Siccome è una storia che perlopiù va
letta quasi come oneshot pubblico anche oggi. Domani
posto la fine. Ringrazio chi ha commentato nonostante gli avvertimenti XD
Qualche nota a inizio capitolo: per la
storia delle illusioni mi sono ispirata un po’ a Inception – senza la vana
speranza di emularlo, chiaramente – e invece per quella del clone oscuro ho
inserito un piccolo rimando al manga.
Buona lettura! J
Capitolo 2
L’engawa
era invaso dalla luce del sole e Sasuke non aveva mai sentito tanto vicino il
giardino di casa: come lui, probabilmente, con tutto quel calore rischiava di
morirne.
Fortunatamente
Sasuke aveva altro da fare, e respirare afa non gli sembrava tanto fastidioso
quando di fianco a lui c’era Itachi.
Itachi
aveva dieci anni e la perfezione incastrata negli occhi e tra le dita.
«Cosa
mi insegni oggi, nii-san?»
«La
moltiplicazione».
Sasuke
scattò in piedi in preda all’agitazione e all’entusiasmo. Strinse le mani in
due piccoli pugni attorno alla maglietta di suo fratello.
«Proprio adesso? Dai, dai» lo pregò, impaziente.
«Ascoltami
attentamente, Sasuke, questa è una lezione difficile».
«Sono
attentissimo».
Itachi
sorrise, e lui non riuscì a immaginare un modo più interessante per cominciare
la lezione.
«Ci
sono modi diversi di concepire la moltiplicazione. Esiste per esempio la
moltiplicazione del corpo, o quella dello spazio e del tempo».
«Quando
le imparo io queste tecniche?» indagò, tentando di ricordarsi come fare a
raccogliere il chakra nelle mani.
«Prima
è necessario che tu conosca la teoria, otouto».
«Uffa».
«Quando
decidiamo di moltiplicare il nostro corpo possiamo ricorrere a varie tecniche.
Una di base è quella coi cloni d’ombra, che imparerai
subito all’accademia e di questa te ne ho già parlato».
Sasuke
annuì, intento a sembrare l’allievo migliore del mondo per far arrivare Itachi
al punto più importante.
«Poi
c’è la tecnica superiore della moltiplicazione del corpo. Ti permette di
dividerti in due entità identiche e separate e dà luogo a veri e propri cloni. Un’altra
tecnica invece ti permette di dividerti in due entità separate e opposte: si
usa per far emergere la parte oscura delle persone».
«E
come si fa?» indagò Sasuke, improvvisamente molto più interessato.
«Si
crea un clone animato da tutti i pensieri più intimi e malvagi di una persona. Spesso
questo clone ha le sclere nere».
«Cosa
sono le sclere?» Sasuke non vedeva l’ora di imparare quella tecnica. Magari
avrebbe fatto uno scherzo alla mamma, se le sclere non erano qualcosa di troppo
pericoloso.
Itachi
scoppiò a ridere, indicando una parte precisa dei suoi occhi. «Questa è la
sclera» spiegò, e Sasuke non mancò di considerare di nuovo come fosse bella la
perfezione incastrata negli occhi di suo fratello.
«Ho
capito», lo rassicurò, «dimmi qualcos’altro su questa tecnica».
«Dialogare
con la propria parte oscura è quanto di più pericoloso possa affrontare uno
shinobi, Sasuke. Rischia di scoprire cose di se stesso di cui forse non era
pronto ad ammettere l’esistenza».
«Quali
cose?»
«Cose
terribili. E poi la nostra parte oscura molto spesso su cose importanti la
pensa all’opposto di noi».
«Per
esempio?»
«La
mia parte oscura potrebbe… fare del male alla mamma, per esempio».
Sasuke
inorridì e tentando di non farsi scoprire lanciò un’occhiata accorta alle
sclere di suo fratello. Non sembravano nere. Alla mamma non sarebbe mai
successo niente, se lo sentiva. Sasuke lo sapeva e basta. In più Itachi era
così forte che nessuna parte oscura avrebbe potuto vincere contro di lui.
«Poi,
Sasuke, ci sono tecniche che permettono di moltiplicare spazio e tempo, fanno
parte della categoria dei genjutsu», riprese a spiegare Itachi. «Cosa sono i
genjutsu, Sasuke?»
Sasuke
lo guardò mortalmente offeso. Come se fosse possibile che lui ignorasse una
cosa tanto facile! «Le arti illusorie, nii-san».
Itachi
gli scompigliò i capelli compiaciuto. «Molto bene. Essendo noi dotati di
sharingan, possiamo ricorrere a tecniche molto eleganti. Cioè non solo possiamo
creare un’illusione con gli occhi, ma con questi stessi occhi, se allenati a
dovere, possiamo creare vari livelli di illusione».
«Che
significa?»
«Possiamo
creare un’illusione nell’illusione. Cioè moltiplicare le realtà illusorie».
«Bellissimo!»
Sasuke non riuscì a impedirsi di scattare di nuovo in piedi, già dimentico del
clone oscuro. «Questa devi proprio insegnarmela, nii-san».
«Ma
prima devi risvegliare lo sharingan, otouto».
Sasuke
sussultò, come se il peso della realtà si fosse moltiplicato sulle sue esili
spalle tutto d’un colpo. Si disse che non avrebbe dovuto mostrarsi tanto
abbattuto, ma non riuscì a impedire alle palpebre di abbassarsi un po’, o alle
labbra di incurvarsi in giù, o al naso di arricciarsi appena per lo sconforto.
«Però
posso insegnarti a difenderti da queste tecniche».
«Va
bene», sospirò Sasuke, appuntandosi mentalmente un per
ora dal tono abbastanza sinistro.
«Le
illusioni in genere hanno qualcosa di caratteristico. Quando ti catapultano in
realtà diverse non te ne accorgi e, se lo shinobi è bravo come Shisui, non
saprai mai di essere davvero finito in un’illusione. Comunque se qualcosa di
strano ti fa sorgere dei dubbi, la prima cosa a cui devi pensare è: come ci
sono arrivato qui? Se non lo ricordi, potresti essere vittima di un’illusione».
«Come
faccio a capire se si tratta di un’illusione semplice o di due illusioni?»
«In
genere il secondo livello di illusione ha regole diverse dal primo. Nel secondo
livello l’illusione è più imprecisa, più vaga... però è più confusa anche la
coscienza della vittima. La vittima diventa più facile da manipolare».
«Va
bene, ma come faccio a vincere?» insisté Sasuke, senza preoccuparsi di sembrare
petulante.
Itachi
ne sorrise, piazzandogli le mani davanti al viso. «Devi essere ben allenato con
lo sharingan. E poi devi usare questi sigilli: pecora, tigre, drago. Alla fine
incroci le dita così» spiegò, mostrandogli più lentamente ogni passo della
tecnica.
«Sembra
facile» considerò Sasuke, esaltandosi. Iniziò subito a ripetere la sequenza dei
sigilli e sorrise beato quando scoprì di saperla eseguire velocemente. «Prova a
intrappolarmi, ti faccio vedere come mi libero subito».
«Non
si scherza con le illusioni, Sasuke. Le illusioni confondono e ti fanno perdere
il contatto con la realtà. Ma ricordati sempre che la realtà è una. Ed è
l’unico posto in cui valga la pena vivere».
Sasuke
annuì, fissando suo fratello negli occhi. Il primo impulso era stato quello di
liquidare quei discorsi perché ormai era davvero annoiato dalla teoria, però
qualcosa sul suo viso gli aveva fatto capire quanto Itachi fosse serio. A
Sasuke piaceva quando il suo nii-san lo guardava con espressione seria. Lo
faceva sentire grande, e importante, e intelligente abbastanza da capire i
pensieri di quello che la gente chiamava genio.
«Ho
capito», lo rassicurò, tentando di imitare con la fronte la linea severa delle
sopracciglia di Itachi. «E come mi libero di un clone oscuro?»
«Con
gli stessi sigilli di prima. Pecora, tigre, drago. Ma alla fine devi incrociare
le mani in quest’altro modo» disse Itachi, mostrandogli la nuova sequenza.
Sasuke
trovò di saper eseguire anche quella, e non poté impedirsi di sorridere.
«Almeno me la mostri qualcuna di queste tecniche?»
Itachi
parve pensieroso per un istante, poi lo attirò a sé, posandogli con leggerezza
due dita sulla fronte. «Ora non ho più tempo, otouto», sorrise, scusandosi.
«Perdonami, sarà per la prossima volta».
Sasuke
sbatté un paio di volte i pugni sulle gambe. «Dici sempre così», lo accusò.
«Non è che sto parlando con un tuo clone oscuro?»
L’altro
sospirò, palesemente divertito. «Allora prova a liberartene».
Sasuke
accolse la sfida senza timore. Si alzò a fronteggiare suo fratello e cominciò a
formare i sigilli che gli aveva appena insegnato.
Chiaramente
Itachi non sparì, e lui non sapeva se esserne felice o deluso.
«C’è
anche un altro modo per liberarsi di un clone oscuro».
«Qual
è?»
«Abbracciarlo».
Sasuke
arricciò il naso, contrariato. Pensò di essere davvero arrabbiato quando Itachi
si alzò a sua volta e fece per lasciarlo solo sull’engawa.
Quello
doveva proprio essere il suo clone oscuro.
Sasuke
non si accorse nemmeno di aver fatto qualche passo, ma un istante dopo stava
abbracciando suo fratello.
Che
non spariva, e forse – forse – non era proprio oscuro.
Ma
almeno era ancora con lui.
Sasuke si chiese quanto potesse fare
schifo la regola per cui se il giorno era stato mostruosamente terribile allora
la notte doveva essere anche peggio, se
possibile.
Si alzò di scatto dal letto,
avventandosi sul comodino per vuotare un bicchiere d’acqua. Quel sogno l’aveva
svuotato di qualsiasi energia. Era stato così vero… forse perché era l’esatta replica di un ricordo che Sasuke
conservava gelosamente tra le pareti della memoria.
E poi quel particolare ricordo innescava
la visione a catena di altri.
Per esempio, Sasuke ricordava dei
momenti in cui aveva sperato che fosse un clone oscuro di Itachi quello che
aveva perpetrato il massacro – eppure le sclere di quell’Itachi che gli aveva
parlato con voce fredda erano bianche, quasi vitree. Sasuke ricordava dei
momenti in cui aveva sperato di essere finito in un’illusione potentissima, e
forse per questo non riusciva sempre a capire se valesse la pena vivere – si vive solo nella realtà, Sasuke.
Allora Sasuke aveva deciso che la sua unica realtà fosse il passato e che la
realtà originale non fosse altro che un sogno lasciato a metà, perché era
davvero troppo orribile per essere vissuto in pieno.
Sasuke ricordava dei momenti in cui
aveva capito che anche se non si vede sempre, la parte oscura delle persone esiste
e Itachi aveva perso contro la propria – ma
non era perfetto, suo fratello?
Ricordava dei momenti in cui aveva
tentato di convincersi che sua madre fosse immortale, ma poi, sfiorandosi il
viso graffiato durante gli allenamenti, scopriva che nessuno aveva applicato un
cerotto sulle ferite e che per questo quelle ferite facevano ancora più male.
Sasuke ricordava dei momenti in cui
aveva odiato la solitudine, e aveva trascorso lunghissime notti insonni a
fissare la porta della sua camera, in attesa che Itachi la aprisse e gli
sorridesse e…
«C’è qualcosa che non va, otouto?»
I
riflessi rossi erano spariti.
«È solo il caldo», mormorò Sasuke,
riempiendo di nuovo il bicchiere sul comodino.
«Il caldo non ti fa tremare le mani»
obiettò l’altro, avvicinandosi al letto. Si inginocchiò di fronte a lui,
indagandogli gli occhi nonostante Sasuke si ostinasse a tenere le palpebre
abbassate.
«Ho fatto un sogno, ma non era male».
«E nelle sei ore precedenti al sogno che
hai fatto?»
Sasuke si accorse di non voler
rispondere, e non perché volesse mentire a suo fratello, ma perché finalmente
per qualche ragione riusciva di nuovo a sentirlo così vicino da non dubitare
che lui avesse già capito tutto.
Itachi immerse le dita nel bicchiere
d’acqua, inumidendole fino alle nocche bianchissime. Poi gli prese un braccio e
gli rinfrescò l’interno del polso coi polpastrelli bagnati. Era una cura per il
caldo, ma anche una carezza, fresca al punto da fargli pensare che l’afa fosse
solo un’illusione, mentre quelle dita erano così vere…
«Non sono arrabbiati con te, Sasuke».
«E allora perché mi tormentano?»
contestò lui, senza ritirare i polsi.
«Non lo fanno. Ti chiedono solo di non
dimenticarli».
Sasuke sussultò, il tocco di suo
fratello sulla pelle si fece più deciso. Era un conforto lievissimo, ma
sufficiente a fargli tentare un nuovo ragionamento.
Era la prima volta che Itachi lo
invitava a considerare il problema da quella particolare prospettiva.
Da tempo ormai quando tornava a casa,
quando tentava di dormire, Sasuke aveva la testa infestata dai fantasmi del
passato. Ma non era qualcosa che accadeva solo dentro di lui: i fantasmi erano
ovunque. Contro i vetri del suo balcone, fingevano di nascondersi dietro le tende
finissime e ricamate dalla mamma. Poi erano nei cassetti del suo comodino, in
cui ogni giorno riponeva il coprifronte e il ventaglio col simbolo del clan. I
fantasmi erano tra le lenzuola bianche e le inondavano di luce madreperlacea
così sinistra da far pensare che all’inferno non bruciavano le fiamme, ma
bastavano i riflessi dei morti a rendere terribile la punizione eterna promessa
da quel luogo. E quei corpi ineffabili ricoperti da veli avevano anche petti
possenti, per assurdo, perché dai polmoni traevano voci così acute e penetranti
da far sanguinare in un istante le orecchie che le ascoltavano e il cuore che
le accoglieva in sé – ci hai sfruttati,
Sasuke; hai disturbato il nostro sonno, Sasuke; e poi ci hai abbandonati. Per
Konoha. Per il villaggio che ci ha voluti
morti, Sasuke.
Nelle notti peggiori, oltre ai fantasmi
del suo clan e alle anime di tutti quelli che aveva importunato lungo la sua
ricerca della verità con Orochimaru, Sasuke vedeva anche gli shinobi morti più
recentemente a causa sua – si era fidato
del poligrafo, e della verità, e aveva sbagliato.
«Ho sbagliato», ripeté a Itachi, «forse
non dovevo disturbarli».
«Non è questo».
«Non li ho dimenticati. Come si fa a
dimenticarsi dei propri genitori? Non li ho messi da parte per il villaggio,
non…»
«Lo so», gli assicurò Itachi, immergendo
di nuovo le dita nel bicchiere. L’istante successivo gli passò una mano tra i
capelli, liberandogli la fronte dalla frangia.
«Ci sono stati dei momenti in cui ho
persino desiderato raggiungerli…»
«Mi hai già detto anche questo, lo so,
ma…» Itachi gli inumidì il viso e qualche ciocca di capelli particolarmente
ribelle. «Quello è successo quando non sapevi bene come elaborare il passato.
Quando facevi in modo di sentirti tanto vicino al passato da restarne
intrappolato. Invece io credo che l’unico modo di concepire il passato sia
osservarlo dall’esterno, così da non permettergli di diventare una gabbia, ma
solo una fonte di salvezza».
L’acqua sulle tempie era freschissima,
tanto che Sasuke chiuse gli occhi.
Itachi
era così vicino, ed era così… lui.
«E i riflessi rossi? E l’occhio
gigante?» lo sfidò a dire che fosse tutto a posto, che c’era solo bisogno di
tempo.
Le dita di Itachi scivolarono sul suo
viso, sulle palpebre, lambendogli le ciglia e poi le tempie. «Credo che non sia
compito mio rispondere. E credo anche che tu abbia già la risposta, solo che
ancora non lo sai».
Sasuke si rilassò per un istante, un
solo momento. Poi lo colse una fitta lancinante alla testa.
«Perdonami, Sasuke».
Spalancò gli occhi e venne sommerso da
una miriade di riflessi rossi.
Itachi
non avrebbe più dovuto chiedergli perdono. Non doveva. Non doveva importargli.
Sasuke si accorse del respiro un po’
accelerato, sentì il sudore freddo sulla pelle prima ancora di riuscire a
parlare. «Come hai detto?»
«Perdonami, forse ti ho bagnato un po’
troppo».
Sasuke lo sentì di nuovo distante, diverso. Il solo pensiero riusciva a
inquietarlo al punto che gli sembrò impossibile guardarlo negli occhi. «Ci sono
di nuovo i riflessi rossi».
Itachi sospirò – Itachi? Era davvero lui? «Senti, otouto, forse te l’ho già detto
ma… può capitare. Capita di vedere tutto rosso, di sentirsi spiati dagli occhi
delle persone defunte. Capita a chi ha troppe vite sulla coscienza, a chi
disturba il sonno dei morti… per cosa poi? Per un ideale irraggiungibile».
La
verità.
«Ma prima hai detto che i nostri genitori
non erano arrabbiati. Sei incoerente, Itachi» lo rimproverò lui, senza
aspettarsi una reazione particolare.
«Non c’è niente di male in questo»
obiettò il fratello, con calma. «L’esistenza della coerenza è la seconda
illusione più grande di tutti i tempi».
«E la prima quale sarebbe?»
«L’esistenza della verità».
***
Succedeva ogni mese. Qualche shinobi
veniva condannato per sbaglio – perché la verità sul suo conto era solo
parziale, perché qualcuno al riguardo mentiva. Shisui ricominciava con la
storia del poligrafo e compiangeva i ventimila ryo dell’hokage mandati in fumo.
Sasuke si stressava al punto che vedeva anime in pena ovunque. Itachi, di buona
lena, si alzava una mattina e lo trascinava con sé al centro benessere.
Affittavano sempre la solita stanza, in
cui trovavano sempre le stesse lenzuola e la stessa frutta fresca. Da quelle
parti a ogni ora del giorno c’era qualche ninja capace di manipolare il vento,
e la notte era piacevole dormire con la finestra aperta riparati solo dalle
tende svolazzanti: la brezza era lievissima e soffiava sui corpi distesi tra le
lenzuola come se avesse segreti discreti da affidare alla pelle dei ragazzi. A
volte Sasuke aveva l’impressione di coglierli, quando per un istante si
soffermava a osservare i capelli di Itachi mossi dall’aria, quando
discretamente gli scostava una ciocca dal viso. Gli sembrava che quell’aria
avesse qualcosa di bello da dire e che lui fosse pronto a capirlo – i morti affidano la loro voce al vento,
Sasuke. E il vento ti sfiora dappertutto, ti accarezza come tua madre non può
fare più.
Quando sentì un richiamo lontano, aprì
gli occhi. Non si era nemmeno accorto di averli chiusi, ma evidentemente era
riuscito a dormire tutta la notte senza svegliarsi nemmeno una volta.
La stanza era ammantata dai soliti
riflessi rossi, eppure gli sembravano più discreti, sicuramente meno
fastidiosi.
Un corvo continuò a gracchiare sul
comodino e lui si decise ad alzarsi. Riuscì a raggiungere Itachi in poco tempo
e lo trovò completamente immerso nell’acqua di fonte. Un brivido gli attraversò
la schiena al pensiero di quanto fosse fredda; era carico di aspettativa e
impazienza. Si sfilò la maglietta gettandola su una sedia lì vicino e si
avvicinò al limite della conca.
«Avvicinati, Sasuke» lo richiamò suo
fratello, incoraggiante.
Sasuke sospirò, e un momento dopo si
fece coraggio. Lasciarsi cadere nell’acqua gelida era sempre un’esperienza ai
limiti del tollerabile. Contrarre i muscoli e lasciare che la pelle si
ritirasse su stessa non era sufficiente come meccanismo di difesa.
Guardò minacciosamente le bollicine che
salivano a pelo d’acqua direttamente dal fondale: erano
piccole, animate da una forza sconosciuta e nascosta dalla sabbia scura.
L’acqua gli arrivava a malapena sui fianchi. Sasuke allungò le mani
congiungendo le braccia e senza nemmeno pensarci si immerse completamente nella
polla.
Riemergere fu come rinascere, come se
l’abbraccio della sorgente fosse quello di una madre e l’aria intorno a lui
fosse quella di un nuovo mondo.
Sasuke sentì la pelle gelida e
rabbrividì quando un alito di vento scivolò sulle sue spalle e poi sul suo
petto.
«Almeno ora avrai capito che si trema
per il freddo, otouto, non per il caldo».
Sasuke lanciò uno sguardo irritato a suo
fratello, trovando che sulla sua pelle bagnata i riflessi rossi assumevano
sfumature particolari. Il sole era alto in cielo, eppure sembrava che
all’orizzonte stesse tramontando una luna di sangue – c’è sangue ovunque, Sasuke, ed è quello dei defunti che hai disturbato,
quello degli shinobi che hai condannato.
Sasuke scosse un po’ la testa,
desiderando che i capelli si liberassero di tutte le gocce d’acqua incastrate
tra di essi per evitare che continuassero a scorrergli sulla schiena. Qualcuna
di quelle gocce andò a finire addosso a Itachi. Non si era nemmeno accorto che Itachi
fosse tanto vicino fin quando non notò che la sua pelle bianca era tirata e
ruvida come la propria – la sorgente era davvero
gelida.
«Continui a odiare l’estate?»
«Certo».
«Davvero?»
Sasuke esitò, accorgendosi che dopotutto
quel momento non era così male.
«E non ti piace nemmeno il pensiero che
d’estate… tutti si comportino in maniera più naturale? Che di solito c’è
qualcosa che ci ingabbia e sembra addirittura razionale questo qualcosa, fin quando il sole non diventa
così bollente e l’aria così calda che il freno si scioglie e non rimane altro
che… la voglia di comportarsi come si è sempre desiderato». Itachi gli posò una
mano sul polso, fermandosi davanti a lui, con le spalle riuscì persino a
ripararlo da un altro soffio di vento.
«Che assurdità».
«Come funziona il poligrafo Sasuke?»
Lui osservò con attenzione suo fratello,
che aveva l’aria di uno che stava seguendo un filo di pensieri molto
particolare, col viso vicino al suo e gli occhi puntati sulle sue braccia.
«Misura l’aumento della pressione, il polso, la respirazione, la temperatura
corporea…»
Itachi posizionò due dita sui suoi
polsi, attirandolo un po’ a sé dopo aver trovato l’arteria. «Non è curioso…»
osservò, sorridente, «non è curioso che il nostro corpo reagisce allo stesso
modo quando mentiamo e quando proviamo emozioni fortissime?»
«Abbastanza», accordò Sasuke, guardando
le dita di Itachi fermissime sul suo polso. Era strano, e quella stranezza gli
mandava il cuore in gola perché non era una di quelle cose che aveva imparato
ad affrontare.
«Il meccanismo del poligrafo si basa su
alcune evidenze. Quando dici la verità il sangue non scorre impazzito nelle
vene, il cuore non batte più forte, la pelle è asciutta e fresca invece di
essere calda come quella di una persona veramente viva». Itachi poggiò le
labbra sul suo collo, erano soffici e nascondevano ancora qualche parola
insidiosa.
Sasuke non ci capiva niente. Non sapeva
nemmeno se dovesse trovarlo piacevole o sgradevole, sapeva solo che era strano, e anche sbagliato.
La mano di Itachi abbandonò il suo polso
e gli accarezzò lentamente l’avambraccio, la spalla, poi il centro del petto – lui
lo sentiva col cuore che batteva più forte e il sangue impazzito nelle vene e
il respiro mozzato in gola e il collo e le guance in fiamme.
«Quando dici la verità non succede tutto
questo, perché è priva di emozioni, è diversa da queste emozioni». Itachi gli
baciò la pelle poco al di sopra della clavicola, sospingendo un ginocchio tra
le sue gambe.
Sasuke gettò la testa all’indietro, con
gli occhi quasi sul punto di chiudersi. Era
pieno di rabbia.
Era
pieno di rabbia quando vide di sfuggita un occhio rosso che sovrastava il
cielo.
«Dipende dal tipo di verità, Itachi»
disse, allontanandolo da sé, e gli sembrò sbagliato il fatto stesso di averlo
chiamato col nome di suo fratello.
Quello
non era Itachi.
Non
era di quell’amore che si amavano.
L’amore
di Itachi non era provocante, ma protettivo.
«Il caldo ti ha dato alla testa» mormorò
Sasuke, senza sapere bene dove guardare. C’era rosso dappertutto.
«Puoi liberartene se vuoi». Itachi gli
dedicò uno sguardo lungo, eloquente. «Posso dirti come liberarti dell’estate,
otouto. Ma ricordati che sarà come rinnegare per sempre l’ideale della verità».
Sasuke socchiuse gli occhi.
Quello
non era Itachi. Itachi una volta aveva detto che la verità era bella – l’aveva
detto con occhi commossi, quasi intendesse che la verità fosse bella come lui
(come te, Sasuke, come te).
Quello
doveva essere una sua pallida imitazione, il suo clone oscuro.
Sasuke sospirò, stringendo i pugni. Era
abbastanza grande da sapere che un clone oscuro non sparisce con un abbraccio.
Ma non riusciva a impedirsi di pensare a Itachi – al vero Itachi, quello che aveva rincontrato per pochi attimi di due
sere prima – e a Sasuke veniva in mente che il modo giusto per guardare al
passato era usarlo come fonte di salvezza, non come gabbia.
E
lui aveva così tanto bisogno di salvarsi, solo per un momento…
Sollevò le braccia lentamente, un po’
esitante. Poggiare le mani dietro la schiena di suo fratello fu
sorprendentemente strano. L’ultima persona che aveva abbracciato nella sua vita
era stato proprio Itachi – quello vero,
non il suo clone oscuro – e Sasuke allora aveva otto anni.
Ora ne aveva molti di più, e Itachi
aveva la stessa pelle liscia e la stessa schiena rigida.
«Dimmi come mi libero dell’estate,
nii-san».
Sarà
come rinnegare l’ideale della verità.
«È facile otouto. Servono solo tre
sigilli: pecora, tigre, drago. Poi incroci le dita».
Pecora,
tigre, drago. Poi incroci le dita così – Così come?