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Autore: jas_    03/09/2012    21 recensioni
«Allora, mi vuoi dire o no come mai ci hai messo così tanto a prendere una baguette? Nessuna conoscenza?» mi domandò Carmela, appoggiando le mani sui fianchi.
Alzai gli occhi al cielo, «no» brontolai.
Rimanemmo in silenzio alcuni secondi, «anzi, adesso che ci penso sì» mi corressi. «Non è che sia una conoscenza - precisai - diciamo che ho scoperto che la ragazza che lavora lì è del South Carolina.»
Carmela batté le mani entusiasta, risi lievemente chiedendomi se avesse davvero cinquant’anni quella donna perché a volte ne mostrava venti per come si comportava.
Si sedette nel posto accanto al mio scrutandomi seria, «e dimmi, è carina?»
Scoppiai a ridere piegandomi leggermente in avanti, «ma che c’entra! Non la conosco e non sono interessato!» esclamai, «però sì.»
«E cos’aspetti ad approfondire la conoscenza?»
La guardai sottecchi aspettando che scoppiasse a ridere da un momento all’altro o che mi dicesse “Harry sto scherzando!”, invece era estremamente seria.
«Tra dieci giorni me ne vado» constatai.
«E quindi? Dieci giorni sono più che sufficienti per innamorarsi!»
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Harry e Lennon'
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Giorno 1

 

22 Dicembre

Harry

 
Nonostante avessi passato la serata ad ascoltare i discorsi di mio padre sulla mia istruzione, il lavoro che avrei dovuto fare una volta laureato e tante altre cose che mi erano entrate da un orecchio e uscite dall’altro, non riuscivo a fare a meno di pensare alle parole di Carmela e ai suoi occhi.
Mi sentivo uno sfigato, uno di quelli che passava l’esistenza a guardare le ragazze da lontano senza avere il coraggio di rivolgere loro la parola. Almeno io la parola a lei l’avevo rivolta, pensai, nonostante non sapessi nemmeno come si chiamava. Mi misi a sedere 
di scatto sul letto – solo allora mi accorsi della luce che filtrava dalle tende, probabilmente il sole era già alto nel cielo – e decisi che forse valeva la pena andare ancora in quella panetteria e chiederle il nome, giusto per essere pari.
Mi alzai e mi vestii velocemente, mi lavai e scesi di sotto notando Carmela che stava pulendo il salotto.
«Come mai sei già uscito dal letargo a quest’ora?» mi domandò, senza nemmeno distogliere lo sguardo dallo strano soprammobile che stava lucidando.

Mi arrestai di colpo, non le avrei certamente detto che le stavo dando retta altrimenti mi avrebbe rinfacciato la cosa per l’eternità.
«Manca la carta igienica» buttai lì.
Era una cazzata, lo so, ma era la prima cosa che mi era venuta in mente e dato che mi ero appena svegliato era già tanto che il mio cervello avesse concepito quella frase.

Lei ci pensò su un attimo, «e non fai colazione?»
«Mi scappa» brontolai, «prima quello, e poi la colazione.»
Non le diedi il tempo di rispondere che presi la giacca ed uscii di corsa di casa.
Fortunatamente quella mattina faceva meno freddo del giorno precedente, il cielo era coperto di nuvole grigiastre ma ogni tanto un qualche coraggioso raggio di sole riusciva a filtrare tra le nubi. La strada era già gremita di gente – soprattutto turisti – che si guardava in giro voltandosi a destra e a sinistra e scattando foto a qualunque cosa gli capitasse sottotiro. Accelerai il passo, il supermercato era sottocasa, la panetteria un po’ meno, e Carmela era peggio di un poliziotto, dovevo fare in fretta se non volevo essere scoperto.
Finii quasi per correre, mi arrestai davanti all’entrata del negozio leggermente affannato per lo sforzo. Presi un respiro profondo prima di entrare e mettermi in fila. Cominciai a guardarmi in giro, il locale era deserto e dietro al registratore di cassa c’era una ragazza di colore che non avevo visto il giorno precedente. Lei dov’era?
Quando fu il mio turno ordinai un croissant continuando a guardare a destra e a manca nel caso apparisse da un momento all’altro ma di quella chioma bionda, di quel naso leggermente all’insù e di quegli occhi dal colore insolito neanche l’ombra. Mi rassegnai, probabilmente non era il suo turno.
Mentre porgevo alla ragazza i soldi, fui tentato di chiederle qualche informazione, del tipo quando lei sarebbe stata lì, ma cominciai a sentirmi uno stalker. Non potevo farmi condizionare così tanto da una ragazza che avevo visto per due minuti, la sera prima, in una panetteria. Fosse stata una modella, ma manco quello. Era carina, su quello non c’erano dubbi, ma non era la ragazza più bella che avessi mai visto. Aveva un qualcosa di affascinante, forse la sua voce, così cristallina ma allo stesso tempo melodica, forse il suo sorriso amichevole. Oppure ero io che stavo semplicemente delirando a causa delle strane idee che Carmela mi aveva messo in testa.
Scrollai le spalle cercando di dimenticarmi quei strani pensieri che mi facevo dal giorno prima, era una semplice cassiera che si era dimostrata disponibile perché probabilmente aveva capito che io a Parigi ero come un pesce fuor d’acqua che non vedeva l’ora di tornare a sguazzare nell’oceano, e cioè la mia Inghilterra. Presi il croissant e cominciai a divorarlo sulla via del ritorno, guardai l’ora: erano passati venti minuti e dovevo ancora andare al supermercato. Non potevo tornare a casa a mani vuote o Carmela avrebbe sospettavo qualcosa, anzi, secondo me già lo stava facendo. Però non erano passate neanche ventiquattro ore che io già ne avevo abbastanza di quella storia. Tanto dieci giorni e sarei tornato a casa.
 

Lennon

 
Se c’era una cosa che non ero ancora riuscita a farmi piacere in quindici anni che abitavo a Parigi, quella era il freddo polare che ti accompagnava per tutto l’inverno facendoti starnutire, prendere il raffreddore e la febbre. Soprattutto durante le vacanze natalizie. Fortunatamente fino ad allora io ero ancora sana come un pesce, ad eccezione di un qualche starnuto occasionale causato probabilmente dal drastico cambio di temperatura che c’era tra dentro e fuori casa.
Mi imbacuccai per bene prima di andare al lavoro mettendo oltre al maglione di lana il mio adorato giaccone che mi arrivava quasi a metà coscia, sciarpa, cappello e guanti. L‘unica cosa che stonava con quell’abbigliamento, erano le vecchie e ormai da buttare via Vans blu elettrico che mi facevano sempre congelare i piedi. Ignorando le ennesime proteste di mia madre riguardo a quelle scarpe poco adatte all’inverno uscii di casa dirigendomi con uno strano entusiasmo al lavoro. Quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di quell’anno, pensai, scendendo velocemente le scale mobili che mi portavano verso la metropolitana. In realtà non mi dispiaceva vendere baguettes, croissant e pasticcini quando questo ti permetteva di stuzzicare qualcosa ogni tanto. Inoltre ero sempre stata una tipa piuttosto espansiva e amichevole, adoravo avere a che fare con la gente e per quello mi mettevano quasi sempre alla cassa. Salii sulla metro e andai a sedermi velocemente al primo posto che adocchiai mettendomi le cuffie nelle orecchie e guardando distrattamente il mio riflesso nella finestra di fronte a me nonostante ci fossero solo due fermate prima della mia. Avevo i capelli arruffati, fortunatamente nascosti in parte dal berretto di lana rosa shocking che indossavo, e la mia pelle bianca sembrava quasi quella di un cadavere. L’unica cosa che odiavo davvero di me era il colore smunto che mi accompagnava 365 giorni l’anno. Dato che appena prendevo un po’ di sole diventavo rossa come un gamberetto, piuttosto che abbronzarmi mi mettevo barattoli interi di crema protezione cinquanta prima di andare a fare il bagno o quant’altro.
Mi alzai dalla sedia notando che alla prossima fermata sarei dovuta scendere, non appena le porte si aprirono mi diressi a passo svelto verso l’uscita: avrei iniziato il turno in cinque minuti e se c’era una cosa che odiavo quella era essere in ritardo, figuriamoci il mio ultimo giorno di lavoro dell’anno. In realtà avrei ripreso dopo due settimane ma poco mi importava, dire “ultimo giorno di lavoro dell’anno” faceva figo.
Aprii la porta della panetteria con quasi il fiatone, feci un sorriso a David che mi stava aspettando e mi diressi nel retro per liberarmi della giacca e mettere il grembiule della divisa. Decisi anche di legarmi i capelli che quel giorno erano più che osceni del solito e tornai in negozio.
«Com’è andata la mattinata?» mi domandò David non appena mi vide.
«Uhm bene» sospirai, «ho dormito fino alle undici e poi ho guardato “Il Re Leone” con Joseph. A te?»
Lui mise a posto una torta esposta in vetrina prima di prestarmi attenzione, «ho finito di fare i regali di Natale.»
Lo guardai sorpresa, «di già?»
David rise, «ti ricordo che mancano tre giorni a Natale, cosa dovrei aspettare?»
«Io non ne ho fatto neanche uno» borbottai corrucciata, aprendo un pacco di monete da 10 centesimi che misi in cassa, «andrò domani visto che ho la giornata libera» annunciai, mostrando un sorriso a trentadue denti a David, che avrebbe lavorato anche durante tutte le vacanze.
«Vaffanculo» rispose lui, battendomi sul sorriso dato che aveva la bocca grande come una caverna.
Scoppiai a ridere proprio mentre entravano alcuni clienti, mi morsi il labbro inferiore cercando di trattenermi e li servii.
Tra una risata e l’altra nei pochi minuti liberi che avevamo, il pomeriggio passò in fretta. Adoravo lavorare con David, era simpatico, divertente, quello che ti serviva per trascorrere bene una giornata di lavoro.
Mi appoggiai al bancone esausta guardando fuori dalla vetrina la luce che ormai stava scomparendo, una cosa che odiavo dell’inverno erano le giornate troppo corte. Il locale era semi-deserto, l’ora di punta in cui tutti venivano a comprare il pane era passata così David aveva approfittato della calma per uscire sul retro a fumarsi una sigaretta ed io ero rimasta lì da sola a osservare le persone che camminavano frenetiche per i marciapiedi con sacchetti di tutti i colori e le dimensioni in mano.
Proprio in quel momento la porta si aprì, lasciando entrare una vecchietta arzilla con due bambini e dietro di lei... Harry.
Come non dimenticarselo quel ragazzo, l’inglese smarrito per Parigi che non capiva niente di francese.
Servii con calma l’anziana con quelli che probabilmente erano i suoi nipoti e poi mi dedicai a lui.
«Ciao Harry» gli dissi sorridente.
Lui ricambiò, mettendo in mostra quelle due adorabili fossette che avevo notato anche la sera prima.
«Ciao... Com’è ti chiami?» mi domandò poi.
Risi leggermente prima di rispondere, «Lennon.»
Lui mi guardò confuso ma aspettò un attimo prima di parlare, come se si aspettasse altro da me. «E di nome?»
Scoppiai a ridere all’istante, solo alcuni secondi dopo riuscii a riprendermi. «Mi chiamo Lennon» spiegai calma.
«Ma non è un cognome? Insomma, John Lennon.»
«A quanto pare è anche un nome» osservai divertita, «in realtà non l’ho mai chiesto ai miei genitori.»
Harry aprì la bocca poi la richiuse senza dire niente. «Che figura di merda» lo sentii poi borbottare tra sé e sé.
Ridacchiai, «probabilmente erano dei fan dei Beatles» gli sorrisi.
«Già», ed eccole lì di nuovo, quelle due adorabili fossette.
«Allora, cosa prendi?» gli domandai, riassumendo quel tono formale che avevo avuto con i clienti per tutto il turno di lavoro.
Harry cominciò ad osservare attentamente tutti i dolci esposti in vetrina, «tu cosa mi consigli?» mi chiese poi, puntando i suoi occhi chiari su di me.
Sussultai leggermente, sorpresa da quella domanda.
Mi schiarii leggermente la voce spostandomi davanti ai dolci che stava guardando, «non so, dipende dai tuoi gusti» borbottai. «Se ti piace il cioccolato ti consiglio questo» dissi, indicando un pasticcino, «però a me per esempio fanno venire la nausea, troppo dolci. Preferisco le cose alla frutta tipo questa» indicai un’altra pasta.
Harry annuì pensieroso, «nel dubbio ne prendo una per tipo» dichiarò.
«Okay» dissi, prendendo un piccolo vassoio di cartoncino su cui misi i pasticcini. Chiusi il pacchetto con della carta e l’adesivo del negozio poi mi spostai alla cassa per lo scontrino.
Harry mi porse la carta di credito, la passai nel lettore in silenzio cominciando a sentirmi a disagio nell’essere così osservata. Odiavo essere al centro dell’attenzione e quel suo sguardo era così insistente e intenso...
Gli porsi lo scontrino e lo salutai, tirando un leggero sospiro di sollievo quando si voltò per uscire dal negozio.
Lo osservai attentamente: era alto, molto alto, forse più di un metro e ottanta, e i suoi capelli erano così... Ricci. Non avevo mai visto dei ricci così perfetti ad eccezione che nelle pubblicità degli shampoo. I suoi occhi invece erano di un colore strano che non ero ancora riuscita a definire, non capivo se fossero azzurri o verdi e non avevo avuto la possibilità di osservarli da vicino.
«Che combini?»
La voce di David mi fece sussultare, «ho venduto due pasticcini» dissi.
Lui annuì guardando poi l’orologio, «tra cinque minuti puoi andare.»
Strabuzzai gli occhi, «di già?»
«Sì, tra cinque minuti finisci il tuo ultimo turno dell’anno.»
«E’ volato il tempo oggi» dissi, andando nello sgabuzzino a cambiarmi. Quando uscii David aveva preso uno sgabello e ci si era seduto sopra con l’iPhone in mano. Conoscendolo stava giocando a Fruit Ninja, Angry Birds o qualche altra applicazione che aveva scaricato.
Lo salutai ed uscii dal negozio sentendomi “libera”.
Finalmente iniziavano le vacanze, pensai, prendendo un respiro profondo di quell’aria gelida che mi fece pizzicare subito il naso.
«Avevi ragione te» sentii dire.
Sussultai chiedendomi chi fosse che mi aspettava fuori dal negozio in cui lavoravo ma infondo la risposta la sapevo già. Una voce così calda e profonda non la si dimenticava facilmente.
«Harry?» domandai, voltandomi verso di lui.
Lui annuì sorridendo, «sono un ingordo e mi sono divorato i due pasticcini all’istante. Avevi ragione te, quello al cioccolato è troppo pesante, l’altro alla frutta è sublime.»
Alzai leggermente la testa non sapendo cosa rispondergli.
“Lo so”? Troppo sfacciato. “Sei un maiale”? Troppo maleducato, anche se infondo era la verità perché ce ne voleva per mangiare quei due pasticcini nel giro di cinque minuti.
«Grazie» mi ritrovai a farfugliare, imbarazzata.
Harry si mise le mani nelle tasche del cappotto guardandomi per niente a disagio mentre io avrei voluto scavarmi una fossa.
Odiavo non sapere cosa dire, perché io parlavo sempre, il silenzio mi metteva a disagio.
«Stai andando a casa?» mi domandò a un certo punto Harry.
Ebbi l’istinto di tirare un sospiro di sollievo ma mi trattenni limitandomi ad annuire.
«E’ pericoloso per una ragazza andare in giro tutta sola per la città a quest’ora» esordì, facendo un passo verso di me. Arretrai istintivamente e lo vidi ridere.
«Non ti mangio» proclamò, «voglio solo accompagnarti, se ti va bene. E poi anch’io abito da quella» disse indicando con un cenno della testa la direzione verso cui stavo andando.
Rimasi in silenzio un attimo, «okay» concessi infine.
Lui annuì sorridendomi grato così io ripresi a camminare.
Era stato carino da parte sua offrirsi di accompagnarmi, e non seppi nemmeno io perché accettai. Insomma, era uno sconosciuto per me, l’unica cosa che sapevo su di lui era che si chiamava Harry e che era inglese. Sarebbe potuto essere un serial killer o qualunque altra cosa. Mi voltai a guardarlo, poteva un criminale avere una faccia angelica come quella? Probabilmente no, ed era per quello che non avevo dato ascolto a mia madre che non faceva altro che ripetermi di non dare confidenza agli sconosciuti e avevo accettato che mi accompagnasse.
«Allora» esordii, sistemandomi meglio il cappello di lana in testa, «sei qua in vacanza?»
«Io direi più in esilio» scherzò Harry, voltandosi a guardarmi.
Rimasi ad osservarlo un attimo, era la prima volta che lo vedevo così da vicino e nonostante la luce fioca dei numerosi addobbi natalizi si poteva chiaramente vedere che i suoi occhi erano verdi. Di un verde strano, così puro e cristallino. Limpido. Non come i miei occhi che sembravano uno sputo di un animale strano dato il colore indefinibile verdognolo.
«Perché in esilio?» risi.
Harry si strinse nelle spalle, «non sono in vacanza, i miei sono divorziati e mi hanno obbligato a passare ancora il Natale da mio padre nonostante abbia già diciotto anni. Però questa è l’ultima volta, giuro» borbottò, quasi infastidito.
«Disprezzi così tanto Parigi?»
«Non è che la disprezzo. Odio stare con mio papà, qua non conosco nessuno e più che stare a casa o uscire a prendere il caffè c’è ben poco da fare se si è soli.»
«Ora hai trovato qualcuno che ti fa compagnia» gli sorrisi rassicurante rendendomi davvero conto solo dopo di ciò che avevo detto.
Insomma, erano dieci minuti che parlavamo e su di lui sapevo solo che si chiamava Harry, era inglese, i suoi erano divorziati e suo padre abitava a Parigi. E che aveva diciotto anni, quindi la mia età.
Un serial killer non poteva avere un viso angelico come il suo e solo diciotto anni – a meno che non fosse stato cresciuto come un bambino soldato – ma quella frase era alquanto patetica. E un po’ da gatta morta, forse. Okay che ero una tipa espansiva, logorroica, chiacchierona ma quello forse era fin troppo anche per me.
Vidi Harry ridere, probabilmente si era accorto del mio conflitto interiore. «Beh, grazie.»
Altro sorriso, di nuovo quelle incantevoli fossette avevano fatto capolino ai lati della sua bocca. Ci avrei scommesso la mia paga mensile che con quelle cuccava di brutto in Inghilterra.
«Ah, dobbiamo prendere la metro» dissi, accorgendomi di essere arrivata alla fermata.
Harry annuì e mi seguì giù per le scale, proprio quando raggiungemmo il binario giusto, la metropolitana arrivò.
«Abiti molto distante da qua?» mi domandò Harry, osservando la pianta della linea gialla.
Scossi la testa, «due fermate. Ma tu mica abitavi dalle mie stesse parti?» lo presi in giro.
«In realtà era una bugia, io abito dalla parte opposta» ammise l’inglese, sorridendomi sornione.
Scoppiai a ridere, «l’avevo capito. Figurati se un inglesotto altolocato come te abita dove vivo io!»
«Non potevo di certo lasciare che una donzella indifesa prendesse da sola la metropolitana quando fuori è già buio» spiegò lui, con l’aria di chi sa il fatto suo.
«E’ da anni che lo faccio, e sono ancora viva» ribattei.
«Ma chi ti dice che proprio stasera non sarebbe arrivato un malintenzionato a rapinarti?» insistette, «anzi, guarda quello di fronte a te, sembra un bandito.»
«Abbassa la voce o ti sente!» lo ripresi, dando un’occhiata veloce all’uomo di cui stava parlando che in realtà non aveva nulla di losco.
Harry scoppiò a ridere, «stiamo parlando inglese, cosa vuoi che capiscano?»
«Magari lo parla, che ne sai tu?»
Il riccio alzò gli occhi al cielo, sentii la voce registrata chiamare la mia fermata così mi alzai e trascinai anche lui fuori dalla metro.
«Anche in Inghilterra fai fare figure del genere alla gente?» gli domandai, mettendomi a braccia conserte.
Harry rise, «sei tu che ti preoccupi troppo, cosa vuoi che capiscano se parliamo veloce?»
Non gli diedi retta e cominciai a salire le scale che portavano verso l’uscita, «tutti studiano l’inglese a scuola qua, e poi quel tizio non aveva niente di pauroso. Sembrava un tipo per bene.»
Harry mi raggiunse con soli due passi lunghi quasi il doppio dei miei, «se lo dici tu.»
Cominciò a guardarsi in giro leggermente spaesato, «non sono mai stato qua.»
«Siamo vicino alla Bastiglia» spiegai, «e al cimitero dov’è sepolto Jim Morrison. Sei sicuro di sapere tornare a casa?»
Lui annuì convinto, «basta prendere la metro al contrario, non è difficile.»
Secondo me si sarebbe perso, anzi, ne ero quasi certa.
«A Londra c’è la metropolitana?» gli domandai.
«Sì, ma io non abito a Londra.»
«E dove abiti?»
«A Holmes Chapel, un paesino un po’ in mezzo al nulla.»
«E sei sicuro di riuscire a cavartela in una metropoli come Parigi?» scherzai.
Harry annuì convinto e io mi arrestai: ero arrivata a casa.
«Okay, io abito qui» dissi indicando la palazzina alle mie spalle, «nel caso non dovessi trovare la strada di casa» cominciai a frugare nella borsa alla ricerca di una penna, «questo è il mio numero.»
Gli presi il braccio e glielo scrissi velocemente, «non esitare a chiamarmi.»
«Va bene capo», Harry mi sorrise per l’ennesima volta, e nonostante ci fossero sì e no zero gradi lì fuori, io ero certa che mi sarei sciolta da un momento all’altro.

-

Ecco qua il primo capitolo, dove Harry si fa coraggio e si ripresenta da Lennon :D
Il nome è un po' insolito, lo so, ma si chiama così la figlia di Pierre Bouvier e appena l'ho scoperto mi sono innamorata di sto nome HAHAHA
So che forse il capitolo è un po' lungo, ma io avevo in mente di strutturare la storia in dieci capitoli, ognuno dei quali racconta un giorno. Ne ho già scritti cinque e sono lunghi tipo il doppio dei miei soliti delle altre storie. La mia paura è quella di annoiarvi quindi se li trovate un po' pesanti basta che me lo dite e vedrò di dividerli in due :)
Ah, altra cosa, essendo poi così lunghi i capitoli - e così pochi - pensavo di aggiornare sta storia tipo una volta a settimana, anche perché tra un po' inizia la scuola e non so quanto tempo avrò per andare avanti e odio non avere capitoli già pronti çç
Credo di aver detto tutto, vi ringrazio per le recensioni e per aver aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate. Spero di non deludervi! :D
Jas


 



«Ma non potevamo prendere l’ascensore?» brontolai, mentre salivamo verso il secondo piano.
«Che sfaticato che sei» mi riprese Lennon accelerando ulteriormente il passo.
Facevo fatica a starle dietro, nonostante avesse le gambe di dieci centimetri più corte delle mie quell’essere era un uragano di energia.




   
 
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