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Autore: Katrice Eymerich    22/09/2012    3 recensioni
Kitty è una studentessa universitaria di vent'anni che lavora come guardarobiera in un pub del West Village di New York per mantenersi. Uno dei clienti fissi del locale è un ragazzo molto affascinante ma estremamente sgradevole, Caspar. Lui è tutto ciò che lei disprezza: è cinico, superficiale, spocchioso e sempre circondato da ragazze sciocche e fatue quanto lui, interessate ai soldi e alla vita favolosa che lui sembra offrire loro. Eppure è tremendamente intrigante e la vita di Kitty dopo averlo incontrato non sarà più la stessa.
In questa storia i vampiri non sono liceali romantici e dagli occhi luminosi ma mostri assetati di sangue e potere. Chi è davvero Caspar? E perché la misteriosa Albida lo perseguita?
Dal prologo:
"Il primo raggio di sole lo raggiunse lentamente filtrando tra i merli in pietra della torre e pigre volute di fumo cominciarono ad innalzarsi dalle sue membra immobili.
Non aveva scampo. Guardò i suoi piedi e le sue gambe tramutarsi in polvere bianca e capì che tutto quello che sarebbe rimasto di lui in questo mondo sarebbe stata una fragile statua seduta finché il vento e il tempo non l'avessero dispersa."
Genere: Horror, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Violenza
Capitoli:
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Kitty si stiracchiò pigramente e poi appoggiò esausta la testa sulle braccia incrociate. Era inutile, non riusciva a concentrarsi sulla lezione, riusciva a pensare solo che aveva sonno, sonno e ancora sonno.
Il professor Jennings continuò imperterrito la sua lezione di letteratura inglese, che era uno dei corsi più importanti, ma Kitty proprio non riuscì a interessarsi e in un paio di occasioni si era addirittura ritrovata a sonnecchiare con la testa ciondolante.
Frequentare l'università di giorno e fare la guardarobiera di sera la stava uccidendo. Anche la scorsa notte aveva fatto le due, ed era solo martedì. Avrebbe dovuto parlarne con Eric, il suo capo, ma sapeva di non potersi lamentare più di tanto, le mance erano ottime. In più il Bar 66 era a pochi isolati da casa e dall'università, una fortuna più unica che rara per essere in una città grande come New York.
Anche Cassie, la sua coinquilina, non faceva che ripeterglielo. Certo per lei era facile parlare così, non aveva mai lavorato in vita sua e l'appartamento nel West Village che condividevano glielo avevano regalato i suoi. Regalato. Un appartamento in piena Manhattan!
L'unica “fatica” che le toccava ogni mese era intascarsi gli affitti delle stanze che lei e Georgie, così si chiamava l'altra ragazza che viveva con loro, le versavano ogni mese.
Dopo un'ora interminabile la lezione finì, Kitty scarabocchiò velocemente qualche appunto sul suo quaderno e scappò via. Aveva appuntamento con Rick, il suo ragazzo, per pranzo. Era da pochi mesi che erano insieme e si sarebbe aspettata più entusiasmo, a volte le sembrava che la routine li avesse già trasformati in una coppia più navigata. Scacciò quei pensieri pensando che in fondo si vedevano poco ed erano entrambi molto impegnati con l'università.
Lo individuò facilmente in mezzo alla folla: Richard sovrastava tutti di almeno una spanna e aveva le spalle molto larghe. Parlava con una biondina, una certa Heather o come diavolo si chiamava, una di quelle che prendevano appunti su un laptop rosa coperto di stickers glitterati e avevano la voce squillante come un cartone animato. Arrivò alle loro spalle cingendo la vita di Rick di sorpresa, “se questa tizietta ha qualche mira” pensò “farà meglio a togliersela alla svelta”.
- Ciao!
Salutò allegramente piantando i grandi occhi azzurri sulla faccia di Heathercomecavolosichiama. La bionda la salutò di rimando con quella sua vocina acuta e rimase a fissarla scioccamente, come se arrivando Kitty avesse interrotto un discorso privato tra loro. Non le piaceva proprio questa tizia, erano settimane che dopo ogni lezione la vedeva ronzare attorno a Rick.
Non aveva mai accennato alla cosa per non passare da insicura, e tutti sanno quanto sia poco sexy fare scenate di gelosia quando sono solo quattro mesi che stai con una persona, ma stava cominciando a indispettirsi.
Rick ricambiò il suo abbraccio e la salutò baciandola velocemente sulle labbra poi, rivolto a Heather, disse che le avrebbe passato i suoi appunti tramite Facebook.
Mentre si allontanavano ancora abbracciati, Kitty non poté fare a meno di sottolineare:
- Facebook?
- Uhm? Ho l'amicizia con tutti i miei compagni di corso.
Kitty immaginò che razza di foto avesse sul suo profilo una del genere, cioè una che in novembre indossava una gonna corta e tacco 12 per andare a lezione. Minimo era il tipo da farsi tonnellate di album con indosso quasi nulla.
- Tra gli amici io non ho i miei compagni di corso, al massimo ne avrò due o tre e non gli scrivo mai.
- Ma tu non sei socievole, io sì.
- Prego? Pardonnez moi? Io sono socievolissima! Solo che non sto lì a postare ogni cinque minuti foto di quello che faccio... ho una tra i contatti che l'altra sera prima ha messo una foto di quello che avrebbe indossato, poi una foto di lei vestita, poi una della macchina del suo ragazzo che passava a prenderla, serie di foto di loro due in macchina che fanno gli spiritosoni, poi il sushi bar dove avrebbero mangiato, ovviamente foto del menù, poi di tutte le portate e infine di loro che facevano espressioni tipo “mmm che buono”! E tutti lì a commentare: “uuh che invidia” “come vorrei essere lì” e una sequela di mi piace assolutamente random... è questo essere socievoli secondo te?
- Dai, non tutti fanno così. Però è anche bello condividere quello che fai, no? E' divertente tra amici.
- Appunto con gli amici, non con gente con cui avrai scambiato al massimo tre parole in vita tua. Cosa importa quanti onigiri hai mangiato a 950 “amici” di Facebook?
- A volte sei proprio un po' snob, Miss Harrington – Martino.
Kitty abbozzò un sorriso, Rick le diceva sempre che il suo doppio cognome lo faceva pensare a un'ereditiera riccona.
- Lavori stasera?
- No, oggi ho il giorno libero però...
- Che c'è?
- Mi toccano venerdì e sabato...
Sentì Rick irrigidirsi sotto il suo braccio.
- Non siamo stati insieme neanche lo scorso weekend! Questa settimana Steve dà quella festa enorme, te l'avevo detto.
- Lo so, ma le mance del venerdì e sabato sono più alte, mi ci posso pagare un sacco di cose.
Rick grugnì qualcosa in risposta fissando i suoi piedi. Kitty si fermò e prese il viso del suo ragazzo tra le mani costringendolo a guardarla negli occhi, anche se aveva più di vent'anni quando era arrabbiato sembrava imbronciato proprio come un bambino.
La settimana prossima mi farò dare il sabato libero e staremo talmente tanto insieme che non mi sopporterai più! Lui fece una smorfia e si chinò su di lei per baciarla.

Quel sabato sera sembrava che dentro il Bar 66 ci si fosse riversato tutto il West Village. Una quantità impressionante di persone erano sciamate dentro riversandosi nel locale come una marea, occupando ogni tavolo, sedia, sgabello e parete che fosse possibile occupare. Sul palco si stava esibendo uno dei migliori chitarristi blues che Kitty avesse mai sentito. A dire il vero non è che lei fosse una grande esperta di blues, ma quando c'era Stu il locale traboccava per cui bravo doveva esserlo per forza.
Eric era al bancone a servire i clienti in maniche di camicia e con la faccia paonazza, diventava sempre di quel colore raggiunto un certo orario.
Sbucando tra la fitta foresta di clienti, Penelope le si parò davanti all'improvviso. Poiché erano dieci anni che faceva la cameriera in quel posto era convinta di poterla trattare come fosse una sua dipendente e tiranneggiarla quando aveva voglia. Sembrava quasi che invidiasse la sua postazione di guardarobiera. E dire che lei, al contrario di Kitty, oltre le mance prendeva anche uno stipendio.
- Mi devi sostituire fino alla fine del turno.
- Cosa? - esclamò Kitty spalancando gli occhi – E chi sta qui a prendere le giacche?
- Puoi fare benissimo avanti e indietro, Allison ti darà una mano. Non è così difficile gettare un occhio qui di tanto in tanto, no? Io devo scappare da mio figlio, ciao.
- Ciao.
Bofonchiò guardando quella scopa secca che si allontanava di corsa. Facendosi largo tra la folla arrivò al bancone e scoccò un'occhiataccia a Eric ma quello era talmente occupato a servire che non la vide neppure arrivare. Agguantò il primo taccuino a portata di mano e si gettò nella mischia dirigendosi verso i clienti che avevano lo sguardo più ansioso. Mentre prendeva l'ordinazione di una coppia di anziani in vacanza si rese conto che a uno dei tavoli d'angolo era seduto Milord.
Circondato dal suo solito drappello di stupide di bell'aspetto, Milord se ne stava stravaccato con quella sua finta aria annoiata da “io sono troppo fico per stare qui” ravviandosi di tanto in tanto con un gesto calcolato un lungo ciuffo di capelli neri che gli ricadeva sugli occhi.
Tra quelli abituali era il cliente peggiore. Non che non fosse generoso, anzi, le sue mance potevano definirsi estremamente laute, ma il modo in cui le elargiva avrebbe fatto sentire chiunque come un mendicante. Non lasciava i soldi sul piattino come tutti gli altri, no. Lui aspettava che la cameriera si avvicinasse, apriva il suo costoso portafoglio (ne aveva sempre uno diverso) e con studiata lentezza tirava fuori una banconota per volta finché dopo un tempo interminabile finiva e fissava con quei penetranti occhi verdi mettendo a disagio e condendo il tutto con prese in giro del tipo: “ecco i tuoi preziosi soldi, tanti vero?” oppure “ora sì che sei ricca e potrai comprarti tante cosine”. Naturalmente il suo entourage di modelle anoressiche e cocainomani lo trovava così esilarante che non poteva fare a meno di compiacerlo con stridule risatine da iene.
“Che se ne occupi Allison” pensò Kitty “oggi non sono decisamente dell'umore”. Rick aveva tirato di nuovo fuori la storia della festa di Steve rinfacciandole che per lui era importante, che voleva andarci, che con lei il massimo che facevano era vedere un film e che con la sua ragazza avrebbe voluto anche divertirsi, al che lei aveva reagito male e avevano litigato. Insomma, lei non stava certo divertendosi a passare il sabato sera a portare cocktail e restituire cappotti e trovava assurdo che questo Rick non lo capisse e non la sostenesse. Non era libera come tutti gli altri di andare a ubriacarsi nelle confraternite e fare altre cretinate, lei era lì con una borsa di studio risicata e quel poco di aiuto che le davano i suoi serviva a malapena a coprire l'affitto. “Una festa, ma sai cosa me ne frega di guardare quei gorilla ubriachi dei tuoi amici!” sbatté una pinta di birra con tanta forza che traboccò.
- Mi scusi!
Esclamò mortificata, ma il tizio era così preso dal concerto che non badò neppure a lei che si affannava a ripulire con uno straccio il tavolo.
Stava tornando al bancone quando una voce la raggiunse attraverso il frastuono, chiara e forte come se si trovassero in una stanza vuota.
- Signorina? E' possibile avere qualcosa da bere? Le mie amiche cominciano a spazientirsi.
Gli occhi color giada pallido di Milord sembrarono lampeggiare attraverso la sala. Per un attimo Kitty si chiese se avrebbe potuto far finta di niente ma poi si avvicinò controvoglia al suo tavolo.
La prima volta che lo aveva visto lo aveva trovato estremamente attraente. Era una fredda sera di febbraio ed era entrato nel locale da solo, senza il solito codazzo di oche starnazzanti, indossando un morbido cappotto nero di cachemire che seguiva perfettamente la linea delle spalle larghe. Si era avvicinato al guardaroba con calma sfilandosi con lentezza guanti di pelle bianca e lanciandole sguardi fugaci, aveva occhi di un incredibile verde pallido incorniciati da ciglia folte così nere da farli sembrare truccati. Il viso dai tratti spigolosi e armonici era di un incarnato sorprendentemente chiaro e luminoso (roba che per ottenere lo stesso risultato a lei ci sarebbero voluti almeno dieci peeling chimici) ma ciò che aveva attirato l'attenzione di Kitty più del dovuto era la sua bocca: colorita, piena e su cui aleggiava sempre un vago sorriso.
Quando si era appoggiato con nonchalance al bancone, Milord aveva sfoderato il più ammaliante dei sorrisi scoprendo denti perfettamente bianchi, poi purtroppo aveva parlato.
Da allora non c'era stata una volta che non fosse stato sgradevole e sarcastico e Kitty aveva avuto più volte la tentazione di tirargli su quella bella faccia le sue spocchiose banconote.
In piedi di fronte a lui e le sue amiche, la ragazza adottò il tono più professionale e distaccato che le riuscì:
- Desiderate ordinare?
- Kitty! Non prendi cappotti questa sera? Ti hanno per caso promossa?
Lei lo guardò abbozzando un sorriso forzato, poi ritentò:
- Allora che prendete?
Le ragazze sedute al tavolo con lui confabularono per qualche istante, poi una che sembrava uscita dal catalogo di Victoria's Secret prese la parola:
- Avete il Cristal in questo posto?
Kitty la fissò per un istante chiedendosi se la stesse prendendo in giro. Le sembrava posto per bere champagne da 200 dollari? Non che il Bar 66 fosse una bettola, ma i loro drink arrivavano al massimo ai 20 dollari, era un locale degli anni venti per una clientela amante del jazz non lo Chateau Marmont.
- No, mi dispiace ma abbiamo un'ottima lista dei vini.
- Io non bevo mai... vino.
Milord pronunciò quella battuta con un tono esageratamente serio e tenebroso e le tre ragazze esplosero in una cacofonia di risate stridule. Kitty pensò che a volte gli stereotipi sulle modelle erano fin troppo lusinghieri e cercò di ricordare dove avesse già sentito quella frase.
Dopo che ebbero deciso cosa ordinare la ragazza radunò i menù e una delle tre modelle, con i capelli lisci e perfetti come se fosse appena uscita dal parrucchiere, le sorrise dicendo:
- Grazie, Hello Kitty!
Ecco, se c'era una cosa che detestava sopra ogni altra era quando la chiamavano Hello Kitty. Kitty detestava quella maledetta gattina e trovava insopportabile che chiunque da quando frequentava l'asilo trovasse simpatico apostrofarla così. Soprattutto trovava ancor meno piacevole quando le persone credevano di farle cosa gradita regalandole gadget di quella mascotte malefica. Oltre a quaderni, diari, matite, gomme, borsette, portamonete, possedeva persino la borsa dell'acqua calda con sopra Hello Kitty. Teneva il tutto inscatolato e sigillato nella cantina dei suoi, buttare dei regali sarebbe stato da maleducati ma tenerli sotto gli occhi le provocava l'orticaria.
Ignorò la modella mordendosi la lingua per non risponderle, portò gli ordini ad Eric e si precipitò al guardaroba dove due donne impazienti attendevano di recuperare i propri cappotti.

La serata era finalmente agli sgoccioli, la sala era semivuota e i pochi clienti rimasti avevano cominciato ad accomiatarsi. Tutti tranne quattro.
Kitty si passò nervosamente la mano tra i capelli e iniziò ad arrotolare una ciocca castana con l'indice. Fissava gli occupanti del tavolo continuando a sperare di vederli alzare: “Avanti dannazione! Non avete un qualche loft a Soho dove andare? Nessun party da una stilista alle quattro di mattina?”. Milord si girò verso di lei come se l'avesse udita e Kitty distolse in fretta lo sguardo.
- Scusami?
Chiamò, sollevando appena il braccio che teneva intorno alle spalle della tipa di Victoria's Secret.
- Puoi portarci il conto?
Kitty si diresse verso il bancone e forse camminando un po' troppo in fretta, posò il piattino di ceramica nera col conto sul massiccio tavolo di noce scuro.
- Hai un appuntamento?
Sogghignò Milord e tirò fuori una manciata di contanti senza nemmeno guardare l'ammontare sullo scontrino.
Kitty fece subito il conto a mente.
- Sono troppi.
- C'è anche la tua mancia, Hello Kitty.
Le tre sciocche ridacchiarono e Kitty sentì le guance avvampare.
- E' ridicolo... la mancia è più del conto.
Ribatté lei infastidita.
- E allora?- Lui la fissò divertito con quei freddi occhi verdi – Non posso lasciare quanto voglio alla mia cameriera/guardarobiera preferita? Approfittane Hello Kitty.
Ignorò l'enfasi con cui aveva sottolineato le ultime due parole, prese in mano le banconote sotto lo sguardo attento dei quattro, calcolò il quindici percento esatto del totale e lasciò cadere il resto sul piattino come fosse spazzatura.
- Che cretina!
Sentì esclamare sottovoce a una delle modelle. Lei le scoccò un'occhiata in tralice e si allontanò dal tavolo di quegli idioti.
Poi si ricordò dei cappotti. Neanche il tempo di entrare nel guardaroba che Milord era già lì in attesa, con le tre modelle piene di alcol alle sue spalle che blateravano confusamente.
- Credo che i nostri siano gli unici cappotti rimasti.
Disse tenendo tra le dita lunghe e affusolate il gettone numerato del guardaroba. Mentre recuperava i loro indumenti sentiva i suoi occhi addosso e la cosa la fece muovere goffamente. Quando si voltò lui era ancora lì a fissarla con un sorrisetto fastidioso dipinto sulla faccia mentre si protendeva leggermente sul bancone.
- Perché non ti sei presa tutta la mancia?
Le bisbigliò così vicino all'orecchio da farle rizzare i peli sulla nuca. Si scostò da lui e lo guardò dritto in faccia.
- Un conto è prendere una mancia, un conto è farsi umiliare.
Rispose lei seccamente.
- Hai un bel caratterino Hello Kitty, te lo hanno mai detto?
Lei non rispose, aspettava solo che finissero di infilarsi i loro costosi cappotti e se ne andassero.
- Detesti che ti chiamino Hello Kitty, vero? Ti viene un faccino così imbronciato ogni volta.
- Io non ho nessun faccino imbronciato!
Ribatté e si pentì subito d'averlo fatto. Le labbra carnose di Milord si incurvarono in un sorriso.
- Sai il jazz mi fa schifo, è solo per il servizio che vengo qui.
Lei alzò gli occhi al cielo senza rispondere. Dopodiché lui e le modelle si avviarono all'uscita tenendosi sottobraccio, le tre ragazze avevano decisamente bisogno di essere sostenute.
Kitty le sentì berciare “Addio Hello Kitty!” a lungo prima che le loro voci starnazzanti si perdessero nella notte.

Quando uscì dal bar aveva cominciato a nevicare. Si strinse la sciarpa nera attorno al collo e si incamminò per i pochi isolati che la dividevano dal suo appartamento. Cercò il cellulare nella tasca del piumino che indossava e provò a chiamare Rick, lo faceva sempre quando staccava dal lavoro. In genere lui passava a prenderla, perché anche se era un quartiere piuttosto tranquillo e pieno di gente che entrava e usciva dai club e dai ristoranti, lei era pur sempre una ragazza sola e quella era pur sempre New York. Dopo una decina di squilli a vuoto si rese conto che Rick non le avrebbe risposto. Si domandò cosa stesse facendo, se fosse ancora arrabbiato con lei o se invece fosse troppo ubriaco per rispondere.
Si ripromise di passare a trovarlo il mattino seguente come prima cosa da fare, voleva assolutamente fare pace. Non era sicura di esserne innamorata, era certa di volergli molto bene e trovarlo attraente ma onestamente non sapeva dire se ci fossero sentimenti più profondi ad animare il loro rapporto. A volte aveva la sensazione che lui fosse più preso, che la cercasse e desiderasse di più di quanto non facesse lei e forse era stato proprio questo a farlo arrabbiare, il sentirsi trascurato.
Sorrise tra sé e sé immaginando quanto sarebbe stato bello fare pace con lui e sentirsi avvolgere da quelle forti braccia. Non c'era niente di meglio di avere un ragazzo alto un metro e novanta da cui farsi coccolare.
Immersa ancora in questi pensieri svoltò in Perry Street e all'improvviso ebbe la strana sensazione di essere seguita. Non aveva udito passi alle sue spalle o un qualsiasi altro rumore. Anzi, il mondo sembrava essere precipitato in quella strana quiete bianca che solo la neve era capace di creare. Persino a New York di sabato sera in quel momento c'era silenzio.
Istintivamente scrutò alle proprie spalle ma non vide nulla. “Sono una scema” pensò scuotendo la testa, però si affrettò lo stesso. La neve fresca sotto i suoi stivali era ancora soffice e attutiva il rumore dei passi, le piaceva la neve. Le ricordava con nostalgia le grida di gioia dei suoi fratelli minori ogni volta che qualche fiocco cominciava a cadere.
Chissà il mattino seguente come sarebbero stati felici di vedere tutto imbiancato: Grace sarebbe corsa a infilarsi gli stivaletti di gomma rosa e Anthony si sarebbe precipitato in garage per tirare fuori lo slittino mentre Daisy gli saltellava intorno scodinzolando, sarebbero usciti come furie di casa senza nemmeno fare colazione con la mamma che gli gridava inutilmente dietro per farli rientrare.
Un fruscio alle sue spalle. Sobbalzò voltandosi completamente ma a parte le auto parcheggiate, i lampioni e i palazzi che si perdevano nel buio, non vide nulla. Le era sembrato che qualcuno camminasse rapido dietro di lei spostando l'aria ghiacciata.
Fissò ancora la strada deserta socchiudendo gli occhi azzurri, poi quando fu certa che nessuno la stesse seguendo riprese la strada di casa.
“Pochi passi e sono arrivata” cercò di incoraggiarsi mentre affrettava il passo senza cedere alla tentazione di mettersi a correre per l'ultimo isolato.
Giunta con sollievo sui gradini del palazzo cominciò a rovistare nervosamente nella borsa per trovare le chiavi del portone gettando però sguardi preoccupati alle spalle, come se ci fosse qualcuno pronto a piombarle addosso dal buio.
“E' ridicolo” pensò “non c'è proprio nessuno, ti stai comportando da cretina” ma intanto quella spiacevole sensazione di essere osservata persisteva e la sua mano cercava senza successo le chiavi nascoste in una borsa che pareva senza fondo. Riuscì ad afferrarle, strinse con gioia il vecchio portachiavi che Anthony le aveva fatto all'asilo e con un movimento rapido infilò la chiave nella serratura.
Quando finalmente il portone fu alle sue spalle sospirò sentendosi una sciocca. Si voltò un'ultima volta, senza motivo, poi posò lo sguardo distratto a terra sul marciapiede appena imbiancato e sgranò gli occhi.
Dietro le tracce dei suoi stivali c'era una scia di grosse impronte pesanti che la neve stava già ricoprendo. Seguivano il percorso che aveva fatto lei e si fermavano davanti alla corta scalinata di granito del palazzo dove abitava con le sue coinquiline, come se chi le aveva impresse avesse sostato per un istante, poi proseguivano oltre per Perry Street fin dove lo sguardo atterrito di Kitty riusciva ad arrivare.
   
 
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