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Autore: Mary P_Stark    20/09/2012    2 recensioni
Un incubo. O una premonizione. La giovane Brianna, studentessa modello di Glasgow, si sveglia di soprassalto, nel sangue un obbligo insopprimibile. E, nel modo più impensabile, si scontra con una realtà che non avrebbe mai pensato di scoprire. Né di vivere sulla propria pelle. Per Duncan, fiero licantropo e Alfa del suo branco, avviene la stessa cosa e, dal loro incontro, si scateneranno forze che neppure loro immaginano. Il mito di Fenrir, di ancestrale memoria, tornerà per avvolgere nelle sue spire Brianna, facendole comprendere che neppure lei, contrariamente a quanto pensa, è una comune umana. PRIMA PARTE DELLA TRILOGIA DELLA LUNA.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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N.d.A.: Avviso ai lettori. La parte finale del capitolo è un pochetto cruenta, non tanto per gli eventi in sé, quanto per quello che dirà Duncan, perciò... sappiatelo. A parte questo, credo apprezzerete quanto succederà tra breve.
Buona lettura!

 





XVII.







Avevo appena terminato di pulire la stalla assieme a Erika, quando udii il rombo della Volvo emergere dal cortile e raggiungere le mie orecchie.

Voltandoci all’unisono verso l’auto color oro, che entrò in quell’istante nel nostro campo visivo, sorridemmo spontaneamente e lasciammo da parte pale e carriola per andare a salutare Duncan al suo ritorno da Chester.
Erano passati dieci giorni dalla sua partenza, giorni in cui, dopo l’iniziale stanchezza dovuta al mio primo assaggio del potere, avevo cominciato a sviluppare le mie capacità con sempre maggiore forza e bravura.
Lance non si era che prodigato in complimenti, in quei giorni così pieni.
Io, in compenso, avevo fatto di tutto per riempirlo di orgoglio, perché la soddisfazione che lui provava nel vedermi imparare così in fretta, e così bene, riempiva di gioia anche me.
Ero soddisfatta delle mie capacità e dalla velocità con cui apprendevo ma, al tempo stesso, ne ero impensierita, perché avvertivo che tutta quella bravura avrebbe potuto rivoltarsi contro di me, in qualche modo.
Era un pensiero sordido, impresso in un angolo della mia mente con un inchiostro che non ero in grado di debellare in alcun modo, e sapevo che presto o tardi sarebbe tornato a perseguitarmi.
Solo, non sapevo in che modo.
Naturalmente, avevamo tenuto tutto nascosto a Duncan, un po’ per fargli una sorpresa, un po’ per non impensierirlo – a ogni allenamento, era seguito un mio crollo fisico.
Lance aveva deciso di parlargli di persona, giusto per evitare scenate da parte sua.
Sapeva per certo che l’amico si sarebbe imbestialito, se avesse saputo delle numerose flebo di soluzione fisiologica e vitamine a cui ero stata attaccata ogni qual volta terminavo un allenamento.
Voleva essere lui a discutere con Duncan della mia salute, perché era convinto che così sarebbe riuscito a placare i suoi timori.
Io, invece, ero certa che, non appena avesse sentito in casa odore di farmaci, sarebbe esploso come una bomba atomica.
Mi aveva chiesto di non strafare, ma non era esattamente quello che avevo fatto. Prevedevo bastonature verbali per me e Lance.
Lasciando da parte quei pensieri per evitare di stamparmi in faccia un’espressione terrorizzata, dedicai tutta la mia attenzione a Duncan che, sceso che fu dall’auto, ci sorrise e esclamò: “Ehi, ragazze! Siete super impegnate, a quanto vedo.”
“Ciao Duncan” esclamammo in coro io ed Erika.
Ormai ci veniva naturale.
In quei dieci giorni, passati quasi sempre assieme a lei - quando Lance non mi faceva allenare, o non mi riempiva di bombe energetiche - avevamo imparato a conoscerci meglio.
A quel modo, avevo scoperto, con mia somma sorpresa, che Erika era quanto di più vicino a una sorella avessi mai avuto.
Neppure con Nancy, o Elspeth, era così, forse neppure con Gordon, ma quello dipendeva dal fatto che era un maschio.
Con Erika, avevo imparato a conoscere una parte di me stessa che non sapevo di possedere, avevo aperto uno scrigno di segreti inesplorati e, assieme a lei, avevo fatto visita a questo mio piccolo tesoro nascosto, scoprendo cose di me che non avrei mai sospettato.
Avevo scoperto quanto mi piacesse prendermi cura dei cavalli di Duncan, sebbene non ne avessi mai avuto uno mio, o quanto mi fosse gradita la presenza di Jasmine sul letto, la notte, quando ascoltavo i sussurri della casa vuota intorno a me.
Erika mi aveva insegnato ad ascoltare il vento, facendomi comprendere che, come wicca, avrei potuto percepirne i messaggi appena sussurrati, e io mi ero meravigliata dell’enormità di voci in esso contenute.
Con pazienza infinita, mi aveva istruita su come scrutare le nubi in cielo per carpirne i segreti e, tra una lezione e l’altra, mi aveva fatto ascoltare i suoi CD preferiti, facendomi nel contempo conoscere anche le sue due migliori amiche, Morgan ed Eliza.
Come lei, anche loro si erano subito aperte a me come fiori in boccio di fronte ai primi raggi del sole mattutino.
Non avevo potuto che ricambiare quel gesto spontaneo, e avevo lasciato che entrassero nel mio mondo, senza aver più paura di ciò che ero, o rappresentavo.
Grazie a loro, avevo cominciato a muovere i primi passi verso la piena accettazione della mia nuova condizione di wicca.
In definitiva, avevo scoperto che vivere tra licantropi mi piaceva. Mi piaceva davvero molto.
E non solo perché Erika e le sue amiche mi erano simpatiche, e le consideravo già mie grandi amiche.
Con mio sommo sconcerto, mi ero resa conto di provare anche un piacere fisico nello stare assieme a loro.
Come un vampiro, fagocitavo le loro energie residue, energie che non erano in grado di controllare, e che disperdevano nell’aria come un profumo dolciastro, da cui io ero attratta in maniera quasi incontrollabile.
Costernata, la prima volta che mi ero resa conto di quel mio comportamento quasi famelico, avevo chiesto con estremo turbamento qualche spiegazione a Lance.
Per nulla preoccupato, e premuroso nei miei confronti, aveva pacificato le mie paure facendomi comprendere che, per una wicca, abbeverarsi delle energie dei licantropi era assolutamente normale, anzi cosa assai gradita.
Sempre più sorpresa, avevo chiesto lumi riguardo al gradita e a quel punto Jerome, prendendo la parola, mi aveva detto che il mio assaggiare il loro potere aveva, sui licantropi, l’effetto di una carezza.
Basita, lo avevo ascoltato senza credere a una parola, pur cosciente che mi aveva detto l’assoluta verità.
Non convinta, il giorno seguente a quella scoperta, avevo provato a tenere sott’occhio le reazioni di Morgan, Erika ed Eliza, tutte noi impegnate nella stalla a sistemare la paglia pulita nei box dei cavalli.
Con mio sommo sgomento, avevo notato che, non appena accennavo a incanalare dentro di me le loro energie residue, un sorriso leggero spuntava sui loro volti, prima di svanire come era apparso.
Con un sospiro, avevo chiesto conferma anche a loro e, tra risatine imbarazzate e ampi cenni del capo, avevano tutte annuito, facendomi capire che Jerome non aveva affatto scherzato.
Non ero del tutto convinta che, quel particolare, mi fosse gradito, ma tant’era, era parte di me.
Com’era parte di me, ormai lo sapevo, il dolce sentimento che sentivo crescere nei confronti di Duncan.
Avevo cercato di obnubilarlo, di relegarlo in un angolo disperso della mia mente, di convincermi che stavo sbagliando, ma nulla era valso allo scopo.
Stare lontani per dieci giorni, poi, non aveva fatto altro che rendermi ancora più consapevole del senso di vuoto che percepivo ogni qualvolta lui non era con me.
Avvilente all’ennesima potenza, ma era così. Stavo diventando totalmente dipendente da lui e, per una come me, era  una cosa a dir poco insopportabile.
Fu quindi con un sorriso che mi avvicinai a lui – che potevo farci, ormai, se mi sentivo così? – e mi informai sul suo viaggio. “Com’è andato il tuo tour? Tutto bene?”
“Benissimo” ammiccò, sorridendomi spontaneamente e mandando in frantumi il mio cuore.
Di questo passo, dovrò farmi fare un trapianto, pensai disperata.
Del tutto ignaro del mio turbamento, Duncan fissò prima le stalle e poi me, prima di ampliare il suo sorriso e asserire: “Non mi dire che ve ne siete sempre occupate voi.”
“Sì. Chi altro doveva pensarci?” sogghignai, appoggiandomi al badile che tenevo in mano, indecisa se spaccarglielo in testa o lanciarlo in terra per abbracciarlo.
Nessuna delle due idee mi parve attuabile, però, perciò rimasi ferma impalata, in attesa che lui o Erika dicessero qualcosa di intelligente.
Io, al momento, ero impegnata a capire come funzionassero i polmoni, perché non mi ricordavo più come si respirava.
Maledetto lui e i suoi occhi spettacolari!
Per fortuna, Erika intervenne dicendo: “Ho chiamato Peggie, dicendole che avremmo badato noi ai cavalli, anche perché Gabriel sembra aver preso una cotta proverbiale per Brie, e non penso si sarebbe fatto avvicinare da altre donne se non da lei.”
Duncan rise sommessamente nel sentirglielo dire, e ammiccò divertito. “Non avevo dubbi che si sarebbe invaghito di te.”
“Oh, e perché?” gli chiesi, curiosa di sentire la sua risposta.
Lui si limitò a sorridermi in maniera strana, sollevando un sopracciglio con aria ironica, come se la mia fosse stata una domanda stupida.
Non sapendo bene come interpretare quello sguardo, gli rammentai: “Sai di essere più criptico di un’iscrizione azteca, vero?”
Duncan scoppiò a ridere di gusto e mi diede un buffetto sulla guancia, prima di mormorare: “Mi sono mancate le tue battute, in questi giorni.”
Meno male, pensai divertita, continuando a non capire la sua precedente affermazione. Che mi teneva nascosto? A Gabriel piacevano le ragazzine?
Erika ci guardò divertita, prima di voltarsi al pari mio nell’avvertire l’aura di Jerome avvicinarsi a noi.
Ormai ero diventata brava a percepire le auree dei licantropi, e sapevo riconoscere senz’ombra di dubbio quelle che già conoscevo.
Sorrisi a Jerome, che si avvicinò a noi con una mano alzata in segno di saluto e un sorriso tutto dedicato al cugino che, da allegro che era, tornò serio nel giro di pochi attimi.
Ombroso, ringhiò: “Che hai fatto, Jerome?”
“Sapevo se ne sarebbe accorto subito. Io e i segreti non siamo molto amici” commentò Jerome, strizzandomi l’occhio con fare complice.
Duncan ci fissò per un momento con aria indecifrabile, forse irritato, forse confuso, prima di dare uno spintone al cugino e sibilare: “Come ti è saltato in testa di dare un permesso del genere a Brianna?! Sai a che pericolo ci hai messo dinanzi?!”
“Duncan!” esclamai, turbata che potessero picchiarsi per causa mia.
Avevo temuto quel momento, fin da quando avevo chiesto a Jerome il permesso di parlare con Mary B, ma mai avrei pensato si potesse risolvere così male.
Erika stette prudentemente a distanza, forse consapevole del fatto che frapporsi tra un Fenrir e uno Sköll in lotta, non era la più azzeccata tra le manovre da farsi, ma io non volevo essere la causa di un litigio.
Senza attendere un solo momento, mi misi in mezzo a loro, addossandomi completamente a Jerome e, fissando seria Duncan, asserii: “Gliel’ho chiesto in qualità di wicca. Potevo farlo benissimo. E’ nei miei diritti scavalcare il Consiglio e parlare direttamente a Fenrir… o al suo sostituto.”
Duncan mi fissò a denti stretti, gli occhi ridotti a due esili fessure pulsanti mentre Jerome, dietro di me, stava trattenendo a stento l’ira, forse rendendosi conto che non io, ma lui, avrebbe dovuto perorare la propria causa di fronte al suo Fenrir.
Tant’era, comunque. Mi ero messa in mezzo, e dovevo portare a termine la mia arringa.
Senza farmi intimidire dal suo sguardo, che avrebbe steso chiunque altro, aggiunsi: “Era perfettamente nei diritti di Jerome decidere al posto tuo. E’ il suo compito, quanto tu non ci sei. O te ne sei dimenticato, troppo preso com’eri dal prenderti sulle spalle il destino del mondo intero?!”
Duncan sgranò gli occhi, sorpreso forse dal mio livore e, per un attimo, non parlò.
Jerome, prudentemente, mi avvolse la vita con un braccio, pronto probabilmente a scansarmi all’ultimo momento, qualora il cugino fosse esploso.
Imperterrita, però, rimasi ferma a guardare Duncan, mentre i suoi occhi si tingevano d’ambra e la sua bocca si assottigliava come un arco teso.
Sapevo cosa stavo rischiando? Non molto, in effetti.
Ma ero certa di dover porre un freno alla sua rabbia, prima che essa lo avvolgesse completamente, permettendogli di completare la trasformazione.
Allungai perciò una mano fino a sfiorare il suo braccio – ora rovente – e dissi con voce più tranquilla: “Arrabbiati con me, se vuoi, ma non con lui, che ha solo fatto il suo dovere di Sköll, rispondendo a una domanda della vostra wicca.”
“Parli di wiccan solo quando più ti aggrada” mi ringhiò contro Duncan, ancora furioso.
“Parlo di wiccan ora che so cosa sono. E ne parlo perché io sono una di loro” replicai, continuando a mantenere il contatto visivo e fisico con lui.
“Avreste potuto chiamarmi” precisò Duncan.
“Sminuisci Sköll, parlando così” ribattei duramente, aggrottando la fronte.
“Brie, basta… lascia perdere. So com’è fatto Duncan” mormorò dietro di me Jerome, la voce che trasudava rimpianto e dispiacere.
“E come sarei?!” sibilò piccato Duncan, raddrizzando la sua postura. Non avevo notato che si era piegato in avanti, come per attaccare.
Provai un istintivo brivido di paura.
Cosa sarebbe successo se Duncan ci avesse attaccati? Davvero non lo sapevo.
Jerome rispose al suo tono con uno altrettanto teso, dicendo per contro: “Un testardo senza speranza, ecco cosa sei. Non capisci che tutti, qui, stiamo cercando di aiutarti, mentre tu rifiuti categoricamente di ascoltare.”
“Adesso basta!” ringhiò Duncan, facendo l’atto di muovere contro il cugino.
“Basta lo dico io!” sbottai, levando la mano dal suo braccio e utilizzando l’energia sprigionata da Duncan per bloccarlo.
Come Lance mi aveva fatto notare, ogni licantropo preda di una forte emozione, emana più energia del normale, energia che serve ad aumentare le proprie forze.
Questa forza può servire per un attacco, o per sopportare uno stato di profondo turbamento, così da poter ritrovare l’equilibrio.
Era addirittura utilizzata nei momenti di intimità, per dare maggiore piacere al proprio compagno, o alla propria compagna.
Quell’energia, dispersa in gran quantità, poteva essere sfruttata da una wicca, che poteva prelevare e convogliare contro una minaccia, qualora ne avesse avuto bisogno.
Era a quel modo che le wiccan proteggevano loro stesse, quando non avevano null’altro a cui aggrapparsi.
E fu così che decisi di agire io.
Raccolsi dentro di me l’esplosione di collera di Duncan, e gliela rispedii indietro come un’onda di tsunami, mandandolo lungo riverso a terra, gli occhi nuovamente verdi e l’espressione allibita di chi si sarebbe aspettato di tutto, tranne quello.
Jerome ed Erika trattennero il fiato per la sorpresa, del tutto impreparati a un simile gesto da parte mia mentre io, ansante e con lo sguardo ancora puntato su Duncan, attendevo una sua reazione di qualche tipo.
Non ci mise molto ad arrivare.
Mi sorrise, dapprima stupidamente, poi sempre più orgogliosamente e, alla fine, si rialzò spazzolandosi i jeans schiariti che indossava.
“Beh, me la sono proprio cercata, eh? Prendermela con Sköll, e proprio di fronte a una wicca tanto agguerrita.”
“Idiota” ansai, cominciando a risentire dello sforzo fisico. Un’altra volta.
Mi aggrappai a Jerome, ancora stordito da quella scena, mentre Duncan perdeva di colpo il suo sorriso per fissare il cugino in cerca di spiegazioni.
Jerome fece in tempo a trattenermi prima che io cadessi come una pera cotta e Duncan, avvicinandosi lesto e fissandomi ora spaventato, chiese al cugino: “Cos’ha? Che succede? Cos’altro non mi avete detto?”
“Non… ricominciare…” brontolai, socchiudendo gli occhi. “Jerome, ti prego…”
“Andiamo subito, Brie” annuì lesto, prendendomi in braccio e portandomi in fretta in casa, seguito a ruota da Duncan ed Erika.
Aprendo la porta con una spallata, Jerome mi portò in fretta al piano superiore e, dopo avermi fatta sdraiare sul letto, prese dal comodino una siringa ipodermica.
Professionale, conficcò l’ago in una bottiglietta di liquido trasparente, che Duncan fissò come se fosse stato un serpente a sonagli.
Sedutosi accanto a me, prese una mia mano ghiacciata tra le sue, calde come fornaci, ed esalò turbato: “Brianna, vuoi spiegarmi cosa diavolo è successo in questi dieci giorni? Perché la tua stanza odora di medicinali?”
Il caro, buon vecchio naso dei licantropi non mente mai.
Non era servito a molto arieggiare la stanza.
Tutte le vitamine e gli stimolanti che Lance mi aveva dato erano arrivati alle sue nari sensibili, smascherandomi.
Mentre Jerome mi conficcava l’ago in un braccio, facendomi rabbrividire sensibilmente, sorrisi stordita a Duncan, spiegandogli i motivi di quei medicinali. “Lance pensa sia dovuto all’eccessivo potere che ho dentro di me. Mi sfinisco, quando lo uso. Ah, ti avverto, ho speso un capitale in cibarie, perché sto mangiando più di Gabriel.”
Quella battuta non lo fece sorridere. I suoi occhi rimasero turbati, la sua stretta convulsa. Lo avevo evidentemente scioccato a morte.
Nel giro di pochi minuti lo stimolante fece effetto e, nel raddrizzarmi, lo fissai con un sorriso che sperai fosse convincente. “Vediamo di risolvere una cosa per volta, okay? Per ora dobbiamo pensare al novilunio. Mancano solo tre giorni, e io voglio arrivare a quella data conoscendo ogni più piccola parte del mio cervello sfasato.”
Niente, neanche l’accenno di un sorriso.
Jerome fissò il cugino e, serio, gli domandò: “Avrei davvero dovuto turbare il tuo soggiorno a Chester, sapendo cosa andavi a fare là, per dirti che Brianna stava male? Cos’avresti potuto fare che Lance, o Mary Beth, non potevano già fare per lei?”
“Mary Beth?” ripeté lui, confuso.
“Ho ritenuto giusto dare il consenso a parlare con lei non solo perché pensavo fosse una cosa sufficientemente sicura, ma anche perché avere un secondo parere medico, in questo caso, non guastava” gli spiegò Jerome, sfidandolo con gli occhi a replicare.
Quando Jerome mi aveva esposto la sua teoria, mi ero ulteriormente stupita di lui e, per un attimo, mi ero sentita una sciocca per averlo giudicato solo un ragazzo simpatico e affabile.
C’era molto di più in lui, solo non aveva mai occasione di dimostrarlo.
Poiché nessuno di loro, compreso Lance, aveva la ben che minima idea di come si comportasse una wicca durante il proprio apprendistato, sarebbe stato utile avere due pareri medici, viste le mie reazioni fisiche in seguito all’uso del potere.
Mary B, oltre ad aver pianto al telefono per circa dieci minuti, si era dichiarata dispostissima ad aiutarci e, soprattutto, a credere a tutto ciò che le aveva detto Gordon.
Lance e lei si erano costantemente tenuti in contatto, sia tramite cellulare che computer, per portare avanti le loro ricerche congiunte.
Il tutto, con la supervisione di Kate che, da Aberdeen, aveva consigliato a Lance il modo giusto di procedere con me, per evitare che io mi sfinissi più del dovuto.
Da lei, avevo ricevuto la promessa che, entro la fine del mese, si sarebbe presentata in visita a Matlock con il Fenrir e l’Hati del suo branco, per conoscermi.
Duncan fissò il cugino mestamente, prima di allungare la mano libera verso di lui, carezzargli il viso lievemente punteggiato di barba e dire con un sorriso appena accennato: “Ti ho reso un ben misero servizio, mio Sköll, e ho dubitato ingiustamente di te. Come posso fare ammenda?”
“Lasciandoti aiutare più spesso” brontolò Jerome, carezzando la mano del cugino con fare distratto.
Sembrava che il tocco delle sue dita avesse contribuito a chetare la sua rabbia.
Duncan annuì grave, prima di sentir suonare il cellulare del cugino.
Curioso, Jerome lo estrasse dalla tasca dei jeans e sorrise, dicendo: “Si parla del diavolo… è Mary Beth.”
Allungando una mano per prendere il cellulare dalla sua mano protesa, accettai la comunicazione e dissi: “Ciao, Mary B… come va?”
“Tutto bene, tesoro. Immagino che Jerome sia lì con te, visto che hai risposto tu” ridacchiò Mary Beth.
“Non mi molla mai. Non sono mai da sola, tranquilla” la rassicurai, strizzando l’occhio a Jerome prima di sorridere a Duncan, ancora seduto accanto a me. “Dimmi tutto.”
“Allora, ho fatto un rapido controllo con i miei colleghi. Sai com’è, dopotutto io sono un chirurgo. Naturalmente, ho mostrato una cartella falsa” nel dirlo, la sentii ridere sommessamente. “In pratica, soffri di una grave forma di anemia, da quel poco che abbiamo capito. Devi ingurgitare ferro in quantità industriale, tesoro, e mangiare più che puoi. Parlandone anche con Abby, lei mi ha consigliato di passare più tempo possibile nei boschi. Non so a cosa possa servire, ma lei mi ha detto che una wicca ne ha bisogno per mantenere l’equilibrio.”
“Sì, so cosa intende. Ringraziala da parte mia per il consiglio” annuii, ripensando a ciò che anche Kate mi aveva consigliato.
Il respiro degli alberi e la loro energia erano come un balsamo per me, ma gli allenamenti cui mi ero dovuta sottoporre, oltra al governo della stalla e della casa mi avevano portato via più tempo di quanto non avessi messo in conto, e non ero perciò riuscita a visitare il bel bosco di faggi di proprietà di Duncan.
Ora che era tornato, non avrei mancato di farlo. “Di Patrick sai dirmi niente?”
Sospirando – immaginai si sentisse combattuta all’idea di cospirare alle spalle del marito – disse mesta: “Non fa che stare al telefono con i suoi amici, chiuso nel suo studio. L’ho sentito urlare, una volta. Ha detto, testuali parole, che ‘se quel maledetto traditore non salta fuori, come facciamo a ritrovare il posto?’. Sai cosa possa voler dire?”
“Oh, sì. Intendono sicuramente il licantropo che li ha aiutati a trovare il luogo di potere del clan di Glasgow” mugugnai, irrigidendomi. “Difficile che riescano a trovarlo, comunque, visto che è già bell'e che andato.”
“Ti prego, Brie… non cominciare. Sai che è difficile, per me, accettare questa parte della storia” sospirò Mary Beth.
“Perdonami” mormorai con calore. “Ma ti prego di credere che non siamo noi nel torto, Mary B. Davvero.”
“Lo immagino” sospirò ancora lei.
In sottofondo, sentii un singhiozzo.
Stava soffrendo immensamente, a causa di ciò che era suo marito, e questo fece montare dentro di me una rabbia tale da voler distruggere pezzo per pezzo Patrick, così da fargli patire le pene dell’inferno, come lui le stava facendo patire alla moglie.
“Cerca solo di stare attenta, d’accordo? Sai che non voglio ti succeda qualcosa.”
“Lo so, Mary B. E tu cerca di stare allegra. Questa cosa non riguarda il rapporto tra te e Patrick. E’ ovvio che lui ti ama” le rammentai, cercando di dare un tono positivo al mio dire.
Non mi rispose, limitandosi a un mpfh sussurrato che avrebbe potuto voler dire qualsiasi cosa.
Si sentiva giustamente tradita nel profondo, poiché Patrick le aveva tenuto nascosta una pratica così indecorosa, che avrebbe potuto benissimo farle cambiare idea su di lui.
E forse lui, proprio per paura di perderla, non gliene aveva mai parlato per evitare un simile disastro.
Questo, in un certo qual modo perverso, andava a favore di Patrick. Di certo, l’amava molto. Ma perché spingersi a predare i licantropi? Non l’avrei mai capito.
“Mi farò dare il ferro da Lance, e ti prometto che mangerò come un cavallo, okay?” dissi a quel punto, cercando di ridere. Fu come ingoiare una grattugia.
“D’accordo. Stammi bene, tesoro” sussurrò mesta Mary Beth, prima di chiudere.
Sospirando, restituii il cellulare a Jerome prima di dire: “Anemia di proporzioni bibliche, insomma… Lance aveva ragione. Quindi, debbo imbottirmi di ferro. Diventerò come Iron Man.”
Quella battutina fiacca strappò un sorrisino altrettanto fiacco ai presenti. Era evidente quanto fossero preoccupati per me, e non avevo davvero idea di come calmarli.
“Anche quanto, Iron Woman” replicò Erika, lanciandomi un sorriso tutto denti.
“Già” annuii, prima di dire: “Spinaci e carne rossa per pranzo, allora?”
“Direi di sì. Corro subito a fare la spesa. Jerome, accompagnami” sentenziò Erika, afferrando per un braccio il fratello e trascinandolo fuori dalla stanza.
Erika aveva capito al volo che desideravo parlare da sola con Duncan. Era un tesoro di ragazza, non c’era che dire.
Non appena sentii sbattere la porta dabbasso, mi volsi a fissare il viso ancora teso di Duncan e, sollevando la mano libera, la accostai a lui per lisciare le rughe sulla sua fronte.
“Non fare quella faccia. Dovevamo immaginare tutti quanti che sarebbe andata così. E poi, non sto morendo. E’ solo una cosa temporanea. Quando il mio corpo si sarà abituato al potere, non soffrirò più di anemia.”
“Ma a che prezzo?” esalò, indicando i medicinali sul comodino.
“Duncan, quando ho accettato di presentarmi al Vigrond per il novilunio, ho messo in conto un po’ di sofferenza” gli ricordai, fissandolo negli occhi, due enormi pozze di smeraldo contornate da lunghe ciglia scure.
“Come sai quel nome?” mi chiese curioso, gli occhi leggermente sgranati.
“Lunga storia” scrollai le spalle, ben decisa a non perdere il filo della conversazione. “In ogni caso, ho accettato io di mettermi in gioco e, così facendo, mi sono presa carico di tutto quello che sarebbe potuto succedere.”
“Ti sto ripagando del tuo aiuto in ben misero modo” sospirò, scuotendo afflitto il capo corvino.
“Ripagami sorridendo di più, facendoti aiutare da Jerome e lasciando che Lance ti consigli. Fai che la tua Triade di Potere sia attiva, e non menomata. Il Consiglio ne ha approfittato fin troppo. E’ ora che tutto ciò finisca” lo spronai con veemenza, seria e con il viso contratto dalla tensione.
Lui aggrottò la fronte e mi chiese: “Perché dici questo?”
“Ho visto come si comporta il Consiglio, quando parli. Volgono tutti lo sguardo verso Sheoban, in attesa che lei prenda una decisione. Non ascoltano te, ma lei. Vai bene finché ti attieni a ciò che vogliono loro ma, quando agisci in un modo a loro inviso, ti si rivoltano contro. Correggimi se sbaglio” mormorai, stringendo la sua mano rilasciata sul copriletto.
Non mi disse nulla. Fu come un sì, per me.
“Sheoban ti si è rivoltata contro finché non mi ha vista… deve aver notato qualcosa che le è parso interessante, altrimenti non si spiegherebbe il suo voltafaccia. Pensaci bene” insistetti, stringendo ulteriormente la presa. “Non voglio sapere cosa ti ha spinto a concedere loro tanto credito, ma ti avverto… Sheoban sta tramando qualcosa.”
Quel commento gli fece distogliere gli occhi per un momento, quasi avessi centrato nel segno, ma dalla bocca di Duncan non giunsero conferme.
Un attimo più tardi, però, disse sommessamente, lo sguardo duro come l’acciaio fisso nei miei occhi attenti: “Se proverà soltanto a minare la mia autorità, la ucciderò.”
“Beh, affila gli artigli, allora, Fenrir, perché credo li dovrai usare a breve” grugnii, torva. “Verrò al Vigrond e dimostrerò a tutti chi sono, ma non sperare che io ascolti il Consiglio, perché non lo farò. Non mi fido di loro.”
“Te lo dice il tuo potere?” si informò Duncan, turbato.
Annuendo, ammisi: “In gran parte, le sensazioni sgradevoli erano causate da Marjorie, per gli ovvi motivi che conosciamo, ma ho sentito serpeggiare altro, in quella stanza. E non mi è piaciuto.”
Annuendo a sua volta, Duncan asserì: “Mi fiderò del tuo dire, allora. Sarò più cauto.”
“Bene” sorrisi a quel punto, prima di chiedergli: “Avresti davvero colpito Jerome perché ha preso una decisione al posto tuo?”
“Non per quello” replicò laconico, prima di alzarsi e aggiungere: “Riposa un po’. Ti chiamerò quando il pranzo sarà pronto. Quei due non dovrebbero metterci molto, a tornare.”
“Va bene” sussurrai, sdraiandomi sul letto e lanciandogli un sorriso confortante.
Duncan mi fissò ancora un momento, lo sguardo combattuto, prima di uscire con un sospiro.
Non riuscii a comprendere cosa lo arrovellasse.
Come soleva fare da quando eravamo arrivati a Matlock, bloccò volontariamente le sue emozioni perché non le potessi percepire. Cosa mi nascondeva?

***

Dopo aver visto andare via i cugini, Duncan si rivolse a me, semi sdraiata sul divano del salotto e intenta a guardare uno stupido programma di gossip.
“Com’è riuscito, Gordon, a non far parlare Mary Beth?”
Sorpresa da quella domanda, spensi il televisore e, sedendomi più compostamente, gli spiegai i fatti come li conoscevo io.
“Beh, non è stato facile, in effetti. Per ogni evenienza, è andato a trovarla in ospedale, così che non potesse correre a gambe levate ad avvertire Patrick.”
Lui annuì, e io proseguii dicendo: “Per farla breve, le ha detto di avere mie notizie, ma che doveva avere la certezza assoluta che non ne avrebbe parlato con Patrick, o lui non avrebbe aperto bocca. Non ti dico come si è arrabbiata.”
“Lo immagino” ammiccò Duncan, accavallando le lunghe gambe, seduto comodamente su una poltrona vicino alla finestra.
“Gordon ha fatto sfoggio della sua miglior interpretazione da fratello affranto, e le ha detto che ero fuggita da casa per salvarti da morte certa. Nel contempo, le ha mostrato il proiettile che aveva trovato nel cortile, il giorno della nostra partenza” gli spiegai, muovendo mollemente una mano per dare più enfasi al mio dire. “A quel punto, lei è crollata sulla poltrona del suo studio e ha preso in mano il proiettile, fissando il nitrato d’argento all’interno dell’ogiva. Gordon ha detto che l’ha guardato per almeno dieci minuti prima di scoppiare a piangere.”
“Mi spiace” sussurrò Duncan, adombrandosi.
Scrollai le spalle, prima di proseguire. “Quando Gordon le ha parlato dei licantropi e delle wiccan, lei è rimasta basita. Non voleva credergli. Alla fine, ha dovuto chiedere il permesso ad Abby, una neutra del branco di Glasgow, di accompagnarla dal suo Fenrir.”
 “Aspetta un momento. Che ha fatto, tuo fratello?” esalò Duncan, sgranando gli occhi.
Ridacchiando, gli dissi: “Non chiedermi come ha fatto, ma deve aver percepito che Abegail potesse saperne qualcosa, su wiccan e licantropi, così l’ha agganciata nel negozio dei suoi e le ha chiesto lumi. Adesso, è un sorvegliato speciale assieme a Mary Beth. Fenrir di Glasgow si è offerto di proteggerli dai Cacciatori, casomai ve ne fosse bisogno.”
“Che altro avete combinato, nei dieci giorni in cui sono stato via?” chiese ironico Duncan.
"Poco altro, a parte svuotarti la dispensa” replicai, scrollai le spalle.
“Quindi, Fenrir di Glasgow si è preso questo impegno, eh? E non mi ha detto nulla” scosse il capo Duncan, con aria più che mai sorpresa.
“Gli abbiamo chiesto di non disturbarti. Inoltre, gli ha parlato anche Jerome e, visto che tu non c’eri, la sua parola valeva come la tua” mormorai, prima di chiedere: “Perché Jerome ha insistito tanto per non chiamarti? Cosa sei andato a fare a Chester di così tremendo?”
Duncan si adombrò in viso e mormorò, dopo un momento: “Ho presenziato a un processo, Brianna. Dovevamo decidere delle sorti di un giovane licantropo, macchiatosi di un reato piuttosto grave.”
“E immagino non fosse un tribunale normale” ipotizzai, adombrandomi a mia volta.
Lui scosse il capo, asserendo: “No. Eravamo presenti io e gli alfa di Chester.”
“Per alfa, intendi i Mánagarmr di più alto rango?” gli chiesi, sorprendendolo ulteriormente.
“Tu ed Erika… quanto avete parlato?” mi chiese curioso.
“Molto” ammiccai. “Anche se molte cose sono rimaste in sospeso. Mi ha detto che lei non ha l’autorità di parlarne.”
“Capisco” annuì. “Andate molto d’accordo, vero?”
Sospirando, assentii con un sorriso e dissi: “E’ come avere una sorella, di cui non conoscevo l’esistenza fino a dieci giorni fa. Amo Gordon, ma con Erika è tutto molto più profondo. Forse perché siamo entrambe donne… non saprei.”
“E’ possibile. Ed Erika è dotata di una sensibilità davvero acuta. Se nella sua famiglia fosse stato presente il gene delle veggenti, lei sarebbe stata una Völva eccezionale” annuì Duncan, orgogliosamente.
Assentii a mia volta, prima di continuare il mio discorso. “Ci ho preso, prima?”
“Sì, intendevo dire proprio loro. Mi hanno chiamato non appena hanno saputo cosa aveva tentato di fare il ragazzo, e non è stato facile mantenere la calma, quando ho conosciuto i fatti” ringhiò Duncan, oscurandosi nuovamente in viso.
“Come mai?” esalai confusa, sentendomi la gola stretta da una morsa. Cos’era successo?
“L’hanno bloccato poco prima di commettere un atto vietato. La sua sorellina, grazie al cielo, lo ha sentito parlare al telefono con un amico, proprio mentre stava spiegando i suoi intenti, così è corsa a dirlo a Jonah, il Mánagarmr più alto in grado a Chester” mi spiegò torvo.
“Cosa voleva fare?” gracchiai, ora spaventata a morte.
“Uccidere il fidanzato di una ragazza di cui si era invaghito… una ragazza umana” mi spiegò Duncan, fissandomi per un momento prima di distogliere lo sguardo. “Il suo intento era di uccidere il rivale e mutare lei in licantropo, pensando follemente che la ragazza ne sarebbe stata felice. Dio, non posso credere alle mie stesse parole! Eppure, è ciò che ha tentato di fare!”
Il suo dire trasudava vergogna, rabbia, disgusto e, non da ultimo, rimpianto. Quest’ultimo sentimento, non lo compresi. Cosa rimpiangeva?
Subito, la sua aura tornò nei regimi, impedendomi di fatto di percepire qualcos’altro e, fissandolo turbata, gli chiesi: “Qual è stata la punizione?”
Duncan lanciò uno sguardo all’esterno, oltre la coltre morbida e leggera dei tendaggi color crema della finestra del salotto.
“Non voglio parlartene.”
“Pensi sverrei?” ironizzai, prima di notare la tensione della sua mascella.
Le mani, strette ai braccioli, erano sbiancate per la tensione ed io, sgranando gli occhi, esalai: “L’hai ucciso?”
“E’ stato punito come meritava” si limitò a dire Duncan.
“Rispondimi!” esclamai, raggiungendolo e inginocchiandomi dinanzi a lui.
Lui si volse a fissarmi, gli occhi due pezzi gelidi di smeraldo, e mormorò torvo: “Non comprendi ancora tutte le nostre leggi, Brianna… ne rimarresti turbata.”
“Mettimi alla prova. Ti prego” sussurrai per contro, sfiorando una sua mano con la mia. Era gelata.
Lui si alzò, attirandomi verso l’alto con sé.
Strinse una mano attorno alla mia nuca, mandandomi un brivido freddo lungo tutta la schiena.
Chinandosi verso di me, mi sussurrò all’orecchio con voce carica di risentimento e disprezzo: “Gli abbiamo mozzato la mano con cui avrebbe voluto uccidere l’umano, e mutare la sua amata in una di noi. Naturalmente, non ricrescerà, perché la sentenza è stata eseguita con una lama d’argento.”
Ora la sua aura mi avvolgeva. E io tremai di freddo.
Fu come trovarsi nel bel mezzo di una tormenta di neve, abbigliata solo con vestiti estivi e infradito.
Il disprezzo che avevo avvertito, non era solo diretto al giovane che aveva tentato di scavalcare una delle leggi più importanti del branco, ma anche verso se stesso, che aveva dovuto impugnare la lama che lo aveva reso storpio per la vita.
Tremai sotto la sua mano, invasa da quelle sensazioni tremende e lui, come se si fosse scottato, indietreggiò di un passo, gli occhi nuovamente caldi e percorsi dal rimorso per avermi spaventata.
Cercando di mantenere la calma, esalai: “Bene… ora ho capito. Grazie per avermelo detto.”
“Brianna…” tentennò lui, ora deciso a porre un rimedio ai suoi modi così sgarbati.
Scossi il capo, allontanandomi a mia volta di un passo e, sorridendogli mesta, mormorai: “Avevi ragione, non ero ancora pronta per ascoltare. Scusami se ti ho costretto a dirlo.”
“Brianna, ti prego… lascia che ti spieghi” disse ancora, allungando una mano per bloccare la mia ritirata.
Svicolai lesta, replicando: “Vado un po’ da Gabriel. Tu non hai colpa di nulla, è chiaro? Sono io a essermi comportata da sciocca.”
Detto ciò, fuggii letteralmente fuori di casa, lo stomaco in subbuglio e un desiderio folle di piangere a premere contro la parete della sclera arrossata.
Quando mi sarei abituata al fatto che, tra licantropi, le cose non funzionavano come tra gli umani?

  
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