

Funereo in viso, disse roco: “Quella è una cosa diversa. Il Consiglio ha potere di voto solo su questioni del branco, ma non sulla mia vita personale. E la Prima Lupa, prima di essere parte del branco è, innanzitutto, una parte di me.”

Lo disse con veemenza, come se quella frase l’avesse già ripetuta infinite volte, e a un numero indefinito di persone.

C’era una sofferenza a stento trattenuta, in ogni sua parola, un dolore così intenso che il mio cuore giunse quasi a spezzarsi in due per il tormento.

Sconsolata, mi chiesi come avessero anche solo potuto pensare di imporgli una moglie che lui non voleva.

Questo, del branco, non lo comprendevo affatto.

Lentamente, Duncan scivolò via dalle mie guance per stringere gentilmente tra le sue dita lunghe e aggraziate le mie mani gelide.

Il tutto, senza mai interrompere il contatto con il mio corpo e i miei occhi, ormai ai limiti del pianto.

“Il Consiglio chiede che tu dimostri di essere la wicca dai grandi poteri che io ho sostenuto tu possa essere, e vogliono che tu lo faccia durante il novilunio, perché è il momento in cui la tua energia è più debole, a causa del ciclo avverso della luna” mi spiegò meglio Duncan.

Sollevò lo sguardo, quasi cercasse l’ispirazione, o le parole giuste per spiegarmi.

“Scusami, avrei dovuto tacere sul tuo dono, non essere così specifico, ma non ho saputo resistere quando Sheoban, la Lupa Madre, ti ha insultata.”

“Mi ha… insultata?” esalai, sempre più confusa.

Neppure mi conosceva, e già mi si rivoltava contro?

“Non un insulto che potresti capire, Brianna… ti ha definita  Ginnungagap1” nel dirlo, storse la bocca.

“Già il suono non mi piace, figuriamoci il significato” sbuffai, sbattendo freneticamente le palpebre per trattenere le lacrime.

“E’ così che definiamo una persona insignificante, che non ha nulla da dire, e non ha ragione di essere ascoltata” mormorò infastidito, scrollando le spalle come se non valesse la pena restare oltre su quell’argomento.

“Ah, ottimo… e questa grandiosa presa di posizione, si basa su cosa?” replicai vagamente piccata, la paura sostituita da una ben più salutare rabbia.

“Dalla tua ignoranza in materia, per così dire” ammise, sorridendomi mestamente, come per scusarsi. “Le ho detto che era una sciocchezza, ma lei si è intestardita, dicendo che non avrebbe mai accondisceso a educarti al potere, visto che la tua famiglia avrebbe dovuto provvedere in tal senso, e che non avrebbe perso tempo con una diciannovenne dal sangue caldo.”

“Pensava fossi un rettile?” ironizzai acida, prima di sospirare e ripensare alle parole di Jessie.

A quanto pareva, la Lupa Madre non aveva una grossa opinione dei giovani, oppure le piaceva fare la voce grossa con chi non poteva replicare.

Insomma, una bulla.

“Non è cattiva, vorrei che questo tu lo credessi…” la difese debolmente Duncan. “…solo che è anziana, e difficilmente…”

“Manipolabile?” ipotizzai, sollevando ironica un sopracciglio.

Annuendo, Duncan mi lasciò le mani quasi con riluttanza, esitando un momento sui miei polpastrelli prima di scostarsi del tutto.

Lappandosi nervosamente le labbra, asserì: “Già. Quindi debbo trovare qualcun altro che ti educhi al potere, visto che io non ne sono in grado.”

“E chi sarà il mio maestro Yoda, quindi?” mi informai a quel punto, stringendo le mani a pugno per non permettere loro di tremare in maniera troppo evidente.

Lui accennò un sorrisino nel sentirmi fare dell’ironia nonostante tutto, e disse sommessamente: “Ti insegnerà Lance, il mio Hati. Sei d’accordo?”

“Potrei non esserlo?” ammiccai. “Quando sarà il novilunio?”

“Il venti agosto. Abbiamo due settimane per prepararti degnamente.”

“Basteranno?” chiesi titubante.

Devono.”

Quel devono non mi rincuorò per nulla.

Fino a quel momento, però, mi ero fidata di Duncan.

Avrei continuato a farlo, nonostante tutto.

 

 
 
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1: Nella mitologia norrena il Ginnungagap (letteralmente "varco spalancato") era l'abisso cosmico che esisteva prima della creazione. Ho utilizzato questo vocabolo per indicare quanto la persona definita “ginnungagap” sia vuota – e perciò inutile per i licantropi –  come può essere, metaforicamente, un abisso cosmico.

  
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