XII.
Strizzai gli occhi, quando un raggio di sole
ramingo scivolò sul mio volto assonnato.
Sollevai cauta le palpebre, non sapendo bene
cosa aspettarmi, prima di fissare la mussolina azzurro cielo delle tende, che
velavano parzialmente una finestra che non conoscevo.
Neppure la stanza dove mi trovavo, mi era
famigliare.
Sollevandomi di scatto, sorpresa e confusa al tempo
stesso, mi ritrovai a scrutare pareti ricoperte di fine carta da parati e uno
stupendo specchio a muro, che mi rifletteva per intero… in compagnia di Duncan.
Sconvolta, mi volsi a fissare il bianco lupo
sdraiato sul letto accanto a me, ancora addormentato e del tutto tranquillo.
Confusa come non mai, lo guardai a occhi sgranati,
chiedendomi il perché della sua presenza nella mia camera.
Come se il mio risveglio avesse destato i suoi
sensi, Duncan sollevò le palpebre per fissarmi con quegli splendidi occhi
ambrati che avevo imparato a conoscere.
Dubbiosa, esalai: “Ciao… ma che ci fai qui?”
Lui, per nulla turbato, smontò dal letto e
trotterellò fuori per poi tornare, un paio di minuti dopo, in vesti umane e con
un leggero filo di barba sulle gote.
Come diavolo faceva a essere così perfetto, appena
desto?
Lo invidiai senza alcun pudore.
Poggiato contro lo stipite della porta, sorrise
debolmente prima di dirmi: “Buongiorno.”
“Ebbene?”
Sollevate le mani in aria, mi alzai da letto e
passai una mano tra i folti e lunghi capelli castani.
Come al solito, sembravano un covone di fieno. Altro
motivo per cui invidiare Duncan.
Perché i suoi
riccioli erano ordinati e lucenti?
“Hai avuto un incubo, stanotte, così ho pensato di
venire a vedere cos’avevi. Visto che mi sembrava più… corretto entrare come lupo, sono venuto a controllare in questa
forma” mi spiegò, facendo spallucce.
Assentii, non ricordando assolutamente nulla di
quell’incubo. Tanto meglio.
“Visto che mi sembravi particolarmente agitata, ho
preferito rimanere, casomai avessi avuto bisogno di aiuto ma, alla fine, mi
sono addormentato anch’io. Spero di non averti turbata” terminò di raccontare,
scrutandomi ansioso.
E da quando era ansioso?
Mi affrettai a tranquillizzarlo – con tutta
probabilità, l’incubo riguardava per l’ennesima volta Freki, anche se in quel
momento non lo ricordavo.
“Oh, no, hai fatto bene. Mi stavo solo chiedendo
cosa fosse successo, tutto qui. Ora, però, è meglio se rimetto in ordine quella
specie di caos che ho in testa.”
Lasciandomi passare sotto l’arco del suo braccio, lui
replicò: “Non sono così in disordine.”
Ridacchiai, precisando: “Oh, li sono eccome. Aspettati
di sentirmi imprecare, quando cercherò di sciogliere tutti i nodi.”
Fu sul punto di dire qualcosa ma, alla fine,
rinunciò e scosse il capo, limitandosi a dire: “Vado a scaldare la colazione.
Se te la vedi brutta, chiamami.”
“D’accordo” annuii, avviandomi verso il bagno.
Chissà cosa avrebbe voluto dirmi?
Come avevo immaginato, lottare con i miei capelli
risultò essere un evento catastrofico al pari di un milione di altre volte.
Considerando, soprattutto, che ero andata a letto
con la chioma ribelle ancora umida, non vi trovai nulla di strano.
Imprecai in diverse lingue – lo facevo spesso, anche
per allentare la tensione che mi prendeva tutte le volte che dovevo occuparmi
della mia testa.
Fu solo molto tempo dopo che riuscii, finalmente, ad
avere la meglio.
Alla fine, già stanca e con la mano dolorante per il
troppo spazzolare, scesi le scale ed entrai in cucina.
Sospirai deliziata, quando il mio naso inspirò il
profumo delizioso di caffè appena fatto e pancake freschi.
Sorridendo a Duncan, chiosai: “Potrei anche
abituarmi, sai? Chi ti ha insegnato a essere così efficiente? Tua madre?”
Quel commento innocente sortì un effetto davvero
strano.
Il suo corpo si irrigidì di colpo, mentre gli occhi
si assottigliarono come se avesse visto qualcosa di brutto, o disgustoso.
Come era venuto, però, quel momento di malumore
passò come un lampo nel cielo e, con voce innaturalmente casuale, Duncan
mormorò: “Solo l’abitudine a vivere da solo. Tutto qui.”
Ancora una volta, quell’argomento parve rattristarlo
o peggio, innervosirlo.
Cosa c’era di
così brutto, nel suo passato, da non poter accennare ai suoi genitori senza
sconvolgerlo tanto?
Avevo dato per scontato che, una volta giunti a
Farley, sarebbero come minimo venuti a trovare il figlio, invece non era giunto
nessuno.
Che fossero morti in una circostanza simile a quella
che aveva portato via i miei genitori? O
c’era ben altro?
Cosa nascondevano le profondità dei suoi occhi di
smeraldo?
Preferii lasciar nuovamente perdere e, mangiando in
silenzio il morbido pancake, osservai di straforo Duncan fare lo stesso.
Era più che ovvio che qualcosa lo tormentava, e non
solo la mia domanda inopportuna, perciò alla fine aprii bocca e diedi voce al
mio timore.
“Cosa c’è che non va, Duncan?”
Lui mi sorrise appena – ma il suo sorriso non arrivò
neppure a lambire gli occhi – e ammise: “Sono un po’ in pensiero per oggi.”
“Perché?” chiesi senza capire.
“Pur avendomi salvato da morte certa, ci sono alcuni
lupi del clan che ritengono la tua presenza qui pericolosa per tutti noi, e
vorrebbero che io non ti avessi portato entro i confini del nostro territorio”
mi spiegò mestamente.
Nostro. Non suo.
Era più che evidente che Duncan non governava come
un despota, come invece sembrava fare Alec.
“Capisco” annuii pensierosa. “Ma, come ha detto
Jerome, ci sarete voi a difendermi.”
Lui storse appena la bella bocca, replicando
accigliato: “Ti fidi così tanto di lui, da consegnare nelle sue mani la tua
vita?”
Sorrisi dolcemente e mi limitai a dire: “Mi sembra
che, a suo tempo, mi sia fidata ciecamente anche di qualcun altro, pur non
avendolo mai visto prima.”
“Già… e ancora non capisco bene perché” mormorò Duncan,
con un tono di voce per nulla divertito.
Anzi, sembrava che il nostro strano rapporto gli
causasse parecchi pensieri.
Tornando seria, gli strinsi un momento la mano, ben
decisa a tirargli su il morale.
“Posso solo dirti quello che sento, Duncan. Mi sono
fidata di te perché ho percepito di
poterlo fare. E la stessa cosa mi è successa con Jerome, non appena ci siamo
stretti la mano.”
Mi guardò con aria combattuta, non sapendo bene cosa
dire.
Affondando nel suo sguardo smeraldino, dubbioso come
mai lo era stato prima di allora, mi chiesi cosa sarebbe successo se mi fossi
avvicinata ulteriormente a lui.
Scuotendosi da quel torpore, Duncan si alzò,
allontanandosi da me e, portandosi vicino alla porta, mi informò senza voltarsi
a guardarmi: “Stamattina ti accompagnerò a fare un po’ di spese ma, nel
pomeriggio, sarò impegnato in clinica, quindi non potrò stare qui con te.”
“Non è un problema. Me la so cavare” replicai,
sorridendo appena.
Lui assentì, ben deciso a non voltarsi verso di me
e, senza più dire nulla, uscì dalla stanza, lasciandomi sola.
Il suo potere era sigillato.
Non riuscii a percepire niente, neppure un briciolo
di ciò che lo tormentava, e questo mi diede da pensare.
Cosa lo arrovellava tanto da spingerlo a chiudersi
così in se stesso?
Sospirando, sistemai in lavastoviglie i piatti e le
posate, rassettai un po’ la cucina, dopodiché me ne tornai in camera per
infilarmi gli scarponi da trekking.
L’acqua della doccia, in bagno, scrosciava feroce su
Duncan, forse nel vano tentativo di cancellare le ansie che lo stavano
consumando.
***
Matlock non era meno caotica di Glasgow, quanto a
traffico.
Le auto sfrecciavano in tutte le direzioni suonando
clacson, esibendosi in manovre azzardate e passando attraverso pertugi
impossibili.
Tutto, pur di non perdere un nanosecondo di tempo
sulla tabella di marcia dei pressanti automobilisti, che circolavano nervosi in
quel momento.
Un’Aston Martin lucida come uno specchio evitò per
un soffio di finire su un marciapiede, a causa di un ciclista fuori di senno.
Io fissai la scena a occhi sgranati, mentre Duncan
procedeva con mano ferma attraverso il traffico cittadino.
Guidava la sua Volvo V50 con assoluta naturalezza,
neanche fosse la continuazione stessa del suo braccio.
Ogni sua manovra era ponderata al millimetro, come
se percepisse in anticipo le manovre degli altri autisti. E forse era davvero
così.
Giungemmo su Bank Road senza che neppure io me ne
accorgessi.
Aveva attraversato quasi tutta la città in un batter
d’occhio, nonostante la confusione di auto, tram e mezzi autoarticolati.
Beh, era decisamente più bravo di me, nella guida.
Guardandomi intorno incuriosita – non avendo
nient’altro da fare – ammirai il bellissimo viale che abbelliva la via in tutta
la sua lunghezza.
Gli alberi verdeggianti lambivano case, banche,
negozi, cappelle e muriccioli di pietra.
Sui marciapiedi che costeggiavano la strada, una
folta schiera di persone era a passeggio per la via.
Chi per lavoro, chi in vacanza, ma tutti sembravano
animati dalla stessa frenesia che sembrava essersi impadronita degli
automobilisti.
O forse, ero solo io a voler andare al rallentatore,
perché l’ansia di Duncan si era infine insinuata anche nel mio cuore.
Da quando aveva accennato alla mia visita al
Consiglio, la paura per ciò che sarebbe successo quel pomeriggio si era diffusa
dentro di me come un tarlo nel legno.
Lo sentivo rosicchiare le fondamenta delle mie
certezze, centimetro dopo centimetro, e non ero in grado di fermare
quell’inarrestabile lavorio all’interno del mio animo.
Il mio autista personale non pareva essere più
allegro di me e, a dirla tutta, non potei certo biasimarlo.
Da quando eravamo partiti da Farley per raggiungere
la città, il suo cellulare non aveva mai smesso di vibrare.
Parlava in continuazione al suo auricolare
bluetooth, mentre gli occhi non si staccavano mai dalla strada trafficata.
Le sue mani, sicure e precise, tenevano il volante
con fermezza ma, a volte, qualcosa lo disturbava a tal punto da far sbiancare
le nocche, tanta era la rabbia a stento trattenuta.
Non compresi gran che delle sue chiamate ma, di
certo, dovevano essersi accumulati parecchi problemi, nel mese in cui era
mancato.
Ora, sembrava pagarne le conseguenze con gli
interessi.
Quando giungemmo a destinazione, sospirò esasperato,
estrasse dalla tasca dei pantaloni il portafogli e, con espressione spiacente,
mi consegnò il bancomat.
“Scusami, ma devo scappare. Ho un impegno
urgentissimo e … insomma, non posso…”
Presi il suo bancomat con un sorriso e chiosai:
“L’ho capito dal tono delle chiamate. Vai pure, so comprarmi gli abiti anche da
sola. Anzi, intanto che ci sono, farò un salto al market che c’è poco più in
là, okay?”
“D’accordo” annuì, prima di darmi il codice del
bancomat e scusarsi ancora.
Sospirando contrariata, mi avvicinai al negozio di
abbigliamento davanti a cui mi aveva lasciata.
Era un bello stabile in stile Tudor dalle bianche
mura, e travi di legno fresche di pittura.
Al primo piano, alcuni vasi colmi di gerani fioriti
sporgevano dalle finestre, e graziosi tendaggi di pizzo si intravedevano oltre
i vetri baciati dal sole.
Entrai dopo un’ultima breve occhiata alla vetrina
del negozio, e sorrisi alla commessa che si materializzò allegramente accanto a
me.
“Buongiorno, signorina… in cosa posso esserle utile?”
“Buongiorno. Dovrei rifarmi il guardaroba. Purtroppo,
la British Airways si è persa i miei bagagli, e ora mio cugino deve rimediare” sorrisi
gaia, mentendo spudoratamente e sventolando ghignante il bancomat che Duncan mi
aveva dato.
Sorridendo comprensiva, la commessa mi guidò verso
il reparto donna, dichiarando con tono consolatorio: “E’ davvero fortunata ad
avere un cugino così generoso. E’ americana, per caso?”
E io che pensavo
di non avere più il mio bell’accento di Chicago. Pensai divertita.
“Sì, di Albany” mentii ancora.
Non credevo proprio che la ragazza avrebbe percepito
la differenza di slang.
“Ho sempre voluto andare a New York… lei c’è stata?”
mi chiese la ragazza, prima di mostrarmi un intero scaffale ricolmo di jeans di
ogni genere e marca. “Che genere preferisce?”
“Sì, ci sono stata un paio di volte e, tutt’e due le
volte, sono stata al Rockfeller Center a vedere delle mostre…” le spiegai
distrattamente, guardandomi intorno prima di dire: “…mah, pensavo di stare su
un genere molto sportivo. Sa, mio cugino ha dei cavalli, quindi penso ne
approfitterò per fare qualche passeggiata in campagna.”
“Molto bene, allora ci vorrà qualche paio di jeans,
direi almeno quattro o cinque magliette con relative felpe… oh, sì, questi
pantaloni andranno benissimo per una gita fuori porta” cominciò col dire la
commessa, estraendo da cassettoni e ripiani tutto ciò di cui avrei avuto
bisogno.
Ghignando – di solito, prendevo la prima cosa che mi
capitava – mi misi di buona lena per provare tutto ciò che la solerte commessa
trovò per me.
Alla fine, mi ritrovai con quattro paia di jeans,
cinque magliette dai toni del verde scuro e del viola, felpe in tinta, un paio
di pantaloni da trekking e due camicette fiorate.
Nel reparto intimo, presi il minimo indispensabile,
niente di elaborato o infiocchettato – non avevo certo intenzione di colpire
l’attenzione di qualcuno.
Quando infine arrivai al reparto calzature, presi
solo un paio di Nike scure e delle comode ballerine nere dalla punta
arrotondata.
Caricai il mio nuovo guardaroba sulla Volvo – Duncan
mi aveva lasciato le chiavi – dopodiché mi diressi al minimarket.
All’interno, era tutto un vociare di massaie
all’opera e di bambini che scorrazzavano ogni dove, inseguiti da madri ansiose
o sorelle inferocite.
Quello spettacolo mi ricordò molto quando anch’io
inseguivo per i negozi il mio scapestrato fratello.
Sperai davvero che le notizie che gli avevo
sciorinato senza troppa delicatezza, la sera precedente, non lo avessero
sconvolto più del necessario.
Di certo, con tutto quello che gli avevo detto,
dubitai fortemente che fosse riuscito a dormire.
Sospirando, tornai a concentrarmi sulla mia missione
e, inforcato un cestino, cercai uno spazzolino da denti, una spazzola e alcuni
cosmetici per la pelle.
Dopo la mia gitarella per i boschi, era
tremendamente screpolata, e le mani erano più simili a carta vetrata, che a
pelle umana.
Stetti sempre ben attenta a tenere il viso basso –
avevo stretto i capelli in una treccia e indossato pesanti occhiali da sole, ma
era meglio non rischiare.
Raccolsi tutto ciò di cui avevo bisogno prima di
sbirciare in direzione delle casse, accertandomi che non vi fossero volantini
con la mia faccia stampigliata sopra.
Nulla trovando, mi avvicinai silenziosa e poggiai
tutto sul nastro trasportatore, prima di allungare il bancomat di Duncan.
Avevo idea che gli sarebbe venuto un mezzo collasso,
una volta ricevuto l’estratto conto mensile.
Non appena uscii dal market, guardai speranzosa in
direzione dell’auto ma, di Duncan, nemmeno l’ombra.
I suoi impegni dovevano essere davvero parecchi,
visto che mancava da più di un’ora.
Sconsolata, proseguii nel mio giro e acquistai tutto
ciò che poteva occorrermi durante il mio soggiorno a Farley.
Non sapevo quanto sarei rimasta, perciò volevo
essere preparata praticamente a tutto. O quasi.
***
Finii il mio tramezzino quando l’orologio della
chiesa, nei pressi del parco pubblico dove mi ero rifugiata, segnò le due del
pomeriggio.
Di Duncan, nessuna traccia.
Non avevo voluto restare troppo vicina all’auto per
non destare sospetti, o l’attenzione dei poliziotti di zona.
Dopo aver chiuso la Volvo, ed essermi allontanata di
poco, mi ero infilata in un piccolo parco giochi e lì, appropriatami di una
panchina, mi ero messa a pranzare.
Sbadigliai annoiata nel gettare la carta del panino
e la bottiglia di acqua, ormai vuota, in un cestino vicino.
Con aria sbattuta, mi volsi a scrutare l’entrata del
parco, da cui potevo scorgere la sagoma dell’auto di Duncan.
Ero stata così stupida da non chiedergli quanto, i
suoi appuntamenti, lo avrebbero tenuto impegnato.
Al tempo stesso, non avevo neppure pensato di
comprare un libro per ingannare l’attesa.
Non ero poi così brava a programmare le cose come mi
ero immaginata.
Chiusi gli occhi per un momento e sbadigliai
nuovamente, prima di provare a lanciarmi in un esperimento che non avevo ancora
tentato di fare, da quando eravamo arrivati.
Lasciai che il respiro si calmasse e tentai di
concentrarmi sui rumori che mi circondavano, e su ciò che galleggiava nell’aria
assieme ai suoni e agli odori.
Forse, e solo forse, avrei potuto trovare la traccia
di potere di Duncan, e capire quanto fosse distante.
Non avevo ancora compreso il meccanismo esatto, ma
sapevo riconoscere la sua aura, per cui avrei cercato quella.
Ciò che non mi aspettai di certo fu di percepirne
un’altra, e molto vicina.
Sgranando gli occhi, li fissai dinanzi a me e, sul
lato opposto della strada, fermo vicino alle strisce pedonali in attesa di
passare, vidi un giovanotto sui vent’anni.
Era sbarbato e abbigliato con larghi pantaloni neri
a vita bassa, una maglietta scura dei Linkin
Park e dei pesanti anfibi ai piedi.
Ammiccò nella mia direzione mentre un’ondata di
potere frizzante e caldo si addensò attorno al mio corpo, confermandomi ciò che
avevo solo ipotizzato.
Appoggiata allo schienale di ferro della panchina,
osservai quel giovane dai capelli neri e tagliati a spazzola avvicinarsi a me
con passo dinoccolato.
Prima ancora di sentirlo parlare per presentarsi,
seppi che si trattava di Jessie, la sentinella che avevamo incontrato nel
bosco.
Lui mi sorrise impacciato, accennando un saluto con
il capo.
“Beh, ciao Brianna…”
“Jessie” mormorai, sorridendo di rimando.
Al sentirsi nominare, si illuminò in viso,
chiaramente lieto che lo avessi riconosciuto solo attraverso lo sfoggio del suo
potere, oltre che del mio.
Allungai perciò una mano e aggiunsi: “Tanto piacere
di conoscerti in questa forma.”
“Piacere mio, Brianna” replicò Jessie, stringendo la
mia mano prima di sedesi accando a me sulla panchina. “Ti porto un messaggio da
parte di Fenrir.”
“Duncan?” esalai un po’ sorpresa.
Lui annuì, tutto serio in viso. Era davvero conscio
del proprio compito, e deciso a portarlo a termine nel migliore dei modi.
“E’ spiacente di averti fatta aspettare tanto a
lungo, ma entro mezz’ora al massimo ti raggiungerà qui.”
“Cosa è successo, Jessie?” chiesi, turbata.
“Beh, non mi è concesso parlare di cose del branco
con gli estranei, anche se tu sei una wicca”
mugugnò, chiaramente in imbarazzo.
Scuotendo una mano, replicai tranquilla: “E di certo
io non ti obbligherò a cacciarti nei guai, e solo per avermi spifferato
qualcosa… fa niente. Aspetterò Duncan.”
“Grazie” mi sorrise allora Jessie, chiaramente
tranquillizzato dal mio dire.
Sollevando un sopracciglio con evidente interesse,
gli chiesi: “Pensavi ti avrei punito in qualche modo, per non avermi detto
quello che ti ho chiesto?”
“Beh, ecco… la Lupa Madre è molto severa, quando…
insomma…” tentennò nuovamente, prima di azzittirsi del tutto.
“Tiro a indovinare. Non vuole che il suo ruolo sia
sminuito, e se la prende a morte con chi non le porta rispetto?” buttai lì,
ammiccando complice. “Specialmente con i giovani lupi?”
Jessie fece l’atto di murarsi la bocca ma,
strizzandomi l’occhio, annuì più volte.
“Sì, sì, tu non mi hai detto nulla, tranquillo” ridacchiai,
prima di chiedergli speranzosa: “Sarai anche tu nella sala con il Consiglio,
più tardi?”
“Oh, no. Io non ho questo onore” esalò, sgranando
gli occhi grigi per la sorpresa.
“Ah. Peccato, sarebbe stato meno avvilente, se ci
fosse stata un’altra faccia nota, oltre a quelle di Duncan e di Jerome”
sospirai sconsolata.
Jessie si guardò intorno per un momento, prima di
annusare piano l’aria e sussurrarmi all’orecchio: “Fossi in te, starei attenta
a Marjorie Scott. Duncan non l’ha voluta come Prima Lupa, quando il Consiglio
gliel’ha proposta, e lei non l’ha presa benissimo. Sapere che tu abiti con il
nostro Fenrir, potrebbe mandarla su tutte le furie.”
“Immagino che lei, invece, sia abbastanza potente
per essere nel Consiglio” borbottai aspra.
“Già” ammise Jessie, storcendo il naso.
Evidentemente, non doveva stargli molto simpatica.
“Ricevuto, Jessie. Farò in modo di starle alla
larga” annuii, levando tre dita come per suggellare un patto tra scout.
Lui sorrise, ma colsi ugualmente l’ansia nei suoi
occhi.
La cosa si faceva pericolosa, a quanto pareva.
Quante altre donne avrebbero avuto da ridire, sulla
mia sistemazione in casa McKalister?
Se erano in una quantità direttamente proporzionale
alla bellezza del soggetto in questione, ero davvero nei guai e senza alcun
motivo, visto che non esisteva nulla di cui essere gelose.
Duncan non mi guardava affatto come una donna, ma
solo come una ragazzina bisognosa di protezione e, quando gli capitava, come
una wicca.
Insomma, sempre l’esemplare di femmina sbagliato.
Sospirando, lasciai perdere quei pensieri assurdi e gli
chiesi: “Come la riconoscerò?”
“Tranquilla. Si farà riconoscere lei” mormorò aspramente
Jessie. “Ora devo scappare, scusami. Ho un appuntamento con il mio insegnante
di musica.”
Ammiccai nel salutarlo, prima di tornarmene a
guardare i bambini impegnati a giocare sulle altalene, o nella cassetta della
sabbia.
Mezz’ora.
Avevo aspettato per ore, quindi non avrebbe fatto
granché differenza attendere ancora un po’.
E così, la Lupa Madre amava essere trattata con ogni
riguardo, mentre questa Marjorie Scott si sentiva tradita dal rifiuto di
Duncan.
A quanto pareva, le femmine del branco non erano
dissimili da tante altre donne che avevo conosciuto.
Non seppi se esserne felice, o delusa.
Come promesso, Duncan si presentò venticinque minuti
dopo, il viso tirato e l’espressione torva, come se l’appuntamento cui aveva
presenziato avesse peggiorato di molto il suo umore.
Lo salutai con un cenno, e mi alzai dalla panchina
per tornarmene con lui all’auto.
In silenzio, lo guardai salire sulla Volvo con aria
turbata, mettendo in moto senza neppure dirmi ciao.
Che ne era stato del brillante ed educato lupastro
che avevo conosciuto durante il viaggio fino a Matlock?
Lo fissai accigliata, mentre lui si inerpicava lungo
la lieve salita di Bank Road per tornare a Farley.
Senza dire nulla, intrecciai le braccia sul petto e
attesi impaziente che lui aprisse bocca.
Sarebbe morto d’inedia, prima di sentirmi fare
qualche domanda.
Non avevo nessuna intenzione di diventare il capro
espiatorio dei suoi malumori!
Insensibile al mio sguardo accigliato e alla mia
espressione inferocita, Duncan rimase in silenzio per tutto il viaggio di
ritorno.
Lo sguardo era fisso sulla strada, e l’umore sempre
più nero.
Le sue sopracciglia aggrottate non facevano ben
sperare, e neppure la sua bocca tesa in una smorfia di disappunto.
Cosa mai gli avevano detto?
Quando finalmente entrò nel cortile di casa,
parcheggiò l’auto di fianco alla piccola costruzione in vetro e cemento che
fungeva da clinica veterinaria.
Lì, sbuffò e continuò a stringere nervosamente il
volante, prima di esclamare con voce resa roca dall’ansia: “Sono tutti pazzi!”
“In che senso? Spiegati” esalai un po’ preoccupata,
la rabbia in parte disciolta da quell’uscita imprevista.
Con un sospiro, lasciò andare il volante e, volgendo
lo sguardo per fissarmi, mormorò serio e cupo in volto: “Vogliono che tu ti
apra al potere della nostra quercia sacra durante il novilunio.”
Sgranai gli occhi turbata e confusa assieme e,
deglutendo a fatica, esalai: “Cosa vorrebbero, scusa?”
I suoi occhi si incatenarono ai miei ed io,
perdendomi nelle sue profondità smeraldine, scorsi una sordida paura crescere
dentro di lui.
Incapace di trattenere oltre quella paura, essa si
riversò in me come un’onda di piena, rischiando di farmi annegare nel terrore.
Non appena mi ebbe in suo completo potere, il panico
strinse con ferocia per ridurmi a brandelli.
Mi sentii soffocare, la gola stritolata dall’ansia
che sentivo montare come marea.
Duncan però fu lesto a chiudere le porte del suo
potere, non appena si rese conto di ciò che la sua mente mi aveva trasmesso.
Prendendo un gran respiro a pieni polmoni, lo fissai
ai limiti della crisi isterica ed esclamai nervosamente: “Spiegami che vuoi
dire, o impazzirò sul serio!”
Duncan prese il mio viso tra le mani come per
bloccare le mie paure e, sempre tenendomi incatenata al suo sguardo, mormorò
con voce il più possibile controllata: “Te l’ho detto. Non lascerò che ti
facciano del male. Ma è il Consiglio a chiederlo, e io non posso oppormi,
perché è così che prevede la legge, nel mio branco. Se la maggioranza decide
una cosa, io non posso contestare quella decisione.”
“Ma tu… sei Fenrir” sussurrai confusa, afferrando le
sue mani per impedire che esse si allontanassero dal mio viso.
Ero certa che, se lui si fosse scostato in quel
momento, sarei sprofondata in un oceano di terrore da cui non sarei riemersa
mai più.
“Lo so, e vorrei che questo potesse contare qualcosa,
in questo momento, ma la legge parla chiaro. Nei branchi ove presiede un
Consiglio, anche Fenrir deve cedere,
se la maggioranza vota contro di lui” sospirò Duncan, scuotendo mestamente il
capo, come se quel particolare lo angustiasse tremendamente.
“E… e Marjorie, allora?” gli chiesi, cercando di
capire qualcosa in quel caos turbinante.
Mi fissò sorpreso per alcuni attimi, forse
chiedendosi come conoscessi quel nome.
Funereo in viso, disse roco: “Quella è una cosa
diversa. Il Consiglio ha potere di voto solo su questioni del branco, ma non
sulla mia vita personale. E la Prima Lupa, prima di essere parte del branco è,
innanzitutto, una parte di me.”
Lo disse con veemenza, come se quella frase l’avesse
già ripetuta infinite volte, e a un numero indefinito di persone.
C’era una sofferenza a stento trattenuta, in ogni
sua parola, un dolore così intenso che il mio cuore giunse quasi a spezzarsi in
due per il tormento.
Sconsolata, mi chiesi come avessero anche solo
potuto pensare di imporgli una moglie che lui non voleva.
Questo, del branco, non lo comprendevo affatto.
Lentamente, Duncan scivolò via dalle mie guance per
stringere gentilmente tra le sue dita lunghe e aggraziate le mie mani gelide.
Il tutto, senza mai interrompere il contatto con il
mio corpo e i miei occhi, ormai ai limiti del pianto.
“Il Consiglio chiede che tu dimostri di essere la wicca dai grandi poteri che io ho
sostenuto tu possa essere, e vogliono che tu lo faccia durante il novilunio,
perché è il momento in cui la tua energia è più debole, a causa del ciclo
avverso della luna” mi spiegò meglio Duncan.
Sollevò lo sguardo, quasi cercasse l’ispirazione, o
le parole giuste per spiegarmi.
“Scusami, avrei dovuto tacere sul tuo dono, non
essere così specifico, ma non ho saputo resistere quando Sheoban, la Lupa Madre,
ti ha insultata.”
“Mi ha… insultata?” esalai, sempre più confusa.
Neppure mi conosceva, e già mi si rivoltava contro?
“Non un insulto che potresti capire, Brianna… ti ha
definita Ginnungagap1”
nel dirlo, storse la bocca.
“Già il suono non mi piace, figuriamoci il
significato” sbuffai, sbattendo freneticamente le palpebre per trattenere le
lacrime.
“E’ così che definiamo una persona insignificante,
che non ha nulla da dire, e non ha ragione di essere ascoltata” mormorò
infastidito, scrollando le spalle come se non valesse la pena restare oltre su
quell’argomento.
“Ah, ottimo… e questa grandiosa presa di posizione,
si basa su cosa?” replicai vagamente piccata, la paura sostituita da una ben
più salutare rabbia.
“Dalla tua ignoranza
in materia, per così dire” ammise, sorridendomi mestamente, come per
scusarsi. “Le ho detto che era una sciocchezza, ma lei si è intestardita,
dicendo che non avrebbe mai accondisceso a educarti al potere, visto che la tua famiglia avrebbe dovuto
provvedere in tal senso, e che non avrebbe perso tempo con una diciannovenne
dal sangue caldo.”
“Pensava fossi un rettile?” ironizzai acida, prima
di sospirare e ripensare alle parole di Jessie.
A quanto pareva, la Lupa Madre non aveva una grossa
opinione dei giovani, oppure le piaceva fare la voce grossa con chi non poteva
replicare.
Insomma, una bulla.
“Non è cattiva, vorrei che questo tu lo credessi…”
la difese debolmente Duncan. “…solo che è anziana, e difficilmente…”
“Manipolabile?” ipotizzai, sollevando ironica un
sopracciglio.
Annuendo, Duncan mi lasciò le mani quasi con
riluttanza, esitando un momento sui miei polpastrelli prima di scostarsi del
tutto.
Lappandosi nervosamente le labbra, asserì: “Già.
Quindi debbo trovare qualcun altro che ti educhi al potere, visto che io non ne
sono in grado.”
“E chi sarà il mio maestro Yoda, quindi?” mi
informai a quel punto, stringendo le mani a pugno per non permettere loro di
tremare in maniera troppo evidente.
Lui accennò un sorrisino nel sentirmi fare dell’ironia
nonostante tutto, e disse sommessamente: “Ti insegnerà Lance, il mio Hati. Sei
d’accordo?”
“Potrei non esserlo?” ammiccai. “Quando sarà il
novilunio?”
“Il venti agosto. Abbiamo due settimane per
prepararti degnamente.”
“Basteranno?” chiesi titubante.
“Devono.”
Quel devono
non mi rincuorò per nulla.
Fino a quel momento, però, mi ero fidata di Duncan.
Avrei continuato a farlo, nonostante tutto.
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1: Nella mitologia norrena il Ginnungagap (letteralmente "varco spalancato") era l'abisso cosmico che esisteva prima della creazione. Ho utilizzato questo vocabolo per indicare quanto la persona definita “ginnungagap” sia vuota – e perciò inutile per i licantropi – come può essere, metaforicamente, un abisso cosmico.