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Autore: Kimmy_90    18/09/2012    3 recensioni
[Sequel de "I Frutti dell'Oblio"]
Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.
Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.
Non importava.
Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.
Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".
Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.
Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"
E lei: "Io non ho padre."
Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.
Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo."
[ Warning: "inversione generazionale"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kushina Uzumaki, Nuovo Personaggio, Yondaime | Coppie: Minato/Kushina
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale'
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(6) – [ Tempora, Actio: Seditio, Contraria Vis. Fuga, Timor, Dubium. Repetere. ]




"Senti, Kushina..."

Mebuki le si inginocchiò di fronte, guardandola negli occhi azzurrognoli: la bambina ricambiò lo sguardo, sostenendolo senza fare una piega, un vago sorriso disteso sul volto. Attese, placida, che la donna continuasse il suo discorso.

Obito, arretrato di qualche metro, stava trafficando con il suo bracciale da viaggio: esplorava le frequenze una per una, cercando di mettersi in contatto con tutti colore che si trovavano nei pressi del Ludus.

"Hai detto che sei qui da sola?" domandò Mebuki alla bambina, mantenendo un tono estremamente materno.

Kushina annuì.

"E come mai?" continuò la donna, che non riusciva assolutamente a farsene una ragione.

Kushina fece spallucce, come già aveva fatto altre volte.

Mebuki corrugò la fronte, meditabonda; scostò un isto lo sguardo da quello della piccola, che per qualche strano motivo le pareva la stesse studiando più di quanto non la stesse studiando lei. Eppure, Kushina era il volto dell’innocenza.

"Qual è il problema?" chiese la bambina - come se, una volta spiegatale per bene la situazione, lei avrebbe potuto risolverla.

Mebuki sospirò: era il caso di prendere il problema di petto.

"Senti, Kushina, qual è il tuo cognomen?"

La bambina ritrasse la testa, perplessa da tale domanda. "Il cognomen?" domandò, quasi incredula.

"Massì, Kushina, il tuo cognomen. Io mi chiamo Mebuki Uchiha, per esempio. Tu?"

"Kushina." rispose quella, retorica.

"Kushina è i tuo nomen. Qual è il tuo cognomen?"

Lei aggrottò le sopracciglia, più perplessa di prima. "Ma... che importanza ha la mia Gens?"

Obito, che sino ad allora era rimasto concentrato sulle frequenze radio, drizzò improvvisamente le orecchie, levando il capo. Scrutò la bambina, vigile, le labbra schiuse. Mebuki rimase immobile, raggelata.

Ma Obito pareva avere le idee piuttosto chiare, invece: "Kushina." la richiamò quello.

La bambina posò lo sguardo sul ragazzo, poco più che ventenne, ritrovandosi a guardare dritta dentro i due occhi neri. Il volto di Obito si era fatto serio, una sfumatura espressiva che tutto sommato non usava volentieri fuori dal Consiglio.

"Kushina, dimmi: chi è tua madre?"





Dapprima non realizzò cosa aveva provocato quel rumore, secco e leggermente acuto.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.

Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".

Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.

Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"

E lei: "Io non ho padre."

Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.

Obito, allora, era rimasto in silenzio. Aveva cercato Mebuki con lo sguardo, ma quella rimaneva intenta a fissare per terra, ancora inginocchiata di fronte a Kushina.

Il ragazzo aveva fatto un profondo respiro, socchiudendo le palpebre. Da seduto quale era, si era messo in piedi, le labbra serrate.

Minato, spettatore, aveva continuato a distribuire lo sguardo tra il cugino e la bambina, cercando di cogliere un qualsiasi significato dai loro gesti e movimenti.

"E i tuoi fratelli, Kushina?" aveva chiesto poi il ragazzo.

"Loro sono i miei fratelli." aveva risposto la bambina: Minato aveva aggrottato le sopracciglia, guardandosi maldestramente attorno. Già lì qualcosa gli era sfuggito.

Obito si era concesso un secondo respiro profondo per poi portarsi un pugno al petto: aveva battuto sulla cassa toracica, senza interrompere il contatto visivo con la bambina, e poi, a palmo aperto, aveva battuto una seconda volta:

"Ignis Regionibus." aveva detto poi, quasi mormorando, attonito.


E lei, ruggendo: "PATRIAE FRATRES! FATI FR -"


Lì era arrivato quel suono.


Secco.

Improvviso.


Capace di zittire la bambina, la quale sembrava stare mostrando un’innata determinazione nel pronunciare quelle parole, ignote a Minato.

Lo capì dalla forma rossa che andava dipingendosi pian piano sul volto di Kushina: cinque dita sottili e ben definite.

Uno schiaffo.

Era stato uno schiaffo.

Kushina era rimasta immobile, paralizzata, incapace di respirare non dopo un sussulto sgomento a quell’evento del tutto inaspettato: Mebuki, davanti a lei, ancora teneva per aria la mano con cui l’aveva colpita.

L’ira rabbiosa dipinta nel volto della madre pareva tanto feroce da non essere neanche comparabile alla peggiore delle occhiate che aveva dedicato a lui.

E Kushina, intanto, tremava: dritta, in piedi, rigida nella sua posizione, salda sul terreno ma tremante come una foglia, il fiato bloccatolesi nei polmoni, incapace di uscire come di entrare, gli occhi che dimenticavano di sbattere le palpebre, sbarrati, le pupille fisse sulla donna: l’espressione, nel complesso, vuota e sconvolta.

Dopo quei tre secondi che gli ci vollero per capire cos’era accaduto, Minato si lanciò a frapporsi fra le due, imbestialito.

"Ma che fai!?" Urlò alla madre, parandosi davanti a Kushina. Quella, solo a vedere la figura del bambino irrompere nel suo campo visivo interamente concentrato su Mebuki, parve risvegliarsi e, nel farlo, perse l’equilibrio cadendo sull’erba.

Obito sembrava incredulo: dopo essersi guardato a lungo la mano con cui si era battuto sul petto, dovette ritornare ad osservare la bambina, seduta malamente dietro a Minato.

"Mi prendi in giro?" strillò, di colpo, Mebuki - sempre rivolta a Kushina. La donna fece per mettersi in piedi, ma il figlio, non appena la vide muoversi, allargò i piedi sull’erba e spalancò le braccia, più che deciso a fare da barriera fa le due.

"Mebuki, calmati!" la intimò Obito, muovendo qualche passo verso di lei. "E’ solo una bambina!"

Minato rimaneva lì, senza riuscire a capire cosa sconvolgesse tanto i due parenti, ma più che deciso a proteggere Kushina: come aveva detto Obito, era solo una bambina – come si era permessa sua madre di schiaffeggiare una figlia non sua? Le labbra strette per la determinazione, il biondino non si muoveva, se non per un vago tremore dovuto alla tensione del momento.

"Chi ti ha insegnato queste cose, eh?" continuò Mebuki, urlando a denti stretti. "Chi!?"

Kushina rimase muta, gli occhi sbarrati, sconvolta. Degulitì, stringendo leggermente un ciuffetto d’erba tra le dita.

"Mamma, lasciala in pace!"

La donna abbassò lo sguardo sul figlio – pareva che, nella foga, non si fosse nemmeno resa conto che l’ostacolo che s’era frapposto fra lei e Kushina era proprio suo figlio – e non un altra cosa.

"Minato! Togliti di là!"

Quello fece di no con la testa.

"Minato! Non sono affari tuoi!"

"Non puoi picchiare i bambini degli altri!" fu la risposta del ragazzino. "Vigliacca!"

"Taci, Minato!"

Con queste parole Mebuki fece per avanzare, pronta a prendere il figlio di forza e rimuoverlo quale intralcio per la comunicazione fra lei e la bambina. Prima che riuscisse a compiere mezzo passo, Obito la afferrò, cingendole la vita, per fermarla.

"Calmati, Mebuki. Calmati!"

Minato, vista la condizione di sicurezza in cui lo aveva messo il cugino, arretrò, per poi andare ad accovacciarsi accanto a Kushina.

"Stai bene?" le chiese - rendendosi conto, man mano che pronunciava tale frase, di stare dicendo una cosa fortemente stupida. No che non stava bene – era abbastanza ovvio. Ma Kushina, dal canto suo, annuì – per quanto lo fece mantenendo la sua espressione stranita e disorientata, lo sguardo incollato, sin da prima, sulla madre di Minato.

"Respira. Calma."

Mebuki cercò di seguire per qualche istante i consigli di Obito, ma non appena smise di ansimare rabbiosa, le lacrime iniziarono ad inondarla.

"No, Mebuki, dai – forza." ecco, questa era una di quelle cose che mettevano il ragazzo a disagio, decisamente a disagio.

Lasciò andare la donna, la quale, per fortuna, si riprese entro breve, ritrovando una parvenza di calma.

Obito sospirò, avvicinandosi a Kushina e Minato.

"Kushina, ehi."

La bambina volse meccanicamente gli occhi verso di lui, apparentemente incapace di muovere ogni altro muscolo.

"Con calma, eh?" fece il ragazzo, sentendosi lui per primo poco credibile. Nell’ ‘eh’ gli si era inacuita la voce, rendendolo decisamente non molto rassicurante.

Ma Kushina annuì.

"Allora, Kushina." Guardò prima lei, poi Mebuki – che stava in piedi dietro di lui, sciupata – e nuovamente la bambina. "Dimmi, dove le hai imparate queste frasi?"

Quella rimase immobile, come se fosse incapace di comprendere la domanda. Zitta, muta, lo guardava interrogativa e impaurita.

"Va bene..." Obito si inginocchiò, non prima di aver ricontrollato le condizioni di Mebuki. "Ricominciamo. Chi ti ha insegnato quelle frasi? Dove le hai sentite?"

Kushina continuava a non parlare.






"Per chi combatti, Kushina?"

Lei fece per schiudere le labbra, ma poi si trattenne. E non disse niente, nonostante fosse palese che volesse rispondere.

"Dove vai, Kushina?"

La bambina deglutì saliva, per l’ennesima volta.

"Chi sei, Kushina?"

Sembrava non farcela più - gli occhi ricolmi di lacrime, le sopracciglia inarcate verso il basso, sulla fronte giovane riuscivano ad apparire complesse rughe. Rossa in volto, il fiato grosso ed ancora malamente seduta per terra, si lasciò sfuggire in un soffio: "Nessuno."







Obito si caricò la bambina sulle spalle, la quale, una volta terminata quella specie di interrogatorio, si era calmata tanto da addormentarsi. Era evidente, più che evidente, che fosse esausta. Mebuki non riusciva ad incrociare lo sguardo né del cugino né del figlio, vergognandosi di quello che aveva fatto: tirare uno schiaffo a una figlia non sua, ad una bambina, guidata unicamente dalla rabbia. Era stato un atto, prima che scortese nei confronti della piccola e dei suoi genitori, fortemente immaturo. Accecata da un odio che pensava di non dover più provare, aveva perso il controllo e si era avventata su quella che, comunque stessero le cose, altro non era che un’innocente.

Rimasero, avvolti nel silenzio, fino a tardi. Aspettarono e cercarono, sulle frequenze e chiedendo agli altri visitatori, chi fosse alla ricerca di una bambina di otto anni, dai lunghissimi capelli rossi.

Ma nessuno arrivò.

Quando oramai il sole era più che sceso oltre la linea dell’orizzonte, e la temperatura iniziava a farsi veramente bassa, si avviarono verso la stazione dell’effluxum.

"Domani la porteremo agli edifici per l’infanzia." proruppe Obito, una volta sedutosi sulle poltrone del vagone. Ruppe così un silenzio che durava da ore, pesando su di lui per primo.

Minato, che sino ad allora era rimasto nel silenzio dell’ignorante, del fuori posto, dello sciocco che si rende conto d’errare, si voltò rapidamente verso di lui: "Obito..." osò. Poi, dopo la goccia, il fiume in piena seguì la rottura degli argini: "Obito, che cosa erano quelle frasi? Che ha detto di male?"

Al solito, Minato non si capacitava di non capire, di non sapere – doveva sapere, assolutamente, o non si sarebbe dato pace. Tornò a guardare Kushina, addormentata sul sedile accanto a lui, e poi nuovamente Obito.

Mebuki, allora, parve ridestarsi dalla sua trance. Levò lentamente il mento, sistemandosi la frangetta che le s’era sparsa sul volto nella sua posizione abituale, in centro alla fronte. La donna cercò lo sguardo del cugino, da cui forse voleva trarre forza: ma Obito, sprofondato nel sedile a braccia incrociate, fissava Kushina. Dopo un lungo respiro, Mebuki cercò di spiegare, ricacciando il suo astio e la sua rabbia nel meandri della sua anima da dove le erano guizzati fuori.

"Vedi, Minato." fece una pausa, socchiudendo gli occhi e levando il volto verso l’alto. "Vedi, quelle frasi che diceva Kushina, quella formula che le stava facendo fare Obito –"

"Che formula?" domandò il bambino, che non riusciva del tutto a collegare parole ed eventi.

"... il saluto."

Minato corrugò la fronte, continuando a guardare fisso sua madre mentre cercava di richiamare alla mente quanto era accaduto.

"Questo." fece Obito, portando il pugno al petto, battendo, e poi battendo di nuovo con il palmo aperto. "Questo, Minato, è il saluto che facevano i Custodes e gli studenti del Ludus."

Quello schiuse le labbra, incredulo.

Mai sentito nulla del genere.

"Quelle formule che hai sentito, quegli scambi di battute fra me e Kushina – quelle erano frasi rituali, inculcate nella testa dei bambini del Ludus sin dal loro primo giorno di studi. Dovevano rispondere automaticamente, talmente tanto da far sì che la risposta non venisse dalla mente, ma dall’anima. Quelle non erano cose che loro sapevano, Minato. Quelle erano cose di cui loro erano convinti."

Il bambino ci mise un po’ ad assimilare e far sue quelle parole. Ripercorrendo quando era successo, si ricordava dei movimenti di Kushina, del suo tono di voce, e di come, dopo aver ricevuto lo schiaffo di sua madre, ancora a fatica si tratteneva dal rispondere, secondo la formula, alle domande di Obito.

"E perché io queste formule non le so, ma lei sì?"

Mebuki sfiatò. "Non tutti possono sapere tutto: i dettagli sugli usi e costumi del Ludus , delle vecchie Scholae ed il resto si studiano quando si è molto più grandi, verso i diciotto anni. Se si vuole. Non è necessario sapere come funzionavano le cose, ed è meglio evitare che questo tipo di ‘formule magiche’ girino fra i bambini, neanche fossero filastrocche. Come hai visto, possono essere molto potenti."

"Ma sono davvero formule magiche?" domandò il bambino, in un attimo di esaltazione.

"No, Minato. Sono trucchi psicologici. Per questo chi non sa gestirli non dovrebbe conoscerli."

A Minato quell’ultima frase non piacque particolarmente. Lui era più che convinto di non essere il tipo che si fa imbrogliare facilmente.

"Tanto per essere chiari - " fece Obito " - solo chi studia per diventare consigliere ha modo di conoscere i vecchi rituali. A meno che non faccia esplicita e ben motivata richiesta al consiglio e ai collegi. E’ come un’arma, Minato, non puoi dare una pistola in mano a chiunque, o il primo che spara per sbaglio scatena una guerra."

Il bambino rimase in silenzio qualche altro secondo, pensando intensamente.

L’esempio calzava.

Ma continuava a non essere del tutto soddisfatto.

"E perché lei queste formule le conosce?" perché, alla fine, era quello il punto.

Mebuki abbassò lo sguardo.

"Non è semplice cambiare."







"Una rivoluzione si può anche fare in un giorno. Un cambiamento no. Per anni, dopo l’anno 0, si è andati avanti a combattere: rivoluzionari da una parte, reazionari dall’altra. Ognuno dei due gruppi continuava a cercare di tirare acqua al suo mulino, e prima ancora che una questione di violenza fisica, era un problema di dottrina. Quanti saranno, i fondo, capaci realmente di lasciare una società ben consolidata per l’ignoto?"

Non era semplice, no. Minato scostò gli occhi sulla bambina, accanto a lei, ancora addormentata.

"Ci sono voluti anni, decenni, per riuscire a far passare le idee di rinnovamento, per riuscire a convincere la maggioranza che era il tempo di cambiare, e che un tale cambiamento si sarebbe potuto fare tramite un organo come il Consiglio ed il rinnovo radicale del sistema d’istruzione. Ma fino alla fine, fino alla fine, i reazionari hanno insistito. Allevavano i loro bambini come fossero studenti del Ludus, applicando con estrema solerzia le tecniche di una volta. Ed anche quando erano ridotti a poco più di un centinaio di persone, hanno continuato a tentare colpi di stato, più o meno violenti."

Minato conosceva quella storia di sfuggita. Molto di sfuggita.

L’aveva rubata, catturata dalle discussioni degli adulti, fra sua madre e i suoi zii, i suoi cugini, con l’anziana Sakura e l’anziano Kankuro, quando capitava.

Hai solo otto anni, gli diceva una voce. Una voce insistente, che cercava di fermarlo dal demoralizzarsi troppo ogni qual volta che una novità, una singola novità nel suo piccolo mondo sorgeva, come una luce che gli faceva vedere tutti gli spigoli su cui aveva sino ad allora scioccamente cozzato, ignorandone la posizione.

Quanto i movimenti secessionisti fossero collegati a quelli reazionari, non era dato sapere. Ma, considerato che i bianchi ed i neri si erano trovati insieme nel tentativo di cambiare le loro regio, e che insieme i gruppi di rivoluzionari avevano stretto un patto di alleanza per contrastare i rigurgiti dei vecchi imperi morenti, i due tipi di opposizione, per quanto scorrelati, avrebbero potuto benissimo essere connessi. Avrebbero potuto essere i reazionari che, nelle idee secessioniste, avevano trovato nuova energia per perseguire il proprio scopo.

Oppure potevano non centrare nulla l’uno con l’altro.

Una sola cosa era certa: da almeno otto anni non c’era stata più traccia di alcun reazionario.

"Sapevano essere più violenti dei secessionisti - " continuò Obito, sostituendo Mebuki - "ma loro non attaccavano mai coloro che consideravano innocenti: nei loro colpi di stato, si avventavano sempre sul Consiglio e sui consiglieri. L’ultimo tentativo ci fu otto anni fa, con una serie di esplosioni al palazzo del consiglio."

"Così è morto il tuo Pater, Minato."

Bombe e reazionari.

Era chiaro che sua madre fosse rimasta sconvolta sia dagli attacchi alle Scholae in cui era rimasto coinvolto Minato, sia dal dire di Kushina, così saldo e sicuro.

Mebuki non aveva schiaffeggiato Kushina, ma quello che la bambina, in quel momento e a pieni polmoni, rappresentava agli occhi della donna.

"A questo punto Kushina deve essere nata in una qualche famiglia di reazionari che si sono distaccati dalla nostra civiltà. Si capisce anche perché si trovasse al Ludus, in tal caso. Per salire e per scendere non v’è solo l’effluxum, esistono anche dei sentieri secondari risalenti a tempi antichi. E’ possibile che si trovino nei dintorni, ma di sicuro non possiedono bracciali o qualsiasi dispositivo che aiuti a localizzarli."

Tornò il silenzio, ovattato dai respiri dei quattro.

A notte più che inoltrata, nessuna figura era distinguibile al di fuori del tubo dell’efflluxum: Minato non si era nemmeno accorto di essere uscito dal tunnel, e di stare percorrendo la pianura della regio.

Non è sempre stato facile, Minato – gli aveva detto la sua bisnonna.

Lui non aveva ancora ben capito, in fondo. Da qualche parte, nella sua mente, s’era impiantata l’immagine idilliaca di una Regio che funzionasse seguendo alla perfezione la Politeia. E lui, quest’immagine, non riusciva a rimuoverla.

Non riusciva ad immaginare che, alla fine, dopo quasi cent’anni dalla rivoluzione, non vi fosse stato un solo, singolo istante in cui la Politeia era stata la rappresentazione su carta dei principi che muovevano ogni singola azione di ogni essere umano della Magna Regio.

Ciò nonostante, con un pizzico di ragione, intuiva anche che era sciocco pensare una cosa del genere. Era ingenuo convincersi che fosse possibile che le cose andassero bene.

"Però Kushina non ha colpe." mormorò il bambino, rinsaccandosi nel sedile. "E noi la stiamo portando via dalla sua famiglia. Non è giusto."

Mebuki sospirò.

"E’ giusto, Minato."

"No. E non è nemmeno giusto che lei sia stata cresciuta così. Niente è giusto."

Obito scoccò un’occhiata tra il perplesso ed il divertito a Mebuki. Era inutile, la profondità di pensiero di Minato lasciava sempre tutti loro attoniti: era da quando aveva iniziato a parlare che, da questo punto di vista, era parso ingestibile.

Solo l’Anziana Sakura riusciva a dialogare con lui.

Era come confrontarsi con tutti i dubbi e tutte le incertezze che ogni persona, a partire dai Consiglieri, aveva dentro di sé, e che per mantenere una certa salute mentale aveva messo a tacere.

Minato non taceva. Era molto complicato zittirlo.

"Hai ragione, Minato. Niente è giusto. Benvenuto nel mondo degli adulti. "














_________________________________________________________



Mi sa che vi state suicidando dalla noia xD

Capitolo sei..?

*ahahhaha*

se per caso troverà la parola fine, ‘sta storia mi sa se la batterà con i Frutti dell’Oblio – solo che sarà taaaanto più un cugno. mi scuso, ma ora come ora mi sento di scrivere di queste cose, ed in questo modo.


Nota:

ho appena scoperto che la mia ignoranza latinesca si è fatta sentire per TUUUUTTA la vecchia storia (i frutti dell’oblio), in quanto ho alquanto tardivamente realizzato che il plurale di frate è fratRes e non frates.

eeeeevvvaiiii quattro anni di stesura ignorante! xD dovrò correggere, che vergogna.


*sigh*


saluti

Kimmy/Pandi/quelchevoipreferite












   
 
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