Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: indiceindaco    16/09/2012    2 recensioni
"La lingua italiana è piena di parole terrificanti ed orribili. Parole come: broccoli, silenzio, tasse. Ecco, parole come queste le sopporto, anche se non mi piacciono, perché non sono terrificanti né orribili. Parole come: sangue, tradimento, topo. Queste invece mi fanno proprio schifo. [...] Parole come: Terapia intensiva. Barbiturici. Tiopental sodico. Edema. Coma farmacologico.
Ecco, parole come queste non avrei voluto sentirle mai."
Una storia che aveva bisogno d'essere scritta per essere raccontata.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

2. Il risveglio.

 

La madre di Stef, al quarto caffè, seduta compostamente, le lacrime secche sulle guance, ci guarda.

Nessuno sembra poter articolare un pensiero sensato.

Michele mormora un "perché" rivolto ad un interlocutore che solo lui sembra poter vedere.

Marghe piange in silenzio, Duff ha la testa appoggiata alla sua spalla ed ogni tanto si lascia sfuggire un singhiozzo. Leo mi guarda, anche se i miei occhi feriscono il vuoto. 

Alessandro è di spalle: è sempre così, quando non riesce ad accettare qualcosa, lui gli volta le spalle. Un'idealista come lui non sembra possa fare altrimenti.

Pier abbraccia Sofia, la tiene stretta, sussurrando parole che non riesco ad ascoltare. 

Poi d'improvviso il silenzio si infrange, le parole ci colano sulla pelle, raggrumandosi come qualcosa di vischioso e amaro. Come il caffè sui miei jeans, caduto un attimo fa dalle mani di Marghe, quando Domelli, con tutto tirato a lucido e la voce di uno che non gliene frega niente, ci ha dato la notizia.

-Ragazzi, forse è meglio che andiate a casa, adesso. Avete sentito il dottore: non possiamo fare nulla al momento. In più Stefano non può vedere nessuno.- la voce della signora Sorioli è ferma, decisa, un po' severa.

Non la capirò mai questa cosa delle madri: basta che abbiano un figlio e poi è come se d'improvviso ogni ragazzo, coetaneo della tua progenie, fosse figlio tuo. Si preoccupa per noi, in un momento simile? Le madri…

-In più i vostri genitori saranno preoccupati.- sussurra. Temo che scoppi di nuovo a piangere. 

Non saprei cosa dire, cosa fare. Come consoli una madre? Come si fa a consolare chiunque?

Ma non piange, forse ha già svuotato i condotti lacrimali, sulla spalla di Michele. Forse non ci sono più lacrime che possano lenire la ferita, disinfettarla almeno. 

Leo si alza dalla sedia accanto alla mia, stringe fra le mani il suo portachiavi di metallo, quello con inciso uno scorpione e la sua data di nascita. Glielo avevamo regalato per i diciotto anni, era d'argento, e farlo incidere ci era costato una fortuna. L'idea stramba del segno zodiacale e della data di nascita era di Stef. La frase dietro al portachiavi era una mia idea: " Amicitia vincit omnia".

Era iniziata per scherzo quella storia del portachiavi: adesso ne abbiamo sei. Ognuno con un incisione diversa, una data diversa, ma con la stessa frase. 

-La Signora ha ragione, ragazzi. Forza, andiamo…- dice Alessandro, voltandosi, finalmente.

Duff, Sofi e Marghe abbracciano la madre di Stef, poi Michele.

-Io resto…- dice lapidario Pier.

Leo abbraccia prima Mike, Pier e poi la signora. Io faccio lo stesso con Mike, poi la madre di Stef mi tira fra le sue braccia dicendo:

-Se hanno novità vi chiamiamo subito.

Pier mi guarda, leggo la richiesta d'aiuto nei suoi occhi, lui che non è mai stato di tante parole e che ha sempre preferito "cavarsela da solo". 

-Passo a prenderti più tardi. Chiamami.- gli dico, una mano sulla spalla.

Non mi dice grazie, ma posso sentire la sua voce urlarlo.

 

***

 

Entro in casa. L'odore della Wiston Blue ancora attaccato addosso. 

Dopo aver accompagnato Duff e Sofi a casa, Leo mi ha guardato ed ha subito capito quanto avessi bisogno della nicotina in quel momento.

Ha fatto un tiro, in silenzio. Lui ha smesso da un anno ormai, ma lì accanto a me, m'ha guardato senza chiedere nulla.

Ci siamo abbracciati, come raramente è accaduto.

-Dormi un po'.- m'ha detto prima di salire in macchina ed avviare il motore.

Entro in casa, sono le sette di mattina.

Il post-it è sul tavolo all'ingresso. Solo ora riesco a razionalizzare.

Mio padre sarà già uscito per andare al lavoro, l'odore del caffè sguiscia dalla cucina e tenta le mie narici.

Dal bagno, in fondo al corridoio, il rumore dell'acqua che scorre: Erica starà facendo la doccia, oggi ricomincia la scuola per lei.

Varco la soglia della cucina e la vedo:

Giovanna, nella sua vestaglia soffice ed azzurra. Ricordo quando da bambino poggiavo la testa sulle sue gambe, mentre lei mi accarezzava i ricci scuri e mi raccontava di un mondo fantastico dove poi in sogno mi rifugiavo. Ricordo il profumo di quell'azzurro, la sua morbidezza sulla mia guancia.

I capelli ricci di mia madre sono avvitati su loro stessi, come il fumo della sigaretta che ha abbandonato sul posacenere blu.

La caffettiera fischia e lei mi guarda. Ha il volto segnato dal tempo, accarezzato dall'esperienze, e un cipiglio severo e contrariato.

Mi siedo, senza dire niente, lei non smette di guardarmi, nemmeno quando poggia la moka bollente sul poggia pentole nel tavolo bianco.

-Hai la vaga idea dello spavento che ci hai fatto prendere?

Non connetto subito, la guardo per un'istante, abbassando subito lo sguardo.

Lei si alza, poi ritorna, ciabattando,  e schiaffa rumorosamente il post-it giallo sul tavolo.

 

È successo un casino,

Leo è venuto a prendermi.

Ci vediamo più tardi.

 

-Si può, di grazia, sapere cosa diavolo è successo? E non ti azzardare più ad uscire di notte, senza dirci nulla. Ed arrivare alle sette di mattina dopo un biglietto del genere?! Avanti, Matteo! Aspetto una giustificazione. E mi auguro sia quanto meno plausibile.

Le parole di mia madre, furenti, mi arrivano a sprazzi. 

Il biglietto che ho lasciato deve averli spaventanti a morte. E non è decisamente da me una cosa del genere.

Lascio che mia madre si sfoghi un altro po'.

-E non dirmi che hai vent'anni e che non devo preoccuparmi, perché ti tartasserò finché di anni ne avrai cinquanta. Non ti credere che puoi fare quello che vuoi! Entrare ed uscire come fossi in albergo. Questa è casa mia e sotto questo tetto ci sono delle regole! Quante volte te lo devo dire che…

-Mamma, Stefano ha avuto un incidente. È in coma. Sono uscito sta notte, per andare al Policlinico.

Il silenzio, ancora una volta, si fa esasperante.

Fuori, sento la voce dell'ambulante, quello che passa ogni fine settimana, la mattina, per vendere il pesce:

-Merluzzo! Merluzzo fresco! Sgombri, Orate, Seppie, Gamberi…già sventrati e puliti!

Ecco, è proprio così che mi sento: sventrato, ma terribilmente sporco.

 

***

 

Sono seduto sulla mia panda. Aspetto che Pier venga giù dal suo palazzo.

Mi ha chiamato un'ora fa, con le parole di chi non ha dormito neanche un po' e la voce secca, pittura già asciutta sulle pareti.

C'è sempre un qualcosa di ineluttabile nel suo modo di parlare, di definitivo, come se fosse sempre troppo tardi.

Pier è una persona enigmatica, ama stare sulle sue, non dar nulla di sé agli altri, né tanto meno far gravare i propri problemi su qualcuno. Ero sicuro che non m'avrebbe chiamato, sebbene glielo avessi detto.

E invece il display si è illuminato con la sua chiamata, e con la mia sorpresa.

Vedo che chiude il portone alle sue spalle, accompagnandolo, senza far rumore. Quell'immagine potrebbe riassumere perfettamente l'idea che ho di Piero.

Un ragazzo col capo chino, che si trascina nel mondo senza voler far troppo casino, senza voler sconvolgere equilibri o spezzare la quiete, un ragazzo che rispetta profondamente l'essere delle cose, senza voler turbarle.

Sale in macchina, accompagna lo sportello.

-Non hai dormito neanche tu.- dico, ma non è una domanda, so che Pier odia le domande.

-Andiamo a farci un caffè da Nazo.- ribatte secco.

 

***

 

Avevo quattordici anni. Quel giorno c'era stata la manifestazione ed io, già indirizzato da Leo, agli alti ideali rivoluzionari, avevo ovviamente partecipato.

Roba che se ci si pensa adesso mi vien solo da ridere. Ricordo i miei jeans larghi e strappati, il felpone bordeaux e la maglia di AddioPizzo. Ricordo le mie Etnies enormi, due misure più grandi, perché si portavano larghe da perderti dentro. E ricordo le canzoni cantante a squarciagola.

Saranno state le undici di mattina, quando all'ennesimo coro un poliziotto, al tempo li chiamavo "sbirri", mi afferra per l'avambraccio e mi trascina fuori dalla massa manifestante, come fossi stato un rametto secco da potare via.

-Che cosa crede di fare?- dice con voce autoritaria, ma che a me fa scappare un sorriso.

-Mi sembra ovvio…-ribatto spavaldo.- Sto esercitando uno dei miei diritti, sancito dalla Costituzione, articolo 17.

Lo ammetto, avevo già dissotterrato l'ascia di guerra, magari esagerando. Ma a me, soprattutto nel periodo adolescenziale, piaceva esagerare. 

-Ah, sì? E lo sai per cosa stai manifestando?

Se c'è una cosa che m'ha sempre dato fastidio, e che sempre me ne darà, è la gente convinta.

Dice, convinta di cosa? Convinta d'essere arrivata, realizzata. D'essere sulla cima della collina e di potersi permettere di guardar tutti gli altri come fossero merde. Di poter ridere del loro arrancare in salita.

La gente convinta di saperne più di te. Non m'è mai andata giù la supponenza né la presunzione.

-E lei lo sa che paese sta rappresentando? 

Il poliziotto subito si scalda, comincia ad inveire contro di me. Dalle labbra mi sfugge la parola meno giusta da dire in momenti come quello: fascista.

Avevo quindici anni, e nessuna capacità di tener a freno la lingua.

-Questo è oltraggio a pubblico ufficiale!

-No, caro mio…questo è abuso di potere!- niente, ero andato. A quel tempo difficilmente riuscivo ad incassare una provocazione, difficilmente non la raccoglievo e rilanciavo.

Vedo la mano del poliziotto scattare sul manganello che porta al fianco.

-Agente, mi scusi, non vorrei intromettermi, ma io e il mio amico, qui, stavamo proprio andando via.

La voce di Pier mi ha in un secondo ritrovato e spalleggiato.

-E tu chi diavolo sei, ragazzino? Vuoi prenderle come sta per fare il tuo amico, qui?- ringhia il poliziotto.

-Non è mia intenzione, Agente. 

Pier mi stringe una mano sulla spalla, come a voler intimarmi di tacere.

-Voglio nomi e cognomi e documenti e…- l'agente farnetica, la calma di Pier lo spiazza, ed è evidente. Per tutti gli adulti è così.

-Certo Agente, io sono Pietro Flesi, prego…- Pier, sicuro della vittoria, porge la carta d'identità.

L'espressione del poliziotto, a sentire il cognome di Pietro è del tutto tramutata. Un sorriso mi troneggia spavaldo.

-Signor Flesi, sono desolato io, non potevo davvero immaginare…mi scusi se l'ho disturbata, io…

-Lasci Agente, non è nulla. Ritorni pure a garantire l'ordine pubblico. E se vede mio padre, in Centrale, gli dica che sta sera dormirò fuori.

Saranno sbirri, saranno fasci, ma avere un padre al Comando ti evita tanti lividi.

 

***

 

Dire che Nazo ci ha visto crescere è poco. Ha un piccolo pub in centro. Quando lo abbiamo scoperto, in uno dei tanti sabati sera passati a bighellonare, avevamo quindici anni.

Stef aveva subito attaccato bottone, e Nazo se l'era preso in simpatia.

Nazareno ha trentacinque anni, lavora al suo piccolo pub, "La Caletta", da almeno una decina d'anni. Anche per lui quest'avventura era cominciata un po' per gioco, un po' per scommessa.

Il suo amico Roberto aveva un magazzino, eredità del nonno. La zona era centrale, in una delle tante viuzze anguste di fronte al Teatro Massimo.

I clienti non sarebbero mancati, diceva Robe, ed infatti aveva ragione.

Poi Roberto s'era sposato e aveva messo su famiglia, il locale era stato rilevato interamente da Nazo, che con i risparmi di una vita lo aveva ingrandito e abbellito, reso anche Bar.

Appena entrati il sorriso di Nazo ci accoglie come un porto sicuro.

Lui è una di quelle persone così: può anche essere un giorno di merda, ma stai sicuro che Nazo sarà sempre lì a sorridere della vita ed alla vita.

Una volta, lo ricordo come fosse ieri, Stef era ubriaco perso. Avevamo inventato un cocktail con Nazo, e lui era la cavia naturale dei nostri esperimenti.

Ah, già…Stef è astemio, anche. Insomma è il nostro clown personale.

Era un periodo di magra per Nazo, gli affari andavano poco bene, aveva dei debiti da risanare e la netta impressione che presto il Pizzo sarebbe arrivato anche a lui.

Eppure rideva, eccome se rideva. Con le lacrime agli occhi e il singhiozzo di chi ha riso troppo.

Ricordo che Axel gli si è avvicinato per chiedergli se fosse tutto ok.

-Alé, ricordati sempre di ridere. Uno può essere morto dentro, ma non deve mai smettere di ridere. Ché le lacrime le dobbiamo lasciare a chi ci vuole male!

A quella frase di Nazo tutti ci siamo ammutoliti, tranne quell'ubriacone di Stef:

-Nazo, dovessi fallire nella vita, me ne vengo a lavorare qua da te!

E giù tutti a ridere.

 

***

 

Una volta entrati alla Caletta, ci sediamo su due sgabelli, Nazo è sul retro.

Il tintinnare della tenda fatta con i tappi di bottiglia ci annuncia il suo arrivo.

-Oh, i miei clienti preferiti! Matte e Pier! Che si dice ragazzi?

-Ciao Nazo, com'è?- dice Pier neutro.

-Solita solfa: caffè, cappuccini, brioches,  succo d'arancia alla mattina e sex on the beach, tequila sunrise, mojito alla sera. Voi?- comincio a credere davvero, nonostante le occhiaie e qualche nuova ruga d'espressione, che Nazo non cambierà mai.

-Tutto bene…facci due caffè, vah.- dico io, con un sorriso forzato.

-Arrivano subito! Matte lungo e Pier macchiato, giusto?- risponde Nazo, la mano portata alla fronte, in un comico simbolo militaresco.

-Come sempre, Nazo.- il sorriso tirato di Pier deforma anche le parole.

Nazo si volta, verso la macchinetta, Pier gli chiede lo zucchero. Mentre traffica con le cialde glielo indica, aldilà del bancone. Pier si sporge a prenderlo.

Avviata la sua fedele macchina del caffè, Nazo si rivolge di nuovo verso di noi, mi guarda negli occhi.

-E quel pigrone di Stefano dove lo avete lasciato?

Il panico in gola, gli occhi di Pier si riducono a due fessure. 

Io mi sento schiacciato sullo sgabello. Che ci faccio lì, da Nazo? Dovremmo stare in ospedale, anche se la signora Sorioli ci ha mandato via, anche se il medico ci ha detto che non c'è niente da fare, anche se Stefano non può vederci…Dovremmo stare lì.

Nazo ride divertito, forse non cogliendo le nostre espressioni.

-Non ditemi che sta ancora dormendo alle dodici! Incredibile…quel ragazzo dormirebbe diciotto ore di fila senza nemmeno accorgersene!

-Si ma poi si sveglia sempre…- dice Pier, lo sguardo alla bustina di zucchero che stritola fra indice e pollice.

Guardo oltre la spalla di Nazo, il mio caffè è quasi pronto. Se non lo toglie da lì potrebbe straripare, come i miei occhi.

-Ragazzi? Ma…è successo qualcosa?

Fisso il mio sguardo sugli occhi di Nazareno.

-Stefano è in coma. Dorme e non se ne accorge. Forse non sa di star dormendo.- non so dove io abbia trovato quelle parole, né perché le abbia usate.

Il mio caffè si tuffa fuori dalla tazza, infrange l'orlo e sparisce.

Il silenzio cola dalle pareti e dagli occhi di Pier.

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: indiceindaco