XIV.
Come promesso da Duncan, la mattina seguente,
di buon’ora, mi accompagnò da una fidata licantropa per un taglio di capelli.
Questo, avrebbe contribuito a rendermi meno
riconoscibile agli occhi della polizia.
Eccitata mio malgrado, entrai nel salone con
un sorriso stampato sul volto e un’energia dirompente in corpo.
Era infantile, lo sapevo, ma l’idea di
giocare a guardie e ladri mi divertiva.
Avvolta subito da un buon profumo di creme per i
capelli, e il classico rumore di phon e di chiacchiericcio femminile, sorrisi
di fronte alla donna minuta e grassottella che mi si parò dinanzi.
Ammiccando nella sua direzione, Duncan mormorò:
“Ciao, Claire… ti prenderai cura di Brianna, mentre io mi occupo della
clinica?”
“Ma certo, Duncan. Per te, questo e altro. La
riaccompagnerà una delle mie ragazze, non ti preoccupare” asserì Claire, dando
una pacca amichevole a Duncan.
“Grazie” soggiunse lui, prima di guardarmi e aggiungere:
“Di lei ti puoi fidare… non ti succederà nulla.”
“Mi fido” annuii, prima di salutarlo con un cenno
allegro della mano.
Come sempre, se ne andò di corsa.
Mi chiesi cosa ci stesse a fare Jerome, se lui non
delegava mai i suoi impegni al suo vice.
“Coraggio, tesorino, vediamo di dare un taglio netto
a questa chioma fluente” sentenziò Claire, accompagnandomi dalle sue ragazze
perché mi lavassero i capelli.
Il solo pensiero di tagliarli mi fece sorgere un
sospiro di disappunto, soprattutto pensando a quanto ci era voluto per avere
una chioma così lunga e ordinata.
Ma non potevo rischiare di essere riconosciuta, e
quel taglio era d’obbligo.
Dopo avermi strofinato i capelli con shampoo e
balsamo e averli risciacquati adeguatamente, una delle ragazze del negozio,
Sophie, mi accompagnò alle poltroncine.
“Hai già in mente che tipo di acconciatura vuoi
fare?”
“Di sicuro, tingerli biondi, del colore delle
sopracciglia” la informai, indicandogliele. “Poi, li vorrei corti e scalati… un
po’ come Joan Jett, per intenderci.”
“Con un viso come il tuo, ti staranno benissimo”
annuì Sophie, lasciando spazio alla sua titolare mentre lei cercava la lozione
adatta per farmi il colore.
Pettinandomi i capelli lunghi e bagnati, Claire mi scrutò
nel riflesso dello specchio, sorridendomi dolcemente per alcuni attimi prima di
constatare: “Eh, sì… un vero peccato, ma è meglio se li facciamo sparire, che
dici?”
“Decisamente. Voglio essere irriconoscibile” annuii.
Un attimo dopo, però, aggiunsi: “Non sono tutte…
come lei…vero?”
“No, mia cara” scosse il capo la donna, sorridendomi
con aria vagamente sorpresa.
Forse, non si era aspettata che potessi percepire
così bene i licantropi. O la loro assenza.
“Ma puoi parlare agevolmente, se ti va. Quando
lavoro, non voglio essere disturbata dalle mie dipendenti, per cui dimmi pure
quel che vuoi sapere, perché nessuno interferirà con la nostra chiacchierata”
mi sorrise benevola.
Ridacchiando, esalai: “Era così evidente?”
“Abbastanza” scrollò le spalle Claire.
“Beh, volevo sapere se lei ne sa qualcosa di wiccan. E poi, come mai si fida di
Duncan, pur sapendo che il Consiglio è incerto su di me e la mia presenza qui”
le chiesi di getto.
Picchiettandosi la spazzola sul mento con fare
pensoso, Claire disse dopo un momento: “Beh, per quel che riguarda le wiccan, so solo quello che sanno tutti,
per cui ti posso essere di ben poco aiuto. Quanto alla tua seconda domanda,
ovvio che io segua lui. Non ho mai
gradito la presenza del Consiglio. Per me, in un branco, deve esserci una sola
persona a decidere, e quella persona è
Fenrir. E a me piace come ragiona Duncan.”
“Capisco” annuii.
In effetti, anch’io trovavo assurdo che Duncan
condividesse il potere, visto soprattutto il tipo di gerarchia vigente
al’interno del branco.
Era come se il Consiglio sminuisse la sua carica.
Ma, ovviamente, non potevo farmi portavoce di un
movimento anti-consigliare.
Non avrebbe avuto alcun senso visto che io, lì, ero
solo un’ospite e l’ultima arrivata.
“Duncan è fin troppo buono e generoso. Capisco
perché voglia esserlo, però credo che si sia punito anche troppo, e per cose
che non ha commesso” brontolò sovrappensiero Claire.
Rizzando le orecchie, chiesi subito: “In che senso?”
Ridacchiando imbarazzata, Claire diede una
sforbiciata precisa ai miei capelli.
“Non badare alle sciocchezze che dico, ormai sono
vecchia e sragiono.”
“Vecchia? Avrà sì e no cinquant’anni” replicai,
sorridendo generosa.
E così, c’era qualcosa dietro al suo comportamento
così altruistico nei confronti del branco!
Claire mi diede un buffetto sul naso, prima di
tornare al lavoro e proseguire nella sua spiegazione.
“Gli unici ad aver conosciuto una wicca degna di tale nome sono Sheoban e
suo marito Connor oltre, ovviamente, a tutti i membri più anziani del branco.”
“Davvero?” mormorai, curiosa.
Annuendo, Claire mi spiegò meglio.
“Si chiamava Lyonors Vaughan, e visse insieme al
branco durante… aspetta… ah, sì, da poco prima della seconda guerra mondiale,
se non ricordo male. Doveva essere attorno alla fine degli anni trenta, più o
meno. Connor guidava il branco con pugno fermo e deciso, ma l’arrivo di Lyonors
lo aiutò a consolidare maggiormente il potere sul clan, specie in un periodo di
tumulti come quello.”
“Quindi… Sheoban e Connor hanno all’incirca
novant’anni?” dichiarai un po’ sorpresa.
“Li portano bene, eh?” ridacchiò Claire. “Sono di
antico ceppo, loro. Come il nostro Duncan. C’è talmente tanto sangue puro, in
lui, da far invidia persino alla nostra cara, vecchia Lupa Madre.”
“Perché ho la netta impressione che questa cosa
infastidisca Sheoban?” ghignai divertita.
“Perché è così, mia cara” ammise lei, socchiudendo
gli occhi mentre mi tagliava la frangia sulla fronte. “Il potere è importante,
per noi licantropi, non puoi neppure sapere quanto.”
“E avere il sangue più puro significa avere maggior
potere?” chiesi allora io.
“Sì. E’ per questo che anche Marjorie è così potente,
pur essendo tanto giovane. I suoi antenati fanno parte dei clan più antichi
dell’Inghilterra. Esattamente come per Duncan, le loro famiglie hanno saputo
intrecciarsi con rami sempre diversi e sempre nuovi per non indebolire la
stirpe, in modo tale da avere sangue puro, anche a distanza di secoli e secoli.”
Scrutandomi con attenzione, sollevò una ciocca e la
tagliò con precisione millimetrica, dopodiché proseguì.
“A differenza di Duncan, che è generoso e altruista,
Marjorie sfrutta il suo potere per non avere rivali nel branco” mi spiegò
Claire, con una punta di sarcasmo. “Se i genitori sapessero come si comporta la
figlia, la Madre Terra li abbia in gloria, probabilmente risorgerebbero dalle
loro tombe per massacrarla di botte.”
“Ne ho qualche idea” borbottai io.
“Può sognare a occhi aperti fin che vuole, quella
gallinella pretenziosa… in ogni caso, Duncan non la degnerà mai di uno sguardo”
sogghignò Claire, divertita.
“E come mai?” Il modo di pensare di Claire mi
piaceva sempre di più.
“Non si conquista così il cuore del nostro Fenrir.
La sua vanagloria la allontana dal traguardo, invece di avvicinarla. E’ troppo
cinica ed egoista, per poter piacere a Duncan” ridacchiò Claire, ammiccando
complice.
“E’ divertita dalla cosa…come mai?” le domandai
interessata.
“Un po’ per ripicca, lo ammetto” scrollò le spalle
Claire. “Avevo proposto a Duncan di sposare la mia Cecille, ma lui ha declinato
gentilmente, dicendo di non sentirsi ancora pronto per un passo simile.”
“E lei non se l’è presa?” esalai, sorpresa.
“E perché dovrei? E’ suo diritto rifiutare le
profferte delle lupe del branco” scrollò le spalle Claire, come se nulla fosse.
“Insomma… ma quante donne gli si sono offerte?” sbottai
a quel punto, curiosa più che mai.
“Tutte le donne nubili e in età da marito del
branco” asserì senza mezzi termini Claire. “Dovrebbero essere circa…
centotrenta, lupa più, lupa meno.”
“Che?!” esclamai, prima di tapparmi la bocca e
contenere la mia sorpresa.
Tutto mi sarei aspettata, tranne una cifra del
genere. Ma quanti erano, nel branco di Duncan?!
Claire mi sorrise sorniona, spiegandomi: “Siamo
qualche migliaio, se vuoi saperlo. Siamo uno dei branchi più numerosi
d’Inghilterra. Quello di Skye, per esempio, conta solo un centinaio di
esemplari. Mentre quello londinese ci supera di parecchie centinaia.”
“Ah… capisco” esalai, sgranando due occhi a bottone.
Non faceva specie che, fin dal loro arrivo a
Matlock, Duncan fosse stato perennemente al telefono.
Chissà quante diatribe si erano accumulate, nelle
settimane che noi avevamo impiegato per raggiungere il branco?
Chissà di quante cose si era dovuto occupare subito,
senza avere tempo per se stesso?
Ancora una volta, mi chiesi il perché non delegasse
parte dei suoi impegni a Jerome e, girata la domanda a Claire, ottenni come
risposta un sospiro.
“Quel ragazzo si vuole punire per crimini che non ha
commesso.”
Ancora una
frase senza senso. Chissà cosa voleva dire?
***
Dopo aver ringraziato Sophie per avermi
riaccompagnata a casa, notai alcune macchine di fronte alla clinica veterinaria
dove lavorava Duncan.
Colta dalla curiosità, mi intrufolai all’interno per
dare un’occhiata.
Ciò che vidi non mi sorprese per nulla.
Come in casa, anche l’interno della clinica era in
ordine e pulito, e ogni cosa era perfettamente
disposta su belle scaffalature di legno chiaro.
Curiosai tra i vari prodotti di toelettatura per
animali, passando poi nel reparto giochi – dove trovai ogni genere e forma di
oggetto più o meno colorato.
Finii poi in quello alimentare, in cui si trovava
qualsiasi genere possibile e inimmaginabile di crocchetta, adatta a ogni tipo
di taglia e di specie di animale da compagnia.
Sul fondo del negozio, proprio sotto le alte
finestre, una collezione di gabbiette, acquari e portantini per gatti e animali
di piccola taglia si intervallavano a rastrelliere colme di guinzagli, di ogni
colore e forma possibili.
Sorrisi, nel notare con quanta cura tutto era
esposto con precisione quasi maniacale.
Volgendo lo sguardo, notai accanto al bancone – in
posa attenta e apprensiva – una signora dall’aria
distinta.
Stava osservando con fare spaventato le mani di
Duncan, impegnate accanto a un chow-chow il quale, apparentemente tranquillo,
si stava facendo manipolare una zampa come se nulla fosse.
Non vista – Duncan era troppo preso dal suo lavoro,
per accorgersi di me – saggiai sulla lingua il sapore del suo potere.
Era steso intorno al cagnolino, in modo tale da
mantenerlo tranquillo e pacifico.
Sorridendo maggiormente, mi resi conto che quel
tocco delicato e soffice rilassava anche me.
Da quel che mi aveva detto lui, la sua bravura con
gli animali era un anacronismo, una cosa che non capitava quasi mai.
A prevalere sull’animale, era sempre l’istinto di
sopravvivenza che, di fronte a un predatore come un licantropo, scattava in
automatico.
La sua aura, invece, aveva la capacità di ammansire
come una carezza amorevole.
Me ne abbeverai perciò come una spugna, protesa
verso di lui come un predatore e, nel contempo, attratta come una falena con la
fiamma.
Ero entrambe le cose, preda e cacciatrice.
Mi appoggiai pensosa a uno degli scaffali, ammirando
la bravura con cui Duncan estrasse una lunga spina ricurva dal cuscinetto della
zampa del cane.
Divertita dall’espressione sollevata della donna, mi
immaginai le innumerevoli volte in cui i clienti di Duncan si erano
complimentati con lui per la sua maestria nell’agire con tanta naturalezza.
Fu a quel punto che mi vide, del tutto preda
dell’onda del suo potere, steso come un mantello tutt’intorno a lui.
Sapevo di avere gli occhi intorpiditi dal piacere, e
un sorriso appena accennato sul volto.
Mi sorrise di
rimando per un momento, prima di rivolgere la sua attenzione alla donna di
fronte a sé e sentenziare: “Ecco, miss Clark… la sua Betsy sta benissimo,
adesso.”
“Oh, Mr McKalister, la ringrazio tanto! Non sapevo
più come fare. Non si lasciava toccare da nessuno” ammise concitata la donna,
accarezzando la cagnolina, che latrò soddisfatta.
“Posso immaginarlo” annuì, aiutando il cagnolino a
scendere dal bancone. “Fortunatamente, non ha intaccato la carne né procurato
ferite, per cui non ha bisogno di nessun medicinale. Si assicuri che non
finisca di nuovo tra le rose, però… è preferibile.”
“Sì, grazie… grazie…” assentì più volte la donna,
oltrepassandomi e sorridendomi brevemente prima di uscire dalla clinica.
Sull’altro lato del negozio, due ragazzi stavano
decidendo che gabbietta prendere e, a giudicare dai loro sguardi, la spesa
sarebbe stata di certo sostanziosa.
Vista la loro attenzione, interamente proiettata
sugli oggetti più grossi esposti nel reparto, non avrebbe potuto che essere
così.
Oltrepassato il bancone, Duncan diede loro solo una
fuggevole occhiata prima di avvicinarsi a me e chiosare: “Quasi non ti
riconoscevo, con questi capelli così corti e biondi. Sembri tutt’altra
persona.”
“Ed è un bene, o un male?” chiesi, vagamente ansiosa.
Scrollando le spalle, lui si schernì bonariamente.
“Il mio parere conta poco. Non me ne intendo molto
di acconciature, ma ti stanno bene. Anche se sei… diversa. Mi ero abituato alla
tua chioma sparsa dal vento, e ora…”
“Ora si arrufferà solo un po’ e basta” ammisi,
toccandomi i corti capelli con aria imbarazzata.
Davvero non capivo Duncan. A volte sapeva essere
così dolce, con me, mentre altre volte era scostante, scorbutico, come se la
mia presenza lo disturbasse.
Non sapevo come prenderlo. Era diverso dal Duncan
che avevo conosciuto nel bosco.
Sfiorandomi i capelli con una mano, Duncan si portò
le dita al naso e annusò, mormorando subito dopo con un sorriso: “Hanno
comunque lo stesso profumo, nonostante la tinta.”
“Meno male” ammiccai, sorridendo compiaciuta.
Guardandosi intorno, Duncan sospirò.
“Ora non posso stare qui a chiacchierare con te,
anche se vorrei. Perché non vai a conoscere i miei cavalli? Sono docili, e non
ti daranno problemi.”
“D’accordo. Come si chiamano?” gli chiesi,
incuriosita dalla sua proposta.
“Il baio è Rafael, l’arabo grigio è Michael, mentre
lo stallone nero è Gabriel” mi informò distrattamente, dando un’altra occhiata
alla coppietta di ragazzi in fondo al negozio.
Sollevando un sopracciglio con aria evidentemente
sorpresa, esalai: “Sono i nomi degli Arcangeli.”
“Già. Ho sempre avuto una segreta passione per gli
angeli” rise sommessamente, quasi imbarazzato da quella confessione.
Duncan e gli angeli? Quella sì che era una cosa
curiosa.
Sorrisi e chiosai: “E’ una passione come un’altra.
Io vado matta per i licantropi, sai?”
Ridendo roco, e facendomi fremere per diretta
conseguenza, mi diede un buffetto sul naso prima di mormorare: “Coraggio, vai…
saranno felici di ricevere visite.”
“Hai detto che Gabriel è uno stallone… devo
preoccuparmi?” gli chiesi dubbiosa, fermandomi sulla soglia della porta
d’ingresso.
“Non credo che cercherà di farti delle avances troppo esplicite, almeno al
primo incontro. Tu, ignoralo” sentenziò, assolutamente serio in viso.
Sgranai gli occhi – non era assolutamente da lui lanciarsi in simili battute – e lo fissai
basita per alcuni attimi, prima di scoppiare in un’allegra risata.
“Tu sei tutto matto.”
Con passo saltellante e gaio – l’ilarità di Duncan
si era impadronita anche di me – me ne andai in direzione della stalla di
fianco a casa.
Dopo aver costeggiato i bellissimi cespugli di rose
e di gelsomino bianco, mi ritrovai a fissare un’enorme struttura di legno dal
largo portone aperto per metà.
Dall’interno, provenivano gli sbuffi annoiati dei
cavalli.
Oltrepassando la porta con aria curiosa, notai
esasperata l’onnipresente ordine maniacale che, a quanto pareva,
contraddistingueva ogni cosa fosse anche solo sfiorata da Duncan.
Che fosse la reincarnazione di una governante?
Ridacchiando di quel pensiero, mi avvicinai cauta ai
box, dove si potevano scorgere i cavalli a riposo.
Lì, una bella testa bruna sbucò curiosa oltre il
parapetto di legno, guardandomi con profondi occhi neri.
Mi fermai subito, fissandolo a mia volta, e sussurrai
a bassa voce: “Ciao Rafael.”
Il baio scosse la testa enorme, facendo dondolare la
bella criniera ondulata – che Duncan perdesse anche del tempo per
intrecciargliela?
Sentendomi abbastanza sicura per avvicinarmi a lui,
mossi lentamente una mano nella sua direzione, esalando timorosa: “Non mi
morderai, vero?”
Perfettamente immobile, Rafael si lasciò accarezzare
sul muso, e fu a quel punto che mi resi conto della profonda cicatrice – ormai
rimarginata da tempo – che gli partiva dall’occhio sinistro.
Impallidendo, esalai: “Chi ti ha mai fatto questo?”
Una lieve onda di potere mi sfiorò il corpo,
avvertendomi dell’approssimarsi di un licantropo che non era Duncan.
Voltandomi a mezzo, scorsi sulla porta una ragazza
magra come un giunco, e abbigliata con brache militari e una maglia dei Guns and Roses.
Ai piedi, portava delle infradito nere.
Sorrisi e domandai: “Ciao. Sei Erika, vero?”
Lei si avvicinò trotterellando, tutta allegra e
sorridente e, fermandosi a due passi da me, annuì.
“Ciao. Sì, sono io. Tanto piacere di conoscerti,
Brianna” poi, come se si fosse ricordata di una cosa solo in quel momento,
arrossì imbarazzata e aggiunse: “Posso chiamarti per nome?”
La sua gentilezza e spontaneità mi portarono a
sorridere maggiormente e, annuendo con foga, esclamai: “Ma certo! Mi offenderei,
se non lo facessi.”
Tranquillizzata dal mio dire, Erika si avvicinò per
carezzare il fianco di Rafael – permettendomi così di scorgere la lunga treccia
di capelli neri che le superava ampiamente la vita.
“Il vecchio padrone di Rafael era solito divertirsi ferendolo
con un pungolo. Quando Duncan lo acquistò, era quasi morto.”
Non osai immaginare quali altre cicatrici
nascondesse il box che teneva al sicuro Rafael e, deglutendo, chiesi tubata:
“Come ha saputo di Rafael?”
“Alcuni animalisti” mi spiegò Erika, prendendo un
pugno di avena da un vicino sacco di juta per darlo da mangiare a Rafael.
Il cavallo le sbuffò contro, ma accettò.
“Lo dissero a lui, così Duncan si precipitò alla
stalla di quel disgraziato per comprare il cavallo” mormorò Erika, ghignando
all’indirizzo del cavallo.
Era chiaro quanto, l’animale, percepisse il
licantropo che era in lei ma, evidentemente, si conoscevano da tempo, e c’era
una sorta di accordo tra di loro.
“Capisco” sussurrai. Era decisamente un’azione da
Duncan.
Voltandosi a guardarmi – avevo ancora indosso i suoi
abiti – mi sorrise e commentò: “Certo che quella maglietta sta davvero meglio a
te, che a me!”
Ridacchiando, le dissi: “Te la renderò appena l’avrò
lavata e stirata.”
“E’ tua” precisò Erika, sorprendendomi. “Su di me
non starebbe altrettanto bene, per cui prendila. Te la regalo.”
“Beh… grazie” esalai, sorpresa.
Erika si limitò a scrollare le spalle. “Ho saputo da
Jerome che ti addestrerai con Lance. Non sai quanto sei fortunata.”
“Dici?”
“Oh, sì… sarai una delle poche donne del branco a
poter stare in sua compagnia per più di dieci minuti alla volta. Potresti
suscitare parecchie gelosie” mi avvertì, facendomi l’occhiolino.
“Ecco… mi mancava solo questa!” sbottai. “Già non mi
bastava il nutrito gruppo di lupe che volevano convolare a nozze con Duncan.
No, ora avrò anche quelle di Lance, a darmi la caccia!”
Ridendo divertita, Erika mi tranquillizzò subito.
“Oh, Lance le ha scoraggiate tutte anni addietro.
Nessuna si prende più il disturbo di avvicinarlo in quel senso. Ora, si limitano a fissarlo smaniose, ma da lontano,
attendendo che lui le prenda in considerazione. Hanno troppa paura di
avvicinarsi.”
“Oh… e perché?” chiesi curiosa.
“Se lo vorrà, te lo racconterà lui. Io non me la
sento di dirtelo, visto che è una cosa piuttosto privata” soggiunse Erika, con
un leggero sospiro.
Oh, oh. Un altro mistero da risolvere.
Quel branco era l’eccezione, o tutti i clan erano
così incasinati?
Passando a Michael, notai con un certo divertimento
che, contrariamente a Rafael – che si era mostrato curioso – lui mi voltò
deliberatamente le spalle, mostrando il suo didietro importante e la sua coda
svolazzante.
Nitrì come se fosse divertito e si mise a mangiare
un po’ di fieno, facendo di tutto per non degnarmi di uno sguardo.
I suoi occhi, però, si mossero parecchie volte per
cercare di tenere sotto controllo la mia figura.
“Tu devi essere un comico nato, amico” commentai,
guardandolo con un sopracciglio sollevato.
Erika annuì subito, divertita non meno di me.
“Sì, Michael adora fare scherzi di ogni genere. Non
diresti che è un semplice cavallo. Sembra quasi che sia posseduto da uno
spirito ultraterreno.”
“Un cavallo mannaro?” ironizzai, facendola ridere.
“Direi di no. Non penso proprio che esistano”
ridacchiò Erika prima di fissarmi curiosa e chiedermi: “E’ vero che sei una wicca?”
“Lo chiedi alla persona sbagliata” ironizzai. “Ne so
poco o nulla… ma, sì, percepisco alcune cose.”
“Che cosa? Cioè, sento che hai del potere latente
davvero forte, e che somiglia a quello di un licantropo, ma non ho idea di come
funzioni” mi spiegò Erika, scrollando le spalle.
“Percepisco l’aura del tuo potere, per esempio, e
ora avverto che sei contenta. E’ come se mi stessi avvolgendo con una coperta
calda, o qualcosa di simile” la informai, non del tutto certa di esprimermi al
meglio.
Sinceramente sorpresa e tutta sorridente, Erika sussurrò
ammirata: “Sai, io non ho mai conosciuto nessuna wicca… di Kate, ho solo sentito parlare. Quando viene qui, è solo
per eventi ufficiali, a cui noi lupi inferiori non possiamo partecipare. Solo
il Consiglio e gli alfa possono andare al luogo di potere, quando ci sono dei
Fenrir di altri clan in visita.”
“Lupi… inferiori?” Quella frase mi lasciò davvero
con l’amaro in bocca.
Lei sgranò gli occhi, asserendo subito dopo: “Oddio,
non pensar male! E’ solo che non siamo ancora passati di livello, per così dire.
Non ha nessun connotato negativo.”
“Sicura?” chiesi dubbiosa.
“Oh, sì, ne sono sicurissima” annuì con vigore
Erika. “Il branco si basa sulle gerarchie, per cui non c’è nulla di male se io
dico di essere in quella più bassa, perché è vero.”
“E per risalire le gerarchie, che bisogna fare?” le
domandai, cercando di attirare
l’attenzione di Michael con un po’ di avena.
Niente di niente. Quel cavallo aveva deciso di farmi
arrabbiare.
“Combattere” asserì Erika, come se nulla fosse.
La fissai basita, la bocca spalancata e gli occhi
rotondi come bottoni, mentre quelle parole penetravano nella mia corteccia
prefrontale, espandendosi poi in tutto il cervello.
Combattere. Oh. Mio. Dio.
“In che senso?” esalai, continuando a fissarla come
se avesse avuto le corna e la coda biforcuta.
“Nell’unico senso possibile. Si combatte al primo
sangue per risalire la gerarchia, a meno che non si nasca già con un ruolo designato,
come è capitato a Duncan, Lance o Jerome. Ma, in quel caso la faccenda è un po’
diversa” mi spiegò Erika, ridendo dei miei tentativi infruttuosi di attirare
l’attenzione di Michael. “Pare che ci sia una connessione tra il fatto di
nascere come uno dei tre Gerarchi, e il fatto di essere forti fisicamente.”
A ben pensare, Duncan, Lance e Jerome erano tutti
piuttosto robusti.
Lance, poi, era addirittura mastodontico, ma forse
dipendeva dal fatto che era la guardia del corpo designata di Duncan.
“E tu? Hai già combattuto?”mi informai.
“No. Duncan vieta categoricamente che ci siano
combattimenti prima dei diciotto anni. Io potrò cominciare entro breve tempo” mugugnò,
come se il fatto di aspettare le pesasse.
“Non mi dire che hai già pensato contro chi combattere”
esalai, sempre più sorpresa.
“Due settimane, e qualcuno di mia conoscenza dovrà
sputare sangue per quel che ha fatto…” ridacchiò Erika, prima di spiegarmi: “…
ho un conto in sospeso con una lupa e, se vincerò, non sarò più chiamata inferiore. Prenderò ufficialmente il
titolo di Mánagarmr, vincendo il
mio primo scontro da lupo adulto. Significa
cane della luna e tutti i lupi che
passano, per così dire, di livello, prendono quel nome.”
“E fin dove puoi elevarti,
se è il termine giusto?” mi informai, sempre più curiosa.
Non avevo davvero idea che
succedessero cose del genere, all’interno del branco.
“Per la verità, non si può
aspirare a nessun altro titolo che quello. Cambia la gerarchia solo in base al
numero di duelli vinti. Tutto qui. I lupi più forti vengono definiti anche alfa, per indicare quanto, la loro
forza, sia simile a quella di Fenrir. Naturalmente, sono tutte lotte
finalizzate a scoprire chi sia il più bravo, non certo a uccidere. Nessuno di
noi vorrebbe questo” ci tenne a precisare Erika.
“Ma è mai capitato che
qualcuno… esagerasse?” la incalzai, dubbiosa.
Qualcosa, nel suo sguardo,
la diceva lunga.
Erika si adombrò,
reclinando il capo e, mordendosi un labbro, mormorò turbata: “Sono cose di cui
non posso parlare con te.”
“Non c’è problema” mi
affrettai a dire.
Aveva avuto la stessa
reazione di Jessie. Cos’era successo, di così grave, da rendere tutti tanto
reticenti?
Risollevato il capo per
guardarmi, Erika mi prese sottobraccio per condurmi da Gabriel e, con un
sorriso, ammiccò all’indirizzo dell’ultimo box.
“Scommetto che lui
conquisterà il tuo amore imperituro.”
“Dici?” ridacchiai.
Non avrei posto altre
domande. Era chiaro che non voleva parlarne.
Mi voltai quindi a
scrutare all’interno del box di Gabriel e, come predetto da Erika, il mio cuore
fece un balzo, quando vidi lo splendido stallone che mi si presentò innanzi.
Il suo manto, nero come la
notte e lucido come ossidiana, rifletteva la rada luce che penetrava
all’interno della stalla dalle alte finestre poste vicino al soffitto.
La criniera, morbida alla
vista e leggermente ondulata, era lunga e folta al pari della coda, che
penzolava tranquilla fin quasi a sfiorare la paglia sul cemento.
I suoi occhi, scuri come
ebano, mi fissarono per alcuni attimi prima che Gabriel decidesse di nitrire e
avvicinarsi a me.
Imbrigliata dal suo
sguardo, lasciai che avvicinasse il muso per annusarmi, e solo a quel punto che
mi permisi di sfiorargli la criniera con mano esitante.
Fu come immergere le dita
nel velluto.
Inspirai il suo odore
penetrante e affondai maggiormente la mano nella criniera, raggiungendo il pelo
lucido che ricopriva le sue carni, che risultò essere altrettanto morbido e
folto.
Carezzando il suo collo
muscoloso con entrambe le mani, mentre il muso di Gabriel restava appoggiato
alla mia guancia, immobile come una statua, sussurrai roca: “Sei davvero uno
splendore, lo sai, vero?”
Erika rise piano e io, del
tutto presa dal cavallo, chiusi gli occhi e mi appoggiai a lui, invasa da una
strana frenesia.
Senza sapere bene come,
sfiorai la mente dell’animale, percependo la sua sorpresa e il suo interesse
nei confronti della strana umana che aveva vicino.
“Sì, sono strana davvero.”
“Puoi percepirlo?” mi
chiese a bassa voce Erika.
Annuii e le spiegai
confusa: “Faccio tutto istintivamente, quindi non so bene come questo avvenga,
però, sì. Lo sento. Sembra contento.”
“I suoi occhi sono quieti,
nonostante io sia presente. Di solito, è sempre nervoso se vengo da sola, senza
Duncan a fare da cuscinetto” mormorò Erika, prima di ridacchiare. “Ah… mi
sembrava strano che non si fosse ancora presentata per conoscerti.”
“Chi?” esalai sorpresa,
staccandomi un momento dal contatto mentale con il cavallo.
“Beh, la donna di Duncan,
ovviamente” sogghignò Erika, ammiccando al mio indirizzo.
Quelle parole mi gelarono
sul posto, facendomi impallidire.
La donna di Duncan?, pensai sconvolta.
Non me ne aveva affatto parlato. Da dove diavolo saltava
fuori?
“Come… hai detto?” gracchiai,
deglutendo a fatica.
“Parlo di lei” disse
Erika, indicando oltre le mie spalle.
Ai limiti del panico –
stavo dormendo nella sua stanza, forse? Dio non volesse! – mi voltai per
affrontare la cruda e tremenda realtà.
Quando, però, mi ritrovai
a fissare solo un enorme soriano dal pelo rosso, sbattei le palpebre confusa ed
esalai: “Erika, sei forse impazzita? Lì c’è solo un gatto.”
“Una gatta, per l’esattezza. E si chiama Jasmine. E’ la gatta di
Duncan. Non chiedermi come facciano ad andare d’accordo, perché non ne ho idea.
Notoriamente, cani e gatti non si amano di certo, fatto sta che questi due si
piacciono parecchio, invece” mormorò Erika, stando a debita distanza dalla
gattona che, sorniona, si avvicinò con la coda sollevata e l’aria di sfida
negli occhi azzurri.
Mi sentivo come se avessi
appena schivato un proiettile mortale, ma lo sguardo di Jasmine non mi permise
di godere appieno della sensazione di sollievo che riverberò dentro di me.
Era come se la gatta mi
stesse passando sotto una lente di ingrandimento.
Si avvicinò ancora, lo
sguardo di Gabriel puntato sulla gatta, quasi a volermi difendere da lei.
Aggrappandomi al collo del
cavallo, sussurrai: “Mi graffierà?”
“Io sono già stata vittima
dei suoi artigli, per cui passo” mi informò Erika, scostandosi di qualche
passo. “Ciao, Jasmine. Bella giornata, eh?”
La gatta sbuffò nella sua
direzione, prima di puntare gli occhi verso di me.
Fissandola preoccupata, mi
chiesi se sarebbe stato puerile scavalcare il box e rifugiarmi all’interno
assieme a Gabriel.
Lui sembrava decisamente
più ben disposto verso di me, rispetto a quella gattona rossa.
Quando arrivò ad annusarmi
le scarpe da ginnastica nuove di zecca, quasi tremai di paura.
Nel sentirla ronfare
contenta, però, sorrisi sollevata e mi chinai per grattarle le orecchie, mentre
lei mi sommergeva con i suoi ron-ron.
Erika rise di gusto,
quando me la presi in braccio per farle le coccole – incrementando così le sue
fusa, che quasi mi assordarono.
Avvicinandosi un poco, sentenziò
allegramente: “Bene, mia cara. Sei stata ufficialmente accettata da tutta la
famiglia McKalister.”
Risi di gusto, a quel
commento, condividendo il suo entusiasmo.
“Beh, è una buona cosa,
direi.”
“Più che buona. Ottima.
Sei la prima a riuscirci” ammiccò Erika. “Quando Marjorie ha provato ad
avvicinarsi a Gabriel, si è quasi fatta staccare una mano, e meno male che
Duncan era presente, o lei l’avrebbe divorato!”
Quella notizia mi riempì
il cuore di un sordido piacere e, se avessi potuto, probabilmente anch’io mi
sarei messa a fare le fusa per la contentezza.
Amai ancora di più
Gabriel, per questo.
Erika provò ad avvicinare
una mano a Jasmine che, fissandola dubbiosa, sollevò appena il pelo della
schiena.
Continuai ad accarezzarla,
mormorandole convincente: “Stai buona, Jasmine… ti vuole solo accarezzare…
buona….”
Riuscendo dopo vari
tentativi a carezzare la gatta sul capo, Erika sorrise soddisfatta, dicendomi:
“Beh, è la prima volta che non mi becco una graffiata… grazie.”
“Di nulla.”
Sollevando leggermente
polso e gatta per controllare l’orario, esalai: “Mmhh, sarà il caso che vada a
ricordare a Duncan che oggi siamo a pranzo da voi… non vorrei se lo fosse già
scordato.”
Sospirando esasperata,
Erika mugugnò: “Sono passata proprio per questo. Mamma sa di che pasta è fatto
il nipote, quindi è partita prevenuta.”
“Lo immaginavo. Lo andiamo
a cercare? Dovrebbe essere ancora in clinica” le proposi, prima di voltarmi a
salutare i tre cavalli che, all’unisono, nitrirono.
“Ti adorano già” sogghignò
Erika, uscendo con me dalla stalla.
“Che cos’ha Gabriel, che
non va?” le chiesi, mentre ci incamminavamo verso la clinica.
“Uno spavenio1 a
una zampa. Il suo addestratore lo stava massacrando per farlo correre con
quell’infiammazione già molto evidente e, quando Duncan se n’è accorto – fa
parte dei veterinari che controllano i cavalli da corsa locali – lo ha denunciatoper
molestie. Si è preso il cavallo dopo averglielo pagato profumatamente” mi spiegò
Erika. “Ormai è quasi a posto, ma Duncan non perde mai l’occasione per
controllare accuratamente il garretto. Sai, lo ha operato lui stesso.”
“Oh” esclamai sorpresa.
“Duncan ci sa proprio fare con gli animali… è un
caso più unico che raro, visto quello che siamo” mormorò, abbassando la voce
quando ci avvicinammo alla clinica. “In teoria, nessun animale si fida di noi,
visto che siamo dei predatori in cima alla catena alimentare, ma lui sembra
essere l’eccezione che conferma la regola.”
“E come gli è venuta in mente l’idea di fare il
veterinario?”
“Quando ha scoperto di poter interagire con gli
altri animali, senza che essi
scappassero al suo solo apparire” ammiccò Erika. “Jerome, per prenderlo
in giro, lo chiama San Francesco.”
“Buono a sapersi” ridacchiai, aprendo la porta della
clinica per entrare.
Erika mi seguì all’interno e, insieme, ci dirigemmo
al bancone, dove si trovavano un paio di persone sulla cinquantina, in attesa
del ritorno di Duncan.
Ci guardarono per un momento prima di riconoscere
Erika e, sorridendole, la donna esordì dicendo: “Ciao, Erika… hai poi deciso
che a università iscriverti alla fine del liceo?”
“Buongiorno Mrs Edwards. Penso andrò a Londra per
studiare musica, o teatro” scrollò le spalle Erika. “Direi che sono più
propensa per quello, piuttosto che per altro.”
“Scommetto che rimarranno tutti a bocca aperta,
sentendoti suonare il sassofono. Il tuo ultimo spettacolo, a scuola, è stato
splendido!” si complimentò con lei la donna. “Ah, Beatrix ti manda i suoi
saluti, e spera di rivederti alla festa che ha organizzato per il suo
compleanno.”
“Non mancherei per nulla al mondo” annuì Erika,
prima di spiegarmi: “E’ una mia compagna di classe.”
“Capisco”
“Una tua amica in visita?” chiese gentilmente Mrs
Edwards.
“Sono una lontana cugina di Duncan, e vengo da
Albany. Mi chiamo Ann, tanto piacere” le spiegai, prendendo l’iniziativa per
evitare che Erika fosse costretta a inventarsi qualcosa su due piedi.
“Piacere mio, cara” disse la donna, stringendo la
mia mano protesa. “Non ti avevo mai vista, qui.”
“E’ il primo anno che i miei genitori mi permettono
di venire da Duncan da sola” ammiccai, mentendo alla grande. “Di solito, è
sempre lui a venire da noi. Sa, mia madre non può spostarsi da casa per via
della sua malattia, e così…”
Finsi un pizzico di dispiacere, sufficiente per
impensierire Mrs Edwards che, preoccupata, esalò: “Oh, mi dispiace tanto, cara…
spero che ti troverai bene, qui da noi, e che ti divertirai.”
“Ne sono sicura… grazie tante.” Sorrisi allegra,
compiaciuta di me stessa.
Mentire mi veniva più naturale a ogni minuto che
passava. Non sapevo se esserne lieta, o se dovevo cominciare a preoccuparmi.
L’uomo accanto a Mrs Edwards, sfiorando la moglie su
un braccio, la ammonì gentilmente: “Non disturbare queste povere ragazze con le
tue mille domande, cara.”
Io ed Erika ridemmo spensierate, negando che la
signora ci stesse disturbando.
Fu in quel momento che comparveDuncan dal retro
bottega, tenendo in mano una gabbietta.
Al suo interno si trovava uno splendido esemplare di
parrocchetto di Lesson, dal piumaggio verde brillante a striature azzurre.
Vedendo i suoi padroni, cominciò a cantare
allegramente e Duncan, posata la gabbia sul ripiano di vinile, sorrise e disse
loro: “Come vedete, si è ripreso perfettamente. L’ala non era spezzata,
fortunatamente, ma solo contusa. Può già riprendere a svolazzare per la
voliera.”
“Perfetto” esalò sollevato Mr Edwards, pagando il
conto. “Se non fosse riuscito a volare, Beatrix mi avrebbe ucciso. Dopotutto,
sono stato io a lasciare che Robin entrasse nella gabbia.”
Ridacchiando, Duncan chiosò: “Un cocker e un
parrocchetto, di solito, non sono una bella accoppiata, in uno spazio chiuso.”
“Ho notato” rise allegro Mr Edwards, prima di
salutarci e uscire con moglie e parrocchetto al seguito.
Voltandosi per osservarci curioso, Duncan si
illuminò in viso nel vedermi con Jasmine in braccio.
Oltrepassato il bancone, si piegò per fare i
complimenti alla sua gatta, sussurrando: “Immaginavo che saresti uscita dal tuo
palazzo per conoscere la tua nuova pupilla… allora, ti piace?”
Risi nel sentirlo parlare a quel modo. Era un lato
di Duncan che non mi sarei mai aspettata di vedere.
Sapevo della sua gentilezza e benevolenza, ma quello
che lo legava a Jasmine era qualcosa di molto simile all’amore incondizionato.
Forse, per lui, era naturale amare spontaneamente
quella gatta, perché poteva essere sincero, e venire ricambiato con altrettanta
sincerità.
Tra le donne del branco, invece, non avrebbe potuto
avere questa certezza.
Il fatto di diventare Prima Lupa costituiva, di per
sé, motivo più che valido per cedere a qualsiasi compromesso.
Questo non gli dava così la possibilità di fidarsi
di nessuna di loro.
Sollevando le sue iridi smeraldine per incontrare i
miei occhi, mi sorrise, asserendo: “Le piaci davvero molto, sai?”
“Già… non ha ancora smesso di fare le fusa. Pensi
che potrebbe dormire sul mio letto?” gli domandai, carezzando dolcemente
Jasmine.
“Se lei te lo permetterà, sì” annuì Duncan, prima di
risollevarsi e guardarci dubbioso. “Sbaglio, o mi sono dimenticato qualcosa?”
Erika sospirò esasperata e mugugnò: “Sì, il pranzo a
casa nostra.”
“Giusto!” esclamò, battendosi una mano sulla fronte.
“Tu vai pure avanti, Erika. Io e Brianna arriviamo subito. Il tempo di
cambiarmi.”
“D’accordo” sbuffò Erika, sussurrandomi per contro:
“Ci vediamo dopo… voglio mostrarti la mia collezione di CD.”
“Va bene” annuii, vedendola inforcare il motorino e
schiacciarsi sulla testa un casco jet color amaranto.
Avviandomi verso casa assieme a Duncan, mi tenni
Jasmine in braccio e ammisi senza remore: “Mi piacciono molto i tuoi cavalli, e
mi sono innamorata perdutamente di Gabriel. Oltretutto, credo che la cosa sia
reciproca.”
Lui si voltò a mezzo, esalando: “Di già? E io che
speravo vi sareste dati un po’ di tempo per conoscervi. Non si può stare mai
tranquilli, a questo mondo. Spero solo che ora non venga sotto la tua finestra
a cantarti la serenata, perché è stonato come una campana.”
Risi di gusto e lo spinsi su per le scale con una
mano, replicando: “Piantala di dire fesserie e vatti a cambiare, o arriveremo
tardi da Sarah.”
Lui ammiccò da sopra una spalla e mi punzecchiò con
tono allegro.
“Ammettilo, che vuoi solo rivedere Jerome.”
Avvampando in viso, ringhiai: “Ti risparmio solo
perché ho Jasmine in braccio. Fila via veloce come un razzo, razza di cane
pulcioso, prima che mi arrabbi sul serio.”
Del tutto indifferente al mio insulto, Duncan rise
nel salire le scale.
Sempre ghignando di gusto, si chiuse dentro la sua
stanza, lasciandomi al pian terreno con un sorriso stampato sul viso e un
piacevole calore nel petto.
Era adorabile, quando rideva.
Avrei solo voluto sentirlo ridere così più spesso.
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1: Spavenio:Tumefazione ossea all'interno del garretto sulla parte inferiore del tarso e superiore al metatarso.