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Autore: Jo Scrive    19/09/2012    5 recensioni
Mi è venuta in mente questa storia dopo aver letto Green, che adoro *OOO*
L'avrò letto sì e no 18273638281273271 volte :')
Comunque, eccovi la trama: Annabell Davis, giovane ragazza di Amburgo, viene catapultata in un mondo a lei tutto nuovo, dopo la morte dei genitori in un incidente stradale.
Si trasferisce a Londra a casa degli zii e dei tre cugini: Iris, Sophie, e Nathan.
Loro sono la tipica famiglia ricca di Londra, e Annabell non può certamente desiderare di meglio.
Ma tutto cambierà, la sua vita non sarà più la stessa...
Crea dipendenza, provare per credere
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Iniziò tutto quella sera.
Mi stavo esercitando al pianoforte in camera mia. Suonavo un’aria di Bach, del quale non ricordo più nemmeno il nome, quando suonò il campanello. DRRRRRIIIIN! Un suono assordante.
Mi alzai controvoglia, lasciando riecheggiare l’ultima nota per la sala e mi diressi verso la porta. Il campanello suonò di nuovo. DRRRRRIIIIN!  Un altro suono assordante.
– Arrivo, arrivo! – esclamai. Aprii la porta, dove vidi una strana figura. Anzi, oserei dire quasi buffa. Portava una mantella nera, lunga fino alle caviglie, come se stesse piovendo, ma senza il cappuccio. Al suo posto vi era un cappello… simile a quelli da pesca, e infine i mocassini. Avrà avuto sì e no sedici anni. La sua faccia era coperta dall’ombra del cappello, ma riuscii comunque a identificare i lineamenti. In una parola: perfetti. Era un po’ più alto di me, anche perché c’è da dire che io non ero così tanto alta, ma sono dettagli. I suoi occhi invece erano di un colore strano, simile ad ambra. Con tutta questa perfezione si poteva ripagare il danno che facevano quei vestiti. O quasi.
Sentii un rumore di passi e a malincuore distolsi lo sguardo dalla perfezione che avevo davanti e notai un'altra figura che si avvicinava, vestita nella stessa insolita maniera. Si avvicinò con calma, come se avesse tutto il tempo del mondo. Poteva anche essere così, ma io non ce l’avevo. Quando mi fu abbastanza vicino, potei osservarlo bene: lui era un’altra cosa, rispetto al ragazzo. Sembrava sulla quarantina. Aveva una faccia simpatica, rotonda come una palla da bowling. Anche i suoi occhi erano di quello strano color ambra, ma sul ragazzo facevano più effetto.
Loro mi guardarono intensamente, anzi, mi squadrarono. Dalla testa ai piedi. Poi, dopo una lunga osservazione dei miei occhi, si guardarono, e notai che si intesero
– Annabell Davis? – mi chiese il ragazzo

“Si”avrei voluto rispondergli, sicura di me, ma suonò più come:

– Uhm, ehm, gah.

Il ragazzo inarcò un sopracciglio.

– Mi spiace ma dobbiamo portarti via.
Okay. Potevo sentirmi dire qualsiasi cosa, persino che questi tipi venissero da Jumanji, ma che dovevano portarmi via no. Anche se era quel gran pezzo di ragazzo a dirmelo. E poi il suo tono non mi piaceva. Era meglio quando se ne stava lì zitto a fissarmi. Questi arrivavano fuori da casa mia, alle otto e mezza di sera, interrompendo il mio allenamento al piano, e dovevano pure portarmi via?

– Jason, vacci piano, per l’amor del cielo! – lo rimproverò l’altro, prima che potessi inveirgli contro – Non puoi iniziare così un discorso di questa portata, senza spiegarle…

– Spiegarmi cosa? – lo interruppi

­– Ma Dalton, dovevo pur iniziare dicendo qualcosa, no? – si difese Jason, ignorando completamente la mia voce

– Devi andarci piano, questa è una faccenda seria!

– Ehm… scusate… – li interruppi – potreste dirmi VELOCEMENTE cosa ci fate a casa mia? I miei genitori tra poco torneranno e dovrei apparecchiare la tavola per cenare…
Jason mi guardò e poi guardò Dalton, che sospirò. Ancora.

– Bambina, i tuoi genitori non verranno – disse poi con un tono più calmo possibile – E’ successo tutto così in fretta: la moto, il guard-rail… – fece una breve pausa nella quale mi mise una mano sulla spalla – Mi dispiace. – concluse
Neanche questo era nelle cose che mi aspettavo potessero dirmi. Ci misi qualche secondo per capire la faccenda. Quando ne fui certa, un buco si creò nel mio petto, come quando ero stata sulle montagne russe, ma molto più grande, e profondo.

– Sono… morti? –  chiesi, dopotutto è risaputo che la speranza è l’ultima a morire. Potevano essere in coma, o in ambulanza, o in ospedale…
– Mi dispiace – ripeté Dalton – non c’è stato nulla da fare.
Sentii salirmi le lacrime agli occhi, poi qualcuna iniziò a ricadermi calda sulle guance. Distrutta le mie gambe cedettero e caddi sullo zerbino con il viso tra le mani dove piansi.
Jason, con mia grande sorpresa mi si sedette accanto. Non pensavo lo facesse, dato che si era presentato dicendo che dovevano portarmi via.

– Ehi, devi essere forte, bambina.

– Ho quindici anni. Non sono più una bambina.

– Oh, okay. Posso chiamarti Annie? – mi chiese con un sorriso. Avrei voluto ricambiare il sorriso ma in quel momento non ero dell’umore adatto per sorridere, così annuii e continuai a singhiozzare per un po’. Quando rimisi in moto il mio cervello mi accorsi che Dalton non c’era più. Forse si era già avviato. Ma soprattutto, mi accorsi che avevo la testa sulla spalla di Jason, e che lui mi accarezzava la schiena e i capelli, mormorando parole di conforto. Imbarazzata, (rossa come un peperone) mi tolsi dalla sua presa e mi asciugai le lacrime in fretta e furia, poi da non so dove trovai la forza per sorridergli

– Grazie – mormorai

– Figurati, Annie – disse lui sorridendo. Si alzò e mi porse la mano.

– Dai, alzati.

– Dove mi portate?

– Ora ti portiamo a Londra, dai tuoi zii.

– Ho zii a Londra?

– Certo i tuoi non te l’hanno mai detto? – chiese con una smorfia confusa sulla faccia

– Forse è per questo che siamo ad Amburgo… – indovinai

– Può darsi… In ogni caso preferiresti un orfanatrofio?

– Ehm, passo – affermai scostandomi i capelli dietro l’orecchio con un gesto impacciato e fissando il pavimento

– Allora alzati.

– E’ un ricatto questo?

Rise – Certo che no.

Accettai la sua mano e mi alzai. Era molto calda. Mentre scendevo le scalinate mi ricordai di una cosa.

– Aspettami, torno subito! – gli urlai risalendo di corsa le scale, tantoché quando fui in cima non avevo più fiato. Corsi dentro casa e presi l’album di famiglia dal cassetto della credenza dietro al divano di pelle bordeaux. Poi andai in camera dove mi misi una felpa, presi il cellulare e il caricabatterie. Mentre tornavo in sala mi ricordai di prendere più foto possibili dei miei amici, per ricordarmeli, ora che andavo via. Ne presi il più possibile: Foto dell’asilo, di classe delle elementari e delle medie, foto con i miei più cari amici, foto dei miei compleanni… le infilai tutte quante nell’album di famiglia. Diedi un ultimo sguardo alla mia casa: i muri gialli, i lampadari, il parquet, il pianoforte… mi sarebbe mancata la mia solita vita. Tornerò? Che cosa mi avrebbe aspettato? Chi? Come erano gli zii? Avevano figli? Perché mamma e papà non mi avevano mai raccontato nulla su di loro? Domande alle quali avrei saputo rispondere solo una volta a Londra.
Chiusi la porta dietro di me. Mi fermai un attimo. Sospirai. Scesi velocemente le scale con gli oggetti in mano e il cellulare in tasca. Rivolsi un’ultima occhiata alla facciata bianca della mia casetta e mi strofinai il naso con la manica della felpa.
Decisi che avrei chiamato i miei amici solo una volta a Londra, anche se mi sarebbe costato una fortuna. Per loro questo ed altro.
Salii in macchina e Jason mi chiuse la portiera sempre sorridendomi. Dalton accese la macchina.
L’avventura era appena iniziata.

  
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