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Autore: Belle_    03/09/2012    11 recensioni
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore. Ed era tremendo trovarsi sotto una volta così agghiacciante e morbida, meravigliosa e terribile.
* * *
...se perdessi la memoria, a chi crederesti?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Outer Senshi, Seiya, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna serie
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2) Color Luna



C'era qualcosa in quel sogno ricorrente che la infastidiva, la spaventava quasi.
All'inizio, Usagi aveva persino paura a chiudere gli occhi, paura di addormentarsi perché le veniva sempre in mente il ricordo di quel Mamoru affranto, dispiaciuto, combattuto per la sua amnesia. E non dimenticava il volto provato della madre, del padre e di sua sorella, volti spezzati, portati alla deriva.
All’inizio cercò di non dormire, aveva paura di non svegliarsi più, ma la stanchezza vinceva sulle sue palpebre e lentamente si addormentava, cullata in uno stato insicuro dove non c'era altro che bianco.
Stanze vuote, incolori. Porte grandi e ceree, porte vecchie con grandi graffi. C'erano finestre con i vetri rotti, con venature bianche gelide, finestre che la barravano in una casa colma di mura immense e accecanti, finestre che le mostravano ombre che si muovevano energicamente oltre il vetro e che, in qualche modo, capiva che stavano cercando lei.
Sentirsi intrappolata nella sua amnesia era inevitabile.
Si mordicchiò il labbro inferiore, mentre ripensava a quello strano sogno. Stava scendendo dalle scale di marmo dell'ospedale con sua madre, con la donna che si era presentata come sua madre e che non riconosceva, con la maglia di lana tra le mani e un sorriso lasciato a metà dal suo viso graffiato.
Scendeva in silenzio.
Si sentiva a disagio accanto a quella donna alta, mora, dall'aria di chi è perennemente arrabbiato con il mondo, anche se sentiva che c'era qualcosa di forte tra di loro. Qualcosa di forte come un legame eterno. All'inizio aveva persino pensato che non poteva essere sua madre, vista la differenza fisica tra di loro e la differenza degli animi che riusciva a vedere dentro i suoi occhi duri e color cioccolato.
Erano due opposti in continuo ciclo, Usagi lo sapeva.
E, proprio mentre scendeva l'ultimo scalino, vide Mamoru che incedeva verso di lei con l'espressione interdetta e corrucciata, stringeva una rosa bianca in una mano e il casco integrale da motociclista nell'altra. Così dimenticò il cruccio riguardo alla madre.
Si fermò davanti a lui, lui si fermò davanti a lei, e si guardarono negli occhi, ognuno alla disperata ricerca di qualcosa dentro gli occhi dell'altro.
«Ti mandano a casa?», le chiese con un tono di voce intimidatorio.
Le porse il bocciolo di rosa bianca, impacchettato per bene dalla carta blu, con uno strano sorriso che gli aveva visto quasi sempre negli ultimi giorni. In contraddizione con il tono di voce appena usato.
Usagi la afferrò con un sorriso, accostandola al naso per assaporare il profumo fresco che sapeva di rugiada e di innocenza, e sentì le briciole del profumo di Mamoru sui petali della rosa. Era un profumo forte, speziato, dolce. Era un profumo che sapeva di amare. Sapeva, ma non ricordava.
«Mi piacciono le rose bianche?», chiese, aprendo gli occhi.
Mamoru davanti a lei rimase inibito, la guardava con la bocca socchiusa e con gli occhi fissi sulle sue labbra, quelle stesse labbra che giorni prima Usagi gli aveva negato appena sveglia. Si sforzò di guardarla negli occhi, di vedere dentro di lei tutto il vuoto che si era portata l'amnesia, e le disse: «Preferisci le rose rosse».
«E perché mi porti quelle bianche?». Era un po' confusa.
Mamoru fece spallucce, sorridendo amaramente. «Tanto non ricordi niente, che senso ha portarti qualcosa di cui non ricordi il gusto?».
Le stava dando una colpa, come se lei avesse voluto perdere la memoria volontariamente, come se a lei fosse piaciuto perdere tutto quello che aveva costruito in diciotto anni.
Già, ma cosa aveva costruito in diciotto anni?
«E allora perché continui a venire?», si difese.
Mamoru capì il senso della domanda, si avvicinò al suo volto e si abbassò per poterla guardare bene negli occhi. Afferrò la sua testa bionda e l'accostò alla sua, cozzando, ma attento che anche quel contatto potesse scatenare un nuovo rifiuto.
Invece rimase lì: sotto i suoi occhi, a guardarlo e ad aspettare che parlasse.
«Perché tu mi ami», sussurrò infine. Arreso, esasperato.
«Questo lo so, non sono stupida».
Fu una risposta del tutto involontaria, uscì e basta, ma non poteva certo negare di sapere che amava quest'uomo che le stava davanti. Era l'unica cosa che era rimasta dentro di lei, dopo il suo risveglio.
«Almeno questo non l'hai scordato», commentò, acido.
«Tu non ti scopri mai, vero?», lo prese in contropiede. «Vieni a trovarmi perché io ti amo e non perché sei il mio quasi-fidanzato?».
Nonostante non ricordasse chi era quel Mamoru e di come lo aveva conosciuto, di come lo aveva amato e di come lui amava lei, Usagi aveva capito nei giorni in cui era rimasta in ospedale che era una persona schiva, un po' fredda e molto riservata. Era una persona che non si faceva raggiungere mai da nessuno, una persona che viveva delle sue insicurezze e ne faceva una corazza impenetrabile. Come un eremita.
Sapeva di odiare tutto quel silenzio di Mamoru, sapeva che nel passato lei era stata molto chiassosa, sapeva che unire quei due ingredienti non era un'ottima idea. Perché erano due eterni opposti in continua attrazione. Due mondi che non si fondevano bene.
«Le cose non sono così semplici, Usagi. Un tempo lo sapevi».
Si allontanò e rinunciò a baciarla, come aveva desiderato ogni notte mentre lei era confinata in quel coma maledetto. E mentre il mondo non smetteva ancora di vorticare e recargli dolore. Tutto a causa di una serata difettosa. Si era ripromesso che se fosse tornata quaggiù, le avrebbe dato sempre un bacio. Uno profondo, vero, uno come quelli che non le aveva dato mai.
Soffiò un sospiro affranto, inchiodando gli occhi di Usagi.
«Un tempo ricordavo», lo ammonì.
Sorrise a malincuore, Mamoru, e si drizzò con la schiena. Notò che aveva scorto la figura di Ikuko a qualche passo distante da loro.
«Buongiorno, signora Tsukino», disse educato.
«Mamoru», biascicò a denti stretti. Sua madre lo aveva salutato con freddezza.
«Le dispiace se prima accompagno Usagi a prendere un gelato?», chiese, voltandosi completamente dalla donna.
Il volto di Ikuko si impietrì quasi istantaneamente, schioccò uno sguardo truce proprio a Mamoru e scosse la testa. «
E con cosa? Con quella motocicletta? Con quella macchina per uccidere. No, non ci pensare, Mamoru».
Il sospiro di Mamoru lo sentì addosso, un sospiro davvero stanco. Forse un po' arrabbiato, ma pervaso da una spossatezza languida.
«Be', signora, quella macchina per uccidere a me ancora non ha fatto nemmeno un graffio», rispose un po' offeso. «Comunque, vorrei accompagnarla a prendere un gelato alla gelateria che sta qui di fronte. A piedi».
Ikuko guardò Mamoru con un nuovo sguardo arrabbiato, con le labbra strette e stropicciate tra loro, come se avesse voluto dirgli chissà quale dolore, forse dargli una colpa davvero grossa, ma poi guardò sua figlia. Proprio quella ragazza che aveva commesso uno dei gesti che mai si sarebbe aspettata, proprio quella figlia con la quale litigava ogni giorno, quella figlia che aveva visto inanimata e che le aveva spezzato il cuore solo nel vederla con gli occhi chiusi e su un lettino d’ospedale.
«E va bene, andate pure, ma tra mezz'ora vi voglio qui».
Mamoru scosse la testa, tenendosi dentro qualcosa da dire, ma afferrò le spalle di Usagi e la portò con sé oltre la muratura dell'ospedale, sempre tenendola stretta. Sempre guardandola con la coda dell'occhio, come se avesse potuto sfuggire da lui. Ma Usagi non sarebbe scappata dal calore della sua pelle, le dava una sicurezza quasi maledetta e sapeva che non avrebbe voluto rinunciarci.
Mamoru sentì Usagi accucciarsi al suo torace, sentendosi rilassato nel poter finalmente risentire il suo corpo contro il suo e il profumo dei suoi capelli che gli solleticava il naso. Per lui, quello, fu uno di quei momenti che avrebbe ricordato a vita, un pezzo di pace poco per volta si riappiccicava al suo cuore e ne era solo felice. Sì, felice. Una felicità tremenda.
Usagi teneva stretta la rosa e sentiva ancora quel fuoco bruciare in qualche parte introvabile, sentiva ancora le lingue di quelle fiamme che pizzicavano le ferite sotto l'addome e dentro il petto. Cercavano di bruciare il suo cuore, forse?
Doveva ricordare qualcosa di importante, doveva fare qualcosa, e non le veniva niente alla mente e le pareti bianche si facevano più alte, più insormontabili. E il fuoco avvampava in quel posto nascosto con più forza. Con più crudeltà, trascinandola nell'oblio.
Una mano di Mamoru premette distrattamente contro una sua spalla e lei si sentì pervadere dal senso di benessere, una sensazione così chiara e potente che decise di voler rimanere lì per sempre.
«Mi piace mangiare il gelato?», chiese, cercando di intrattenere una conversazione.
Lui stava ordinando i suoi gusti preferiti, cioccolato e liquirizia con piccoli confetti di cioccolato sulle palline gelate, e le diede un'occhiata di sbieco.
«Da matti e, appena lo mangi, ti senti sempre in colpa».
Usagi ebbe un moto di rabbia. «E allora perché vuoi farmelo mangiare? Accipicchia!».
Mamoru le porse il cono con dolcezza e ridacchiò, guardandola trafelata e infastidita dal suo comportamento sempre un po' immaturo. Ma lui era sempre così con lei: amava vederla in difficoltà, amava prenderla in giro. Qualcosa non era cambiato, si disse.
«Ne è valsa la pena», commentò.
«Se lo dici tu... », giudicò lei e iniziò il suo gelato.
Il gusto giunse dritto al cuore e gli occhi blu di Usagi si spalancarono improvvisamente, affranti e disgustati da un forte dolore. Anche quel gusto le suggeriva qualcosa, voleva ricordarle un evento, ma, mentre si sforzava nel capire il messaggio che Mamoru aveva nascosto nel gelato, le venne il mal di testa più acuto che avrebbe ricordato.
Chiuse gli occhi, lanciando a terra il gelato e stringendosi le meningi con le dita vanamente.
Mamoru accorse, massaggiandole le tempie con le sue dita affusolate e sicure, il volto verso il suo e gli occhi spaventati. Il suo corpo era chino verso quello di Usagi, completamente pieno di lei e dei suoi umori. Il contatto delle sue mani ebbe la capacità di calmare il pulsare prepotente delle sue vene, godendo appieno delle carezze tondeggianti che percorrevano il suo viso.
Chiuse gli occhi, rilassata.
«Stai meglio ora?», le soffiò dolcemente.
Il soffio leggero raggiunse la pelle che attorniava il suo sguardo e dovette aprire gli occhi, a malincuore.
«Sta passando...», affermò tremante.
Cercò di non morire sotto le sue mani. Perché sotto quel tocco così semplice si velava un'intimità sofferta.
Mamoru cercò di sorridere, ma la tristezza era più forte e distorse il suo sorriso infelice, facendo comprendere a Usagi quanto dolore c'era dentro la sua prima vita. Con un impeto furioso, non si trattenne e l'abbracciò a sé, come se ogni fibra delle sue braccia avesse potuto ridarle ogni ricordo perduto, come se abbracciarla fosse una cura contro l'amnesia. L'unica cura.
«Mamoru...», cercò di dire.
Lui la stringeva con troppa forza e il fuoco nascosto dentro Usagi scoppiettava, aumentava, si innalzava. La stava uccidendo, senza un motivo.
Alzò appena gli occhi e vide quelli di Mamoru che la inghiottivano nella loro profondità, la rapivano per portarla dentro quell'impeto intenso, dentro un cielo scuro e pieno di fulmini che saettavano contro il suo cuore. Dentro quel cielo lei era già morta...
«Ti prego, chiamami solo una volta Mamochan. Una sola volta».
Adesso soltanto cominciò a considerare la reazione di Mamoru, ne fu confusa e abbagliata nello stesso momento. Quel dolore colpiva anche lei.
«Come?».
«Mamochan. Mi prendevi sempre in giro chiamandomi così. Amavi chiamarmi così davanti alla mia ragazza», confessò con voce rotta.
Non ci fu il tempo di registrare ogni sua espressione, tutto si confuse e si deformò contro il suo cuore già arso da un fuoco lontano e maligno.
«Davanti alla tua ragazza?», chiese sbigottita.
Mamoru annuì, lasciandola andare con un certo turbamento, sofferente.
«Ora capisco quel quasi-fidanzato», disse, odiandosi. «Siamo amanti, allora?».
Lui accennò ad una smorfia un po' disgustata, ma tornò subito glaciale.
«Oh, no, credimi», disse, sorridendo.
«Non sarò venuta a letto con te, vero?».
Le mani di Usagi si incontrarono per iniziare a strofinarsi l'una contro l'altra, con agitazione, con trepidazione. Con dolore.
«No», si accigliò. «Ti sarebbe dispiaciuto?».
Dispiaciuto. L'unica cosa che trovava piacevole era il colore dei suoi occhi, tutto adesso le dispiaceva, tutto le confermava una vita che non voleva.
«Sei fidanzato, santo cielo! Mi sarebbe dispiaciuto moltissimo, per la tua ragazza. Non avrei mai potuto ferire un'altra persona così».
Forse voleva urlare, ma lo sussurrò, colta da una sofferenza che non era sua e che purtroppo sentiva appropriarsi del suo cuore, delle sue membra. «
Non sono una persona così cattiva, vero?», domandò sempre con un sussurro.
Tremare fu solo un riflesso, ma capì che era davvero spaventata.
Mamoru tremò, ma non lo disse a Usagi. Si avvicinò a lei, accarezzandole il viso con affetto e dolcezza con quelle dita perfette. Solo per rassicurarla, solo per salvarla almeno una volta. Le rispose con i suoi occhi, addolcendoli.
No, non lo sei, dissero quei pozzi angelici.
«Per fortuna, la tua purezza è rimasta intatta anche dopo questa maledetta amnesia», mormorò con un debole sorriso. «E anche la tua virtù con me non è stata profanata, tranquilla. Non sei una tipa tanto facile, anche se l'ho desiderato più di una volta».
Forse lo aveva desiderato anche lei, ma non volle scoprirlo.
«Come puoi pensare una cosa simile?». Usagi era profondamente provata.
«Cosa dici?». Le fermò le mani con le sue calde, lunghe, perfette.
«Hai una ragazza. Come puoi pensare di andare a letto con un'altra donna? Come puoi pensare di venire a letto con me?».
La testa corvina di Mamoru si mosse in un cenno di negazione, stropicciò le labbra in una smorfia di disgusto, in un dolore disgustoso che la pungeva.
«Stiamo parlando di te, Usagi», biascicò a denti stretti. «Stiamo parlando di te e me, gli eterni attratti che si sono sfuggiti per una vita. Se solo ricordassi anche una piccola parte di tutto ciò che ci circondava, non saresti così dura contro i miei pensieri».
Gli eterni attratti. Sfuggiti per una vita.
Ma di che vita stava parlando? Quale mondo circondava quella Usagi lontana che era stata per diciotto anni?
«Ma io non ricordo niente e nemmeno voglio ricordare questa tresca orribile. Non voglio essere una ragazza così, non voglio ferire un'altra persona. Non voglio, non voglio!».
Usagi prese a piangere fortemente, sentendosi sempre più spaesata dentro questa realtà così cattiva, così lontana. Non si riconosceva, non sentiva vere quelle parole, quelle verità disperate che sentiva dire da un uomo altrettanto disperato. Non poteva essere lei una persona del genere, non poteva credere che il suo cuore fosse legato ad un uomo già impegnato, un uomo che aveva già amato un'altra donna, non poteva credere che tutto quel silenzio nella sua mente serviva a nascondere una delle cose peggiori al mondo. Era una traditrice. Una che aveva sbagliato tanto e a lungo.
Mamoru le accarezzò una guancia, le diede la sua mano per farla alzare dalla panchina e la strinse con un solo braccio. Abbassò la testa.
«Credimi, Usako: appena ricorderai, sarai meno dura con te stessa. E con me», le sussurrò.
Quell'ultima frase fu una supplica, una richiesta di perdono silenziosa e disperata. Una supplica implicita, tipica di Mamoru.
«Tu non puoi immaginare come io mi senta spaccata a metà, adesso. Accidenti, non ricordo assolutamente niente della mia vita ed ora vengo a conoscenza che ero una poco di buono! Una che ruba i fidanzati! E la cosa peggiore è che non ricordo assolutamente niente di tutto questo!».
Usagi iniziò a dimenarsi, a strofinare le mani con quel fare ossessivo, a odiarsi così fortemente che una parvenza di un ricordo le tornò nel cuore. Si era odiata per tutta la vita, lei.
Mamoru la bloccò nuovamente, trattenendo i suoi comandi. Le impose una rigidità, un appoggio solido.
«Sta' calma, respira».
Lei fece guizzare i suoi occhi dentro quelli di Mamoru e sentì con dolcezza che la paura iniziava a sciogliersi, a cambiare forma, a diventare un ricordo sparso nel color antico che sapeva di buono, che sapeva di casa. Ma era ancora troppo lontano da lei, troppo flebile per scontrarsi con le mura di amianto bianco che ostruivano la sua mente. Riprese il respiro regolare e afferrò un suo braccio muscoloso con una forza disperata, conficcando le unghia nella sua pelle, sentendosi così inebetita sotto quegli occhi color cielo da dover trovare riparo. Così incapace di avercela contro se stessa per averlo amato.
Seppe che qualunque memoria le fosse tornata, Mamoru sarebbe rimasto accanto a lei, a sorreggerla, a fermarle quel brutto vizio delle mani, a farla respirare, a farle da scudo benché il vero pericolo fosse lui. Amarlo significava amare la propria malattia.
«Va meglio?».
Usagi annuì.
Lui non ne fu molto convinto, ma credette ai suoi gesti silenti e le afferrò una mano, portandola con sé. Oltre la gelateria, oltre l'amnesia.
«Andiamo», pronunciò un po’ indeciso.
Usagi lo seguì con lo sguardo basso.
Proseguirono verso l'ospedale in un comodo silenzio, ancora stretti l'uno all'altra in una sorta di catena di bilanciamento. Si amavano, in qualche modo Usagi e Mamoru avevano avuto un passato insieme, e cercavano di trovare il giusto incastro in quel groviglio di fili spinati.
Arrivati davanti al cancello, Mamoru sospirò e si diresse verso la sua motocicletta, lasciandola andare senza dire una parola. Lasciarsi fu un vero dolore interno che non mostrò, per orgoglio.
Usagi rimase stupefatta davanti a quella modella metallica, blu cobalto, scintillante sotto quel timido sole di dicembre. Sembrava essere una parte di Mamoru, lo raccontava nel silenzio del parcheggio. Forse era proprio quel silenzio a parlare di lui, di quel pezzo di lui.
Ne sorrise, dolcemente.
«Mamoru...», lo chiamò.
Mamochan, lo chiamò dentro sé.
«Sì?».
Lui si voltò, prima di infilarsi il suo casco scuro, e le rivolse uno di quei sguardi penetranti che le avrebbero lasciato addosso troppo brividi. Per un momento dimenticò cosa volesse chiedergli, poi parlò.
«Mi piacciono le moto?».
Mamoru annuì, sorridente. Forse felice, ma fu una flebile parvenza.
«Soprattutto i motociclisti», ammiccò.
Lei non poté far altro che arrossire; dentro quell'occhio socchiuso e quell'affermazione c'era un passato condiviso, un'allusione timida e sincera ad un amore travagliato e intenso. C'erano loro, ciò che erano stati.
«Che bel colore...», commentò.
Passò un dito sulla carrozzeria blu scintillante con tanta delicatezza, sentendo di toccare una parte molto intima di Mamoru.
«E' color luna», disse dolcemente lui.
«Color luna? Ma la luna è bianca», lo corresse.
Mamoru annunciò un lieve sorriso e abbassò la visiera, nascondendo uno sguardo addolorato, accese la moto e rombò atrocemente poco prima di partire. Un ultimo cenno ad Usagi con la testa e partì più veloce della luce, mentre il respiro graffiante ruggiva contro il cielo, contro il mondo. Contro quell'amnesia che gli aveva tolto ogni colore addosso.
Lei si sentiva debole e scoraggiata, ma nello stesso tempo affascinata da quel colore insolito della moto e dai movimenti enigmatici e affascinanti di Mamoru. Da Mamoru solamente che era una parte integrante della sua vecchia vita, forse l'unica parte.
Alcuni passi la raggiunsero e trovò sua madre al suo fianco.
«E' tutto ok, tesoro?», le chiese, mentre in macchina.
«E' tutto ok», confermò, infilandosi in auto. «Se sapessi cosa vuol dire ''tutto ok''».



Tre ore dopo, Usagi se ne stava seduta nella sua cameretta, inginocchiata su un morbido cuscino e messa di fronte al piccolo tavolo pieno di fotografie e fogli di carta bianca. Ancora immacolati.
Puntellò la penna sul foglio bianco, un foglio vergine che aspettava che un solo nome fosse scritto, e afferrò una tra le numerose fotografie. Fotografie date da sua madre, consigliate dal medico per indurre la memoria a tornare, a ricordare almeno i volti delle persone.
Ma come può un cuore dimentico amare quei volti?
Si accigliò e sbruffò. Prese la fotografia di una notte d'estate. C’era un luogo illuminato da luci di candela, soffuse e tiepide, e colorato da tanti palloncini verdi, un buffet generoso nello sfondo e un gran movimento attorno ai soggetti fotografati. C'era lei, sorridente nonostante il rossetto rosso porpora sulle labbra, flessuosa in quel vestito color ciliegia, elegante, senza spalline e con il punto vita che lasciava scendere la gonna lunga fino a toccare i suoi vertiginosi tacchi bianchi. Bellissima con quell'acconciatura vintage che le scopriva un lato del visino color alabastro, ondulati e vaporosi lungo l'altro lato del volto. Oro brillante che colava su una spalla e portati in avanti mentre la rosa bianca, appuntata sulla testa, le ricordava quanta semplicità poteva esserci dentro di lei e con quanta semplicità amasse quel momento. Felice, portava in mano una torta a forma di mezzaluna con il numero 18 come candeline, mentre con un sorriso splendido si appoggiava ad una ragazza un po' più alta di lei che sorrideva affettuosa alla camera.
La ragazza, che le era vicino, era mozzafiato. Lo riconobbe. Il volto era a forma di cuore, le labbra abbondanti e rosa perla, gli occhi grigi e a mandorla, accentuati dalla matita nera attorno ad essi. Erano letali, tremendi e affascinanti. I capelli erano neri corvini, ondulati e lunghissimi, lasciati sciolti e che ricadevano in avanti, coccolando il viso perfetto e completamente candido. La mano della ragazza mora stringeva la spalla di Usagi con una certa forza, un certo affetto che sembrava evidente dal sorriso di entrambe. Sembravano essere molto amiche.
La osservò ancora una volta, strinse gli occhi e si sforzò. Usagi cercò di ricordare chi fosse quella ragazza e perché si stringevano così affettuosamente al suo compleanno, cercava di trovare il suo nome alla fine di quel mal di testa, ma il bianco ancora accecava la sua mente. Anzi, sembrava aumentare l'ampiezza delle stanze bianche e sperdute, e questo la fece infuriare. Desiderava fortemente abbattere quelle mura di amianto.
Ma con quale forza? Poteva bastare quella di volontà?
Posò la fotografia, un po' con aria disperata, e bevve un lungo sorso dalla sua tazza con i coniglietti bianchi e vaghi richiami della mezzaluna. Era cioccolata calda e, senza ricordare, sapeva che le piaceva moltissimo. Guardò fuori dalla finestra e si rincuorò che oltre quella finestra poteva vedere nitidamente, senza bianchi accecanti che le otturavano la vista, e godé dello scrosciare della pioggia sul tetto spiovente di casa sua.
Casa sua.
Era così strano stare dentro quella stanza, dentro quelle camere che non sentiva sue.
Ma forse sentirsi un’estranea dentro casa sua, per i primi tempi, era una cosa normale, si disse. Trovarsi in una cameretta in cui non riconosceva nemmeno un oggetto, nemmeno una foto dove era ritratto il suo corpo e il suo sorriso era davvero scoraggiante. Non riconosceva nemmeno il proprio viso, a dir la verità, perché aveva perso la coscienza di se stessa e non ricordava come era quella Usagi Tsukino e chi era dietro quelle foto. S
embrava felice in ogni foto; quindi era una ragazza di diciotto anni, aveva un'amica affettuosa ed era felice.
Felice. Sì, l’espressione raggiante non lasciava dubbi.
Per Mamoru, forse?
Si guardò attorno e vide tanti pezzi di una vita sconosciuta, tante lacrime sparse sul letto, forse proprio per lui, tanti segreti sussurrati alla finestra, tanti sogni lasciati a giacere sul cuscino. Tanti ricordi rimasti in pezzi, dietro al suo incidente. Tanti volti annebbiati, tanti sorrisi dimenticati. Era una stanza ricca di ricordi, ma nessuno giungeva alla sua mente.
E' color luna.
Riassaporò l'emozione di un ricordo rimasto nella mente, un ricordo fresco ma che era già così antico, e si domandò che colore era 'color luna'. L'aveva ammirata una sera dalla finestra dell'ospedale e aveva chiesto a sua madre che cosa era quella palla sul cielo e perché brillava in quel modo così maestoso. Sapeva cos'era, ma non ricordava come era fatta una luna. E aveva visto la tinta scintillante e polverosa che rischiarava il cielo blu.
Argento e bianco, colori della luna, ripeté dentro sé.
E sulla motocicletta non c'erano colori simili o caricature stilizzate di essa. Nulla, solo un significato assordante che non afferrava.
Il cielo tuonò spaventosamente e Usagi tremò, gettando un urletto mentre si stringeva come per ripararsi da un nemico sonoro. Un nemico temuto.
Quando la luce del lampo scomparve un secondo dopo, alzò gli occhi verso il cielo arrabbiato e denso di nuvole nere e chiese: «Ho paura dei tuoni?».
«Sì...».
Quando si voltò verso la porta, vide una piccola ragazza che era incerta sull'uscio, timorosa e affranta almeno quanto lei per quella situazione spinosa. Gli occhi scarlatti erano uggiosi , le code che dovevano essere state vaporose erano flosce e oscurate dal mal tempo e il rosa pastello era spento, triste, come la sua espressione sul visino identico al proprio.
Guardarla le fece un certo effetto. Era come specchiarsi. Ebbe un moto di affetto incondizionato verso quella bambina, quella creatura che le avevano detto di essere sua sorella minore, e volle abbracciarla, ma c'era un muro che le impediva di allungare le braccia e stringerla. C'era qualcosa in tutto quel biancore nella sua mente che le diceva di provare del rancore verso di lei, nonostante sentisse il cuore straziarsi di un affetto incommensurabile.
Deglutì e l'affrontò.
«Chibiusa, vero?», le chiese con una punta di rigidità nella voce.
La ragazza annuì seriamente e si avvicinò a lei, sedendosi attorno al tavolino pieno di fotografie. Ogni suo movimento le ricordava sempre qualcosa e questo premette nel petto di Usagi con molta profondità, perché c'era una malinconia trascinata in sua sorella. C’era tensione nell’aria e una forma di imbarazzo.
Chibiusa prese la fotografia che un attimo prima Usagi aveva studiato, la rigirò e commentò: «Che bella serata! Peccato che tu non ricordi dell'emozione quando hai scoperto della festa a sorpresa e di come ti sei abbuffata di dolci, mentre ridevi come una matta».
Usagi, però, di quell'allegria che c'era dentro quel ricordo, trovò solo un enorme fastidio, un magone che non faceva altro che aumentare. Provò della rabbia verso sua sorella perché si permetteva di ricordare cose che doveva sapere lei, esperienze sue che aveva amato e che le erano state portate via da un coma di un mese e mezzo, da una commozione celebrale.
Si sentiva interrotta, lei era un ciclo interrotto.
Usagi si sentiva così: difettosa. A metà. Senza un arto, senza un passato.
Forse Chibiusa si accorse dello stato catartico in cui era, così le toccò un braccio con la punta di un dito e le sorrise.
«Non ricordi nemmeno questa ragazza?», le indicò quell'amica sorridente e bellissima che era con lei nella foto.
Scosse la testa a 'mo di no.
«Lei è Nehellenia, eravate inseparabili».
Non la ricordava, non sentiva nemmeno un senso di affetto verso di lei e lo trovava molto strano, perché aveva imparato ad avere una sorta di sesto senso verso quelle persone di cui non ricordava. Per quei volti senza nomi. Era capace di sentire solo le briciole dell'amore provato per loro, era già tanto per una mente amnetica come la sua. Era successo con Mamoru appena lo aveva visto e con Chibiusa quando le era stata presentata da sua madre.
Dentro di lei c'erano i residui dell'emozioni provate di quella vita non ricordata, sprazzi di amori sentiti tanto sulla pelle e che rimanevano là a solleticare solo le emozioni, senza discendere nella carne e quindi nel cuore.
«Forse è un bene», commentò seccamente. «Non è stata molto gentile con te».
Chibiusa sospirò tristemente e sventolò la fotografia.
Fu in quel momento che Usagi vide quell'ombra nella fotografia, quella figura accostata a un angolo che fissava la protagonista della festa con uno sguardo accigliato e intenso. Con lo sguardo identico al cielo.
Mamoru.
Se ne stava lì, poggiato ad un muro con la schiena e le braccia conserte, la sua camicia rosa chiaro con le maniche arrotolate lungo i gomiti, lasciata fuori i pantaloni di jeans, con il volto adombrato dalla voluminosa chioma corvina. Se ne stava lì, solo, in un angolo, a guardarla mentre lei con la sua vita andava incontro alla maggiore età e forse a voltargli le spalle, se ne stava lì a guardare quella rosa bianca sulla sua testa bionda. E proprio studiando quell'ombra che Usagi ebbe un dubbio, ricordando della rosa bianca che Mamoru le aveva portato quando era uscita dall'ospedale.
Capì che era successo qualcosa tra loro, ma non sapeva spiegarsi la sensazione contraddittoria e contrastante che mangiava lo stomaco. Qualcosa di triste. Qualcosa di doloroso. Forse troppo dolorosa.
Chiuse gli occhi, taciturna più che mai. Cercò di distruggere i muri bianchi inutilmente e si procurò una fitta profonda alla testa, facendo impazzire il sangue nelle arterie. Ma lei desiderava sapere cosa erano loro due.
«Non sforzarti, Usagi. I ricordi torneranno da soli», le disse dolcemente Chibiusa.
Fu un sorriso tiepido e dolce quello che le rivolse Chibiusa, un sorriso amico e che riconosceva lontanamente.
«Come fai a saperlo?».
Ogni risposta che trovava, per Usagi era una nuova domanda da porsi.
«Ogni giorno guarderai dentro i nostri occhi, ogni giorno imparerai ad amarci come se fosse stata la prima volta, nonostante sappiamo che sarà la seconda volta, ed è così che ricorderai. Con le emozioni nuove, troverai le vecchie».
Sì, perché quella che stava vivendo era una seconda possibilità. La versione romantica che aveva dato a tutta quella tragica faccenda era che stava rivivendo la sua vita, dimenticando ciò che in passato aveva vissuto, ciò che nell’adolescenza chiunque avrebbe voluto scordare. Era rinata, dopo l’incidente. Era prima morta per quarantacinque giorni e poi era tornata alla vita, ripercorrendo tutti i passi primari , quelli che si fanno traballando con le mani della mamma che ti attendono, ma con le gambe perfettamente funzionanti.
«Chi te le racconta queste belle cose?», mormorò.
«Tu. Me le raccontavi tu», Chibiusa si commosse.
Usagi la osservò e notò il grande dolore che portava quella sua malattia, era un dolore che ghermiva la cerchia di persone che le erano vicino e doveva far male. Quella era l'altra faccia della medaglia: il dolore altrui.
Le sorrise e afferrò la foto.
«Devo chiamare Nehellenia, allora».
Chibiusa storse il muso. «Perché non chiami Mamoru, invece?», chiese tutto d'un fiato.
Mamoru? Batté le palpebre, incredula.
«Perché proprio lui?», chiese per risposta. Ed era molto infastidita.
«Perché lui è la tua marcia in più».
Credimi, Usako: appena ricorderai, sarai meno dura con te stessa. E con me.
La sua marcia in più. Le sue tende, le sue coperte, le sue fotografie, le sue pantofole, le sue penne, i suoi quaderni, i suoi profumi. Le sue emozioni.
Tutto era suo, eppure nulla sentiva che le apparteneva. Era tutto lontano, vuoto, inutile. Era tutto estraneo.
Perché lui è la tua marcia in più.
Un sospiro forte, una mano traballante sul tavolo.
E' tutto ok, tesoro?
E' tutto ok.

La stanza che vorticava e l'immagine della luna nella sua testa, il mal di testa che si ingrandiva e inghiottiva i suoi recenti ricordi, annebbiando tutto.
Mamochan.
Un tonfo e Usagi cadde a terra, raggomitolata in se stessa, mentre urlava per il mal di testa, per i ricordi accalcati che spingevano contro il muro bianco con forza, con veemenza. Come a voler sfondare tutto dolorosamente.
Un tonfo e la confusione prese possesso della sua mente, sentendo lontane le voci di Ikuko e Chibiusa, un tonfo e i ricordi di qualche giorno prima si mescolavano alla distorsione dei suoni, delle immagini.
Mi prendevi sempre in giro chiamandomi così.
La sua marcia in più. Le sue tende, le sue coperte, le sue fotografie, le sue pantofole, le sue penne, i suoi quaderni, i suoi profumi. Le sue emozioni.
Amavi chiamarmi così davanti alla mia ragazza.
Davanti alla tua ragazza?

La sua ragazza. La ragazza di Mamoru.
Un fiotto pesante nella testa oscurò tutto e Usagi perse i sensi.



 
   
 
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