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Autore: Mary P_Stark    27/08/2012    5 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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XIII.




 

 

 

  Il luogo scelto dal Consiglio per quella riunione eccezionale, non era altro che una comunissima sala conferenze.

  Non un misterioso maniero immerso nella brughiera, o un sotterraneo disperso nelle campagne.

  Una semplice, anonima saletta senza alcun fronzolo.

  In qualche modo, la cosa mi deluse.

La palazzina dove si sarebbe svolta la riunione, risaliva agli anni Sessanta.

Era costruita con larghi mattoni rosso scuro, aveva alte imposte tinte di nero e una stretta entrata laterale, che conduceva a una breve scalinata di pietra grigia.

All’interno, la struttura era rimasta intrappolata nel tempo al momento della costruzione.

I muri, pur rinfrescati da una mano di vernice, recavano ancora gli stucchi originali e le cornici dell’epoca.

In silenzio, salimmo fino al terzo piano, dove si trovava la sala adibita a conferenze che avevano prenotato per quella sera.

La stanza, in cui si trovavano già alcuni membri Anziani, aveva una pianta rettangolare, strette finestre – lasciate socchiuse per lasciar correre un po’ d’aria fresca – ed era ricolma di sedie in legno dai cuscini di paglia.

Un piccolo palco, ricoperto di moquette, dava le spalle alle finestre e ospitava una scrivania munita di microfono e proiettore.

Le pareti, spoglie e in materiale fonoassorbente, erano di un neutro color panna mentre il pavimento in parquet, – ormai consunto dal tempo – era quasi sicuramente di rovere.

Insomma, quel luogo aveva gli elementi standard di una classica sala riunioni.

Niente di ancestrale o mistico.

Nel complesso, mi sarei aspettata qualcosa di più, da un Consiglio di licantropi.

Come tenne però a specificare Duncan, le apparenze contavano più di qualsiasi altra cosa e, proprio per questo, non avevano mai acquistato uno stabile per farne il loro quartier generale.

Un acquisto simile, da parte di un privato cittadino, avrebbe destato troppa curiosità.

Di volta in volta, perciò, affittavano una sala sempre differente.

Poco prima di oltrepassare la soglia su cui ci eravamo soffermati, chiesi piano a Duncan: “Lance ci aspetta dentro assieme a Jerome?”

“Sì, Brianna. Non dovrai fare altro che presentarti, e ascoltare ciò che il Consiglio avrà da dirti. Io ho già perorato la tua causa stamattina, ma potresti comunque aver qualcosa da dire anche tu, caso mai te lo chiedessero.”

Mi sorrise convincente, sospingendomi verso la porta.

Deglutendo a fatica, entrai finalmente nella sala e notai subito, in fondo a essa, raggruppati in un crocchio di persone di tutti i generi e le età, almeno una ventina di licantropi.

Sgomenta, sussurrai: “Sono davvero furibondi.”

“Immaginavo li avresti percepiti” sbuffò Duncan, facendo poi un cenno in direzione di un uomo alto e biondo.

Distogliendo la mia attenzione dalla massa di licantropi in fondo alla stanza, la spostai sull’uomo a cui Duncan si era rivolto con lo sguardo.

Basita, mi limitai a fissarlo da vera idiota, strabiliata dalla sua straordinaria altezza e imponenza.

Se avevo creduto Duncan alto e robusto, dovetti ricredermi perché, quel licantropo dal passo ferino e potente, era un autentico gigante di muscoli.

Aveva capelli biondissimi tagliati a spazzola, e occhi azzurro ghiaccio come quelli di un husky.

Sembrava in tutto e per tutto un guerriero vichingo, sbarcato sulle coste inglesi per fare razzia nei villaggi.

Il suo sorriso appena accennato, però, addolciva, e di molto, i suoi tratti duri e apparentemente freddi.

Allungò una mano enorme, esordendo sommessamente: “Tanto piacere di conoscerti, Brianna. Io sono Lance Rothshield, Hati del qui presente Duncan.”

Strinsi quella mano gigantesca come meglio potei, e avvertii ancora una volta quella sorta di strano riconoscimento, come di un ricongiungersi di anime.

Preferendo non soffermarmi troppo su quel particolare, mi limitai a sorridere a mia volta. Avevo già anche troppe cose a cui pensare.

“Il piacere è tutto mio, Lance. Allora, mi insegnerai tu a capire cos’ho nella testa?”

“E’ quello che mi riprometto di fare” annuì, prima di aggrottare la fronte e borbottare: “Jerome non sta ottenendo gran che, a quanto sento.”

“Non ne dubitavo” sbottò Duncan guardando in fondo alla sala, in direzione del capannello di persone.

Oh, quindi Jerome era in mezzo a quel branco di menti inferocite!

La rabbia e il risentimento non avevano ancora smesso di sfrigolare per la stanza e io, ormai, non ne potevo davvero più.

Quell’aggressione mentale era quasi insopportabile.

Passandomi una mano sul viso con aria stanca, sussurraii a Duncan: “Non credo che potrò resistere ancora molto, se continuano così.”

Lance fissò un momento Duncan, che annuì forse a una sua muta domanda, prima di avvolgermi le spalle con il suo braccio possente.

Come se avessero spento un interruttore, l’aggressione mentale terminò di colpo, liberandomi la testa da quelle mille voci, e permettendomi di respirare più agevolmente.

Sorridendo complice a Lance, mormorai: “Grazie.”

“Di nulla” replicò lui, accompagnandomi dietro la scrivania e sedendosi al mio fianco, tenendomi poi per mano per mantenere il contatto fisico con me.

Duncan si schiarì la voce, declamando a gran voce: “So benissimo che non avete nessuna intenzione di facilitarmi le cose ma, almeno, dimostrate quel po’ della cortesia che si addice quando un ospite è in visita!”

Il crocchio di persone si volse all’unisono, terminando temporaneamente il borbottio.

Con uno sciamare composto, si andò ad accomodare in silenzio sulle sedie prima di lanciare sguardi dubbiosi su una giovane seduta in prima fila, proprio dinanzi a Duncan.

La donna, alta e slanciata, dal corpo più affascinante che avessi mai visto – se non in Angelina Jolie, ovviamente – assottigliò le sue iridi di fuoco e fulminò con uno sguardo assassino Duncan.

Stizzita, la ragazza in questione replicò: “Non quando l’ospite è sgradito!”

Duncan si appoggiò alla scrivania, mentre Jerome ci raggiungeva con passo rigido e ferocemente aggressivo.

Continuando ad ammirare quella bellezza bruna dai lunghi e fluenti capelli lisci, esalai: “Non mi dire che è Marjorie!”

“Colpita e affondata” mugugnò Lance, storcendo la bella bocca.

E Duncan aveva rifiutato una… come lei?!

Stentai a capire.

“Modera i toni, Marjorie. Nonostante la faccenda non piaccia a nessuno, un ospite va sempre onorato” disse per contro una donna anziana, seduta a sua volta in prima fila.

Detto ciò, la matrona mi puntò addosso due occhi grigi capaci di uccidere al primo sguardo, sguardo a cui io tentai di resistere, rischiando il tutto e per tutto.

Non sapevo quanto fosse saggio accettare quella muta sfida, ma non volevo cedere alla prima difficoltà.

 Lei continuò ancora per un minuto buono a guardarmi senza più parlare, le labbra esili strette in un sorriso tirato.

La pelle del suo viso, diafana e piena di rughe, sembrò rifulgere debolmente sotto la luce dei neon.

Il suo potere, ovviamente.

Non riuscii però a capire cosa stesse facendo, o perché.

Alla fine, distolse lo sguardo, annuendo tra sé e sorridendo soddisfatta – di cosa, non avrei saputo dirlo – prima di guardare il resto dei presenti e tornare seria e inflessibile.

A quel punto capii. Era la Lupa Madre. Sheoban.

Accanto a lei, un uomo tarchiato, dal volto duro e segnato da una ferita netta e trasversale, che gli solcava la guancia dall’orecchio al labbro inferiore.

Mi fissò serio e ombroso, prima di guardare Duncan e scuotere la testa con aria contrariata.

Le cose, di certo, non stavano andando benissimo.

La Lupa Madre prese nuovamente la parola e proseguì nel suo monologo.

“Ha certamente un grande potenziale, lo ammetto, ma è inesperta, e una possibile fonte di pericolo per tutti noi. E, anche senza considerare il suo potere del tutto fuori controllo – potrebbe percepirne l’odore persino un umano! – , il fatto che la polizia la cerchi non può che peggiorare le cose.”

Innervosendosi, e accentuando la ruga verticale comparsa tra le sopracciglia, Duncan sbatté una mano sulla scrivania, replicando feroce: “Il fatto che mi abbia salvato, mettendo a rischio la sua vita, non conta niente, per voi? Avreste preferito che quei Cacciatori mi dilaniassero con le loro armi?!”

“Non ho detto questo, Duncan. Ma il fatto rimane. Ci hai portato una potenziale bomba innescata, e questo deve essere chiaro a tutti. Non metto in dubbio che avere una wicca tra noi sarebbe cosa degna di nota, oltre che un onore raro ma, stando così le cose, è inutile, niente più che carne da macello” sentenziò senza pietà Sheoban, ben decisa a non risparmiarmi nulla.

“Ha ucciso un Freki di sua mano. Non credo sia proprio carne da macello” ribatté  astioso Duncan, facendo sospirare di sorpresa tutti gli astanti, Marjorie compresa.

Evidentemente, quella perla se l’era tenuta proprio per impressionare tutti.

Aggrottando la fronte, l’uomo al fianco di Sheoban borbottò sprezzante: “Com’è possibile che quella piccola umana abbia ucciso un Freki? Tu menti!”

Sospirando esasperato, Duncan sibilò: “Connor, apprezzo la tua sincerità, ma non mento. Brianna ha ucciso il Freki inviatoci contro da Alec, utilizzando nient’altro che l’astuzia. Se vuoi sincerartene, guardami pure in testa, non ho nulla da nascondere.

Connor aggrottò la fronte, a quelle parole, e io non ne compresi il motivo.

Duncan lo aveva forse sfidato a fare qualcosa che, tra licantropi, non doveva essere fatto?

Desiderai con tutta me stessa chiederglielo, ma Marjorie rubò tutta la scena a suo favore.

Quest’ultima rise divertita e, accavallando le lunghe gambe abbracciate da fuseaux neri e lucidi, si rivolse a me e domandò querula: “E come avresti fatto, scricciolo?”

D’accordo che non ero alta come lei visto che, senza problemi, Marjorie sovrastava il metro e ottanta, ma addirittura darmi dello scricciolo!?

Presi un gran respiro per calmarmi – il solo parlarne mi faceva rabbrividire di paura e dolore – , e dichiarai: “Si è messo a ridere di fronte al rifiuto di Duncan di concedermi come sua preda per un tète-à-tète nell’erba, e io ne ho approfittato per fargli ingoiare una collana d’argento. Non vi dico il resto per rispetto verso gli stomaci più deboli.”

La parola argento fece impallidire parecchi, e rabbrividire i restanti.

Persino Duncan si tastò la spalla, in corrispondenza della piccola cicatrice che il proiettile aveva lasciato sulla sua carne.

Quel segno sarebbe rimasto a imperitura memoria di ciò che aveva rischiato, pur di difendere un alleato e amico.

Scossi le spalle con un aplomb impeccabile – pur rabbrividendo dentro di me al ricordo del sangue che era gorgogliato dalla bocca di Freki.

Marjorie, fissandomi duramente, si levò in piedi per accentuare il suo dire, ed esplose urlando: “Non ci credo! Tu menti!”

Un attimo dopo, vidi tutto rosso.

E non perché mi fece incendiare di rabbia ma proprio perché, dinanzi ai miei occhi, colò una sostanza rossastra e appiccicosa che mi annebbiò la vista.

Sogghignando soddisfatta, Marjorie mi scrutò mentre io portavo sorpresa le mani alla testa, tastando la fronte dove, a sorpresa, trovai un taglio da cui stava scivolando copiosamente del sangue.

Non riuscii a trovare nessun valido motivo per cui, sulla mia pelle, si fosse aperto uno squarcio simile.

Che diavolo era successo?

Duncan ringhiò furioso per diretta conseguenza, e solo la presenza di Jerome al suo fianco gli impedì di affrontare direttamente Marjorie.

Una simile delicatezza non balenò neppure per la mente di Lance che, alzatosi in piedi, si diresse verso la ragazza e le rifilò un manrovescio così forte da farla crollare a terra con un labbro spaccato.

Le onde di potere, che ora potevo avverire chiaramente, senza la protezione concessa da Lance,  cessarono di colpo.

Fissando allibita Marjorie che, ai piedi di Lance, lo osservava come se avesse voluto scotennarlo con le sue stesse mani, sentii ringhiare Hati con tono lapidario: “Non osare mai più usare il tuo potere su un umano e, soprattutto, durante una sessione di Consiglio. E’ vietato dalla legge del branco. Non costringermi a vederti come una minaccia per il mio Fenrir, Marjorie, o sarò molto più incisivo di così, la prossima volta.”

Potere? Mi aveva colpita… col suo potere?!

Quelle parole mi rimbalzarono nella testa più e più volte, incomprensibili, prima di farmi capire esattamente cosa avessi rischiato pochi attimi prima.

Impallidendo visibilmente, strinsi i denti e, alzatami a mia volta in piedi – la mano premuta sulla ferita – sibilai inferocita: “Sei davvero una bella stronza, ad approfittare dei tuoi poteri per scatenarli contro chi non può difendersi. Pensavo che voi licantropi foste un poco più evoluti di così, ma vedo che non c’è molta differenza tra voi e un branco di teppistelli umani. Sfruttate la vostra forza contro i più deboli!”

Ancora trattenuto da Jerome, Duncan ringhiò con voce ruvida: “Scordati di rimettere piede nel Consiglio per un po’, Marjorie. Questo è un ordine!

Quelle ultime parole riverberarono nella sala come un colpo di cannone e, all’improvviso, seppi cosa aveva voluto dire Duncan parlando di Voce del Comando.

Anche i licantropi se ne resero conto, stupendosi non poco di quell’uscita a sorpresa.

Cauti, però, non dissero nulla per non far inferocire ulteriormente il loro Fenrir i cui occhi, in quel momento, brillavano come ambre cangianti.

Mi avvicinai lesta a lui e, poggiata la mano libera sul suo braccio, mormorai pacata: “Non mi fa male, tranquillo. Mi sono tagliata in modo peggiore facendomi la ceretta.”

Lui rise nervosamente, a quel commento del tutto fuori luogo, e rilassò gradatamente i tratti del viso, permettendo così a Jerome di lasciarlo andare.

Lentamente, le sue iridi tornarono a essere di un caldo color smeraldo.

Solo dopo essermi assicurata che Duncan fosse calmo, mi resi conto dello sguardo di Sheoban, fisso su di me.

Non era infuriata, o contrariata dalle reazioni di Lance e Duncan ma, anzi, sembrava impressionata.

E curiosa.

Voltandosi verso gli altri membri del Consiglio che, in silenzio, avevano osservato lo svolgersi di quell’ordalia senza osare muoversi, Sheoban esclamò seriamente: “Fenrir ha parlato. E noi dobbiamo considerarci equamente colpevoli, per averlo costretto a usare la Voce per bloccare Marjorie. Non ci siamo soffermati a pensare alle regole basilari del clan che, prima di tutto, prevedono il rispetto nei confronti di tutti.”

Le ultime parole, furono sottolineate da uno sguardo glaciale, che fece reclinare il capo a diversi licantropi.

“Per quanto la situazione possa essere spiacevole, noi dobbiamo innanzitutto ospitalità a coloro che bussano alla nostra porta e questo non è stato fatto, lo ammetto candidamente” terminò di dire Sheoban, tornando a fissarmi con espressione apparentemente contrita.

Sbruffona. Prima mi da dell’essere inutile, e poi fa la moralista, pensai irritata.

Jerome mi passò un fazzoletto per tamponare la ferita, mentre Lance tornò a sedersi al mio fianco, saldo come una montagna invalicabile.

Era pronto a difendermi da altri assalti, simili o meno che fossero.

Duncan parve non apprezzare in egual modo il monologo tronfio e saccente della lupa e, guardandomi spiacente, sussurrò: “Ora ti riporto subito a casa, così Lance potrà prendersi cura di te.”

Rivolgendosi ancora a me, Sheoban aggiunse: “Hai ragione ad averci definito scortesi, giovane fanciulla, poiché il trattamento riservatoti da Marjorie, e anche da noi tutti, non è degno di un buon licantropo, ma ricorda… noi non siamo come gli umani.”

“Non lo sarete ma, per il momento, non ne ho ricevuto ampie prove, Lupa Madre” mormorai sommessamente, rammentando ciò che mi aveva detto Duncan sul suo ruolo.

Non dubitai neppure per un attimo che, a suo tempo, fosse stata una Prima Lupa di tutto rispetto, visto quanto ancora era tenuta in considerazione nel branco.

Quell’accenno al suo titolo onorifico, comunque, le fece sorgere un sorriso spontaneo sul viso, subito sostituito dalla stessa maschera impassibile riservatami in precedenza.

Questo mi diede l’imbeccata per testare una teoria che, già da un po’, mi ronzava nella testa.

Sorridendo contrita e reclinando compita il capo, mi alzai lentamente dalla sedia e la raggiunsi, poggiando ossequiosa un ginocchio.

Sotto gli sguardi attenti di Duncan, Jerome e Lance, chinai ancor di più il capo, mormorando umilmente: “Giuro che vi dimostrerò di non essere una bomba inesplosa. Saprò rendermi degna del vostro clan, Lupa Madre. Capisco i motivi che vi hanno spinto a non volermi come vostra allieva per il mio apprendistato, poiché giustamente la mia famiglia avrebbe dovuto provvedere in tal senso, e non l’ha fatto.”

Sbirciai oltre le ciglia, e la vidi annuire soddisfatta.

“Vi prego di credere che mi impegnerò per sopperire alle mie lacune, e ristabilire il controllo sul mio potere. Vi chiedo solo di benedire il mio apprendistato poiché sono convinta che, a questo modo, esso andrà a buon fine” la pregai gentilmente, quasi sfiorando il ginocchio con la fronte.

Ancora un po’, e avrei perso le staffe – non mi piaceva arrufianarmi le persone, ma Sheoban sembrava apprezzare – ma mi trattenni il tempo necessario.

Non ero del tutto sicura che avrebbe funzionato, ma valeva la pena provare.

Ero stata sufficientemente smielata nell’espormi, perciò…

Un attimo dopo, la sua mano si posò sul mio capo piegato in avanti e, dietro un coro di sospiri di sorpresa e brontolii di dissenso, Sheoban asserì sonoramente: “Hai la mia benedizione, fanciulla della luna. Sappi che ripongo in te la mia fiducia ma, se non sarai in grado di rispondere a tale onore, ne pagherai serie conseguenze. Non potremo mai accettarti nel branco, se non supererai la prova. Questo lo capisci, vero?”

“Ne sono consapevole” sussurrai, sempre fissando il pavimento. Approfittatrice che non sei altro!

Duncan mi raggiunse in pochi, rapidi passi e, dopo avermi aiutato a rialzarmi, sibilò: “Ora andiamo. Per stasera, avete già fatto abbastanza danni.”

Alle parole, seguì uno sguardo assassino rivolto ai suoi licantropi che, per evitare guai, preferirono non aprire bocca.

Solo Sheban si permise – e con che altezzosità! – di guardare Duncan in viso, studiandolo con aperto interesse.

Lui sostenne lo sguardo, e questo incuriosì ancora di più la donna.

Mi fu del tutto chiaro. La sorpresa era evidente, in quegli occhi di falco, pur se ne non ne compresi i motivi.

Comunque, annuii, seguita dallo sguardo calcolatore di Sheoban e da quello dubbioso di tutti gli altri membri del Consiglio.

Ancora ammutoliti dalla presa di posizione della Lupa Madre, e dalla rabbia del loro Fenrir, non sapevano più cosa pensare di me.

E neppure io.

Aggrottando la fronte nello scendere le scale, il fazzoletto premuto sul taglio in fronte, mi chiesi cosa  stesse macchinando Sheoban.

Perché era chiaro che, con il suo potere, aveva percepito qualcosa che l’aveva colpita, facendole cambiare idea su di me.

Cosa voleva?

***

Non appena Lance finì di sistemarmi la ferita, Jerome mi passò una lattina di Coca-Cola, borbottando: “Certo che Marjorie, stavolta, ha davvero esagerato. D’accordo essere gelose, ma qui si rasenta l’assurdo.”

“Puoi dirlo” brontolò Lance, sistemandosi su uno degli sgabelli liberi della cucina.

“Se ne starà buona per un po’, adesso” sospirò Duncan, ingollando una dose generosa di birra dalla sua bottiglia di vetro verdognolo.

“Ehi, cugino! Era da un  po’ che non ti sentivo usare la Voce. Mi hai fatto venire i brividi, quando le hai imposto quel comando. Per poco, non mi ritrovavo incatenato anch’io all’imposizione” ridacchiò Jerome, dandogli una pacca sulla spalla.

“Come funziona, esattamente, la Voce?” chiesi, curiosa.

Duncan sogghignò al mio indirizzo e commentò sarcastico: “Ora sì che ti riconosco.”

Ammiccai e lui, allungandosi per prendere un sandwich al pollo da un piatto di porcellana bianca, mi spiegò con tono neutro: “E’ come avere le catene ai polsi. Un blocco mentale. Insomma, quando un Fenrir usa la Voce, può imporre ciò che vuole. Per questo, va usata con parsimonia, o si corre il rischio di diventare dei dittatori senza scrupoli.”

“E come si fa a liberarsi dell’imposizione?” replicai, cercando di ignorare il prurito provocato dal taglio fresco.

“Non si può” mi spiegò Lance. “Neppure una lupa forte come Marjorie, può liberarsi. Dovrà attendere che a Duncan sbollisca la rabbia, prima di rimettere piede in Consiglio.”

Fissai Duncan con un sorrisino, e gli domandai: “E quanto pensi che durerà la tua rabbia?”

Lui mi guardò torvo, sfiorando con lo sguardo la benda appena applicata da Lance e, truce, ringhiò: “Parecchio.”

Jerome sghignazzò, subito infilzato dagli occhi gelidi del cugino, che lo zittirono di colpo e io, fissandoli confusa, esalai: “Beh, che vi prende, a voi due?”

“Nulla, nulla” ghignò Jerome, scuotendo il capo prima di afferrare il quarto sandwich della serata. “Adoro mia madre… questi sandwich sono ottimi.”

Sorpresa delle sorprese, una volta giunti a casa di Duncan, avevamo trovato ad attenderci la madre di Jerome.

Con un sorriso di benvenuto e un caloroso abbraccio, mi aveva consegnato un paio di piatti colmi di sandwich, con cui avremmo potuto cenare.

Dopo avermi invitata a pranzo per il giorno seguente, mi aveva dato un bacio sulla guancia e si era dileguata nella notte con la sua Ford Focus.

Era bello sapere di avere un’altra alleata nel branco, vista la serata appena trascorsa.

Annuendo, assentii: “Sì, confermo e sottoscrivo… sono spettacolari.”

“Tu saresti capace di mangiare anche una rana viva” celiò Lance, guardando ironicamente Jerome.

“Addirittura!” rise quest’ultimo, dandosi un colpetto sull’addome liscio e perfetto. “Non sono così di bocca buona!”

“Neppure Duncan, a quanto pare” sogghignai, ritrovandomi addosso i suoi occhi indagatori.

Capì subito che non mi riferivo al cibo.

Aggrottando la fronte, mise una mano sul fianco e mi minacciò, burbero: “Non dire quello che stai pensando.”

Facendo l’innocentina, mormorai: “E a cosa starei pensando, scusa?”

Sbuffando, scosse il capo con aria esasperata e, scrollando dinanzi a sé una mano come a lasciarmi campo libero, borbottò: “Chiedi pure. Non vorrei mai che la tua testa esplodesse per i troppi ragionamenti contorti.”

Ghignai, facendogli la lingua, e chiesi sorniona: “Cos’ha di tanto deprecabile, Marjorie, per non essere annoverata tra le tue papabili mogliettine?”

“E me lo chiedi anche?! Ma non hai visto che razza di carattere ha?!” sbottò lui, sfiorandomi con un dito la fronte ferita. “Pensi che potrei anche solo sopportare una femmina del genere nel mio letto?!”

“Dici che sarebbe pericolosa?” lo aizzai perfidamente, trattenendo a stento una risata.

Mi fissò malissimo e, ingoiando un altro sandwich, ringhiò: “Non intavolerò questa discussione con te. Scordatelo.

“Benissimo” ammiccai, rivolgendo la mia attenzione a Jerome. “Tu che ne pensi?”

Lance e Jerome esplosero in una calda risata di gola.

Mi abbeverai del loro buon umore, sentendo scomparire tutto il nervosismo che, quella strana riunione del Consiglio, aveva lasciato dentro di me.

Certo, non avevo affatto gradito quel primo approccio – avevo sperato davvero in un’accoglienza un po’ più calorosa – ma non era stato quello a innervosirmi.

Era stato scoprire quanto bella fosse Marjorie. Quello, mi aveva quasi uccisa.

La reazione di Duncan di fronte a lei, però, mi aveva più che sorpreso.

Non uno sguardo interessato, neppure un sorriso di circostanza.

La detestava proprio. E una parte oscura dentro di me, sedimentata nei recessi della mia mente, si era compiaciuta di questo.

Quando il mio cervello me l’aveva fatto notare, l’avevo ridotto al silenzio con tutta la mia forza, cercando di non dare peso a quel dolce compiacimento.

Nonostante tutto, però, la mia mente stava ancora galleggiando in quella placida sensazione di vittoria, disinteressata a tutto il resto, anche se io tentavo in ogni modo di badare alle chiacchiere degli uomini accanto a me.  

Non era il momento di pensare a faccende di cuore, visto soprattutto quello che avrei dovuto affrontare di lì a poco.

Dovevo badare innanzitutto al mio addestramento e fidarmi di Lance e Jerome, come mi ero fidata al primo sguardo di Duncan.

Il mio istinto mi diceva di porre me stessa nelle loro mani e, fino a ora, la cosa aveva funzionato più o meno bene.

Sperai continuasse così, nonostante il mio interesse sempre crescente per il padrone di casa, stesse complicando non poco la situazione.

Prendendo un altro sandwich, fissai di straforo Duncan, in quel momento impegnato a zittire il cugino, e borbottai: “Sai, mi chiedevo una cosa, Duncan…”

“Che cosa?” esalò lui, quasi terrorizzato all’idea che la mia mente avesse partorito l’ennesima trovata.

Ridacchiai e chiesi: “Ma voi licantropi avete i letti rinforzati? Sai, vista la forza che avete…”

Duncan mi guardò basito per alcuni attimi, prima di passarsi una mano sul viso e borbottare acido: “Non sono cose di cui discuterò con te, Brianna Ann Smithson.”

Jerome scoppiò a ridere di gusto e Lance, strizzandomi l’occhio, si rivolse a Duncan e celiò: “Ti è capitata proprio una bella gatta da pelare, eh?”

“A chi lo dici” sospirò lui, scuotendo il capo.

Io mi limitai a ridacchiare sorniona.

Gli avrei dimostrato che ero ben più di una gatta.




  
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