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Autore: Unicorno Peloso    24/09/2012    45 recensioni
Storia interattiva scritta a quattro mani da gattapelosa Niallsunicorn.
Essendo stata rimossa dall'amministrazione la prima stesura, abbiamo dovuto ri-pubblicare la storia.
Passate pure a leggere i nuovi capitoli dei quarantottesimi hunger games, e possa la buona sorte essere sempre a favore del vostro tributo preferito!
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno :)
Come alcuni di voi avranno certamente notato, la nostra storia è stata cancellata, perchè a quanto pare infrangeva il regolamento del sito. ( spigazioni infondo, lol. )
Abbiamo perciò deciso di ri-postare tutti i capitoli già pubblicati in questo maxycapitolo (?), per poi ricominciare ad aggiornare regolarmente.
Beene, dopo aver letto tutte le dovute spiegazioni, vi invitiamo a lasciarci una recensione piccina picciò, giusto per farci sapere che avete ritrovato la nostra storia.
Ovviamente non siete obbligati a rileggere la storia dal’inizio (santa pace, immagino che supplizio!). Detto questo...
Ci becchiamo infondo, bro. (?)

 
 

 
Prologo, le ventiquattro stelle.

 

Oh, adesso basta, pensò Jona, mentre cercava di farsi più alto mettendosi in punta di piedi. Aveva passato anni a pregare i genitori a portarlo alla sfilata dei tributi e, dopo una marea di rifiuti e di ramanzine, era finalmente riuscito a convincere il padre a indossare il suo completo migliore e ad accompagnarlo.
Quindi, dopo tutta quell'attesa, non poteva certo permettere ad una vecchia e ricca signora di Capitol City di oscurargli la visuale con quella sua orrenda parrucca giallo limone alta come minimo dieci centimetri. Jona sbuffò e iniziò a saltellare, sperando di riuscire a vedere qualcosa o di convincere la donna a cambiare posto infastidendola con le sue moine da "bambino curioso che per la prima volta incontra i tributi dal vivo". Ma la signora sembrò quasi non accorgersi di lui, intenta com'era a lisciarsi le pieghe dell'esagerato vestito color porpora e a sistemarsi il cappellino. Il bambino puntò i piedi, offeso dall'indifferenza della donna.
Possibile che i suoi concittadini fossero tutti così egoisti? Che preferissero avere un'ottima visuale su un evento visto decine e decine di volte piuttosto che lasciare un po' di spazio a lui, che non aveva mai assistito a niente del genere? Sbuffò nuovamente, questa volta in modo più rumoroso, tanto che finalmente il padre si accorse delle difficoltà in cui si trovava il figlio: circondato da persone molto più alte di lui e schiacciato dalle ampie gonne delle signore di Capitol City, veniva privato della possibilità di vedere la sfilata che sarebbe iniziata a breve. Sorrise a arruffò con la mano i capelli tinti di azzuro di Jona, prima di prenderlo in braccio e posizionarlo a cavalcioni sulle sue spalle. Il bambino si aggiustò i ciuffi ribelli e sorrise di rimando, perché era finalmente in grado di vedere l'ampio viale sul quale sarebbero scivolati i fantastici carri dei dodici distretti, ogni anno più belli. Dovette aspettare ancora qualche minuto, e nell'attesa iniziò a giocare con la parrucca della donna davanti a lui, troppo impegnata a civettare con un ragazzo molto più giovane di lei per accorgersi delle piccole manine di Jona che le increspavano i capelli sintetici.
Sinceramente non riusciva a capire il bisogno degli abitanti di Capitol City di utilizzare delle parrucche: non potevano semplicemente tingersi i capelli? Loro cambiavano spesso il loro colore, a seconda dell'umore o della stoffa del vestito; lui, invece, voleva rimanere fedele all'azzurro per sempre, in onore ai bellissimi riflessi del mare che non aveva mai visto, se non in foto o in televisione. Le mode della capitale lo facevano ridere, anche se probabilmente suscitare ilarità non era l'obbiettivo dei famosi stilisti che si occupavano di soddisfare le assurde richieste dei propri facoltosi clienti.
Finalmente la voci di Caesar Flickerman e Claudius Templesmith risuonarono chiare e forti nella strada affollata, nonostante le urla di esultanza del pubblico minacciassero di coprire i presentatori. Gli altoparlanti, disposti in ogni dove, annunciarono l'inizio della sfilata e, dopo pochi secondi, il carro del distretto uno fece il suo ingresso.
La prima cosa che Jona notò furono i costumi dei due tributi: luccicanti ed esagerai come i vestiti di Capitol City, ma belli nella loro assurdità. Entrambi dalla carnagione olivastra, muscolosi e imponenti, avvolti nei loro vestiti rossi arricchiti da splendidi brillantini dorati. Ogni volta che la ragazza muoveva la gonna del suo abito a sirena, la stoffa di raso brillava, ammaliando gli spettatori invidiosi. I capelli, neri come il carbone, le ricadevano dolcemente sulle spalle ed erano arricchiti con fili dorati e forcine brillanti piene di pietre preziose. Il ragazzo invece, aveva un completo dello stesso tessuto della sua compagna, e i gemelli che bloccavano i polsi della camicia si vedevano scintillare da lontano, abbaglianti come i fari di un hovercraft.
Jona si sporse in avanti, per vedere meglio i loro volti: nessuna emozione sembrava nemmeno sfiorarli, guardavano davanti a loro con aria sprezzante, e ciò sembrò scatenare un'ondata di adrenalina nel pubblico, le cui urla divennero quasi insostenibili. Il bambino fu costretto a porsi le mani sulle orecchie, infastidito: in televisione le grida degli abitanti di Capitol City si sentivano appena, come un piacevole sottofondo alle parole dei presentatori, che in quel momento erano quasi impossibili da udire.
Il primo carro fu seguito da quello del distretto due, che presentava i propri tributi come delle divinità. I loro vestiti erano semplici ma rendevano i tributi imponenti e marmorei, quasi come delle statue dell'antica grecia: consistevano in delle tuniche di un bianco lucente, con i bordi dorati. Il maschio era piuttosto alto e robusto, inoltre i suoi capelli biondi e gli occhi chiari, che lo facevano apparire incredibilmente bello, completavano il quadro del "tributo perfetto" agli occhi degli abitanti della capitale. Ma la ragazza non era da meno: i capelli, in netto contrasto con l'abito che lasciava scoperta una spalla e parte della schiena, erano di un rosso acceso, ricchi di sfumature e ribelli, come le fiamme.
-Papà!-urlò Jona, piuttosto scosso. -Quella ragazza ha i capelli in fiamme!- continuò, con lo stesso tono di voce. Il padre rise, divertito dalle insinuazioni del figlio, dopodiché gli strinse una mano.
-No Jona, ha solo i capelli rossi come la mamma-Il bambino continuò a guardare con sospetto i capelli del tributo, non totalmente convinto dalla spiegazione. Sua madre aveva si i capelli rossi, ma il loro colore, in confronto a quello della ragazza, appariva spento e scialbo, nonostante molte sue amiche li guardassero con invidia.
Jona spostò con fatica lo sguardo dal carro del distretto due, per passare al successivo. I tributi del distretto tre indossavano un'anonima tuta da elettricisti, fin troppo semplice per una parata. Infatti all'improvviso la ragazza appoggiò una mano sulla spalla del suo compagno, ed entrambi furono avvolti da una cascata di scintille dorate e ramate, che gli illuminarono il volto lasciando gli spettatori di stucco. La ragazza era molto bella ma non sorrideva, nonostante i visibili apprezzamenti del pubblico; il ragazzo, invece, esibiva un sorriso spento e poco sincero. Il quarto distretto propose due splendidi tributi vestiti di quella che sembrava acqua: ad ogni più piccolo movimento della coppia la stoffa si increspava in modo particolare, richiamando delle piccole onde.
Jona sarebbe rimasto ore e ore a guardarli, incantato dalla bellezza di quei ragazzi che, al contrario di lui, non solo avevano visto il mare e vi si erano tuffati chissà quante volte, ma lo stavano anche indossando. I tributi del quinto distretto, invece, brillavano di luce propria: il costume sembrava fatto di tante minuscole lampadine azzurrine, ma era impossibile distinguerle una ad una. Sembrava quasi che fossero vestiti di energia, tanto erano belli ed ipnotici i loro vestiti. Il ragazzo aveva degli splendidi occhi dorati, brillanti quasi quanto ciò che aveva indosso; la ragazza invece aveva i capelli stranamente corti, quasi come quelli del compagno.
Seguì il carro del distretto sei, i cui tributi indossavano delle aderenti tute nere che mettevano in risalto la muscolatura di entrambi. Tante piccole luci colorate e brillanti correvano lungo il loro corpo, forse a simboleggiare i mezzi di trasporto che venivano prodotti nel loro distretto. I loro copricapi (sorprendentemente discreti) lampeggiavano dolcemente, alternando dei colori caldi a quelli freddi. Il settimo, come sempre, vestiva i propri tributi da alberi, ma i loro costumi non sfiguravano accanto a quelli altrui. Assieme alle foglie di varie tonalità di verde che coprivano il petto di entrambi, ve ne erano altre d'oro, che donavano luce e vitalità ai vestiti. Inoltre la ragazza aveva una coroncina di rametti dorati posta sui capelli castani e lucenti, che sembravano arricciati per l'occasione.
Il distretto otto, invece, ostentava la ricchezza delle sue preziose stoffe con dei costumi che ricordavano quelli ricchi ed eleborati dei re e delle regine di secoli addietro. Jona pensò che la ragazza sembrasse una principessa, come quelle disegnate nei libri di fiabe che gli compravano i genitori, poi si fece distrarre dai suoi capelli: erano neri e ondulati, ma gli ultimi dieci centimetri erano colorati di vari colori e ricordarono al bambino un'arcobaleno. Aveva già visto qualcosa del genere addosso alle donne di Capitol City ma loro, come al solito, esageravano sempre e riuscivano a far sembrare orribile qualsiasi cosa.
Poi fu il turno del distretto nove, quello dei cereali. I due ragazzi avevano del grano nei capelli, e la ragazza reggeva uno splendido bouquet di spighe dorate. I loro vestiti, anch'essi del colore dell'oro, risplendevano alla luce del tramonto. La giovane donna faceva frusciare con grazia la gonna ampia, e quel movimento sembrava produrre lo stesso effetto del vento sui campi di grano. Il distretto successivo, quest'anno, proponeva uno stile diverso dal solito, che si discostava di molto dai soliti costumi da cowboy. Entrambi indossavano dei vestiti di pelle, ovviamente ottenuti dagli animali allevati nel loro distretto: un semplice ma elegante completo scamosciato per il ragazzo, ed una gonna corta e aderente accompagnata da una camicia senza maniche azzurrina che metteva in risalto il seno della ragazza. Il penultimo carro fece il suo ingresso, rivelando due ragazzi vestiti con delle tute da agricoltori bianche e dorate, impreziosite da gemme colorate che fungevano da bottoni. Come i tributi del distretto sette, anche loro indossavano delle particolari coroncine intrecciate, adagiate sui capelli scuri di entrambi.
Finalmente l'ultimo distretto, il dodicesimo, fece capolino e si aggiunse agli altri undici, che sfilavano davanti ad un pubblico particolarmente eccitato. I tributi indossavano delle tute da minatori con tanto di elmetto, ma non era una semplice lampadina quella che brillava al centro del casco di protezione: un topazio, gigantesco e luminoso, rifletteva la luce del tramonto e creava degli interessanti riflessi sui costumi altrimenti neri dei ragazzi. Gli abitanti della capitale esplosero con un boato, applaudendo, urlando e pestando i piedi per manifestare la propria approvazione ai tributi e per elogiare tutti e ventiquattro gli stilisti. Questa volta Jona non pensò nemmeno a caprirsi le orecchie, sembrava interessato solamente ai volti dei ragazzi che presto avrebbero intrattenuto l'intera Panem con le loro gesta o, più frequentemente, con le loro pubbliche morti.
Erano tutti così giovani, così forti e così belli, che il bambino non si azzardò nemmeno a fare un pronostico su chi avrebbe potuto essere incoronato vincitore, limitandosi a fissarli. Non si accorse del presidente Snow che si apprestava a fare il suo discorso, né del fatto che la luce rossastra e luminosa del tramonto stava scomparendo per lasciare spazio alla sera. Si rese conto del cambiamento solo quando vide i tributi stagliarsi su uno splendido sfondo blu notte, che faceva apparire i loro costumi ancora più luminosi. Erano delle stelle, delle stelle brillanti che costringevano il pubblico a stare con il naso all'insú e a rimanere con il fiato sospeso.
Prima di abbandonare la strada e tornare a casa accoccolato tra le braccia del padre Jona si concesse un ultimo sguardo a quei ragazzi e gli venne quasi da piangere, perché il più grande di loro poteva avere al massimo una decina d'anni più di lui.
Sarebbe stato questo il mio destino, se fossi vissuto in uno dei dodici distretti invece che a Capitol City? Pensò il bambino con amarezza e, per la prima volta nella vita, si sentì molto più grande dei suoi otto anni. Sospirò e incrociò lo sguardo di ognuna di quelle stelle, con la certezza che ventitré di loro si sarebbero presto spente per lasciare spazio ad un unico brillante vincitore. 



Capitolo uno, il migliore tra loro.
 

Atala parlava, spiegava come e cosa fare nell’ala dedita all’addestramento.

 
C’erano una ventina di postazioni, numero più, numero meno. Tecniche di sopravvivenza e armi varie.
 
Atala parlava, e parlava e parlava, più parlava meno si concentrava sul discorso, troppo presa nel giudicare i nuovi tributi: fortunatamente quasi nessuno scendeva sotto i quattordici anni, a esclusione della piccola Eleuthera.
 
Il monologo abbioccante di Atala poco importava. Quando ebbe fine, anche chi l’aveva ascoltata presto se ne dimenticò. C’erano tante di quelle armi, tante di quelle cose da imparare! E avevano solo tre giorni. Era meglio darsi una mossa.
 
Con un gesto di Atala, ventiquattro tributi si sparsero per la sala.
 
Il gruppo di favoriti raggiunse subito le postazioni d’armi: non sembravano interessati alle tecniche di sopravvivenza perché, effettivamente, non ne avrebbero avuto alcun bisogno. Inoltre quella era l’occasione giusta per mettere in mostra le proprie qualità, spaventando gli altri tributi e dimostrando di essere al pari dei propri alleati.
 
Cercando di evitare faccia a faccia con imponenti favoriti, Shaileen Turner, dal distretto 8, si diresse verso la postazione dedicata allo studio delle piante. Perché? Perché non ne conosceva nemmeno una. Era nata e cresciuta in un Distretto dedito alla tessitura. A differenza del suo compagno, Liach, il quale aveva avuto modo di apprendere qualche indicazione elementare e poteva districarsi meglio tra bacche e arbusti.
 
Così, Shaileen si fece largo tra i vari tributi.
 
La postazione piante-erbe-bacche sembrava totalmente vuota.
 
Shaileen ci s’avvicinò quasi in corsa. Era tenuta da un omino tutto occhiali, piccoletto, ben vestito. Le fece un sorriso, invitandola al banco, quando una vocina sottile, sconosciuta, parlò.
 
— Scusa, c’ero prima io.— Shaileen si voltò di scatto, incontrando lo sguardo deciso e leggermente seccato di una ragazzina piccola piccola, minuscola. Aveva un visino dolce, tanto carino, abbastanza ovale da far intendere un’età che forse l’altezza lascerebbe a desiderare.
 
Il suo nome era Cassya Reigo, dal Distretto 11. Shaileen l’aveva oltrepassata perché troppo minuta.
 
— Ops, perdonami, non ti avevo vista!— si scusò. Cassya scrollò le spalle.
 
La ragazza s’avvicinò al banco, senza prestare troppa attenzione all’omino degli occhiali, prese a individuare pianta dopo pianta nel test di preparazione.
 
Shaileen rimase particolarmente stupita. D’altro canto, pensò, Cassya proveniva dall’11, Agricoltura.
 
Quando venne il suo turno, non seppe proprio come muoversi tra nomi, foglie, bacche e rami.
 
L’omino occhialuto provò e riprovò a spiegarle come individuare le giuste sfumature di verde, il pericoloso blu scuro di bacche velenose, il luccicante cremisi di frutta buona. Niente da fare.
 
Dopo quindici minuti buoni di tentativi a vuoto, Cassya scoppiò. Quella ragazza profanava l’arte agricola e l’omino occhialuto non ci sapeva proprio fare.
 
Così, si mise lei stessa ad insegnare. E Shaileen trovò finalmente un metodo per imparare i fondamenti del mestiere.
 
Tra una bacca e un rametto scappò pure qualche battutina simpatica. Avevano entrambe diciassette anni, due caratteri complementari e una grandissima voglia di vivere.
 
E forse non erano più così sole.
 
Dall’altra parte della sala, Carol Todd si esercitava un po’ con i nodi.
 
Era un asso tra coltelli, lance e risse. E sapeva nascondersi davvero bene.
 
Però non era poi così ferrata con i nodi. Veniva dal Distretto 10, allevamento, conosceva tecniche all’avanguardia come l’ingegneria genetica, aveva avuto abbastanza tempo per squagliare carcasse ed esercitarsi, ma poco per annodare cavi.
 
Carol voleva imparare il più possibile. Doveva uscire dall’Arena per Tom, suo fratello, ucciso in un’edizione passata degli Hunger Games. Lui l’aveva addestrata. Lei ce l’avrebbe fatta.
 
Sfiorò con l’indice un braccialetto, indossato a suo tempo da Tom. Le ricordava chi era, cosa doveva fare.
 
A furia di fare nodi non intercettò subito lo sguardo interessato di un altro tributo, e quando se ne accorse finse di non prestarci la giusta attenzione. Era Cassian Brownleaf, suo compagno di Distretto.
 
Lui conosceva lei e lei conosceva lui, anche se solo di fama. Erano entrambi famosi per le loro doti manipolatrici. Lui forse era più discreto, un po’ introverso; lei era bella, di una bellezza dolce, e tanto bastava.
 
Cassian forse non apprezzava troppo questa parte di sé, ma riteneva utile il poter manipolare l’Arena. Forse non era il più forte dei tributi, o il più preparato, ma sarebbe sopravvissuto, supportato da nuove e invincibili invenzioni. Qualsiasi cosa nell’arena sarebbe potuta diventare una trappola.
 
Così stava lì a guardare Carol armeggiare lacci di corda, e pensava: pensava che se non c’era da fidarsi di un visino tanto dolce come quello della sua compagna, allora non ci si poteva fidare di niente e di nessuno.
 
Le sue occhiate insistenti, però, avevano iniziato a insospettire qualcuno, e questo qualcuno era Bryan Gregory, distretto 7. Un ragazzo bello, sicuramente, sensuale, alto e muscoloso.
 
Un ragazzo che aveva già strappato qualche bell’occhiata tra i tributi femminili.
 
Beh, si potevano dire tante cose di Bryan, ma non era possibile criticarne il sorriso. Bryan aveva un sorriso fantastico.
 
Così, col suo sorriso a illuminargli il volto, raggiunse il povero Cassian alla postazione “asce”, dove il tributo cercava di imparare qualcosa di utile.
 
— Stavi guardando la ragazzina? — chiese, ammaliante, mentre raccattava un’arma — È proprio carina.
 
— Sì, è carina, ma mai fidarsi del suo bel faccino. Una sua parola e casca il mondo.
 
Bryan rimase due secondi così, fermo. Sapeva di avere un certo talento per il doppiogiochismo e aveva una vaga idea di cosa volesse dire “manipolare”. Qualcosa, nel suo stomaco, gli ficcò il dubbio che forse Cassian non stesse propriamente cercando di metterlo in guardia.
 
— Perché, sei interessato a lei?— continuò il ragazzo del 10.
 
Bryan rise. Non era un donnaiolo, per quanto molte ragazze nel suo distretto finissero inevitabilmente con l’andargli dietro. No, Bryan non era quel tipo di ragazzo. Era bello, spontaneo e divertente. Un po’ doppiogiochista, da guardare con diffidenza. Peccato che pochi riuscissero ad ignorarne il sorriso.
 
Bryan sollevò l’ascia per poi scagliarla prepotente contro un paio di manichini, i quali si ritrovarono privati di teste e spalle.
 
Cassian, che non se l’aspettava, spalancò poco elegantemente la bocca.
 
— Allora non sei solo muscoli e sorrisi.
 
E mentre Bryan rideva di quest’affermazione, un terzo paio d’occhi s’aggiunse al duo. Erano quelli verdi smeraldini di Luke Rockford, favorito del Distretto 4.
 
Se ne stava per conto suo, tra spade e spadine. Era rimasto fastidiosamente colpito dal tiro di Bryan. Non che lui avesse mai avuto troppa dimestichezza con asce e roba varia, ma le lame erano territorio tipico dei favoriti. Pensò che forse anche Bryan – come lui e l’allegra compagnia – aveva avuto modo di allenarsi in vista dell’evento.
 
Luke era il mago delle spade e certo non si sarebbe fatto problemi nel momento in cui la sua preziosa lama avesse avuto modo di perforare qualche gabbia toracica.
 
Luke era quel genere di favorito senz’anima, cruento, ingannevole. Era un tipo solitario, scontroso, non troppo incline a stringere amicizie.
 
Luke era quel genere d’avversario che t’augureresti di non dover mai affrontare.
 
E, in quel momento, Luke stava guardando Bryan: aveva già individuato la sua primissima vittima.
 
— Quest’anno il gruppo di favoriti viene ridotto a cinque. — fece in un sussurro Ivy Moon, dal Distretto 1, nel sistemarsi distrattamente la coda.
 
— Che intendi dire?— rispose la ragazza del 2, Miranda. Erano entrambe uscite volontarie dall’estrazione. Per Ivy, poi, era stata una lotta: quell’anno dovette giocarsela contro quattro ragazze.
 
— La ragazza del 4, come si chiama…Yvonne. Beh, non si è allenata, non vuole combattere, è tutto fuorché cattiva o quantomeno disposta a uccidere freddamente il proprio avversario.
 
Miranda scrollò le spalle. Era contenta che almeno questa Yvonne ne fosse fuori. Aveva sicuramente vissuto anni felici e spensierati, lontana da stressanti allenamenti e odiosi insegnati.
 
Per lei, invece, le cose sembravano non andare troppo bene. Un tempo era stata tanto allegra, solare, felice! Prima d’essere mandata nell’Accademia di preparazione agli Hunger Games, dove aveva avuto modo di approfondire la sua predisposizione per l’omicidio.
 
Miranda era ancora allegra, ancora dolce, forse, ma il peso delle morti gravava prepotente, mentre qualcosa, nel suo stomaco, si ribellava.
 
Adesso era più solitaria, più scontrosa, un po’ stravagante, senza guastare. Le dicevano che era strana, ma Miranda amava essere considerata “diversa”: era un tipo particolare.
 
Avrebbe potuto farcela, forse, anche se forse sarebbe stato meglio per lei non offrirsi volontaria. Perché si rendeva conto che, nonostante tutto, uccidere non portava piacere.
 
Quindi apprezzava questa Yvonne, davvero, l’apprezzava.
 
Al contrario, Ivy non ci vedeva niente di così grandioso nella decisione di Yvonne. Non che sentisse d’aver bisogno di tanti alleati, sia chiaro. Al contrario, troppe persone finivano col sfiancarla, e poi diffidava della gente, sempre. Era una ragazza piuttosto guardinga.
 
Non che gli altri si sentissero sempre ben disposti nei suoi confronti. Era scontrosa ed esageratamente diretta, tanto da risultare pure vagamente antipatica, quando ci si metteva.
 
— Yvonne è la ragazza bassetta che sta prendendo a pugni quel manichino?— chiese Miranda.
 
Ivy volse lenta lo sguardo.
 
Sì, quella era Yvonne. La favorita- non favorita.
 
— Però, a me sembra brava.— continuò Miranda. Difatti Yvonne stava sì prendendo a pugni il manichino, ma adoperando tecniche sconosciute, esotiche. Ivy ricordava d’averne sentito parlare al centro d’Addestramento, si trattava di arti marziali, tecniche in voga ben prima della nascita di Panem.
 
— Forse non sarebbe così male, come favorita.
 
Yvonne aveva imparato quel che sapeva dal nonno, molto tempo prima. Non capiva ancora come facesse il vecchio ad aver appreso tante mosse d’arti marziali, ma poco importava.
 
Aveva passato la sua vita lavorando il doppio per lasciar libero suo nonno di riposare. Le ci era voluta una gran dose d’astuzia e prontezza mentale per ingannare così Capitol City, mentre adesso, se non fosse tornata, suo nonno si sarebbe ritrovato in guai seri. Lei doveva tornare. Lo doveva a quel magnifico uomo che per anni s’era preso cura di lei. Forse non era la più pronta tra i tributi e certamente avrebbe faticato un mondo contro qualcuno dei favoriti, ma Yvonne non avrebbe ceduto. Mai.
 
Saltò in aria ancora una volta, afferrando il manichino per un braccio, stringendolo e crollando così a terra. Aveva tanti motivi per tornare indietro. Sarebbe tornata.
 
Gaison Humphry, Distretto 2. Uno dei super-favoriti per la quarantottesima edizione.
 
Stava lì a lanciare lance, distrattamente. Tanto andavano tutte e segno.
 
Per lui era quasi una noia: anni e anni passati con l’allenarsi per gli Hunger Games davano una certa sensazione di routine a tutto ciò.
 
Comunque, lancia dopo lancia, presto finì col perdere la pazienza. Avrebbe preferito fare qualcosa di nuovo, qualcosa per cui magari non si sentiva troppo ferrato.
 
Il suo mentore era stato chiaro: dare bella mostra di sé.
 
Venne però fortunatamente distratto dal grido di Luke Rockford.
 
— Chiedimi subito scusa, razza di mostriciattolo! — stava urlando.
 
Eleuthera Libs, dal Distretto 5, era la vittima di tanta ira. L’unico tributo dodicenne dell’intera edizione.
 
— Perché dovrei chiederti scusa?— domandò, impudente, lei.
 
Luke si spazientì, afferrando la bambina direttamente per il colletto.
 
— Senti, piccola…
 
— Che stai facendo, non conosci le regole? Le risse prima dell’inizio dei giochi sono vietate!— lo riprese Gaison.
 
Sapeva che forse sarebbe stato meglio tacere. Non era conveniente schierarsi contro un proprio alleato, in particolar modo non era conveniente schierarsi contro l’irascibile Luke.
 
Però Gaison era così, aveva l’anima del cavaliere. Nemmeno la migliore delle sue “maschere” sarebbe riuscita a eliminare totalmente questa parte di sé.
 
Luke lo guardò storto un paio di secondi, poi lasciò perdere Eleuthera.
 
— Noi due ci ritroviamo nell’Arena— la salutò così, allontanandosi.
 
Gaison si perse nel fissare la bambina. C’era qualcosa, tra gli occhi grigi e i corti capelli scuri, a ricordargli terribilmente sua sorella.
 
— Che hai da fissare?— chiese, sistemandosi meglio la maglietta.
 
Gaison scrollò le spalle — mi chiedevo cosa avessi potuto fare per spazientire così Luke.
 
Eleuthera sorrise, un pochino.
 
— Mi aveva fregato distrattamente il coltello. Così gli ho detto “bestione, è maleducazione!”.
 
Gaison spalancò di poco gli occhi. Ci voleva coraggio, sicuro.
 
— Sei stata molto avventata.
 
— Lo ammetto, sono una persona impulsiva, poi però mi pento sempre.
 
Gaison, spinto da uno spirito cavalleresco, avrebbe preferito star vicino alla piccola Eleuthera e salvare la bambina da quest’istinto pericoloso. Il suo posto, comunque, era tra i favoriti.
 
Così si allontanò, senza nemmeno salutare.
 
Eleuthera rimase stupita da tanta freddezza, non che le importasse davvero, certo.
 
Era una ragazzina volenterosa, forte nella sua debolezza. Da quando sua madre era diventata paralitica, dovette rimboccarsi le mani e lavorare come elettricista porta-a-porta.
 
Non aveva davvero bisogno di nessuno, figurarsi se poteva rimanere male per un po’ di freddezza!
 
Dall’altra parte della sala, ignara di quanto stesse succedendo, a esercitarsi c’era Jude Wright.
 
Jude era una ragazza in gamba, sicuramente. Veniva dal Distretto 9, frumento.
 
Era forse leggermente robusta, ma bella, specie per i fluenti capelli biondo cenere e i profondi occhi verdi.
 
Si stava esercitando col lancio dei coltelli, sua specialità. Infilzava un manichino dopo l’altro, sorretta da due occhi glaciali, freddi e impenetrabili.
 
Elaine si domandava come potesse una persona essere tanto gelida. Lei, tributo del Distretto 7, era fondamentalmente allegra e solare. Ma Jude! Jude era tutt’altra storia.
 
Elaine non poteva certo sapere cosa fosse successo, tanto tempo prima, alla sorellina di Jude. In seguito alla sua morte la ragazza cambiò inevitabilmente.
 
Adesso Jude aveva un solo obbiettivo: tornare a casa, in onore di sua sorella, portare sua madre al villaggio dei vincitori, nella speranza che qualche volenteroso dottore si decidesse a curarla.
 
Elaine non poteva sapere tutto questo. Ricordava solo di aver riconosciuto Jude alla mititura.
 
Così decise di lasciar stare la ragazza, per concentrarsi al meglio su un’abilità che non sapesse ancora padroneggiare adeguatamente.
 
Per esempio, Elaine non era troppo ferrata per il tiro con l’arco. Non aveva mai avuto modo di lanciare mezza freccia.
 
Così s’avvicinò alla postazione, scelse la prima arma che le capitò a tiro e, sotto consiglio dell’allenatore, scagliò la prima freccia. Sbagliando clamorosamente.
 
Tentò una volta, due volte, tre volte, alla quarta ci andò vicino, alla quinta di nuovo niente.
 
Sbuffava ogni tre per due, spazientita. Non che le servisse davvero, comunque.
 
Elaine era forte in altre cose, come il lancio dei pugnali, scatti veloci, tecniche di sopravvivenza e lotte corpo a corpo. Però non sapeva tirare con l’arco.
 
— Oh, ma tanto nemmeno lo troverò mai, un arco!— affermò.
 
L’istruttore, un ragazzo simpatico, verdognolo e rovinato da spaventosi tatuaggi, ridacchiò.
 
— Non si sa mai, forse ci saranno solo e unicamente archi.
 
Elaine sorrise.
 
— Guarda, conoscendo la mia fortuna! Non solo ci saranno solo archi, ma le frecce dovrò costruirmele da sola!
 
Risero un po’, insieme.
 
La sua attenzione venne però catturata da un altro tributo, impacciato quanto poteva esserlo lei.
 
Non sapeva che il ragazzo in questione era il tributo del Distretto 9, Sam Dickson.
 
Sam non era quel genere di ragazzo nato per gli Hunger Games. Sapeva riconoscere alcune piante, ma per il resto…
 
Forse se la sapeva destreggiare un po’ su tutto. O semplicemente non gliene riusciva una.
 
Sam era un ragazzo segnato dal dolore di una vita difficile, privo di una madre e con un fratello costretto alla sedia a rotelle. Forse se la cavava meglio di altri, grazie comunque a una certa disponibilità economica.
 
Provava e riprovava a mettere bene quella maledetta freccia, senza successo, allora, preso dall’isteria, abbandonò lì l’arco e si allontanò, sotto lo sguardo stupito di Elaine e quello indifferente di un altro tributo, Liach Myrhall. Distretto 8.
 
A Liach non importava davvero cosa avesse spinto Sam ad allontanarsi così, rabbioso.
 
Era un ragazzo cresciuto nell’indifferenza di chi lo circondava, lasciato sempre un po’ da parte. A casa c’erano altri problemi, la malattia della piccola sorellina Anisha, per esempio, la scarsezza di denaro, i sadici Pacificatori.
 
Quindi, alla fin fine, cosa poteva davvero importagli se uno dei suoi avversarsi peccava d’impazienza e isterismo?
 
Si sistemò meglio i lacci delle scarpe, fece scrocchiare le ossa della schiena e, con uno scatto deciso, prese a correre in giro per la sala. Liach amava correre, sapeva d’essere veloce, non aveva forse troppe doti per vincere gli Hunger Games, ma fintanto che nessuno fosse riuscito a prenderlo, Liach non sarebbe potuto morire, giusto?
 
E poteva arrangiarsi col cibo: alcune piante le conosceva.
 
Correva così intorno alla sala, superando Cassya e Shaileen, e domandandosi quando quelle due avessero iniziato a conoscersi davvero.
 
Correva mettendoci l’anima.
 
Dopo due giri di campo, però, iniziò a sentire quel ritmato tic-toc di passi in corsa, passi leggeri, più leggeri dei suoi, passi sicuri. Volse di poco lo sguardo incrociando gli occhi scuri di Theia Johnson, del 6.
 
Come una lince Theia lo oltrepassò in corsa e Liach fu costretto a frenare. Pensava che forse nell’Arena avrebbe avuto a che vedersela con nuovi e temibili corridori.
 
Però ricordava di lei dalla Mietitura: era carina, forse, non propriamente bella, a colpire erano gli occhi, colmi di un’antica saggezza.
 
Theia frenò la sua corsa dopo poche centinaia di metri. Non voleva affaticarsi, né tantomeno mostrare ad altri tributi quanto scarsa fosse in resistenza.
 
Si diresse verso la postazione delle piante. Ci sapeva fare, senza dubbio, riconosceva abilmente una foglia dopo l’altra.
 
— Sei Theia, vero?— sentì qualcuno chiedere. Volse di scatto il capo scontrando il proprio sguardo con quello di un ragazzino un po’ sfigato, dall’aria sbandata. Aveva dei begli occhi, però: verdi, smeraldini.
 
— Mi conosci? — Ti ho visto alla Mietitura, tu…mi ricordi molto una persona.
 
— Chi?
 
Il ragazzo scrollò le spalle. — Una ragazza. Siete molto simili. D’aspetto, almeno.
 
Theia sorrise timida, chinando un po’ il capo.
 
— E tu chi saresti? — Mi chiamo Noah, vengo dal Distretto 3.
 
Theia dovette ammettere di non ricordare proprio chi fosse, Noah. Passava forse un po’ troppo inosservato.
 
Lo guardava armeggiare con un paio di rametti. Non sembrava volerli catalogare, intrecciava foglie e tagliava via bacche.
 
— Non mi vuoi dire chi era questa ragazza?— chiese, pentendosene un attimo dopo. Theia era una persona essenzialmente solitaria, o guardinga, come dir si voglia. Non dava troppe confidenze a sconosciuti e potenziali rivali.
 
— Si chiama Camille, le voglio molto bene.— e dopo aver detto ciò abbandonò la postazione. Senza una parola, senza una spiegazione, corse via. Theia lo vide arrampicarsi agilmente su per una partica.
 
Tornando a catalogare piante toccò distratta i rametti di Noah, scoprendoli abilmente intrecciati tra loro. Fissò ammirata la strabiliante creazione del ragazzo: era un elicottero, di quelli sui libri di storia, con tanto di elica girabile.
 
Allora Theia pensò che sotto quell’aria da sfigato forse si celava un avversario temibile quanto o più di molti altri.
 
Alwyn Bennett, dal Distretto 11, stava sotto la pertica di Noah. Non l’aveva notato, forse, o forse nemmeno gli interessava. Stava facendo flessioni lungo una barra di metallo. Sapeva di essere piuttosto agile, frutto d’anni d’addestramento.
 
Alwyn pensava d’essere anche abbastanza forte, grazie comunque a tutto il lavoro portato avanti fin dalla più tenera età.
 
Di colpo, la sua attenzione venne colta da un ragazzo, neanche troppo lontano, con la schiena appoggiata contro la fredda parete. Stava lisciando distrattamente un coltello.
 
Era Gore Mason, del Distretto 12.
 
Di solito da quelle parti non c’erano dei gran combattenti, ma quel Gore aveva un che di potente, nello sguardo. Era distante, indifferente.
 
E fu proprio con indifferenza che, d’improvviso, scagliò fulmineo il coltello contro uno dei manichini, piantandosi a pochi centimetri dal cuore.
 
Alwyn si bloccò d’improvviso.
 
I veri avversari sono quelli che non t’aspetteresti mai.
 
— Ciao Gore — Alwyn spalancò di scatto gli occhi.
 
Gore Mason, il forte e potente Gore, venne affiancato da una ragazzina piccola d’altezza.
 
Portava i capelli biondi, tanto rari tra i tributi del 12, e due splendidi occhi azzurri.
 
Era Sara Tompson, di quindici anni.
 
Gore alzò seccato un sopracciglio.
 
— Bel tiro— si complimentò, rigirandosi tra le mani un paio di cavi.
 
Gore continuava a non rispondere.
 
La ragazza, certamente non scoraggiata dall’indifferenza del tributo, continuava a sorridere.
 
Aveva uno sguardo intelligente, pronto.
 
— Che c’è, non parli? — Non ho niente da dire.
 
La ragazzina sbuffò, stizzita.
 
— Ti ho detto che hai fatto un bel tiro, potevi almeno ringraziare.
 
Gore, per tutta risposta, scrollò le spalle.
 
— Scusa ragazzina, ma ho altro da fare.
 
Sara scosse il capo. Essendo, i due, compagni di Distretto, Alwyn pensò che forse avevano già avuto modo di parlare. Non doveva essere poi così strano. Eppure, nonostante tutto, non riusciva a collegare tra loro quei due tributi.
 
Si avvicinò lentamente alla ragazza, non davvero spinto dall’intenzione di parlare con lei.
 
Quando però se la ritrovò a pochi centimetri di distanza non riuscì a trattenere il commento.
 
— Non mi sembra davvero un ragazzo così amorevole e disponibile.
 
— Chi, Gore? È vero, sembra sempre tanto distante, ma poi è lo stesso ragazzo che si prende cura della propria sorellina come se fosse la cosa più preziosa del mondo.
 
Collegare quel pezzo di marmo ad un fratello gentile e amorevole fece sorridere Alwyn.
 
—Non si direbbe proprio.
 
E anche Sara sorrise, un po’ maligna, forse.
 
— Hai ragione, non si direbbe proprio.— e così si allontanò, veloce, su per una pertica.
 
Alwyn fissò stupito il punto in cui la ragazza era scomparsa.
 
Sovrappensiero fece distratto un passo indietro, calpestando erroneamente il laccio che Sara aveva fatto scivolare a terra.
 
Il suo piede venne rapidamente stretto in una morsa, quando scattante la fune si tese trascinandolo a terra.
 
Con un rapido movimento del busto – frutto di un allenamento sicuro e costante – Alwyn riuscì a liberarsi prima di finire spiaccicato contro la parete.
 
Stupito corse a ricercare lo sguardo di Sara.
 
I veri avversari sono quelli che non t’aspetteresti mai.
 
Kylar Tarsh era dotato di un’ incredibile memoria fotografica.
Vedeva una cosa e subito se la ricordava. Quindi era inutile cercare di dimenticare: si sarebbe ricordato a vita dei continui fallimenti tra spade e spadine. A mala pena riusciva a sollevarli! E poi la cicatrice al polso non permetteva nemmeno ampi movimenti.
 
Era assodato: Kylar Tarsh non ci sapeva proprio fare, con le spade.
 
I suoi continui fallimenti erano stati però tenuti d’occhio da un’altra persona, un tributo femmina piuttosto carina, alta, castana e illuminata da splendenti occhi azzurri.
 
— Non sei proprio bravo, sai?— e dotata di un’incredibile delicatezza, senza dubbio.
 
Kylar, solitario per natura, sollevò seccato il sopracciglio.
 
Emma Wilkinson, la ragazza del tre, stava lì a rigirarsi un coltello tra le mani. Seccata, aveva notato che quell’anno molti tributi sembravano particolarmente portati per le lame.
 
Kylar no. Kylar aveva altre specialità.
 
Sorrise anche nel notare che il ragazzo non sembrava intenzionato a rispondere.
 
D’altro canto, Kylar aveva imparato che meno si parlava meglio era.
 
— Che c’è, ti hanno mozzato la lingua?
 
Kylar continuava a mantenere un ostinato silenzio. Cercava di muovere la lama come prima il suo istruttore s’era premurato di mostrargli.
 
— Sei il compagno di distretto di Theia Johnson, vero? L’ho vista correre prima, e ho una domanda. Cosa sai dirmi di lei?
 
— Perché t’interessa?— Emma scosse le spalle.
 
— Non c’è un motivo. Sembra interessante, però.
 
Kylar alzò le spalle, tornando a ignorare bellamente la ragazza.
 
Emma guardò seccata il tributo.
 
Dal nulla comparve un nuovo ragazzo. Emma ricordava di lui dalla Mietitura: era il favorito dell’1, Larev.
 
Il ragazzo prese rapido una spada e iniziò a muoversi sulla pedana con destrezza disarmante.
 
Kylar sembrava totalmente indifferente al nuovo tributo, quando in realtà rodeva dentro.
 
— Non vedi che c’è già qualcuno, qua?— domandò seccata Emma.
 
Larev fissò stupito la ragazza.
 
— E con ciò?
 
— Dovresti aspettare il tuo turno.— Larev scosse il capo e fece come se niente fosse, tirando fendenti all’aria.
 
— Dì qualcosa, non vedi che quel bastardo ti sta ruban…— disse Emma rivolta a Kylar, che però non era già più lì.
 
Si stava allontanando verso una postazione in cui magari sarebbe riuscito meglio.
 
Emma sospirò rassegnata. Certa gente era troppo solitaria per i suoi gusti.
 
Un altro grande solitario era Rhys Jones, il ragazzo del 5.
 
Emma aveva provato più e più volte a interagire con lui, nella muta speranza di stringerci una solida alleanza. Per quel che aveva visto, Rhys sembrava avere tutte le carte in regola per vincere.
 
Era un abilissimo corridore.
 
Dotato di un’incredibile intelligenza.
 
Sapeva distinguere tutti i tipi di erbe.
 
Fantastico tra le lame dei coltelli.
 
Insomma, uno che avrebbe potuto farcela davvero. Solo che se ne stava sempre per conto suo, lontano.
 
I suoi occhi sembravano illuminarsi solo nelle vicinanze di Eleuthera, amica della sua sorellina.
 
Rhys, nella sua freddezza, fece rapido un giro della sala.
 
Vide Cassya e Shaileen porre i fondamenti per una buona alleanza.
 
Luke fissare determinato Bryan, che fissava stupito Cassian, che fissava pensieroso Carol.
 
Ivy e Miranda allenarsi tra i coltelli e Yvonne, lontana, dare sfoggio delle proprie qualità.
 
Vide Gaison lanciare occhiate sfuggenti alla piccola Eleuthera.
 
Jude allenarsi ed Elaine riuscire, finalmente, nel tiro con l’arco.
 
Sam tentare di annodare cavi, Liach correre su e giù per la sala.
 
Theia far roteare bastoni, Noah giocare con gli esplosivi.
 
Alwyn massaggiarsi stupito una gamba, fulminando iracondo Sara, che invece sembrava completamente assorbita da Gore.
 
Kylar allontanarsi dalla pedana su cui Emma e Larev sembravano litigare.
 
E mentre vedeva tutto ciò pensava che come primo giorno non era andata per niente male.
 
Almeno non era morto nessuno. Ancora.
 
  



Capitolo due, Buona fortuna.
 

Caesar guardò nuovamente il suo riflesso nello specchio, aggiustandosi per l'ultima volta quegli stravaganti capelli verde mela. Il primo anno aveva deciso di osare con i colori, per fare in modo che la gente si ricordasse di lui. Infatti tutti parlarono per mesi di Caesar Flickerman, il nuovo presentatore degli Hunger Games con un look fresco e stravagante. Poi però, fu costretto a cambiare il suo colore ogni anno, perché gli abitanti di Capitol City volevano essere stupiti, non amavano la monotonia.
Insomma, si era ritrovato ad essere mai uguale a sé stesso per quato riguardava i colori,  ma allo stesso tempo tutti volevano che il suo aspetto non variasse mai, perché le rughe non erano indice di successo. Così, da quindici anni a quella parte, ogni volta che si guardava allo specchio la sera delle interviste vedeva un uomo che gli somigliava, ma che non era realmente quello che aveva sbaragliato la concorrenza aggiudicandosi il ruolo di presentatore anni addietro.
Caesar sospirò, e lasciò che una giovane donna del suo staff di preparatori gli applicasse sulle labbra un rossetto in tinta con i capelli verdeggianti. Se non altro era conosciuto in tutta Panem e, ad essere sinceri, conciarsi in quel modo gli sembrava un prezzo equo da pagare per la sua popolarità. Fin da piccolo aveva desiderato farsi conoscere, non voleva passare la sua vita nell'ombra come il resto della sua famiglia. E quale modo migliore per mettersi in luce che diventare il presentatore degli Hunger Games? Quei giochi erano guardati dagli spettatori di tutto il paese, volenti o nolenti. Ovunque sarebbe andato le persone lo avrebbero riconosciuto e indicato, guardandolo con ammirazione.
Ed in un certo senso era riuscito a realizzare i suoi sogni. Certo, era riconosciuto da tutti, ma non sempre ammirato. Dopo anni e anni passati ad interagire con i tributi e con i loro mentori, aveva capito che molti lo consideravano un burattino nelle mani di Capitol City, e in passato alcuni concorrenti non erano nemmeno impegnati troppo nel nascondere la riluttanza che nutrivano nei suoi confronti. Ma non forse ragione?
Insomma, persino lui dopo un po' aveva smesso di amare il suo lavoro. Perché c'era una grande differenza tra il vedere un uomo in televisione che intervistava i tributi, e il parlare personalmente con loro. Ad alcuni si affezionava addirittura, nonostante avesse modo di interagire con loro solo per pochi minuti. E poi erano tutti così giovani, troppo giovani, per morire. L'unica cosa che poteva fare era cercare di metterli in luce in tutti i modi con le parole, l'unico mezzo a sua disposizione. Provava a renderli simpatici o interessanti agli occhi delli sponsor, in modo tale da facilitargli la vita una volta nell'arena. Ma era tutto inutile, perchè sapeva benissimo che dei ventiquattro bambini che intervistava, solo uno sarebbe tornato vincitore e si sarebbe seduto nuovamente su quella poltrona. E non sarebbe più stato un bambino.
-Tra cinque minuti in onda!- disse una donna vestita di tutto punto, bussando alla porta di Caesar. Lui sospirò, dopodiché si guardò un ultima volta allo specchio e sfoderò il sorriso più brillante e convincente che possedesse.
Raggiunse i suoi assistenti, i quali gli spiegarono nuovamente da dove entrare e cosa dire, inoltre gli ripetettero i punteggi di tutti i ragazzi in gara quell'anno. Erano tutti così alti... Caesar pensò che il paese avrebbe nuovamente perso molti validi elementi, le cui capacità avrebbero potuto essere impiegate in altri modi.
La donna vestita di rosa ricomparve e, mentre gli appuntava un minuscolo microfono sul colletto della camicia, lo informò che era in momento di salire sul palco. Caesar sorrise nuovamente e accese il piccolo dispositivo, che avrebbe amplificato la sua voce portandola nelle case degli abitanti di tutta Panem.
Prese un respiro profondo e si avviò sul palco a passo sicuro, accompagnato dall'esperienza di chi calca la scena ormai da anni. Venne accolto dalle urla e gli applausi del pubblico in sala, che da più di un anno non aspettava altro che l'inizio di questi giochi. Era curioso il modo in cui gli abitanti della capitale dipendessero dai distretti non solo per  i beni che gli fornivano, ma anche per i tributi designati che venivano inviati annualmente a Capitol City per prendere parte agli Hunger Games.
Salutò animatamente tutti gli spettatori, e si concesse anche qualche battuta per scaldarli e prepararli all'ingresso dei favoriti, da sempre i più acclamati.
Pronunciò come al solito un discorso sull'importanza degli Hunger Games, accompagnato da un filmato sui giorni bui, il quale veniva mostrato ogni anno. Sembrava quasi che gli organizzatori dei giochi temessero una presa di coscienza da parte del pubblico, infatti continuavano a mandare in onda quel filmato con il solo scopo di far accrescere il senso di superiorità degli abitanti di Capitol City nei confronti dei distretti.
A video concluso, Caesar poté finalmente iniziare con le interviste, ed il pubblico esplose nuovamente in un boato. Si avvicinò alle due poltrone al centro del palco poste l'una difronte all'altra e chiamò la ragazza del distretto uno, Ivy Moon.
Lei si avviò svogliatamente verso la sua poltroncina e, dopo aver stretto la mano di Caesar senza entusiasmo, rivolse un breve cenno di saluto al pubblico, il quale sembrò notare solo la perfetta muscolatura della ragazza e non il suo comportamento irrispettoso. Dopo qualche breve scambio di convenevoli, il presentatore scoprì che la ragazza si era offerta volontaria, ma la cosa non lo stupì più di tanto: solitamente la maggior parte dei favoriti lo erano. Quell'anno ce n'erano di meno, ma si poteva comunque leggere nei loro occhi la determinazione e la voglia di vivere.
Per cercare di rendere la conversazione più interessante, fece notare al pubblico una piccola fedina d'argento posta al dito della ragazza, e le chiese se fosse fidanzata.
Lei arricciò le labbra e si studiò le dita affusolate, un po' infastidita dalla domanda. -Diciamo solo che tengo ad una persona, tutto qui.- Replicò freddamente, senza sforzarsi di mascherare la sua riluttanza a rispondere. Caesar tossí e poi riprese il controllo della situazione, abituato agli "ossi duri" come Ivy.
-E per quanto riguarda il tuo sette in addestramento? Mi è giunta voce che non eri troppo soddisfatta del giudizio degli strateghi.- Riprovò Caesar, cercando di mostrarsi dalla sua parte. La ragazza scrollò le spalle, indifferente. -Non credo che abbiano apprezzato troppo il fatto che non li abbia calcolati per la maggior parte del tempo. Ma non riuscivo a smettere di fissare il lavoro eccellente che i miei preparatori hanno fatto con le mie unghie- Un ghigno sprezzante fece capolino sul suo volto, e il pubblico riprese ad applaudire e a ridere mentre le telecamere inquadravano la perfetta manicure della ragazza. Caesar la congedò con un sorriso e chiamò sul palco il secondo tributo, il compagno di distretto di Ivy, un certo Larev.
-Dev'esserci un errore, perché sulla mia cartellina non è stato riportato il tuo cognome- Osservò l'uomo dopo qualche chiacchiera inutile sul vestito del ragazzo.
Lui scosse il capo.-Nessun errore, Caesar- rispose senza scomporsi. -Essendo cresciuto in un istituto non ho mai saputo il mio vero cognome.-
Alcune persone tra il pubblico sospirarono affrante, ma il presentatore capì che calcare su quell'aspetto della vita del ragazzo lo avrebbe messo in luce. -E non hai idea se ti rimanga qualche parente? Sei sempre stato solo?- domandò con fare paterno.
Larev si accigliò preparandosi a raccontare di sé. -No. Mia sorella è morta qualche anno fa in orfanotro per una malattia irreversibile, e da allora io sono tutto ciò che rimane della mia famiglia.-
Molti spettatori iniziarono a singhiozzare, altri manifestarono la loro ammirazione alla forza d'animo del ragazzo con fischi ed applausi.Curioso come gli abitanti della capitale si mostrassero sensibili alle storie dei ragazzi, e poi si dimenticassero di tutto in nome di un po' di sano divertimento. Il segnale acustico li informò che il tempo a disposizione del tributo era finito, e Caesar lo salutò dopo essersi congratulato per il suo nove in addestramento, frutto del suo talento con le spade.
Senza nemmeno aspettare di essere chiamata, Miranda Prisly del distretto due fece il suo ingresso, indossando un sorriso mozzafiato che sembrò incantare tutti, replicando il successo dei suoi capelli fiammeggianti durante la sfilata. Caesar le strinse la mano e lei si accomodò sulla poltroncina, entusiasta. Fece delle battute sui suoi capelli facendo ridere il pubblico, ma lei non sembrò mai offendersi. Anzi: replicava a tono lodando il colore capigliatura del presentatore e conquistò cosí tutti i presenti.
-Allora... Tu saresti la "tigre del due"-disse Caesar, girandosi verso il pubblico e imitando il fiero animale ringhiando e mostrando i denti. Miranda scoppiò a ridere, seguita a ruota dagli spettatori. -Così dicono- Replicò con un sorriso. -Credo che sia per il fatto che le lame dei miei coltelli sono affilate come gli artigli di una tigre-
-Quindi ecco svelato il tuo dieci in addestramento- disse l'uomo tirando le somme.
La ragazza annuì, tra gli applausi del pubblico. Caesar fece frusciare alcuni fogli della sua cartellina con le informazioni di tutti i tributi e si soffermò su un punto che gli sembrava interessante. -Noto che tua nonna ai suoi tempi vinse un edizione degli Hunger Games- Il pubblico si fece attento, e Miranda annuì vigorosamente. -Oh, è vero. Ma nonostante sia successo parecchi anni fa, lei non ha mai messo da parte la sua vittoria. Prima di andare a dormire mi raccontava della sua avventura, diciamo che sono cresciuta a pane ed Hunger Games.-
Il presentatore sorrise augurandole di replicare il successo della nonna, e la ragazza uscì soddisfatta accompagnata dalle grida del pubblico.
Poi fu il turno di Gaison Humpry, anch'egli del distretto due. Il ragazzo, uno dei tributi più acclamati, fu accolto da un boato, a cui rispose con un sorriso. Salutò Caesar e prese posto,  e i due aspettarono che le urla si spegnessero prima di iniziare a parlare. Inizialmente chiacchierarono del più e del meno, come sempre, poi il presentatore prese le redini della conversazione cercando di rendere il ragazzo ancora più brillante di quanto già non fosse.
-Allora Gaison, mi hanno detto che sei il figlio del sindaco del tuo distretto. Dev'essere una professione di grande responsabilità.- disse il presentatore con un sorriso. -Pensi che un giorno prenderai il suo posto?- domandò curioso.
L'idea di un vincitore sindaco di un distretto allettava molte persone, quindi se fosse uscito vivo dall'arena, non sarebbe stato un problema convincere chi di dovere a eleggerlo.
Gaison alzò un sopracciglio e fece una smorfia, quasi fosse disgustato dalla proposta. -Oh no, devo dire che non ne ho la benché minima intenzione. Sarei troppo... Sotto pressione, fare il sindaco non fa per me- rispose, cercando le parole adatte. -Sinceramente preferirei passare il resto della mia vita nel villaggio dei vincitori, magari con una bella ragazza- disse, ammiccando in direzione del pubblico. Molte delle signore in sala sospirarono, incantate dall'innegabile bellezza del tributo e gli uomini lo guardarono invidiosi, perché in caso di vittoria non avrebbe certo faticato a trovare una moglie. Caesar rise, divertito dalle reazioni del pubblico in sala. -E dicci, hai già un'idea di chi potrebbe essere questa ragazza?- chiese, avvicinandosi al ragazzo e fingendo di essere solo con lui. Lui si torturò le mani, in imbarazzo. Si vedeva che non ne aveva mai parlato con nessuno, ma Caesar non avrebbe ceduto tanto facilmente: sapeva benissimo che le storie d'amore frastagliate erano oro per gli abitanti annoiati della capitale. -Stai tranquillo, manterremo il segreto!- lo spronò facendogli l'occhiolino. Il pubblico e il ragazzo stesso risero, e finalmente Gaison si decise a parlare.
-In effetti una ragazza ci sarebbe... Ma non si è mai accorta di me, ed intendo vincere per lei-confessò con decisione. Dagli spettatori si levarono delle grida di incitamento, ma il segnale acustico interruppe bruscamente l'intervista. -Buona fortuna Gaison, dato il punteggio che hai ottenuto sono certo che non sarà difficile impressionare la tua futura moglie!- Scherzò l'uomo, congedandolo.
Gaison fu velocemente sostituito da Emma Wilkinson, la bellissima ragazza dagli occhi di cielo del distretto tre. Caesar la fece accomodare e si congratulò con lei per il suo costume della sfilata, il quale era praticamente "esploso" in una marea di scintille. Dopodiché si mise a spulciare la documentazione su ogni tributo contenuta nella sua pratica cartellina da presentatore e poi sorrise, individuando la pista giusta per la conversazione.
-Qui c'è scritto che tuo padre partecipò agli Hunger Games... Doveva essere molto giovane quando tua madre rimase incinta.-disse realmente dispiaciuto, con un tono molto comprensivo. Emma annuì tristemente. -Già. Io e mio fratello gemello dovevamo ancora nascere quando successe. Fu un duro colpo per nostra madre vedere il ragazzo di cui era innamorata morire in diretta tv a causa delle punture degli aghi inseguitori- Caesar fece qualche rapido calcolo e poi annuì, ricordando il tributo maschile di quell'edizione. Anche il pubblico sembrò ricordarsene, perché di fatto la sala fu percorsa da brevi mormorii e singhiozzi. Il padre di Emma era stato un tributo davvero promettente, molto amato dal pubblico. -Mi dispiace molto- si limitò a dire il presentatore, quasi pentito di aver toccato quel tasto dolente. -Non preoccuparti, è successo molti anni fa- rispose sbrigativa la ragazza, tentando di cancellare il suo momento di debolezza.
-Mi sembra di aver capito che anche tu, come tuo padre, abbia qualcuno da cui tornare. O sbaglio?-domandò Caesar alludendo a quel ragazzo che la aveva abbracciata alla mietitura, prima di lasciarla salire sul palco. La ragazza rise imbarazzata, mentre il pubblico inneggiava chiedendo i dettagli. -È solo il mio migliore amico- disse, cercando di giustificare la sua presenza. -Si, certo- le concesse il presentatore, facendo l'occhiolino al pubblico che iniziò a ridere e a tifare per la giovane innamorata, dimenticando per un attimo il suo quattro in addestramento. Emma arrossì, ma in realtà fu molto felice del fatto che l'uomo avesse trovato il modo per farla amare dal pubblico: fingendo di essere un incapace sperava di sorprendere i suoi nemici una volta nell'arena, ma sapeva benissimo che, così facendo, avrebbe allontanato tutti gli sponsor. Si alzò di scatto non appena sentì il "bip" che annunciava la fine della sua intervista, e salutò il pubblico con un rapido inchino, continuando ad ostentare la sua falsa timidezza.
Chi invece non si stava dimostrando affatto timido era Noah Garrison, il tributo maschile del distretto tre. Da quando era arrivato sul palco, non aveva fatto altro che parlare animatamente delle sue invenzioni e della singolare professione del padre, coinvolgendo il pubblico. -E così tuo padre è un inventore. Immagino che tu gli dia una mano, giusto? Mi sembri un ragazzo molto intelligente- disse Caesar, cercando di metterlo ancora più in mostra. Il ragazzo annuì. -Esattamente, più che altro lo aiuto a... Sperimentare le sue invenzioni- rivelò un po' incerto. Il presentatore pensò che probabilmente la cicatrice che spiccava sulla sua fronte fosse frutto di qualche esperimento fallito, ma preferì non parlarne non far prendere una piega drammatica alla conversazione. Così spostò la sua attenzione sulle mani del ragazzo, che torturavano un elastico per capelli di seta verde.
Caesar sorrise soddisfatto. -A quanto pare in questa edizione tutti hanno qualcuno da cui tornare, e tu non sei da meno- disse, cercando di nascondere l'amarezza. Chissà quanti cuori infranti ci sarebbero stati...
Il ragazzo arrossí, e sul suo viso comparve un sorriso da innamorato. -Si, ecco, io...- balbettò imbarazzato. Dal pubblico si levarono dei gridolini e delle risate, mentre aspettavano tutti una risposta. -Allora?- chiese l'uomo, ammiccando.
-In effetti una ragaza c'è-disse radioso. -Vogliamo il nome- lo spronò Caesar, con un tono che fece ridere gli spettatori e lo stesso Noah.
-Si chiama Camille, ed è una persona fantastica- In molti sospirarono, contenti del fatto che qual ragazzo così talentuoso, che aveva ottenuto un brillante nove in addestramento, avesse qualcuno da cui tornare.
Poi fu il turno di Yvonne Komova, la favorita con il punteggio più basso. Caesar decise di evitare di parlare del suo sei, e si concentrò invece su ciò che sapeva avrebbe potuto metterla in luce. -Mi è stato detto che durante l'addestramento hai spiazzato tutti gli aiutanti delle postazioni, nessuno sapeva dove collocarti tra i vari generi di lotta- rise il presentatore, contagiando il pubblico. Anche la ragazza sorrise orgogliosa, prima di dare spiegazioni a riguardo. -Già, ma alla fine ho trovato il modo di esercitarmi con dei manichini indifesi- disse ridacchiando. Caesar si fece attento, deciso a farsi rivelare i dettagli. -E dicci, come si chiama la tua tecnica di lotta?-
-Sono le arti marziali, me le insegnò mio nonno tempo fa per autodifesa, non avrei mai pensato che avrebbero potuto tornarmi utili nell'arena- spiegò sincera, con gli occhi un po' lucidi. L'uomo annuì. -Hai voglia di farci vedere qualcosa?- chiese, allegro.
Yvonne arricció le labbra indecisa, ma poi il presentatore si offrì da cavia per la sua dimostrazione... E lei non poté rifiutarsi. -Va bene Caesar, cercherò di non farti troppo male- disse alzandosi e facendo ridere il pubblico. Anche lui si alzò dalla sua poltrona, e si piazzò di fronte alla ragazza. Yvonne ringraziò mentalmente i suoi stilisti di averle fatto indossare dei pantaloni di raso e non un vestito, dopodiché si allontanò di qualche metro.
Decise di dare bella mostra di sé: fece un paio di salti mortali stupendo il pubblico e poi, dopo aver confuso il suo "nemico" con dei movimenti rapidi, gli afferrò un braccio e glielo immobilizzò dietro la schiena, stando attenta a non torcerlo troppo. Poi, sempre facendo leva sul braccio del presentatore, lo fece cadere in ginocchio, senza applicare la forza necessaria per fargli davvero male. Caesar si lasciò sfuggire un mugolio di sorpresa, e Yvonne rise aiutandolo ad alzarsi. Il pubblico era in delirio, strabiliato dall'agilità della ragazza, la quale si esibì in un paio di inchini. L'uomo applaudì piacevolmente sorpreso, e pensò che forse la femmina del distretto quattro, a dispetto del suo punteggio, non sarebbe stato un avversario poi così facile da abbattere.
 
-Buonasera Luke-disse Caesar salutando il compagno di distretto di Yvonne dopo che il pubblico si fu calmato. Lui fece un breve cenno con la testa, ricambiando il saluto ed eccitando visibilmente il pubblico. Ecco un altro simpaticone come la ragazza dell'uno, pensò Caesar. -So che tua madre vinse gli Hunger Games. Credi di avere tutte le carte in regola per replicare il suo successo?- domandò il presentatore dopo qualche tentativo di conversazione andato a vuoto: nonostante cercasse il tutti i modi di farlo parlare, lui si limitava a rispondere ad ogni domanda a monosillabi.
-Si, farò anche meglio-replicò un po' scocciato. Beh, se non altro ha detto quattro parole: stiamo facendo passi avanti, si consoló Caesar. L'uomo cercò di dargli un aspetto più "umano" e sensibile parlando del fratello, morto in una precedente edizione, ma il ragazzo si limitò a stringere i baccioli della sua poltroncina con forza, per scaricare la sua rabbia. -Lo vendicherò- disse dopo qualche secondo di silenzio.
Ma, nonostante il suo essere di poche parole, il pubblico era affascinato dalla freddezza di Luke Rockford, che si era aggiudicato un posto tra i super-favoriti grazie al suo punteggio.
Nemmeno la piccola Eleuthera Libs, la dodicenne del distretto cinque nonché il tributo più giovane dell'edizione, si dimostrò troppo socievole. Ma lei, se non altro, rispondeva alla domande di Caesar non solo a monosillabi, forse spinta dal suo mentore. Ogni volta che veniva interrogata, tendeva ad aggirare la domanda e a cambiare discorso, cercando di non rivelare mai troppo di se. Il presentatore pensò che quello fosse uno strano comportamento per una dodicenne, ma non poté fare a meno di affezionarsi alla piccola
Eleuthera. Così, per spingerla a rivelarsi un po', le chiese del suo punteggio.
-Non dovrebbe essere un segreto?-domandò lei con un finto tono di rimprovero che fece ridacchiare gli spettatori. -E a te non hanno insegnato che non si risponde ad una domanda con un'altra domanda, signorinella?- rispose lui con il suo stesso tono agitando l'indice nella sua direzione. Il pubblico e la ragazzina scoppiarono a ridere, divertiti dall'imitazione di Caesar. -Ma tu lo hai appena fatto!- lo accusò Eleuthera, incrementando l'euforia del pubblico. Il presentatore alzò le mani, in segno di resa. -Lo ammetto, mi hai colto con le mani nel sacco.-
Alla fine, poco prima di lasciare il palco, la ragazzina si decise a giustificare il suo sei, un punteggio di tutto rispetto per un tributo della sua età. -Potrei aver armeggiato con il quadro di controllo delle luci dell'intero centro di addestramento- disse, strascicando la voce sulla prima parola. Il pubblico rise e Eleuthera uscì tra gli applausi, mentre sul palco si preparava a salire Rhys Jones, il suo compagno di distretto. Erano diversissimi fisicamente: lei bassina e robusta, lui muscoloso e slanciato. Ma, dal punto di vista caratteriale, non si dimostrarono poi così diversi.
Dopo la morte dei genitori Rhys era diventato piuttosto freddo e distaccato, seppellendo il suo carattere solare sotto spessi strati di dolore e nostalgia. Però, nonostante la poca vivacità, il ragazzo era uno dei beniamini del pubblico per il suo bell'aspetto e il suo alto punteggio in addestramento. Caesar si congratulò con lui del nove ottenuto e poi passò alle domande, sperando di "scongelare" il giovane seduto di fronte a lui e, dopo qualche tentativo andato a vuoto, fece finalmente centro colpendolo dritto al cuore. -La bambina che hai salutato alla mietitura era tua sorella, immagino. Sembravi molto legato a lei, o sbaglio?- domandò con dolcezza. Rhys annuì, facendosi sfuggire un breve sorriso che compariva sul suo volto ogni volta che parlava della sorellina. -Nessuno sbaglio. Sarah ha undici anni e, assieme ai miei zii, è tutto ciò che rimane della mia famiglia- disse, cercando di non far trapelare altre emozioni. Caesar non riuscì a trattenere la domanda indiscreta che aveva sulla punta della lingua. -E i tuoi genitori sono...-
-morti tempo fa-concluse Rhys, cercando di portare la conversazione su altri binari. Il presentatore annuì dispiaciuto, poi lo stupì con una domanda insolita. -Hai un portafortuna?- disse dopo qualche secondo di silenzio, facendo sussultare il ragazzo. Rhys annuì e sbottonò i primi bottoncini della sua camicia, mostrando una collana con un piccolo amo dorato. -I miei genitori amavano pescare e mi hanno trasmesso la loro passione, questo amo apparteneva a mio padre.- spiegò, rigirandosi la collana tra le dita.
Alcuni spettatori sospirarono tristemente, pensando a quel ragazzo la cui infanzia era finita troppo presto. Il presentatore, felice di aver coinvolto il pubblico, congedò il tributo. -Buona fortuna Rhys, sicuramente grazie al tuo talento riuscirai a pescare molti sponsor!- Nonostante la battuta un po' fiacca, il pubblico rise ugualmente e il ragazzo uscì di scena, lasciando spazio al distretto sei.
 
Theia Johnson sedeva difronte a Caesar, cercando di abbattere la sua timidezza per convincere qualcuno a scommettere su di lei. E ci stava riuscendo: la sua determinazione aveva avuto la meglio sul desiderio di dare le spalle al pubblico e a fuggire da tutte quelle persone che sembravano lì unicamente per giudicarla.
Sapeva che la determinazione sarebbe stata la sua arma vincente: proveniendo da una comune famiglia del distretto sei, non aveva storie strappalacrime da raccontare, né poteva vantare di essere imparentata con un vincitore, e nemmeno contare su abilità fuori dal comune, come altri concorrenti. Però, quando Caesar le chiese perché avesse così tanta voglia di tornare a casa, diede una risposta che fece trapelare la sua vera personalità, quella che sapeva avrebbe catturato il pubblico.
-Ho sedici anni, Caesar, e non ho nemmeno iniziato a vivere la mia vita. Voglio tornare a casa, riabbracciare i miei genitori e morire anziana sul terrazzo della mia casa dei vincitori, solo allora potrò dire che ho veramente vissuto.-Parole di una ragazza innegabilmente intelligente, che si insinuarono nel cuore dei presenti. E loro? Nonostante non fossero più ragazzini, potevano davvero vantarsi di aver vissuto davvero? Theia lasciò il palco soddisfatta, contenta di essere riuscita a farsi notare, e lasciò il posto al suo compagno di distretto, Kylar Tarsh.
Un ragazzo piuttosto cupo, magro e ubbidiente, che rispondeva con sincerità ad ogni domanda gli venisse posta. Eppure, nonostante la disponibilità del ragazzo, Caesar non riusciva a trovare una crepa nella sua corazza, un qualcosa che permettesse al pubblico di vedere aldilà della sua personalità non brillante, plasmata da chissà quale trauma. Quando però gli chiese se avesse fratelli o sorelle, la voce di Kylar sembrò incrinarsi. -Mia sorella è morta durante i giochi di qualche anno fa- disse a fatica. -E mio fratello... Lui morì di cause naturali poco dopo- mentì il ragazzo, scatenando un'ondata singhiozzi tra il pubblico. Non poteva certo dire che era stato fucilato perché aveva protestato per l'estrazione della sorella il giorno della mietitura. Non in diretta nazionale, dove tutta Panem avrebbe potuto sentire. Non con la consapevolezza che se lo avesse fatto sarebbe stato punito, o peggio, avrebbero ucciso i suoi genitori.
Da quel fatidico giorno Kylar era sempre stato così: rispettava le regole, ubbidiva agli ordini dei pacificatori, lavorava sodo e parlava poco. Se anche lui fosse morto non ci sarebbe stato nessuno a tenere uniti i pezzi della sua famiglia, sgretolatasi dopo la morte dei suoi fratelli. Ed era per questo che Kylar voleva tornare a casa a tutti i costi, nonostante le sue abilità con le armi lasciassero parecchio a desiderare. Però, in compenso, era dotato di una memoria fotografica, che costituiva un grande vantaggio. Perché, anche se le immagini della morte dei suoi fratelli gli sarebbero rimaste marchiate a fuoco nella mente, la stessa cosa sarebbe successo ad ogni più piccolo dettaglio giudicato interessante dal ragazzo. Kylar lasciò il palco poco dopo, sperando che gli spettatori si sarebbero ricordati di lui nel caso si fosse trovato in difficoltà nell'arena. Lui, di certo, non li avrebbe dimenticati.
Dopo Kylar la ragazza del distretto sette, Elaine Evelyn, prese possesso del palcoscenico, incantando il pubblico con la sua bellezza e il suo carattere solare. Sembrava quasi illuminare il palco, con risate e battute che contagiavano il pubblico. Era difficile trovare una persona così socievole e allegra tra i tributi, perché molti si lasciavano divorare dalla tensione e dalla paura. Ma lei no: lei sapeva che quello sarebbe stato il suo punto di forza, voleva che qualcuno si accorgesse di lei, voleva riuscire a tornare a casa dalla madre e dai fratelli. La conversazione prese una piega più toccante quando Caesar le chiese cosa facesse nel tempo libero, e lei non esitò a rispondere.
-Faccio spesso volontariato in un orfanotrofio, vicino a casa mia. Gioco con loro, porto del cibo... Credo che tutti i bambini abbiano il diritto di crescere felici, anche se non hanno più i genitori-disse, facendo commuovere qualche spettatore.
Il presentatore sorrise. -E immagino che in caso di vittoria...-
-Si, devolverò buona parte della mia vincita all'orfanotrifio. Ho visto i vincitori del mio distretto: hanno più soldi di quanti ne possano gestire- concluse allegra. -Inoltre a me piace lavorare, non voglio passare il resto della vita con le mani in mano a godermi la mia ricchezza.- Il pubblico applaudì colpito, anche se nessuno di loro sembrò capire fino in fondo le parole di Elaine. Gli abitanti di Capitol City amavano condurre le loro esagerate e vuote, dove la cosa più eccitante era spettegolare degli altri o tatuarsi la fronte. Ma il tono della ragazza fu così convincete, così pieno di voglia di vivere, che non poterono trattenersi dal continuare a chiamare il suo nome anche quando si fu allontanata dal palco.
 
Ma a quanto pare, quell'anno, Elaine non era l'unico tributo esuberante per il distretto sette.
Si scoprì che Bryan Gregory, uno dei ragazzi più grandi, belli e preparati di quell'edizione, sapeva essere anche divertente, simpatico e affascinante. Dopo qualche battuta sulla bellezza del ragazzo e sul suo costume da albero della parata (che Bryan sembrò trovare molto divertenti), Caesar si decise a parlare di ragazze.
-Immagino che tu abbia una marea di ragazze che fanno la fila per uscire con te. Dico bene?-lo stuzzicò dandogli di gomito e facendo ridere il pubblico. Anche Bryan rise, divertito dal tono di voce del presentatore. -Beh... Può darsi- ammise il ragazzo, ridacchiando.-Ma per adesso preferisco concentrarmi sugli Hunger Games, e non vedo l'ora di mettere in atto anni di allenamenti- concluse sempre con il sorriso sulle labbra, tra gli applausi scroscianti del pubblico. L'uomo si congratulò con lui anche per il suo impressionante undici in addestramento, uno dei punteggi più elevati. -Mi sento pronto. Voglio tornare a casa e continuare a vivere, possibilmente dopo aver traslocato con i miei genitori nel villaggio dei vincitori.- Disse, mentre gli spettatori ruggivano di approvazione per il loro beniamino.
Bryan fu velocemente sostituito da Shaileen Turner, la ragazza del distretto otto con i capelli tanto ammirati dalle signore di Capitol City. Fece la sua entrata con un passo leggero, ma al contempo desiderosa di raggiungere il centro del palco per raccogliere gli applausi del pubblico.
-Ciao Shay. Posso chiamarti Shay?-domandò Caesar, euforico. La ragazza rise divertita.
-Certo, ma solo se io posso chiamarti Caes.-si impose Shaileen, facendo ridere il pubblico. Si dimostrò una ragazza molto aperta e solare, disposta a rispondere con il cuore ad ogni domanda. -Molti si staranno chiedendo il perché della colorazione dei tuoi capelli. Dicci, c'è una storia dietro oppure segui solo una moda particolare?- chiese il presentatore, e il pubblico si fece subito attento. La ragazza scosse la testa, e la sua voce si velò di tristezza. -Mia madre e mia sorella furono uccise molto tempo fa-
Dalla folla si levarono dei gridolini indignati e spaventati, accompagnati da un coro di singhiozzi. Shaileen li ignorò e proseguì il suo racconto, ma saltando a piè pari la parte centrale, quella che più avrebbe impressionato il pubblico. Suo padre era un inventore e, a quanto pareva, i suoi esperimenti iniziavano a dare fastidio a qualcuno. Così un giorno, rincasando, la ragazza e suo padre trovarono la sorellina e la madre di Shaileen al piano superiore. Morte. E, cosa più importante, una rosa bianca sul comodino.
La ragazza rabbrividì al ricordo, ma riprese il suo racconto dicendo che, anni dopo, aveva trovato una foto della madre sorridente con la faccia ricoperta di pittura, e da allora i colori avevano rappresentato la felicità. Il suo racconto fece commuovere molti spettatori e Caesar stesso, che la congedò con gli occhi lucidi. -In bocca al lupo, Shay!-
-Che crepi, Caes-aveva replicato Shaileen tristemente. Non aveva idea di come sarebbe sopravvissuta nell'arena, perché uccidere era sbagliato, lo sapeva. Per lei ogni vita era importante, e non intendeva macchiarsi con il sangue degli innocenti, come pretendeva Capitol City.
Liach Myrhall, invece, si rivelò di tutt'altra pasta. Rispondeva anche alle domande più superficiali controvoglia, non voleva aprirsi con il pubblico e non intendeva fornire spiegazioni riguardo al suo sette in addestramento.
Insomma, un vero disastro per Caesar, a cui sembrava di parlare con un sasso. L'uomo stava andando nel panico, perché non voleva, non poteva permettere che quel bel ragazzo dai capelli di grano lasciasse al pubblico l'impressione del ragazzo schivo e asociale che si stava cucendo addosso! Allora girò i fogli della sua cartellina velocemente, sperando di trovare qualcosa di adatto a mettere in luce Liach. -Vuoi parlarci della tua famiglia, Liach?- domandò il presentatore nervoso.
Certo che no, avrebbe voluto rispondere il ragazzo. Ma era abbastanza intelligente da capire che, se avesse continuato a fare scena muta, il pubblico si sarebbe annoiato e lui non avrebbe attirato nemmeno uno sponsor. Così sospirò rassegnato e iniziò a raccontare, controvoglia. Raccontò della sua famiglia, che si allargava mentre i soldi diminuivano. Dei suoi genitori, spesso assenti perché troppo impegnati a lavorare per mantenere i numerosi figli. Dei suoi cinque fratelli e sorelle, e soprattutto della piccola Anisha, la quale aveva una malattia che nessun medico era ancora riuscito ad identificare e curare. E del fatto che desiderava tornare a casa proprio per loro, per quei bambini che avevano ancora bisogno del "fratellone" per tirare avanti.
Perché lui amava la sua famiglia, e se per tornare da loro avrebbe dovuto raccontare i fatti suoi a degli stupidi sconosciuti di Capitol City e, tramite le telecamere, a tutti gli abitanti di Panem, lo avrebbe fatto. Una cose decisamente poco allettante per Liach, ma che fu necessaria, perché riuscì a conquistare il pubblico con la sua storia. Così se ne andò tra gli applausi, continuando però a disgustare quei giochi e quella stupida città, che voleva a tutti i costi tenerlo in pugno. Ma che non sarebbe mai riuscita ad averlo veramente.
Jude Wright si dimostrò caratterialmente simile a Liach, data la sua riluttanza a parlare di sé. Era una bellissima ragazza, e anche piuttosto abile con i coltelli, come dimostrava il suo otto in addestramento. Al pubblico ciò sembrava bastare, e non si preoccuparono più di tanto del fatto che Jude aggirasse vistosamente la maggior parte delle domande. A Caesar però la cosa non piaceva, pertutti i ragazzi dovevano lasciare il segno, e se lei avesse continuato così nessuno l'avrebbe ricordata se non per la sua freddezza. Così, essendo a conoscenza del fatto che sia il nonno che la sorella avevano perso la vita nei giochi, le chiese a chi avrebbe dedicato la sua eventuale vittoria.
Jude non ebbe esitazioni, e quella che pronunciò sembrò la prima risposta sincera dall'inizio dell'intervista. -Mia sorella. Era una ragazza fantastica, troppo giovane per  morire- disse, con un tono di voce aspro. Non le importava se Capitol City le avrebbe reso la vita un inferno, non le importava se sarebbe stata giudicata fredda e spietata, Jude non aveva paura. Dopo la morte del padre e della sorella, e la malattia degenerativa della madre che l'aveva costretta a prendere le redini della famiglia, sapeva che niente avrebbe potuto fermarla. Sopravvivere era un obbligo, un dovere al quale avrebbe dovuto adempiere per onorare la sorella, uccisa da Capitol City. Non avrebbero avuto anche lei, non sarebbe tornata a casa in un'anonima cassa di legno come la sorella. Non avrebbe dato quell'ennesimo dispiacere alla madre.
 
Sam Dickson, invece, più che freddo si dimostrò piuttosto iracondo, il che stonava terribilmente con i suoi occhi blu mare e il suo volto all'apparenza gentile. Aveva i nervi a fior di pelle e, ogni volta che Caesar cercava di scherzare con lui, si ritrovava inchiodato alla sua poltroncina da uno sguardo inquisitorio e sprezzante. Era imbarazzante per il presentatore, perché quel ragazzo sembrava restio anche a farsi aiutare, cosa di cui aveva molto bisogno dato il suo cinque in addestramento. Per l'ennesima volta, Caesar, si ritrovò a pensare che quel carattere doveva essere stato plasmato da una situazione familiare difficile, e così decise di chiedergli di parlare della sua vita nel distretto nove. -Allora, Ehm...- iniziò l'uomo detergendosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto. -E così sei il figlio del sindaco del tuo distretto-
Sam arricciò le labbra, infastidito. -Già- Era sempre stato "il figlio del sindaco", mai Sam, il ragazzo che odiava il ruolo ricoperto da padre, il quale non era altro che uno stupido burattino. E chi muoveva i fili? Capitol City, ovviamente. Era disgustato dal suo essere legato a quell'uomo, e faceva di tutto per allontanarsene. Inoltre lo accusava di tutte le disgrazie che avevano colpito la sua famiglia: per Sam il padre era diventato una specie di capro espiatorio. La morte della madre? Colpa sua.
La malattia che aveva costretto il fratello sulla sedia a rotelle? Sempre colpa sua.
E non lo avrebbe perdonato, mai. Nemmeno adesso, che lo stavano mandando al macello, non poteva dimenticare il suo comportamento.
L'unica cosa di cui si permise di parlare apertamente fu il fratello Erick, che stava sicuramente guardando il programma, per fargli capire che non lo avrebbe dimenticato. Perché, quel bambino sulla sedia a rotelle, era l'unico di cui gli importasse veramente. E quello fu l'unico argomento di Sam che riuscì a coinvolgere davvero il pubblico, perché era il solo che lo toccasse davvero.
 
Poi toccò a Carol Todd, la ragazza del distretto dieci. Nonostante si stesse dimostrando molto simpatica e disponibile, non riuscì ad ingannare l'occhio attento di Caesar, che di ragazzi ne aveva visti molti. Ogni tanto intravedeva delle crepe nella sua corazza, e qualche frase veniva macchiata da una nota di freddezza e acidità, che probabilmente facevano parte del suo vero io. Ma al presentatore non dispiaceva, perché il pubblico sembrava non accorgersene e gli spettatori non accennavo a smettere di ridere alle battute della ragazza.
Parlava di sua volontà, senza il bisogno di essere stimolata dalle domande di Caesar, e passava dagli argomenti più leggeri, come il suo lavoro, al suo bisogno di vendicare il fratello, morto in una precedente edizione.
-Tom era tutto per me, è stato lui ad insegnarmi tutto ciò che so sul combattimento- disse, appoggiandosi una mano sul cuore e catturando il pubblico con la sua abilità, che ormai si era rivelata agli occhi di chi non si era fatto incantare da quel bel visetto.
-Vincerò per lui e lo vendicherò, statene pure certi- concluse, stringendo un lembo del suo vestito. Era riuscita a manipolarli, farsi amare dagli spettatori, cosa che forse non le sarebbe riuscita se non avesse preso il controllo della situazione. Così Carol se ne andò soddisfatta, agitando le braccia e mandando baci in direzione degli spalti, avvolta dalle urla e dagli applausi della folla in delirio. Aveva tutti i mezzi per tornare a casa, e un carattere a dir poco perfetto per farsi valere nell'Arena. E sarebbe stato proprio grazie alla sua determinazione e alla sete di vendetta che avrebbe trionfato sugli avversari,perché lei lo voleva, lo voleva davvero.
Anche Cassian Brownleaf, il compagno di distretto di Carol, dimostrò abilità similari a quelle della ragazza nel manipolare il pubblico. Lui però le metteva in atto con maggiore discrezione e, inoltre, sembrava quasi sempre pentirsi delle sue rare bugie, anche se innocenti. Pur essendo meno spigliato di Carol, riuscì ugualmente ad incantare il pubblico con la sua bellezza e la sua apparente simpatia. Inoltre gli spettatori sembravano impazzire per gli occhi di Cassian, così belli nella loro unicità. Uno blu ed uno verde, dotati della tipica innocenza adolescenziale, nonostante i suoi diciott'anni. Era piuttosto introverso ma, grazie alla sua intelligenza, riusciva quasi ad ipnotizzare il pubblico con la sua espressione assorta e le considerazioni sugli avversari. Caesar, con un po' d'insistenza, riuscì anche a farlo parlare della sua famiglia.-Vivo con mia madre e le mie sorelle, Ambrose ed Aredhel- spiegò. -Beato tra le donne- scherzò il presentatore, facendo ridere il pubblico.
Cassian sorrise, allegro. -Già! Aredhel si è aggiunta da poco, ed è adorabile- aggiunse, quasi con una punta d'orgoglio.
-È appena nata?-domandò Caesar curioso. Il ragazzo scosse la testa, sempre con il sorriso sulle labbra. Sembrava quasi avesse la testa altrove, ma dopo qualche attimo di silenzio si affrettò a rispondere. -No, è un'orfana, abbiamo deciso di adottarla- rivelò, tra lo stupore e l'ammirazione del pubblico che, dopo il segnale acustico, esplose in un applauso per quel ragazzo così timido ma al contempo così generoso.
 
Cassya Reigo, la diciassettenne del distretto undici, sembrava quasi sparire tra i cuscini morbidi posti sulla poltroncina, tanto era piccola e minuta. Suscitava tenerezza tra gli spettatori, nonostante l'espressione determinata che aveva sul volto. Gradiva le attenzioni di Caesar, e sembrava fossero in sintonia: rispondeva alle sue domande con il giusto mix di spontaneità e irriverenza, rideva alle sue battute e stava sempre allo scherzo. Una ragazza molto solare, ma che sapeva anche essere fredda e distaccata con chi non le andava a genio. Questo lato del suo carattere, però, era ben celato dal suo aspetto dolce ed inoffensivo, dietro il quale era riuscita a nascondere gran parte delle sue abilità: aveva infatti deciso di utilizzare la stessa tecnica della ragazza del distretto tre, ma a lei sembrava riuscire anche meglio.
-Immagino che tu abbia molti amici nel tuo distretto-disse Caesar con un sorriso, alludendo alla sua gentilezza e vitalità. Cassya sorrise a sua volta.
-Si, stiamo spesso insieme perché lavoriamo tutti nel frutteto... Comunque ho un ottimo rapporto anche con mia madre e mia sorella, ed è proprio per loro che voglio tornare a casa- rispose, facendo dondolare i piedi che non toccavano terra a causa della sua altezza piuttosto ridotta. Lo fece per intenerire ancor di più il pubblico, infatti in molti sospirarono incantati dalla sua innocenza. Il presentatore le augurò buona fortuna e diede il benvenuto al suo compagno di distretto, così alto e muscoloso che sembrò eclissare Cassya quando le passò accanto.
Si chiamava Alwyn Bennett e, pur non essendo troppo alto, compensava in muscoli. Era deciso a mettersi in mostra, e non gli dispiaceva rispondere alle domande di Caesar e sorridere alle sue battute. Così parlò della sua famiglia, composta dalla madre, due sorelle, e un padre piuttosto anziano che, a seguito di un incidente avvenuto l'anno prima, faticava a riprendere il lavoro. Lasciò anche perdere l'inutile modestia su cui avevano puntato molti tributi, specialmente nelle scorse edizioni, e disse che era lui a fare buona parte del lavoro, portando a casa i soldi necessari alla famiglia per tirare avanti.
-Ti sei offerto volontario-disse Caesar e Alwyn, nonostante non fosse troppo intelligente, capì che quella, pur non essendo una domanda, necessitava di una spiegazione.
-Si, mi allenavo da anni e mi sentivo pronto per gli Hunger Games-replicò, nonostante avesse ottenuto solo un misero sei in addestramento. Certo, si era allenato, ma nel suo distretto aveva trovato solo dei coltelli per esercitarsi. Il pubblico lo guardò curioso e sopreso, perché non accadeva quasi mai che ci fosse un volontario nei distretti più remoti. -Intendo dimostrare che il distretto undici non è poi così debole e marginale, e inoltre vorrei portare un po' di soldi e di fama alla mia famiglia- aggiunse, a mo di spiegazione. I presenti apprezzarono molto la determinazione di Alwyn e il suo coraggio, infatti lo ricoprirono di applausi sentiti e lui sorrise compiaciuto. Sarebbe tornato a casa, e avrebbe dimostrato a tutti di che pasta era fatto. Ne era sicuro, era una promessa.
 
Sara Tomphson fece il suo ingresso tra gli applausi del pubblico, salutando con un sorriso tirato. Le era ancora difficile credere che lei, una delle poche ragazze ricche del suo distretto, fosse stata bruscamente strappata dalla vita che conduceva nel dodici. Ma, nostante lo shock, sapeva che non era il caso di farsi prendere dal panico, piuttosto doveva mostrarsi forte agli occhi del pubblico. E così fece: si sedette al suo posto con decisione e rispose ad ogni domanda del presentatore con sincerità e allegria. L'unica cosa che non confessò fu il suo essere "sensitiva", ovvero il fatto che sognasse la notte ciò che sarebbe avvenuto il giorno seguente. Aveva paura di venire considerata una pazza, oppure una bugiarda, e poi avrebbe avuto un vantaggio sugli avversari, tenendoli all'oscuro. Però, quando Caesar le chiese se fosse fidanzata, lei arrossì ma disse la verità.
-Hem... Si-ammise tra i cori di incitamento del pubblico. -E intendo tornare a casa non solo per lui, ma per la mia famiglia e i miei amici. Proveniendo da una famiglia benestante non ho mai avuto davvero "fame", ma di questi giochi ne so qualcosa, e voglio uscirne a testa alta- concluse. Gli spettatori quasi impazzirono di fronte alla determinazione di quella ragazza, e a quella frase seguì un boato che fu interrotto solo dal segnale acustico. Caesar guardò felice l'ultimo tributo che andava verso di lui, sperando che gli facilitasse il compito sfoderando la grinta della sua compagna di distretto. Purtroppo, quello che si ritrovò davanti fu un ragazzo con lo sguardo perso nel vuoto, che squadrava con diffidenza il pubblico che lo acclamava con enfasi.
Gore Mason prese posto e continuò a guardarsi attorno, con aria indifferente. Le urla degli spettatori, dovute al suo dieci in addestramento, non sembravano toccarlo minimamente e anzi, sembrava piuttosto infastidito. Caesar sorrise forzatamente, pensando che quel ragazzo gli avrebbe dato del filo da torcere.
E infatti Gore si rivelò un osso più duro del previsto. Freddo come il ghiaccio e dotato di una schiettezza fuori dal comune, ascoltava a malapena le domande del presentatore e spesso, in risposta, si limitava a scrollare le spalle.
-Puoi dirci qualcosa della tua famiglia?-chiese Caesar, esasperato dal comportamento del ragazzo. Gore sbuffò ed incrociò le braccia, scocciato. -Stanno tutti bene, grazie dell'interessamento- rispose sarcasticamente, facendo scoppiare a ridere il pubblico nonostante non fosse sua intenzione. Il presentatore iniziò a tranquillizzarsi e si asciugò nuovamente il sudore dalla fronte con il fazzoletto. -E su quella brutta cicatrice?- domandò curioso indicando un segno bianco e irregolare che prendeva anche l'occhio del ragazzo. -Ma non ce la fai proprio a farti i cavoli tuoi?- disse Gore di rimando, inarcando un sopracciglio. Il pubblico rise nuovamente, forse credendo che stesse scherzando. Ma non era affatto così: era quello il vero Gore, quello spietato e infastidito dai rapporti sociali. La cicatrice gli era stata inferta da un cane selvatico, durante una delle sue battute di caccia nei boschi del distretto dodici. Cacciava per mantenere il suo anziano padre e la sorellina, l'unica con cui riuscisse a mostrare un lato più dolce e premuroso di sé.
Così, tra applausi e risate inaspettate, anche l'ultimo tributo abbandonò il palco, lasciando Caesar solo con gli spettatori. Dopo un rapido discorso di chiusura, dichiarò la fine delle trasmissioni e diede un appuntamento al pubblico, sapendo benissimo che non lo avrebbero mancato.-Ci vediamo domattina nell'arena, e buonanotte a tutti!- concluse, con finto entusiasmo. Per lui era orribile, vedere i ragazzi appena conosciuti andare al macello, ma ancor peggio era commentare la loro morte cruenta ed ingiustificata in diretta nazionale. Perché non se ne accorgeva nessuno? Erano solo bambini!
 
Buona fortuna tributi, pensò una volta nel suo camerino trattenendo le lacrime. 
Capitolo due, Buona fortuna.
 



Capitolo tre, che i 48esimi Hunger Games abbiano inizio!
 

 
Ciascun tributo stava indossando la propria tuta. Quell’anno era di un elegante blu scuro, rifinita da splendidi ghirigori argentati. In tinta con le scarpe da corsa.
 
Ormai c’erano quasi: ancora pochi secondi e il segnale acustico avrebbe segnalato l’inizio dei quarantottesimi Hunger Games.
 
Salutarono i loro stilisti, infilandosi nella capsula.
 
Vennero catapultati in aria, fin sopra la terra ferma. Chi prima aveva chiuso gli occhi subito li spalancò, per valutare l’Arena.
 
Quell’anno gli Strateghi avevano ideato qualcosa di originale. Niente tundre gelate o foreste d’abeti.
 
Stavano tutti galleggiando sul pelo dell’acqua. Non era un fiume, un lago, o un mare: si trattava di una piscina, dentro la quale si erigeva imponente la Cornucopia. Nella bocca di questa chiunque poteva vedere armi di vario genere, da un tridente, a un arco, a una katana. Sull’acqua galleggiavano poi altri oggetti di gran valore: cibo, coltelli, sacchi a pelo…
 
La piscina sembrava essere perennemente rifornita da uno squarcio sul soffitto, da cui scorreva l’acqua che bagnava la Cornucopia prima di fluire nella vasca.
 
Anche chi non sapeva nuotare, però, poteva comunque tagliare la corda: bastava infatti voltarsi e fare un misero saltello per atterrare sul pavimento piastrellato dell’enorme sala. Perché, e qui stava la particolarità, quell’anno gli Strateghi avevano ideato, come arena, un enorme edificio.
 
Chiunque a Capitol City sarebbe riuscito a riconoscerlo: era la riproduzione di un vecchio centro commerciale abbandonato, strutturato come il Colosseo e provvisto di più piani.
 
Infatti lungo tutte le pareti si trovava quel che rimaneva di alcuni negozi, le vetrine cadevano a pezzi e l’intonaco cascava a blocchi.
 
Alcuni tributi fissavano stupiti l’Arena, altri determinati la Cornucopia.
 
Lungo il pavimento gli Strateghi avevano disposto alcuni oggetti di scarso valore che anche i non favoriti sarebbero riusciti a prendere. Liach e Theia pensavano di poter sfruttare la loro velocità per afferrare qualche zaino.
 
Tutti i favoriti avevano già gli sguardi puntati sulle armi nella Cornucopia. Incredibilmente, non solo loro.
 
Gore Mason fissava voglioso quell’arco, l’arma che l’avrebbe reso invincibile.
 
Sara aveva intercettato lo sguardo, cercò di avvertirlo con un cenno del capo: non era una buona idea. Gore, però, non le stava prestando la giusta attenzione.
 
Anche Gaison cercò una persona, nel mucchio, e questa persona era Eleuthera. La vide, piccolina, neanche troppo distante da lui, fissare vogliosa uno zainetto da cui spuntavano invitanti alcuni cavi elettrici e degli strani utensili, si trovava abbastanza distante dalla piscina e, disgraziatamente, piuttosto lontana anche da qualsiasi rampa di scale.
 
Gaison imprecò mentalmente. Quella si sarebbe messa nei guai, sicuro.
 
Ormai mancavano davvero pochissimo secondi.
 
Cinque.
 
Jude fissava la lama splendente di un coltello neanche troppo lontano.
 
Quattro.
 
Kylar si guardava ben attorno, così da memorizzare fotograficamente ogni singolo achero di polvere.
 
Tre.
 
Alwyn pensava a come muoversi più agilmente verso il piano superiore.
 
Due.
 
Emma aveva già preso lo slancio.
 
Uno.
 
Fischiò l’inizio e ventiquattro tributi presero subito le loro strade.
 
Cinque si buttarono in acqua, gli altri presero a correre disperatamente per l’intera sala.
 
Theia afferrò il primo zainetto che le venne a tiro, senza neanche domandarsi cosa contenesse, fu la prima e sparire su per una rampa di scale.
 
Noah non si preoccupò nemmeno di fermarsi a raccogliere qualcosa, Sara filò via come una freccia.
 
Era tutto un caos! Ovunque tributi che correvano, ovunque grida di disperazione, tutti sapevano che ormai mancava poco tempo prima che i favoriti afferrassero un’arma e iniziassero la carneficina.
 
Eppure, c’era ancora un tributo che non s’era mosso.
 
Rhys Jones era forse uno dei più forti nell’Arena, ma, in seguito a un incidente avvenuto molto tempo prima ai suoi genitori, aveva sviluppato un’incredibile, viscerale fobia per l’acqua. E ci si ritrovava sopra, così. Non riusciva a muoversi.
 
Intanto accaddero tante cose contemporaneamente.
 
Shaileen filò via dritta verso una rampa di scala, seguita a ruota da Cassya. Disgraziatamente questa, non avendo visto uno zainetto abbandonato tra le piastrelle, in preda alla corsa sfrenata, finì con l’inciamparci sopra.
 
Cassya cadde atterra, Shaileen si voltò. La ragazza provò a raggiungerla, ma ormai era tardi: Ivy Moon, il tributo femmina dell’1, era riuscita a salire sulla cima della Cornucopia, sotto il getto d’acqua, brandendo un arco. Le bastò tendere la corda per scoccare una freccia dritta tra le spalle di Cassya.
 
— No! Cassya!— gridò disperata Shaileen, improvvisò due passi avanti, ma Cassya, con le ultime forze sollevò la mano e gridò, con quanto fiato aveva in gola: — Va via, subito! Corri!
 
Shaileen, quasi in trance, iniziò a muoversi, ma dal nulla comparve Liach, che correva disperato verso la stessa rampa di scale. Cassya non avrebbe permesso a quel ragazzo di far del male a Shaileen, anche se morente, anche se sanguinante, afferrò d’improvviso la gamba di Liach.
 
Lui cadde a terra, quasi rotolando.
 
Non aveva alcuna intenzione di ferire la ragazza, avrebbe solo voluto mettersi in salvo.
 
A volte, però, il destino ha ben altri progetti.
 
Cadendo a terra divenne un facile bersaglio per l’arco di Ivy, che si tese una seconda volta, e per la seconda volta colpì.
 
Centro.
 
A Liach non furono concessi nemmeno quei due minuti di dolorosa sopravvivenza che sembravano appartenere a Cassya. Lui chiuse gli occhi, quasi addormentato, e non si risvegliò più.
 
Contemporaneamente a tutto ciò, Jude era riuscita ad afferrare il coltello. S’era poi diretta in gran corsa verso uno bellissimo zainetto, grande, da cui spuntava invitante un’utilissima borraccia piena d’acqua.
 
C’era quasi, le mancava davvero poco. Quando riuscì a prenderlo, però, s’accorse di non essere sola: davanti a lei, con una mano sullo stesso zainetto, c’era Elaine.
 
Le due si guardarono per un paio di secondi, poi Jude, ripresasi subito, brandì il coltello e tentò un affondo.
 
Disgraziatamente per lei, Elaine riuscì a evitare agilmente il colpo, mollando lo zaino ma agguantandola per una manica della felpa. Con uno strattone la fece cadere a terra, Jude, però, riuscì a stringerla per un polso facendo precipitare entrambe.
 
Subito si tirò su di un lato, quando Jude tentò un nuovo affondo con il coltello. Questa volta la ragazza non riuscì a salvarsi completamente: la lama graffiò superficialmente il braccio destro.
 
Nonostante il dolore Elaine riuscì a tirarsi su, sfruttando la scomoda la posizione di Jude – mezza seduta, mezza accucciata – l’afferrò per il collo tirandole un calcio appena sotto una gamba.
 
Jude perse l’equilibrio e finì completamente distesa sul pavimento, perdendo il coltello.
 
Elaine l’afferrò fulminea e, con un colpo secco, senza realmente pensare a cosa stesse succedendo, la trafisse per la gola.
 
Quando s’assicurò che Jude non fosse più in grado di muoversi prese lo zaino, il coltello e corse via, ferita nel corpo quanto nell’anima.
 
Intanto i favoriti erano impegnati alla Cornucopia.
 
Larev, afferrata una lancia sulla cima della Cornucopia, guardò fisso Rhys. Il ragazzo, percependo il pericolo, grazie a non si sa bene quale strano processo mentale, riuscì finalmente a muovere un passo.
 
Se solo lo avesse fatto prima!
 
Ormai per Larev non ci volle niente: un tiro, uno soltanto, e lo trafisse. Non era forse abile quanto poteva esserlo Gaison, ma si trattava un bersaglio talmente elementare che non avrebbe potuto sbagliare.
 
Rhys cadde a terra, morto, ucciso tanto dalla lancia quanto dalle acque. Come suo padre e sua madre prima di lui.
 
In effetti poteva essere strano che Gaison non avesse raggiunto la lancia prima di Larev. Il motivo, di fatto, era semplice: Gaison non si era mai nemmeno buttato in acqua.
 
Aveva visto un tributo correre nella stessa direzione di Eletuhera.
 
Eleuthera, così simile alla sua sorellina, non ci aveva nemmeno prestato caso: voleva solo agguantare quello zaino.
 
Il tributo nemico non era altro che Sam, il ragazzo che non ci sapeva troppo fare con l’arco. E Gaison non era assolutamente intenzionato a lasciarli far del male ad Eletuhera.
 
Sam in realtà non mirava proprio a ferire la bambina. Voleva solo prendere uno zaino nella stessa direzione.
 
Comunque, se se la fosse ritrovata davanti, non avrebbe esitato a uccidere.
 
Gaison allora corse nella sua stessa direzione, afferrò un coltello e non si fermò.
 
Fortunatamente, quando tutti e tre i tributi si trovavano abbastanza vicini tra loro, Sam percepì il pericolo e si voltò. Notando lo sguardo determinato di Gaison e l’arma pericolosa che brandiva tra le mani, si spaventò e, rinunciando allo zaino, corse via.
 
Eletuhera, che ormai si ritrovava sola con il favorito, si portò entrambe le mani alla testa come per proteggersi, terrorizzata.
 
— Va via — le disse però Gaison. — E vedi di fare più attenzione, ragazzina! Eleuthera, incredula, afferrò lo zaino e se ne andò, voltandosi solo una volta per sussurrare, riconoscente, “grazie”.
 
Comunque, mentre Gaison era impegnato a salvare Eleuthera, un altro tributo si stava cacciando nei guai. E questo tributo era Gore Mason.
 
Gore era sicuro di poter afferrare quell’arco prima di chiunque altro. Prima di Ivy, soprattutto.
 
Era certo di essere più veloce nel nuoto, così si tuffò senza pensarci troppo.
 
Disgraziatamente, per quanto fosse più veloce di Ivy, non aveva messo in considerazione la possibilità di essere più lento rispetto ad altri tributi. Tributi come Miranda, la ragazza dalla chiama rosso fuoco.
 
Miranda e Gaison arrivarono praticamente insieme, lui prese subito tra le mani un arco, lei afferrò l’ascia. Non era forte, non era particolarmente preparata, ma con un bersaglio tanto facile non ci sarebbero stati problemi. Sollevò l’arma e l’abbatté sul rivale, mirando alle mani.
 
Gliele mozzò.
 
Gore emise un grido disperato, sollevando le braccia ora monche. Intanto Ivy riuscì ad arrampicarsi sulla Cornucopia, afferrando l’arco.
 
Miranda con un calcio fece cadere Gore in acqua, poi afferrò il tridente e, con un colpo secco, lo trapassò. La piscina prese a tingersi di un inquietante rosso scuro, quasi a decretare il reale inizio degli Hunger Games.
 
Il suo volto non trasmetteva null’altro che freddezza, quando dentro un oscuro pentimento le contorse le viscere.
 
Il corpo martoriato di Gore Mason andò lentamente a fondo mentre nel Distretto 12 piansero il loro primo caduto. Che, incredibilmente, non era Sara.
 
Ormai alla Cornucopia non rimanevano altro che i cinque favoriti. I caduti vennero in qualche modo raccolti e i tributi superstiti si erano dispersi per tutto l’edificio.
 
I ragazzi avevano allontanato cibi e armi dalla Cornucopia per posarli sotto l’unico, maestoso albero che sorgeva selvaggio all’interno della sala.
 
Era stato certamente un ricco bottino.
 
La scorta di provviste sarebbe bastata sicuramente, c’erano degli indumenti più pesanti in previsione di notti gelate, delle coperte e una miriade di armi letali.
 
Si stavano dividendo parte del bottino, riposando poco guardinghi sotto la frescura dell’albero.
 
— Alla fine ci sono stati pochissimi morti, rispetto al solito — commentò Ivy — due li ho uccisi io, uno Miranda e uno Larev. E poi quell’altra, la ragazza del 9, che non so nemmeno come sia morta.
 
— Aveva preso anche otto all’esame.— rispose Larev.
 
A Miranda tutto ciò non interessava. Guardava sospettosa Luke e Gaison, gli unici favoriti a non aver ucciso nessuno. Cosa piuttosto insolita.
 
Da una parte si domandava come fosse possibile che un grande combattente come Gaison non avesse attaccato nessuno, dall’altra notò con una certa stizza che di Luke, nonostante tutto, non ne sapeva niente.
 
Non si era mai completamente mostrato, non aveva mai dato sfoggio delle proprie abilità.
 
E se ne stava sempre così distante che alla fine le dava quasi l’impressione che provasse repulsione verso tutti i favoriti.
 
— Bene, ecco fatto. Ognuno ha le sue armi e le sue provviste nello zaino in caso di necessità. Adesso che si fa?— disse Gaison.
 
Ivy si rigirò una spada tra le mani, lasciando che la lama riflettesse la luce del sole.
 
Aveva un sorriso sinistro, quasi, maligno.
 
— Ora si va a caccia.
 
 
 
 
 
 

Capitolo quattro, i dodici livelli.

 
-Dividiamoci-disse Ivy, risoluta. Si era improvvisata capo del gruppo, e la cosa non piaceva a nessuno ma, per il momento, non intendevano contraddirla. Sapevano che la sua carica avrebbe avuto breve durata, ma i suoi alleati si astennero dal farglielo notare.
-Dobbiamo esplorare almeno questo piano e il superiore, per avere un'idea di dove ci troviamo-spiegò. Gli altri annuirono, mostrandosi d'accordo. Avevano bisogno di cibo, dato che alla cornucopia avevano trovato solo una gran quantità di armi ma pochi generi alimentari, che sarebbero bastati solo per un giorno o due. Forse i viveri gli erano stati sottratti da qualche avversario, oppure gli strateghi ne avevano forniti in piccola quantità. In entrambi i casi, avrebbero dovuto andare in esplorazione. -Mi offro per andare al primo piano- disse Luke, che fino a quel momento era rimasto in disparte. Non vedeva l'ora di abbandonare quel gruppo disorganizzato e iniziare la carneficina, eliminando velocemente quanti più avversari possibili. -Non da solo- rispose la ragazza, acida.
-Non mi sembra di aver bisogno di una balia-sputò Luke tra i denti.
-Ah già, visto il lavoro eccellente che hai fatto alla cornucopia immagino che per te non sarà un problema!- disse Ivy, ridacchiando. Il ragazzo digrignò i denti infastidito: come aveva potuto insinuare che lui non fosse capace di difendersi? L'unica ragione per cui non aveva ancora ucciso nessuno, era che non gli piacevano gli scontri così aperti. Insomma, che gusto c'era a buttarsi nella mischia alla cieca uccidendo rapidamente i più deboli? No, quella roba non faceva per lui. Luke preferiva scegliere con cura le sue vittime, strappargli lentamente ogni residuo di vita e di coraggio.
-Sempre meglio che nascondersi dietro un arco e mirare da lontano a perdenti- sibilò con rabbia, appoggiando una mano sul fodero della sua spada. Ivy strinse gli occhi riducendoli a due fessure e si preparò allo scontro, estraendo a sua volta la lama.
Gaison scattò in piedi e si frappose tra i due, irritato. -Fermi, abbiamo di meglio da fare che litigare- disse il ragazzo del distretto due, cercando di riportare la calma. Non gli sarebbe importato assolutamente nulla se si fossero uccisi a vicenda, ma sapeva benissimo che al gruppo serviva qualcuno da mandare in esplorazione.
-Ha parlato il difensore delle bambine incapaci-lo schernì Luke, con fare canzonatorio. Gaison fece di tutto per non saltargli addosso ma, probabilmente, se Miranda non fosse intervenuta non sarebbe riuscito a trattenersi.
-Basta, ognuno ha i suoi motivi per agire- disse spazientita. -Vedete di piantarla e decidiamo cosa fare- concluse, tentando di riportare l'ordine.
Il suo compagno di distretto sospirò, accorgendosi della veridicità delle sue parole. Il ragazzo del quattro, invece, si voltò dando le spalle a tutti, tentando di nascondere la sua irritazione. Finalmente si decise a parlare anche Larev, che fino ad allora si era limitato ad affilare due coltelli da lancio in solitudine. -La rossa ha ragione- disse, interrompendo bruscamente il suo lavoro ed alzando il capo. Miranda arricciò il naso, poco lusingata dell'appellativo riservatole dal ragazzo. -Facciamo così: il distretto due esplora questo piano, voi andate al livello superiore- concluse indicando Ivy e Luke con un cenno della testa. -Mi sembra un'idea a dir poco insensata- protestò Gaison pacato. Era assurdo accoppiare quei due, che sembravano in procinto di azzannarsi da un momento all'altro, ma Ivy lo liquidò con un'occhiataccia.
-No, va bene. Sono in grado di difendermi da lui-disse risoluta, spostando lo sguardo su Luke e tentando di incenerirlo. Lui sorrise sprezzande e si alzò rapidamente dirigendosi verso le scale, seguito dalla ragazza.
-Tu rimani qui?-domandò Gaison a Larev, che aveva rispreso la manutenzione delle sue armi. Il ragazzo scrollò le spalle e rispose con indifferenza. -Qualcuno deve assicurarsi che non ci rubino le armi- per lui non era mai stato facile rapportarsi con gli altri, e non aveva nessuna intenzione di iniziare a conoscere meglio una persona che probabilmente avrebbe dovuto uccidere.
I tributi del distretto due lo salutarono rapidamente e si allontanarono in direzione del limitare della piazza, in cerca di qualcosa di utile. L'intonaco si staccava a grandi pezzi dal soffitto, cadendo ai loro piedi, i mattoni del muro erano in bella vista e il pavimento era disseminato di detriti di varie dimensioni. Da molte fenditure tra i lastroni della pavimentazione si ergevano dei piccoli viticci e dei cespugli selvatici, che gli intralciavano il passaggio. Dopo qualche minuto di cammino Gaison e Miranda si trovarono davanti ad un supermarket dall'insegna scolorita e decadente.
-Facciamo la spesa-scherzò la ragazza, raggiante. Apoggiò una mano sulle porte scorrevoli, che rimasero fermamente al loro posto. Il suo compagno fece qualche passo avanti, estrasse la spada infilandola tra una porta e l'altra e face leva, cercando di farle aprire per entrare. Miranda lo aiutò e, insieme, riscirono a creare una fessura di qualche centimetro, che i ragazzo allargò con le mani sfruttando i muscoli delle braccia. Quando lo spazio fu abbastanza largo per passare, i due si addentrarono nel negozio buio, con gli scaffali ricoperti di polvere e terra. -Andiamo- disse la ragazza, muovendo i primi passi all'interno di quel luogo.
 
Luke saliva i gradini a due a due, incurante delle imprecazioni di Ivy, la quale cercava di obbligarlo a rallentare o per lo meno a fare meno rumore. La scala era piuttosto accidendata, e il marmo di cui era fatta era stato intaccato dal tempo, rendendola pericolosamente instabile. Quando il tributo del distretto quattro ne raggiunse la cima, si meravigliò del repentino cambiamento di ambiente: la luce luminosa del piano inferiore era improvvisamente sparita, lasciando spazio al buio più totale. L'unica fonte d'illuminazione era costituita da alcune fiaccole assicurate a dei sostegni lungo il muro, che avevano un raggio d'azione piuttosto ridotto. Tutto era ricoperto da uno spesso strato di polvere nera, che si sollevava ad ogni passo ma che tornava velocemente al suo posto, senza lasciare traccia del loro passaggio. Non appena Ivy lo raggiunse si sentì gelare il sangue, spaventata da tutta quell'oscurità opprimente: non le erano mai piaciuti gli spazi bui e angusti, anzi, le facevano paura. Così si affrettò a prelevare una torcia dal suo sostegno e ad usarla come guida, per riuscire a vedere dove mettesse i piedi.
-È polvere di carbone-sussurrò Luke all'improvviso, dopo averne presa un po' in mano.
Ivy era a dir poco a disagio e, improvvisamente, si pentiva di essersi addentrata in quel luogo con quel ragazzo, del quale non sapeva assolutamente niente. -Andiamocene- propose con un filo di voce.-Qui non c'è nessuno- riprese con più convinzione.
Luke si voltò lentamente, con un ghigno stampato sul volto. -Ti sbagli: se fossi stato ferito alla cornucopia mi sarei nascosto qui, nel buio più totale. E noi stiamo cercando proprio i sopravvissuti, giusto?- domandò con fare retorico.
Ivy arricciò le labbra, sperando che il buio celasse la sua paura. -Ho detto che dobbiamo andarcene. Proviamo al piano superiore, qui non sento né vedo nessuno- replicò duramente. L'insolenza di quel ragazzo la irritava, e non poco.
Lui continuò a camminare, senza degnarla di una risposta. Ascoltava le sue lamentele distrattamente, cercando di concentrarsi sui deboli fruscii che avvertiva in lontananza.
-Vuoi stare zitta, dannazione?- inveì, quando gli sembrò di averla sopportata abbastanza a lungo. -Non osare, razza di incapace!- urlò lei, strattonandolo per una spalla e costringendolo a guardarla. Fu un attimo.
Gli occhi di Luke si accesero di una furia omicida e sguainò la spada, ferendo la ragazza al braccio che teneva la fiaccola, e Ivy la lasciò andare in un riflesso involontario con grido di dolore. Dopodiché il ragazzo gettò la spada a terra e le si scagliò addosso, coltello alla mano. Subito la lama si tinse di un rosso cremisi, e le urla agghiaccianti di Ivy sgretolarono la quiete apparente che regnava in quel posto.
 
Alwyn, intanto, giaceva accanto alle radici di un albero, al secondo livello. Era riuscito a sottrarre un set di coltelli da lancio alla cornucopia ma, purtroppo, mentre attraversava il primo piano era caduto con tutte le scarpe in una trappola piazzata dagli strateghi, anche piuttosto rudimentale. Aveva semplicemente messo un piede su una mattonella diversa dalle altre, provocando un sonoro "click" e una pioggia di scheggie taglienti di vetro e metallo. Era riuscito a ripararsi il volto dietro le braccia muscolose, ma purtroppo non tutto il suo corpo era stato così fortunato: oltre ad avere molte schegge conficcate un po' ovunque, una ferita non troppo superficiale correva sulla sua coscia destra, e il sangue aveva rapidamente imbrattato la tuta. Era riuscito a fare un bendaggio d'emergenza, utilizzando delle garze trovate in un armadietto di pronto soccorso, nella toilette di quel piano. Purtroppo però, dai rubinetti era uscito solo un rivolo d'acqua sporca e terra, poi più niente. Così si ritrovava assetato e ferito, ma non affamato: le piante di quel posto somigliavano terribilmente a quelle del suo distretto, e non aveva fatto fatica alcuna ad evitare quelle velenose. Ma, nonostante questo colpo di fortuna, gli era comunque difficile muoversi, nonostante utilizzasse un bastone ricavato da uno spesso ramo di un'albero. Il problema maggiore era arrampicarsi. Solitamente si muoveva agilmente tra i rami, dato che lavorava in un frutteto, ma, a causa della ferita, farlo gli causava un dolore lancinante.
Così era costretto a starsene a terra, in attesa dell'arresto dell'emorragia, impaziente di esplorare quel livello. Rimase acquattato nell'ombra per ore, finché non scorse un'ombra venire verso di lui e si costrinse ad ignorare il dolore e a salire su un albero, dato che un combattimento nelle sue condizioni era impensabile.
Un ragazzo piuttosto magro girò l'angolo, e Alwyn lo identificò come il tributo del distretto tre. Noah teneva tra le mani una spoletta che avava trovato in un negozio di articoli sportivi a cui era avvolto un lucente filo di nylon, e sembrava ne stesse valutando la resistenza. Ogni tanto si fermava a raccogliere qualche ramo o un frutto e lo studiava per un po', valutando se infilarlo o meno nella capiente borsa che teneva a tracolla. Prima che Alwy potesse estrarre un coltello e mirare al sottile collo del ragazzo, notò che questo era già corso via, attratto da chissà cosa.
Noah era un po' inquieto, e si concesse di salire ancora di un livello raggiungendo il terzo, prima di confermare la sua teoria sulla conformazione dell'arena.
 
Luke recuperò la spada e ripulì il coltello su ciò che rimaneva sulla tuta di Ivy, ormai ridotta a brandelli. Sorrise soddisfatto e si allontanò di qualche metro dal cadavere, curioso di scoprire come il corpo sarebbe stato rimosso: di certo non c'era abbastanza spazio per far calare un braccio meccanico da un hovercraft. Si sedette in un angolo e iniziò a tamburellare le dita sul pavimento ricoperto di polvere, impaziente.
Dopo qualche secondo, da uno dei negozi fuoriuscì un piccolo robot alto circa un metro, dotato di quattro arti con il corpo non dissimile da quello di un ragno. Si muoveva con grazia, e raggiunse velocemente il cadavere della ragazza. Si aprì uno sportellino sul suo ventre e ne uscì un sottile braccio meccanico, poco più piccolo di quello di un normale hovercraft. L'artiglio afferrò la ragazza per la vita e la sollevò di qualche metro, poi tornò da dove era venuto e la porta del negozio si richiuse rapida dietro di lui. Luke si alzò e tentò di abbassare la maniglia per seguire il robot, ma questa non si spostò di un millimetro. Stava giusto valutando se sfondare il vetro con un colpo di spada, quando avvertì il lieve brusio di un hovercraft poco distante. Si guardò attorno e, non trovando niente, si avvicinò ad un lastrone di vetro sul muro, che fungeva da finestra. Tolse un po' di polvere con le mani per riuscire a vedere meglio, divorato dalla curiosità. Sotto di lui vide un giardino che circondava il centro commerciale, anch'esso decadente, e si soprese nel vedere il piccolo robot che avanzava verso il braccio calato di un hovercraft. Questo prese con malgrazia il corpo di Ivy e lo trascinò via, mentre il gigantesco "ragno" rientrava nell'edificio.
Luke era così rapito dalla scena che non si accrose dei passi dietro di lui finché Sam non mise un piede in fallo, rivelando la sua posizione. Il ragazzo si voltò di scatto brandendo la spada, e si ritrovò faccia a faccia con il tributo del distretto nove, che reggeva in una mano una fiaccola e nell'altra un'ascia. Sam provò ad attaccarlo con tutta la forza che aveva nelle braccia, ma Luke riuscì facilmente a parare il suo affondo utilizzando la spada, nonostante le sue mani tremassero per la potenza del colpo. Il ragazzo tentò più volte di ferirlo, ma la sua inesperienza con l'ascia non giocava certo a suo favore. Così, mentre l'avversario continuava a parare nascondendosi dietro alla lama della spada, gli tirò addosso la fiaccola, bruciando parte della sua tuta e provocandogli delle scottature su un fianco. Luke urlò, spaventato da tutto quel calore e da quelle fiamme danzanti e cadde in ginocchio, tentando di spegnere la stoffa che stava diventando cenere.
Sam si avvicinò per dargli il colpo di grazia, ma Luke, senza la distrazione delle fiamme tanto temute, non si fece cogliere alla sprovvista: ferì il ragazzo ai tendini delle caviglie, e lo costrinse a cadere accanto a lui.
Entrambi ansimavano, incapaci di rialzarsi e continuare a combattere. Luke continuava a darsi dello stupido e tentava di tornare in piedi utilizzando la spada come sostegno, ma la ferita sul fianco tirava così tanto da trascinarlo giù. Così, dopo quanche tentativo andato a vuoto, si arrese ed iniziò a tenere d'occhio Sam, il quale fissava allibito il suo stesso sangue.
Fu proprio Sam ad avere l'idea: raccolse tutto il suo coraggio e tese debolmente una mano sporca di sangue verso l'avversario, illuminato solamente dalla debole luce delle fiamme. Luke lo guardò di sottecchi, ma si decise a stringergliela solo quando notò che il ragazzo si stava lentamente riprendendo, ed era ormai in grado di tenere in mano l'arma.
-Alleati-si affrettò a dire, irritato dall'esito dello scontro. Aveva lasciato un gruppo di idioti per allearsi con un altro cretino, che per giunta non era nemmeno un favorito.
Sam arricciò le labbra, neanche lui troppo soddisfatto dell'accordo. Quel Luke non gli piaceva affatto, ma era abbastanza furbo da capire che se avessero continuato lo scontro non sarebbe stato un bene per nessuno dei due.
-Alleati-ripetè con freddezza.
 
Miranda e Gaison stavano tornando da Larev, quando sentirono il colpo di cannone dovuto alla morte di Ivy. La ragazza sorrise sprezzante e si voltò verso il compagno di distretto.-Avevo ragione! Dammi quel coltello, sù- disse euforica, tentando di riscuotere il premio della loro scommessa.
-No, non puoi sapere se il colpo fosse per lei!-protestò il ragazzo. Lei scosse la testa, senza smettere di sorridere. -Andiamo, mi sembri abbastanza sveglio da capire che ho ragione- lo rimproverò dandogli di gomito. Gaison sbuffò ed alzò gli occhi al cielo, ma poi le allungò l'arma, tentando di nascondere un sorriso. Avevano scommesso sulla sorte di Ivy e, a quanto pareva, Miranda aveva avuto la meglio. Iniziò a fischiettare e ripose in una borsa di juta tutto il cibo che avevano recuperato dagli scaffali polverosi: crackers, alcune bottiglie d'acqua da due litri, merendine dall'aspetto stantio, frutta secca e caramelle.
-Questa roba non ci permetterà di sopravvivere nemmeno un giorno-protestò Gaison, arricciando il naso. La ragazza alzò le spalle, incurante. -Ho visto delle piante commestibili mentre venivamo, inoltre vicino agli alberi ci sono delle tracce lasciate da dei piccoli animali- disse lei, senza perdere il buonumore.
-Te lo concedo-bofonchiò il giovane, sollevando la sacca con il cibo. Lei sorrise nuovamente, rigirandosi tra le mani la sua vincita. Camminarono ancora per qualche minuto, poi scorsero una vecchia croce verde, in procinto di staccarsi dal muro.
-Una farmacia!-urlò Miranda entusiasta, riponendo il coltello nel fodero e avvicinandosi alle porte, sperando di trovare qualcosa di utile. -Ti ho già detto che i miei genitori hanno una farmacia?- domandò, voltandosi verso il ragazzo.
-Fammici pensare-disse lui, esibendosi in una finta smorfia di concentrazione. -Direi circa un milione di volte... Negli ultimi cinque minuti- concluse, facendola ridere di gusto.
 
 
Noah si guardò attorno, spaventanto: il terzo piano consisteva in una piccola steppa delimitata dai ruderi di vecchi negozi e popolata da tori, buoi e ogni genere di bestia da allevamento. Nessun animale sembrava molto contento di vederlo: avevano tutti gli occhi inniettati di sangue, e un piaio di loro lo avevano già puntato. Ogni piano corrisponde a un distretto, quindi ci sono dodici livelli, pensò, inchiodato al suolo dalla consapevolezza della sua scoperta.
 
  

Capitolo cinque, Cala il sipario.
 

Noah fissava sconvolto il muso poco amichevole di un bue rabbioso. Lo scrutava così, inferocito.
Aveva appena compreso la realtà sull’Arena: 12 livelli più il piano terra, uno per ogni distretto.
Non solo: le difficoltà sembravano aumentare livello dopo livello. Il piano del carbone era banalmente invaso da sporco, buio e scarafaggi. Al secondo livello, piante assassine. Al terzo, animali inferociti.
Così, in un certo senso, Noah sapeva che cercare rifugio su di un piano superiore sarebbe stato qualcosa di particolarmente stupido. In quel momento però poco importava.
Quando si è inseguiti da una bestia incattivita controllata da sadici strateghi, la mente cede spesso spazio all’istinto. In quel momento l’istino sembrava gridare a gran voce “scappa!”.
Noah, ubbidiente, era partito in quarta. Temeva di essere sopraffatto.
In prossimità della scala comprese che non c’era più molto da fare. Se avesse tentato di salire al piano superiore quella bestia l’avrebbe certamente raggiunto, ma Noah ebbe quel genere di colpo di fortuna che permette di districarsi nelle faccende più complesse: vide un tubo sul soffitto. Largo, perfetto.
Facendo leva sulla maniglia di una porta riuscì ad arrampicarcisi sopra. Si trovava giusto uno o due metri più in alto del bue. Ora doveva solo trovare un modo per andarsene da lì.
Lo sguardo cadde però su un’altra persona, ferma come lui sul tubo.
Dentro di sé sorrise, riconoscendo Theia Jhonson, la ragazza che gli ricordava in modo tanto impressionante la sua Camille.
Theia sollevò un braccio, invitandolo così a seguirla. Noah la guardò storto, incerto se fidarsi o meno.
Theia si alzò in piedi e prese a correre attraverso la rete di tubi, allontanandosi, allora Noah non ebbe più troppo tempo per riflettere.
La seguì come meglio poté, non era veloce quanto poteva esserlo lei, però. A un certo punto la vide prendere uno slancio e saltare: anche lui allora notò dei tubi più sottili, arrugginiti, un tempo forse celati da legno e calcestruzzo.
Theia ci si aggrappò e iniziò a muoversi abbastanza agilmente: penzolando sopra una mandria di tori, cercò di agguantare sempre tubi sufficientemente sicuri da non rischiare di crollare così, nel vuoto. Tubo dopo tubo finalmente riuscì a raggiungere la scala, ci si gettò sopra e si voltò.
Noah era ancora parecchio distante, ma sembrava cavarsela. Lui le sorrise e mimò un “grazie” con le labbra. Allora Theia chinò in capo, in un cenno di saluto, e corse via.
Primo giorno nell’Arena e già aveva salvato una persona. Mica male.
 
Se Theia scese le scale, Kylar le aveva salite. Portava in spalla uno zainetto malandato, neanche troppo capiente. Cercava un posto tranquillo dove ispezionarlo quando, oltrepassato il piano col bestiame, raggiunse il quarto livello. E ne rimase davvero impressionato.
Vedeva benissimo i negozi, ma questi sembravano praticamente irraggiungibili: ovunque vi era frumento. Piante esageratamente alte, geneticamente modificate, sicuramente.
La cosa davvero impressionante era una sorta di entrata: uno spazio in cui si poteva passare liberamente.
Colto da uno strano presentimento, ci si inoltrò dentro. Iniziò a correre per i primi cinquanta metri, poi notò uno svincolo, un bivio. Prese una strada a caso e continuò a camminare, quando nuovamente la via si divise. Allora Kylar rise di gusto.
Un labirinto.
Aveva finalmente trovato il suo piano! Un ragazzo con una memoria fotografica infallibile come la sua avrebbe sicuramente potuto districarsi egregiamente là dentro.
Kylar si lasciò cadere a terra, felice. Iniziò così tranquillamente a ispezionare il contenuto dello zaino. Vi erano una torcia, gallette, una scatola piena di caramelle, una maglietta extra e una borraccia piena d’acqua. Il che gli ricordò che doveva cercare dell’acqua.
Improvvisamente sentì un grido.
Spaventato sollevò di colpo il capo, ma comprese che, qualsiasi bestia avesse ruggito in quel modo, non ce l’aveva con lui. Il gridò si ripeté e questa volta capì che la “bestia” era umana.
Incuriosito si mosse attraverso il labirinto.
Era una ragazza.
Quando la raggiunse vide che correva terrorizzata tra uno svincolo e l’altro. Allora comprese, malignamente felice, che se per lui un simile piano era qualcosa di incredibilmente conveniente, per qualcun altro il non riuscire a districarsi liberamente era orribile e angosciante. Quella ragazza, comunque, era Emma. Si era stupidamente inoltrata nel labirinto e ora non sapeva come uscirne. Le aveva provate tutte, ma niente! A un certo punto, però, sentì l’impetuoso scroscio dell’acqua. Incuriosita cercò di raggiungerlo passando per un paio di vie.
Quel che vide aveva dell’incredibile: da uno squarcio sul soffitto calava impetuosa una miriade d’acqua, che scendeva al piano inferiore tramite un secondo squarcio, sul pavimento.
Emma ricordava la piscina, rifornita dall’acqua che calava dal soffitto.
— Quindi passa per tutti i piani…— sussurrò.
Kylar l’aveva seguita, incuriosito. Comprese d’aver agito giustamente quando notò l’acqua: finalmente poteva bere.
Vide la ragazza accarezzare con le mani la cascata, incerta. Poi assistette alla manovra più rischiosa, geniale e incosciente mai congeniata: Emma si gettò nella cascata! L’acqua la fece precipitare fin giù, al piano inferiore, liberandola dal labirinto.
Kylar trattenne il fiato in uno spasmo involontario. La disperazione, la voglia di libertà, portava a compiere azioni rischiose e incoscienti.
Comunque, felice d’aver trovato finalmente una fonte d’acqua, si voltò per tornare a immergersi nel labirinto. Camminando tranquillamente su e giù tra le spighe di grano, sentì qualcun altro tentare di districarsi tra bivi e crocevia. Incuriosito dal nuovo arrivato, tento di raggiungerlo.
Un nuovo sospiro trattenuto gli morì in gola: questa volta l’intruso non era umano, era bestia. Una bestia mezzo uomo mezzo toro, per la precisione.
Kylar fuggì dal Minotauro, prima d’essere visto.
 
 
Cassian aveva predisposto la trappola. Un’intricata rete di cavi che avrebbe immobilizzato la preda al pavimento.
Si trovava al secondo livello, nascosto all’interno di un’ex erboristeria. La vetrata era andata in frantumi e la porta serrata, il bancone ormai appena stava in piedi, ma qui e là aveva trovato anche qualche residuo di prodotti naturali.
All’esterno aveva sistemato il complesso ingranaggio. Ora mancava solo la preda.
In quel preciso istante nei paraggi c’erano però solo due persone.
La prima era Sara. Nascosta dietro vecchi scatoloni posti sopra un armadio di metallo, aveva assistito alla preparazione della trappola con crescente curiosità.
La seconda era Shaileen.
La ragazza vagava ancora scombussolata dalla morte di Cassya. Semplicemente non stava prestando troppa attenzione al luogo. D’altra parte, anche se avesse avuto tutti i sensi in allerta, sicuramente avrebbe inciampato sull’invisibile filo di nylon.
Shaileen precipitò sul pavimento attivando l’intricato congegno di Cassian. Una rete finì col coprirla, allora la ragazza prese a muoversi disperatamente come per liberarsi, quando Cassian decise di uscire allo scoperto.
Vide la ragazza dai capelli multicolore agitarsi terrorizzata, come un pesciolino nella trappola. Quando notò il ragazzo s’immobilizzò di colpo.
Cassian estrasse un coltello, andandole incontro. La scena era quasi raccapricciante.
Shaileen che perdeva quell’espressione terrorizzata per assumere un atteggiamento di coraggio.
Sara, dall’alto del suo armadio, che vide in quella ragazza una determinazione senza pari, pronta anche alla morte.
Cassian, col coltello in aria, che la guardava, indeciso. Lui non voleva uccidere. Doveva, ma non voleva.
E poi, la lacrima. Una lacrima sola, trasmetteva rassegnazione alla morte, desiderio di vivere, rimpianto. E la lama di Cassian rimase sospesa in aria mezzo secondo di troppo.
Sara era rimasta tanto colpita da quella lacrima da decidere, così, su due piedi, che non era giusto. Rovesciando tutti gli scatoloni si gettò addosso a Cassian, facendolo precipitare a terra.
Neanche mezzo secondo dopo Cassian cercò di spingere via la piccola furia che, con un grido, lo aveva travolto.
Riuscì a liberarsi quei due secondi necessari a colpirla quando, sconvolto, comprese di aver perso il coltello. Si girò di scatto nella direzione in cui sarebbe dovuto cadere, ma fu inutile: il coltello ce lo aveva Sara. Con un colpo diretto glielo conficcò al collo.
Cassian prese ad annaspare disperato, muovendo sofferente le mani. Sara estrasse il coltello dalla carne della vittima, per conficcaglielo una seconda volta in pancia. Il colpo definitivo.
Un colpo di cannone. Cassian era morto.
Sara sospirò, ma rimase paralizzata.
Aveva ucciso.
Aveva ucciso un ragazzo. Davvero.
Poi guardò fisso Shaileen che fissava la scena ammutolita. Le si avvicinò e con il coltello tagliò via la rete.
Le due si guardarono per qualche secondo, entrambe stupite da quanto successo, entrambe annientate da un primo giorno infernale.
— Io sono Sara— si presentò la quindicenne del dodici. — Tu devi essere Shaileen.
L’altra annuì. Ora fissava Cassian.
— Meglio allontanarci.— disse. Le due si nascosero all’interno dell’ex-erboristeria. Dal nulla apparve un piccolo robot a forma di ragno, che agguantò tramite un braccio meccanico il corpo martoriato di Cassian, trascinandolo poi all’interno di un negozio. Pochi secondi dopo udirono l’hovercraft.
Rimasero in silenzio, l’una vicino all’altra, ancora sconvolte, ancora distrutte.
— Che ne è stato della tua alleata?— chiese Sara, d’improvviso.
— È morta del bagno di sangue. Tu invece? Non avevi nessuno?
— No, nessuno.— due secondi di pausa. Due secondi per riflettere. — Vuoi diventare tu la mia alleata?
No. No, a dire il vero no. Dopo la morte di Cassya, Shaileen non sarebbe riuscita a reggere un simile dispiacere due volte. Non avrebbe voluto affezionarsi tanto a qualcuno che comunque sarebbe morto.
D’altra parte vedeva in Sara una seconda chance. Non era riuscita a salvare Cassya, avrebbe protetto lei. Fino alla morte.
— Certo, alleate.— e nel momento in cui le due mani si strinsero tra loro dal soffitto precipitò a sorpresa un paracadute argentato. Shaileen lo raccolse, rigirandosi tra le mani la borraccia d’acqua.
— Devono essere i tuoi sponsor— disse Sara — se ti hanno già mandato qualcosa devono essere proprio tanti!
— Speriamo sia vero, intanto abbiamo dell’acqua.
Sara annuì vigorosamente, poi sembrò rifletterci.— Beh, abbiamo una borraccia, visto che, alla fin fine, l’acqua piove dal soffitto.
— Che intendi?
Sara le spiegò l’ingranaggio dello squarcio tra pavimento e soffitto, all’interno del quale scorre acqua non propriamente pulita, ma sempre potabile.
— Allora saremo a posto per un bel po’.
— Non proprio— disse però Sara.— Non abbiamo cibo.
 
Bryan aveva ispezionato tutto il primo e il secondo piano.
Cercava un posto sicuro dove riposare, quella notte: ormai il sole era calato, ma alcune luci sul soffitto rimanevano sempre accese.
Al secondo piano, però, vide finalmente qualcuno.
Forse, visto com’era andata quella giornata, se fosse stata una persona qualsiasi avrebbe rinunciato, ma era impossibile dimenticarsi la chioma color miele, la corporatura esile e il viso dolcissimo di Carol Todd.
Bryan era curioso. Semplicemente curioso.
Dopo quel che gli aveva detto Cassian sulla piccoletta del ’10, voleva davvero sapere qualcosa in più su di lei.
Certo, ormai sapeva che bisognava sempre diffidare: Carol era regina nella manipolazione.
Però, insomma, era magnetica. Bryan non riusciva ad ignorarlo.
Così le si avvicinò, incerto, indeciso su come comportarsi. Per un po’ la fissò da lontano, poi si avvicinò di più, sempre di più.
Quando ormai la stava scritando da una colonna lì a fianco, Carol lo notò.Una persona qualsiasi si sarebbe spaventata, forse, ma lei sapeva che per gestire al meglio la situazione non serviva impanicarsi, ma dimostrarsi affascinate. E Carol era molto, molto affascinante.
Così, racimolando quanta più calma poté, sorrise. Un sorriso dolce, dolcissimo, che sprizzava bontà. Chiunque sarebbe morto per un sorriso del genere.
Bryan vide quel visino incredibilmente dolce, quel sorriso così diverso dal suo, ma tanto seducente. Seducente in maniera differente, comunque: il suo era sensuale, sicuro, quello di Carol era sincero e amabile.
Bryan vide tutto questo e si domandò come potesse una persona all’apparenza così incredibilmente bella e dolce essere una perfida manipolatrice.
Lui sapeva che Carol era qualcuno da guardare con diffidenza, ma forse poteva scambiarci due parole. Non sarebbe potuto succedere niente, per un paio di parole.
— Ciao Bryan— lo salutò lei, per prima. — Ti va un pezzo di pane?
Così dicendo porse la pagnotta, procurata nella corsa dalla Cornucopia, e lo fece sempre quel sorriso così incredibilmente falso e al contempo tanto adorabilmente sincero, che Bryan non poté tirarsi indietro.
Le si avvicinò esitante, ripetendosi mentalmente a mo’ di mantra “ non farti manipolare, fa attenzione, non farti manipolare, fa attenzione”.
Prese la pagnotta tra le mani tirandone un morso. Era dura.
— Siediti, avanti— lo invitò Carol.
— Ti ho vista da lontano— rispose lui, sedendosi, prendendo in mano le redini del discorso. 
— E non mi hai voluto uccidere?— per un attimo Bryan fece silenzio, fissando il lampadario luminescente penzolare dal soffitto. 
— Per un momento sì. In realtà ti voglio ancora uccidere. Tu sei pericolosa.
Carol sollevò falsamente stupida un sopracciglio. Aveva visto lui e Cassian parlare all’addestramento, sapeva cosa si erano detti. Sapeva che lui sapeva.
— Che intendi dire?
— Sei una manipolatrice.— allora Carol scoppiò in una finta risata. Era però così falsamente spontanea, così allegra, contagiosa, che pensare a un inganno sarebbe risultato impossibile per chiunque. Anche per Bryan.
“No! No Bryan concentrati, lei vuole ingannarti.”
— Sono voci che girano per il distretto, sì! Deve avertene parlato Cassian. Non dico di essere una Santa, ma da qui a ritenermi una manipolatrice…tanti cuori infranti, però. Sai, brutte dicerie.
E lo disse in un tono così convincente, così sicuro, che Bryan dovette attingere a tutto il suo autocontrollo per non cascarci. Invece si ripeteva ancora, continuamente “non fidarti”.
La realtà era che Carol era una ragazza molto pericolosa. La verità era che Bryan avrebbe dovuto ucciderla.
Alla fin fine, però, Bryan non voleva ammazzarla. Voleva conoscerla. Conoscerla per quel che era.
Bryan era curioso: patologicamente curioso di Carol Todd.
La cosa davvero assurda è che se da una parte Bryan voleva restare con Carol, Carol voleva che Bryan restasse.
Lei sapeva di non essere eccessivamente forte. Certo, ce l’avrebbe potuta fare anche da sola, era abile nella lotta corpo a corpo e nel lancio dei coltelli, ma un alleato, qualcuno da manipolare perché facesse gran parte del lavoro, era praticamente indispensabile.
Lei da sola bastava a sopravvivere, con qualcun altro poteva vincere.
Così, pur non amando troppo l’idea – non era esattamente l’essere adorabile che mostrava di essere -, il fatto che Bryan potesse diventare suo alleato l’allettava. Correva semplicemente il rischio di affezionarcisi. Come sempre.
“Non ti ci affezionerai, Carol. Basta che presti attenzione”.
— Ehi Bryan, ho una proposta. Visto che mi ritieni pericolosa per qualsiasi avversario, perché non ci alleiamo? Potrei esserti d’aiuto.
Ci pensò su per una decina di secondi.
Normalmente avrebbe subito risposto “no”, per poi pugnalare la ragazzina prima di correre rischi concreti. Poi però ci riflettettè.In realtà non sarebbe stato un vero problema rapportarsi con Carol, ora che sapeva quanto pericolosa poteva essere. Al primo segnale d’incertezza avrebbe comunque potuto ucciderla. 
Sì, ce l’avrebbe fatta. Ce l’avrebbe fatta.
— Ci sto, alleati— disse quindi.
Si strinsero la mano, ma era una stretta di mano strana, particolare: una voleva dire “non mi farò manipolare”, l’altra “non mi affezionerò a te”. E ci credevano entrambi.
Improvvisamente iniziò a risuonare l’inno e dei monitor, sparsi per tutto il piano, si accesero.
Questi mostrarono le morti di quel giorno.
Ivy Moon, Distretto 1. Miranda si rigirò soddisfatta il coltello tra le mani.
Rhys Jones, Distretto 5. Eleuthera ricordò rammaricata il fratello della sua amica.
Liach Murhall, Distretto 8. Theia pensò al velocissimo ragazzo dell’addestramento.
Jude Wright, Distretto 9. Elaine s’accarezzò dispiaciuta la ferita al braccio.
Cassian Brownleaf, Distretto 10. Carol fissò stupita il volto del suo compagno di Distretto.
Cassya Reigo, Distretto 11. Shaileen sentì una morsa al petto.
Gore Mason, Distretto 12. Sara sospirò rassegnata alla perdita di un valido combattente.
I monitor riferirono la morte di sette tributi, sette ragazzi, sette validissimi giocatori. E qualcuno pianse, per loro. Qualcuno piange ancora, per loro.
 
Bryan non riusciva ad addormentarsi. Guardava sconsolato una falena librarsi in aria. 
Vicino a lui Carol stava riposando, accucciata nell’impolverato sacco a pelo che Bryan le aveva gentilmente concesso.
Improvvisamente sentì un rumore. Come un sasso calciato casualmente contro il muro.
Si sollevò di scatto a sedere, guardando fisso il buio.
Vedeva chiaramente una sagoma mimetizzarsi nell’ombra, ma non riusciva a distinguere bene i contorni.
— Chi sei?— chiese, afferrando il coltello.
La sagoma fece due passi avanti, fin sotto la luce. Aveva lunghi capelli castani raccolti in una treccia, due occhi tra il verde e il grigio e un pugnale tra le mani. Bryan si rilassò di colpo.
— Elaine.
La ragazza aveva uno sguardo seccato e rammaricato che Bryan non riusciva a spiegarsi.
— Ciao Bryan.
— Che ci fai qui?— Elaine fissò Carol dormire. Due occhi dispiaciuti, un po’ stizziti.
— Ti cercavo. Volevo proporti un’alleanza, ma vedo che sono arrivata tardi— Elaine e Bryan erano stati compagni di distretto. Non si poteva certo dire che si conoscessero, ma durante il viaggio in treno e in tanti giorni d’addestramento Elaine aveva imparato ad apprezzare Bryan come tributo, ma soprattutto come uomo. Avrebbe voluto battersi con lui. Aveva imparato a vedere in Bryan un ragazzo fantastico, un degno vincitore.
Ci si era quasi affezionata.
— Già…
— Non farlo. Vieni con me. Mi conosci, sai che non ti tradirei, sai che voglio davvero averti come alleato. Lei ti farà del male.
— Come fai a dire questo?
— Ho sentito Cassian. So che Carol non è ciò che sembra. Ti manipolerà.— Bryan sbuffò seccato.
— Non essere sciocca! So difendermi da solo. Posso riuscire a resistere benissimo, devo solo prestare molta attenzione e mettere in dubbio tutto quello che dice. Non mi manipolerà mai.
Elaine spalancò un secondo la bocca, fissando scocciata Carol, dispiaciuta Bryan.
— Ma non lo vedi?— chiese nel tono più sinceramente convincente che le uscisse— Ti sta già manipolando.
— Cosa?
— Ti ha costretto ad allearti con lei.
Bryan scoppiò a ridere piano, quasi nervoso. 
— Mi sono alleato con lei perché era quello che volevo.— Volevi davvero? Quando l’hai vista, volevi allearti?— Bryan stette due secondi fermo, come impietrito. Lo sguardo gli cadde sulla piccola Carol, così dolce, così letale.
Improvvisamente un moto di rabbia lo invase, rabbia non scaricabile sulla piccoletta, ma facilmente indirizzabile verso Elaine.
Afferrò il coltello, rivolgendolo falsamente provocatorio verso la ragazza.
— Vattene Elaine, o non sarò pietoso nemmeno con te.
La ragazza guardò rattristita la scena, poi si voltò, sinceramente dispiaciuta. Prima di immergersi nelle tenebre sussurrò, triste: “meriti di meglio, ma se tu sei contento così, felici Hunger Games, Bryan”.
E così scomparve, nel buio.
Carol, socchiudendo leggermente gli occhi, sorrise.
 
Yvonne aveva assistito interessata al discorso.
In realtà a lei Elaine piaceva: ne apprezzava il carattere solare e l’umanità dimostrata nell’intervista. La dolcezza coi bimbi dell’orfanotrofio, le abilità in campo.
Sì, a Yvonne una come Elaine piaceva proprio.
Con un sospiro si allontanò, sapendo bene che, comunque, non avrebbe avuto modo di allearsi con lei. D’altra parte nemmeno la conosceva davvero: cosa le assicurava che non sarebbe stata tradita?
Con un’agilità che solo le arti marziali possono conferire, Yvonne camminò in bilico su per una pertica del soffitto, allontanandosi vagamente rattristita, con lo zainetto in spalla e una borsetta piena di biscotti a tracolla.
Aveva con se anche dei cerotti, alcune gallette, una mela, del calzini, una fionda e un po’ d’acqua. Niente di troppo utile, nulla che volesse snobbare.
S’allontanò quindi con la testa piena di domande, senza percepire lo sguardo spaventato di un’altra persona.
Eleuthera se ne stava rannicchiata sotto degli scatoloni, poco distante da alcuni ratti, attratti dal pane che stava mangiucchiando.
Non aveva trovato altro che uno zainetto con gli attrezzi da lavoro, ma alcuni sponsor caritatevoli le avevano mandato abbastanza soldi da permettere a Roxar, la sua mentore, di inviarle del cibo.
Dei panini al prosciutto e una cesta con banane, pesche e mele: quelle che preferiva.
Era sopravvissuta al primo giorno, fortunatamente, ma la sfida era appena cominciata.
Ancora sedici concorrenti da battere. Ancora sedici possibilità di essere uccisa.
  



 

Capitolo sei, Trappole.
 

 

Luke si alzò di buon ora, infastidito dal respiro pesante del suo nuovo alleato. Non era abituato a sentire una presenza costante sempre al suo fianco, lui che era sempre stato solo. Mentre valutava se uccidere il ragazzo nel sonno o se sfruttarlo ancora per un po', Sam spalancò gli occhi ed estrasse l'ascia, sentendosi osservato. Riuscì a calmarsi solamente quando vide Luke in piedi davanti a lui, colto alla sprovvista dalla sua reazione. Sospirò e ripose l'arma, passandosi una mano sugli occhi.

-Che ore sono?-domandò, mettendosi seduto. Luke fece una smorfia ed alzò un sopracciglio. -Ti sembra che io abbia scritto in faccia la parola orologio?-
-E ti sembra che io abbia scritto in faccia "idiota patentato"?- rispose Sam, con rabbia. Il suo nuovo alleato sembrò non capire, e si limitò a fissarlo con la sua solita aria di superiorità. -Come se non mi fossi accorto che stavi cercando di uccidermi- spiegò, alzando gli occhi al cielo.
Luke sorrise sprezzante, colpito dall'acume di Sam. -Forse non sei così stupido come pensavo, ragazzino- disse, sfiorandosi la bruciatura per controllarne le condizioni. Una profonda ed estesa striatura rossa aveva sostituito la sua pelle altrimenti liscia e pallida. Fu subito costretto a ritrarre la mano, perché il solo contatto gli procurava molto dolore.
-Sam, mi chiamo Sam-lo corresse il ragazzo, infastidito da quello stupido appellativo affibiatogli da Luke. L'altro alzò le spalle, senza prestargli troppa attenzione.
-Si, certo. Come vuoi, ragazzino- disse con un gesto di noncuranza. Sam strinse i pugni, ma si astenne dal rispondergli a tono per non irritarsi ulteriormente. -In ogni caso, direi di lasciare questo stupido piano e salire al prossimo livello, dato che non abbiamo provviste e qui sembra esserci solo polvere di carbone- disse invece, indicando le scale poco distanti. Luke annuì e fece strada, e Sam si affrettò a seguirlo, cercando di ignorare il dolore alle caviglie ferite e malamente fasciate.
Però, a circa metà della scalinata, inciampò in una delle radici che erano comparse misteriosamente e sentì che non sarebbe riuscito a rialzarsi. Grugnì rumorosamente, e il suo lamento fece voltare Luke, che aveva già il suo bel daffare con la sua ferita.
-Che c'è adesso?-ruggì il ragazzo, voltandosi di scatto e toccandosi il fianco che sembrava urlare di dolore. -Senti, è colpa tua se sto così, ti ricordo che mi hai quasi tagliato i tendini- rispose Sam sbuffando. -Aiutami- ordinò, tendendo una mano verso Luke, il quale arricciò il naso. -E io cosa ci guadagno?- domandò, incrociando le braccia sul petto.
Ovvio,pensò Sam, uno come lui non fa mai niente per niente.
-Se troveremo delle erbe sarò in grado di curare le ferite di entrambi-propose, cercando di mostrare una calma che non possedeva. Luke sorrise, contento di aver soddisfatto il proprio tornaconto. -Muoviamoci, allora- disse, stringendogli la mano e preparandosi a sorreggerlo per il resto della salita.
 
I due ragazzi raggiunsero il secondo livello circa dieci minuti dopo, sotto lo sguardo attento di Alwyn, che imprecò sottovoce. Aveva dormito su un albero, ma era stato svegliato da una voce maschile, che si lamentava del peso di quello che sembrava il suo alleato. Il tributo del distretto undici strinse i denti e iniziò a volare da un ramo all'altro, cercando di essere il più silenzioso possibile. La ferita alla gamba gli doleva molto, ma sapeva benissimo che non sarebbe stato in grado di affrontare quei due ragazzi, nonostante non sembrassero nel pieno delle forze.
Così li vide con la coda dell'occhio gettarsi a terra accanto a dei cespugli di bacche e erbe curative, e avanzò imperterrito finché le loro voci non scomparvero del tutto. Si infilò nel primo negozio che gli capitò a tiro e, senza preoccuparsi di esplorarlo, afferrò un sacchetto di stoffa mezzo mangiato dai topi e uscì rapidamente, temendo di incrociare qualche altro avversario. Strappò qualche foglia che conosceva e sapeva avrebbe potuto tornargli utile e raccolse qualche frutto, cercando di sbrigarsi. Mise la borsa a tracolla e riprese la sua corsa verso il piano superiore, attento a non ledere la gamba ferita compiendo movimenti troppo ampi o bruschi.
Una volta raggiunto il terzo livello, però, capì che non era affatto un posto in cui avrebbe potuto guarire in pace. A parte i numerosi bovini ancora per poco dormienti, scorse anche le tracce del passaggio di diversi tributi, e notò che c'erano decisamente pochi posti per nascondersi. Inoltre non c'erano alberi, ma solo qualche cespuglio quà e là. Così il ragazzo sospirò e, cercando di fare meno rumore possibile, iniziò a farsi strada tra tutti quegli animali dall'aspetto feroce. Dopo circa un'ora di slalom tra essi riuscì a raggiungere la base di una nuova scalinata e salì i gradini cercando di mantenere la calma, nonostante fosse terrorizzato dalle insidie degli strateghi.
Che cosa gli avrebbe riservato il quarto livello?
 
Tre ore. Alwyn vagava senza sosta da tre ore, cercando di andarsene da quel maledetto labirinto. Eppure, ogni volta che gli sembrava di essere vicino all'uscita, un nuovo altissimo muro di frumento si ergeva davanti a lui, costringendolo a fare marcia indietro.
Gli pareva di essere ormai prossimo alla pazzia, quando udì dei passi pensanti dietro di lui. Dovette aspettare ancora qualche secondo, per avere la conferma di non averli sognati e, nel silenzio assordante, li udì nuovamente.
Il cuore di Alwyn fece una capriola perchè, anche se il nuovo arrivato lo avesse  attaccato, avrebbe almeno avuto la certezza che tutto ciò era reale e non era in realtà frutto di uno spiacevole incubo. Trattenne il fiato e sguainò il coltello, per evitare di farsi cogliere impreparato. Ma, nonostante la sua accortezza, niente avrebbe potuto prepararlo allo spettacolo agghiacciante che prese vita davanti ai suoi occhi.
Un gigantesco mostro dalle grandi corna girò l'angolo, fiutando l'aria: era un minotauro dagli occhi rossi come il sangue, che lo guardavano chiedendo morte.
Alwyn si lasciò sfuggire un urlo di terrore, e rimase incollato al suolo, incapace di muoversi. Però, non appena vide il mostro avanzare nella sua direzione, capì che doveva scappare se non voleva essere fatto a brandelli. Così le sue gambe scattarono verso l'ignoto, incoraggiate dal ruggito disumano della bestia. Il ragazzo, pur essendo ferito, riusciva a correre mosso dal terrore ma, in compenso, non sapeva dove stesse andando. Come se non bastasse, il taglio sulla gamba si era riaperto nel momento meno oppurtuno. Alwyn imprecò, sentendo le zampe taurine del minotauro farsi sempre più vicine. Improvvisamente scartò di lato, gettandosi in una delle tante pareti di frumento. Sperava che, così facendo, il mostro avrebbe perso le sue tracce e lo avrebbe lasciato vivere.
Ma le sue speranze si rivelarono mal riposte: quelle spighe immense lo ostacolavano, e gli frustavano i viso e le braccia ad ogni passo. Inoltre, grazie alla sua mole il mostro stava letteralmente abbattendo tutti quegli ostacoli, guadagnando terreno. Alwyn capì di essere spacciato quando un respiro caldo e umido gli accarezzò il collo, e sentì il morso di un paio di enormi fauci andare a vuoto ad un niente dalla sua testa. Stava per arrendersi e lasciarsi cadere a terra, quando intravide un corridoio libero dalle spighe, e subito vi si fiondò. Ironia della sorte, si trovò davanti un Kylar ancora mezzo intontito, che era stato svegliato dai ruggiti della bestia. Il ragazzo spalancò gli occhi e iniziò a correre verso l'uscita senza preoccuparsi di raccogliere le sue poche cose. Aveva solo qualche metro di vantaggio su Alwyn, il quale, non appena ebbe intuito che Kylar conosceva la strada, lo seguì arrancando, con il mostro ormai vicinissimo a lui.
Nel momento in cui scorse le scale che portavano al piano superiore, l'istinto di sopravvivenza agì al posto suo, facendolo correre ad una velocità che non avrebbe mai nemmeno sperato di poter raggiungere. Superò Kylar in poche falcate, cercando di ignorare la ferita che ruggiva di dolore, e arrivò al primo gradino una manciata di secondi prima della sua "guida", che ora cercava disperatamente di salvarsi la pelle.
Di nuovo, l'istinto di Alwyn agì per lui. Alzò il braccio destro, che non aveva mai lasciato il coltello da lancio, e mirò all'addome di Kylar sperando che la sua morte avrebbe distratto il minotauro.
E, per una volta, il ragazzo del distretto undici ebbe ragione sul fato. La lama si conficcò in profondità nel petto di Kylar, che cadde in ginocchio sputando sangue.
Il cannone sparò all'improvviso, e ad Alwyn sembrò che il tempo si fosse fermato.
Guardò con orrore il mostro fiondarsi sul ragazzo, e gli parve che sul volto dalle fattezze animalesche fosse dipinta una smorfia di soddisfazione. Spalancò le fauci e, con uno strattone, staccò la testa al ragazzo. Il mostro si accanì su ciò che rimaneva del suo corpo mutilato e gli azzannò il petto, con rabbia. Il suo muso grondava di sangue e gli occhi sembravano ardere di una primitiva gioia, derivata dalla morte del giovane.
In pochi assalti il mostro aveva ridotto il corpo della sua vittima a brandelli e, alla vista della carne viva tra le zanne della creatura, Alwyn si riscosse e iniziò a salire con foga le scale, sperando che quel mostro si occupasse solo del terzo livello.
 
Si buttò a terra non appena mise piede al piano successivo. Sentiva le forze venirgli meno, e il sangue viscoso colava copioso sulla sua gamba. Riuscì ad avvicinarsi ad un muro e si tirò su aggrappandosi ad uno strano drappo che pendeva dal soffitto e, in pochi istanti, fu in piedi. Sapeva benissimo di non poter rimanere così allo scoperto: doveva assolutamente trovare un riparo se non voleva essere attaccato. Così si passò una mano sul volto detergendosi il sudore e alzò la testa, per riuscire a vedere meglio il quarto piano. Non appena vide tutta quella ricchezza, Alwyn pensò di essere impazzito, oppure di stare sognando.
Non sembrava affatto un'arena, e quel piano era così diverso dagli altri che sembrava appartenere ad un altro mondo: drappi rossi e rosa pendevano dal soffitto, e accarezzavano le spalle del ragazzo ad ogni passo. Il muro era immacolato, ricoperto da una carta da parati che sembrava quasi stoffa, e gli stessi negozi non trasudavano più il senso di abbandono che il ragazzo aveva già avuto modo di vedere. Le finestre che davano sull'esterno e i monitor che trasmettevano le comunicazioni di Capitol City erano coperti da tende di velluto rosso, e la luce che riusciva a filtrare appariva rossastra e inquietante. Ma la cosa più incredibile era il pavimento: interamente ricoperto da una passiera rosso sangue, decorata con splendidi arabeschi dorati. Alwy dimenticò per un attimo la stanchezza e il dolore, e iniziò a camminare su quel maestoso tappeto. Davanti a lui si srotolavano figure dorate, raffiguranti la morte in ogni sua forma. Cavalieri in battaglia feriti da spade o lance, degli uomini che lottavano brandendo dei coltelli, altri con dei lacci per strangolare, altri ancora giacevano agonizzanti nei propri letti. Erano realizzati in modo così accurato che Alwyn poteva quasi vedere il sudore imperlare la fronte dei soggetti, e fiutarne la paura. Si inginocchió difronte a quello che sembrava un plotone d'esecuzione e sfiorò con le dita i soldati in procinto di sparare, affascinato.
Si accorse della trappola solamente perché al primo piano era caduto in un tranello simile, che gli aveva provocato la ferita alla gamba. Si appiattì contro il pavimento, coprendosi il volto con le mani, prima che una pioggia di aghi da cucito di abbattesse sul lato sinistro del suo corpo.
 
Miranda sedeva a gambe incrociate e fissava il vuoto davanti a se, maneggiando con noncuranza i suoi coltelli. Alzò il braccio di scatto e iniziò a tirarli contro il legno di un albero, facendoli conficcare tutti con precisione nella corteccia. Gaison la fissava interessato, stradiato a terra supino. -Per caso ti annoi?- domandò retoricamente, rotolandosi sul pavimento per riuscire a guardarla negli occhi.
Lei ridacchiò, preparando dei nuovi coltelli in fila davanti a sé. -Scommettiamo che prendo quella foglia che cade?- chiese, indicando una foglia marroncina che si era appena staccata dal ramo. Gaison annuì, e iniziò a tenere d'occhio il percorso dell'oggetto della loro scommessa. Miranda attese ancora qualche secondo, dopodiché mirò alla foglia e la arpionò al tronco, sorridendo sprezzante all'indirizzo del ragazzo.
Lui le fece la linguaccia, fingendosi offeso. -Scommettiamo che non riesci a colpirmi?- ritentò, balzando in piedi. Lei si alzò lentamente, afferrando uno dei suoi coltelli più affilati. -Se perdi mi dai il pugnale, e non ti metti a piangere se ti colpisco- disse, con una serietà incredibile. Gaison sorrise-hai una così scarsa considerazione di me? Comunque se non mi colpisci mi ridai il coltello che hai vinto l'ultima volta- rispose, aggiustandosi i capelli con una mano. Miranda sorrise, mostrandosi d'accordo. Fece scattare la mano in un attimo, e il pugnale volò in direzione del cuore di Gaison. Lui estrasse la spada, pronto a deviarne la traiettoria con un semplice tondo.
Però, quando l'arma fu a pochi metri dal ragazzo, un nuovo coltello spuntò dal nulla, intercettando la lama. Gaison e Miranda fecero una smorfia, abbassando le armi.
-Larev, perché devi sempre rovinare tutto?-disse la ragazza delusa, voltandosi in direzione del loro alleato. Lui la fulminò con lo sguardo e spostò la sua attenzione su Gaison, sperando di trovare in lui l'immagine di una persona seria. Il ragazzo, però, lo guardò con occhio critico e incrociò le braccia, cercando di farlo sentire in colpa.
Larev alzò gli occhi al cielo, andando a recuperare il suo coltello e quello di Miranda. Lo lanciò nella sua direzione e lei lo afferrò senza difficoltà per il manico, riponendolo nella cintura. -Andiamo ad esplorare piano superiore, così la smettete di cercare di uccidervi- disse, raccogliendo dalla cornucopia delle armi che avrebbero potuto tornargli utili. I due ragazzi annuirono, e si prepararono a loro volta a lasciare la "base" portando con sé le loro poche provviste. Prima di iniziare a salire le scale, Gaison si voltò verso la compagna, tendendole una mano. -Non mi hai colpito- la canzonò, sfoderando un larghissimo sorriso. Lei lo guardò di sottecchi, bofonchiando qualcosa che il ragazzo non riuscì a capire, ma poi gli allungò il coltello controvoglia.
 
Quando i favoriti raggiunsero il primo livello, si stupirono del fatto che il buio regnava sovrano. Procedettero a tentoni, finché Larev non trovò una fiaccola e la staccò dal sostegno, che fece uno strano rumore. Gaison si voltò di scatto, preoccupato per il sonoro "click" che aveva emesso quello strano anello di ferro. Miranda guardò in alto, attirata da un'insolito fruscio proveniente dal condotto dell'aria.
Una strana nebbia densa e grigia iniziò a fuoriuscire dalla grata posta esattamente sopra di loro, e li avvolse rapidamente. -È gas!- urlò la ragazza, non appena riuscì ad avvertire l'odore della sostanza. Gli occhi di Larev si fecero grandi di paura, e rimane incollato al suolo con la fiaccola stretta nella mano destra. Gaison, invece, fu più rapido.
Afferrò Miranda per un braccio e iniziò a correre. Poi, quando ebbe percorso una decina di metri, si voltò verso Larev, che non aveva avuto la prontezza di seguirli. La ragazza riuscì nuovamente ad articolare i pensieri, nonostante l'odore del gas le avesse annebbiato la mente. -Butta la fiaccola!- gridò con tutto il fiato che aveva in corpo, tendendo una mano in direzione di Larev. Lui sembrò svegliarsi da un lungo sonno e finalmente scosse la testa, rendendosi conto che il pericolo non era solamente il gas.
-Muoviti o saltiamo tutti in aria!- aggiunse Gaison, dando voce ai suoi timori. Larev la gettò verso le scale e si buttò a terra tappandosi le orecchie con le mani, imitato dai suoi alleati.
Ci fu un esplosione.
Un esplosione forte, che fece tremare il pavimento e crollare parte del controsoffitto addosso ai ragazzi, i quali tremarono per il contraccolpo. Sentirono una scossa percorregli tutto il corpo, e seguì un boato che per poco non li assordò.
La prima a riemergere dalla polvere fu Miranda, che si tolse lentamente dei frammenti di intonaco dai capelli, scossa. Si mise a sedere tossendo e pulendosi la faccia con la manica della tuta. Allungò una mano in direzione di Gaison afferrandolo per una spalla e, quando lo sentì respirare sotto la sua stretta, tirò un sospiro di sollievo.
Lo scosse con entrambe le braccia, e fu addirittura costretta a tirargli uno schiaffo per fargli aprire gli occhi. Il ragazzo girò la testa di lato e parve incapace di riprendere a respirare, tanto che Miranda dovette aiutarlo a mettersi seduto e gli allungò la borraccia con l'acqua. Quando Gaison fu in grado di bere da solo, la ragazza si alzò barcollando per andare in cerca di Larev, che però la anticipò venendole incontro. Camminava a fatica e doveva appoggiarsi al muro per non cadere, ma se non altro era vivo. Miranda si abbandonò nuovamente a terra, prendendosi la testa tra le mani. Larev le appoggiò una mano sulla spalla cercando di consolarla, ma riuscì soltanto a farla rabbrividire. Sospirò e raggiunse Gaison, che adesso sembrava più lucido.
-Gaison, mi senti?- domandò, sperando che non fosse diventato sordo. Il ragazzo annuì, ricominciando a tracannare l'acqua dalla borraccia. -Miranda?-
La ragazza alzò la testa timidamente, asciugandosi le lacrime. -Tutto bene- rispose con voce tremante. -Perfetto, allora dai un'occhiata al mio orecchio- disse, cercando di nascondere la paura e indicando l'orecchio destro. Non appena Miranda vide il sangue trasalì, ma si affrettò a recuperare garze e erbe che aveva trovato nella farmacia dalla sua borsa di canapa.
 
-Credo che sia una perdita d'udito momentanea-disse quando ebbe finito di fasciare e disinfettare l'orecchio di Larev. -Dall'altro ci senti?- domandò preoccupato Gaison, sporgendosi da dietro le spalle della ragazza.
Il ragazzo del distretto uno lo fulminò nuovamente con lo sguardo, inarcando un sopracciglio. -No, sto rispondendo a caso alle vostre domande da mezz'ora- disse, con la voce grondante di sarcasmo. Miranda tossì soffocando una risata e Gaison si unì a lei, sotto lo sguardo severo di Larev che li ignorò deliberatamente.
-Dobbiamo andarcene, e direi che sotto non possiamo tornare- osservò, indicando la scala bloccata dai detriti alle sue spalle. Gaison si avvicinò alla frana, e riuscì a trovare una fenditura stretta e scomoda, ma dalla quale avrebbero potuto  passare. -Un modo ci sarebbe, ma credo sia inutile scendere alla cornucopia- rispose, ritrovando la serietà.
-Allora andiamocene, qui non mi piace per niente.-
I due ragazzi si voltarono verso Miranda, che non sembrava essersi rispresa del tutto dall'esplosione. Larev le tese una mano, aiutandola ad alzarsi.
-Ha ragione lei, andiamo via prima che questo posto ci uccida.- 



Capitolo sette, regno legnoso.
 

Emma si era trascinata faticosamente nel negozietto di alimentari.
Per sfuggire al labirinto aveva dovuto tentare la pericolosissima esperienza di buttarsi nel getto d’acqua, finendo però con l’essere trascinata fin sopra la cornucopia, contro cui aveva sbattuto prepotentemente il bacino.
Per un paio di minuti credette di morire. Le sembrava d’aver smesso di respirare, come se la caduta le avesse sfracellato i polmoni. Con fatica aveva ripreso a muoversi regolarmente, non fosse per il terribile dolore al bacino: qualche costola ro tta ce l’aveva di sicuro.
Ora se ne stava lì, rintanata nell’alimentare, sotto un tubo gocciolante. Doveva bendarsi.
Trascinandosi a fatica riuscì a ispezionare ogni singolo armadio del negozio. Per lo più vi trovò conserve ammuffite. In uno degli ultimi, però, c’erano dei vestiti che, con un sospiro sollevato, riuscì a strappare e a legarsi stretti stretti intorno al bacino.
Non si trattava certo di un gran prodigio medico, ma meglio che niente.
Dovendo riprendere le forze si nascose sotto il banco degli alimentari e lì s’addormentò, così, esausta.
Venne svegliata quando percepì l’esplosione proveniente dal piano superiore. Fece un tal baccano da mandarle il cuore in gola.
Avrebbe voluto allontanarsi, ma era troppo stanca, anche se il dolore sembrava essere fortunatamente diminuito. Così Emma rimase lì, sotto quel bancone, senza né acqua né cibo.

Yvonne invece sembrava stare bene.
Dopo aver assistito la sera prima al litigio tra Bryan ed Elaine, aveva inconsciamente seguito le orme della ragazza. Elaine aveva trovato in un negozio di dolciumi alcune caramelle e in una macelleria della carne ancora incredibilmente conservata da una cella frigorifera.
Quell’anno gli Strateghi non sembravano voler morti di fame, preferendo incentrare la loro edizione sull’assassinio nudo e crudo dei tributi.
Da una parte Yvonne ne era sollevata, dall’altra spaventata.
Così, mentre Elaine raccoglieva della carne nella cella frigorifera, Yvonne aspettava pazientemente che arrivasse il suo turno.
D’un tratto sentì il debole squittio di alcuni topi. Prima sembrava un lontano ronzio di sottofondo, poi si fece sempre più vicino, sempre più insistente.
Improvvisamente nella macelleria iniziarono a entrare alcuni ratti, grandi, enormi, passando dalle vetrate e dalle fessure nelle pareti, e diventarono sempre di più, sempre di più! Come un fiume grigio scorsero all’interno del negozio, verso la ragazza, che, spaventata, gridò.
E fu un grido talmente agghiacciante, talmente acuto, che Elaine non poté fare a meno di sentirlo.
Sollevò di colpo il capo aspettandosi il peggio, quando vide correrle incontro una ragazza apparentemente disarmata, inseguita da una mandria di ratti feroci, gettarsi nella cella frigorifera e serrarsi dietro la porta blindata.
All’inizio ci furono solo secondi colmi di silenzio, dove Elaine fissava scioccata Yvonne, mentre da fuori proveniva il costante rosicchiare di topi mutanti.
Improvvisamente la temperatura, già bassa di per sé, calò.
Ora si guardarono seriamente.
Elaine estrasse un coltellino, fissandola battagliera, e Yvonne, comprendendone le intenzioni, fece appena in tempo a sussurrare un debole “no” che si ritrovò a scansare il primo affondo.
— Aspetta— disse, ma Elaine non le diede ascolto, tentando nuovamente di colpirla.
Yvonne fece un salto ai limiti del possibile, roteando in aria e atterrando dietro Elaine, che però non si fece ingannare, e, voltandosi prontamente, tentò un nuovo affondo.
A vuoto.
Questa volta ci mancò realmente un soffio. Yvonne allora decise di passare al contrattacco, mirando alle gambe, ma Elaine riuscì a saltare appena in tempo.
Yvonne si alzò di slancio, prendendone un braccio e bloccandoglielo attorno al collo, quasi a strozzarla, ma Elaine era più forte e, con una gomitata, le prese lo stomaco.
Yvonne allentò la presa quel poco che bastava ad Elaine per liberarsi, ma quando questa tentò un nuovo attacco si beccò un calcio perfettamente assestato contro al fianco sinistro e cadde a terra.
Yvonne stava per colpirla con un pugno dritto in faccia, quando Elaine scansò di poco la testa sollevando rapida una gamba in un calcio che prese solo in parte lo stomaco dell’avversaria. Per quanto Elaine fosse più forte di Yvonne e altrettanto veloce, le mosse della ragazza erano più tecnicamente precise. Se n’era resa conto.
In più sembrava che la temperatura calasse di secondo in secondo, tanto che le manovre delle combattenti divennero sempre più rigide e lente.
Quando Elaine si ritrovò con la schiena contro il portone tentò di aprire la serratura, che, incredibilmente, sembrava essersi bloccata.
Allora s’irrigidì.
Yvonne vide sul volto della ragazza un’espressione talmente terrorizzata che non poteva avere nulla a che fare con il combattimento.
— È bloccato…— la sentì sussurrare.
Yvonne spalancò la bocca e, avvicinandosi alla ragazza, prese a battere prepotentemente contro il portone invocando aiuto, spaventata dal gelo crescente. Nessuna delle due si sentiva sicura al fianco dell’altra, ma condividevano lo stesso viscerale terrore di morire per ipotermia.
— Là! Guarda!— disse a un tratto Yvonne, indicando un antico condotto d’areazione che, probabilmente, produceva aria gelida.
Entrambe ci si fiondarono sopra, poi Elaine, con il coltellino, ne svitò le viti.
— E ora?— fece Yvonne.
Elaine teneva ancora tra le mani il coltello, indecisa: da una parte si sentiva quasi tentata di scappare con lei, era lo sguardo di Yvonne, la sicurezza che aveva nel non volerla uccidere in quel determinato momento, come se la ragazza non avesse mai avuto intenzione di attaccarla, come se volesse altro da lei. D’altra parte credeva che fosse meglio ammazzarla subito.
Era un avversario temibile e chissà come avrebbe potuto attaccarla non appena le avesse voltato le spalle.
Yvonne, comprendendone i pensieri, sospirò seccata.
— Senti— disse spiccia— tu non mi conosci, ma io conosco te. E siccome ci tengo ad uscire viva da qui è meglio se chiariamo subito. Sono Yvonne Komova, vengo dal Distretto 4. Non ho mai avuto una vita facile, io. Ho lavorato per proteggere mio nonno e, come avrai capito, ho imparato le arti marziali. Per qualche strano e malato caso del destino mi sono ritrovata a combattere in una cella frigorifera contro l’unico tributo dell’intera edizione degli Hunger Games che io apprezzassi e stimassi. Ti ho vista allenarti e mi sei subito sembrata fortissima, ogni parola che sentivo uscire dalla tua bocca era pregna di simpatia e vivacità. L’intervista non ha fatto altro che accrescere la mia stima nei tuoi confronti con quella storia del volontariato. Quindi, adesso che sai chi sono e cosa penso di te, decidi: mi vuoi morta subito o preferisci discuterne fuori da qui?
Elaine, stupita dal discorso veloce ma sicuro di Yvonne, si decise: rinfoderò il coltello e, avvicinandosi alla bocca del condotto, ci si chinò sopra.
— Usciamo di qui.
— Vuoi passare per là dentro? Non sappiamo nemmeno se c’è una via d’uscita. Probabilmente terminerà con una ventola che soffia aria gelida.
— Dobbiamo almeno provarci. Io vado avanti, tu seguimi.
Con queste parole Elaine prese a gattonare nel condotto.
Era fortunatamente abbastanza largo da permettere di muoversi liberamente, ma il freddo divenne tanto pungente da rendere faticoso ogni singolo passo.
Elaine e Yvonne si mossero caute e tremanti per il condotto, quando videro la ventola al termine della via.
Elaine stava proprio per proporre di tornare indietro, quando notò sotto di sé una seconda bocca d’areazione dare sul bancone di un negozietto al primo livello.
Con il coltello fece pressione per liberare il condotto, ma le sue mani erano talmente congelate da non riuscire a muoversi liberamente. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto lasciò cadere frustata l’arma.
Incredibilmente questa venne raccolta da Yvonne, che continuò il lavoro lasciando una stupita Elaine ad assistere. Finalmente l’ennesimo tentativo andò a segno e le due ragazze poterono calarsi tra polvere e carbone.
La prima a scendere fu Yvonne, che prese a tossire per il troppo sporco, poi toccò a Elaine che si tirò immediatamente su soddisfatta con un sorriso incoraggiante a illuminarle il viso.— Ce l’abbiamo fatta!— esultò portando entrambe le mani al cielo. Poi rise per la faccia nera di fuliggine che Yvonne non si era nemmeno accorta di avere.
— Allora, che ne dici?— fece lei.— continuiamo ora il combattimento o la finiamo qui?
Elaine, per tutta risposta, le porse un fazzoletto.


— E se poi i favoriti se la sono portata via, questa tua ascia?
— Allora torniamo indietro. Rilassati.
Carol non era rilassata. Avrebbe preferito tenersi a debita distanza dal regno dei favoriti. Invece Bryan insisteva per recuperare l’ascia della Cornucopia, in mano ai nemici.
La paura rendeva Carol ansiosa, e l’ansia portava a risposte acide molto poco adatte al suo ruolo nella recita. Quando succedeva che al continuo farneticare di Bryan, la ragazza rispondesse stizzita e inacidita, lui sorrideva sempre. In genere apprezzava quando Carol si scoperchiava un po’ e se la ragazza era disposta a lasciar trasparire una parte di sé, ne era solo che felice.
Avevano passato insieme l’intera giornata girovagando per il secondo livello, indecisi se scendere o tentare la salita, quando poi Bryan aveva ricordato l’incredibile arma della Cornucopia.
Ed ora eccoli lì, sulle scale, a pochi metri dall’inferno.
Quando videro che effettivamente non c’era nessuno, Carol si rilassò visivamente e iniziò a scendere più tranquilla la scalinata.
— Che strano però— disse Bryan — com’è che i favoriti non ci sono?
— Avranno nascosto le armi da qualche parte.— rispose Carol— magari hanno fatto scattare loro l’esplosione di prima. Magari è morto qualcuno.
— Non ho sentito colpi di cannone.
— Ovviamente, con tutto il frastuono che c’è stato!
Bryan scosse le spalle. Lui non temeva i favoriti. Era sempre stato un valido combattente, uno di quelli che poteva uscirci davvero, dall’inferno degli Hunger Games.
Iniziarono a perlustrare i vari negozi. Una farmacia, un negozio di vestiti, uno di scarpe, un paio di profumerie.
Alla fine fu Carol a trovare tra i libri di una biblioteca le cianfrusaglie abbandonate dai favoriti. L’ascia, una katana, l’arco, due sacchi a pelo e un paio di borracce. Tutte cose inutili, per loro.
— Chissà perché si sono portati via tutto quanto…— sussurrò Bryan.
— Magari non hanno trovato molto alla Cornucopia.— rispose Carol — e si sono portati dietro le provviste. Un vero peccato, speravo di trovarle. A noi non resta molto da mangiare.
Bryan propose di cercare nei negozi qualcosa da mettere sotto i denti. Iniziarono a ispezionare una piccola rosticceria – perché in quel centro commerciale c’era davvero di tutto – per poi proseguire con il controllo di una pasticceria. Gli unici residui di cibo commestibile sembravano essere ammuffiti.
Per ultimo vollero controllare in un’alimentare.
In realtà era piuttosto piccolo, un bancone con degli armadi, ma entrambi preferivano tentare.
Carol si avvicinò per prima alla cassa, poco guardinga.
Sotto gli occhi stupiti di Bryan, dal nulla volò un coltello, diretto alla fronte di Carol. Questa però, con un’agilità che nessuno le avrebbe attribuito, schivò prontamente il colpo afferrando al volo il manico del coltello.
Poi, con un sorriso, parlò.
— Ehi Bryan— disse infatti — guarda cos’ho trovato.
Il ragazzo le si avvicinò, trascinandosi dietro l’ascia come fosse un peso piuma.
Vide per terra, sotto il bancone, una ragazza. Non ricordava molto di lei, non sapeva che quella fosse Emma, il tributo femmina del 3.
Aveva dei begli occhi, tra il verde e l’azzurro, una pelle chiara, chiarissima.
Guardava fisso i suoi nemici con un luccichio nello sguardo che stava a dire “non mi arrenderò così”.
— Cosa ne facciamo di lei?— chiese, sapendo bene che comunque, se avesse voluto vincere, Emma sarebbe dovuta morire, prima o poi. — la uccidiamo?
Carol annuì, voltandosi. — Vediamo quanto bravo sei con quell’ascia.
Bryan sollevò in aria l’arma e mimando un “mi dispiace” con le labbra l’abbatté sulla ragazza.
Emma, con quel po’ di energie che riuscì a racimolare, si scansò per evitare il colpo fatale, che però s’abbatté sulla gamba, mozzandogliela.
Gridò di un grido assordante, denso di dolore e rabbia.
Carol, che si stava allontanando per non assistere al macello, quando sentì l’urlo si voltò di scatto.
— Ma che fai?— gridò — Una morte veloce, perché farla soffrire?
Bryan, per mettere fine a quello scempio, colpì una seconda volta la ragazza, mirando però meno superficialmente e centrando il collo del tributo, anche se Emma tentò di scansarsi.
Glielo mozzò, così: la sua testa rotolò sul pavimento, gli occhi ancora iniettati di sangue.
Bryan vide Carol socchiudere gli occhi e allontanarsi definitivamente dal negozio, strascicando i piedi sul terreno.
E quando raggiunse la piscina della Cornucopia prese a fissare il proprio riflesso nelle acque, quando questo tremò.
Alzando di poco lo sguardo, vide la terra franare.

Shaileen e Sara non avevano niente da mettere sotto i denti.
Grazie alla borraccia mandata dalle mentore di Shaileen erano riuscite e procurarsi dell’acqua, ma ciò di cui avevano davvero bisogno, roba da mangiare, non sembrava esserci da nessuna parte.
Stavano tentando l’esplorazione del primo livello, per quanto scarse fossero le probabilità di trovare qualcos’altro, oltre che polvere e carbone, quando Sara mise un piede in fallo cadendo in avanti. Tentò di aggrapparsi a un appiglio sulla parete, finendo però col tirare giù la maniglia di un negozio.
La porta di aprì.
Sara si tirò su appena in tempo per iniziare a correre, quando dal negozio iniziò a fuoriuscire una valanga immensa di terra.
— Corri!— gridò a Shaileen.
La ragazza dai capelli multicolore si voltò solo un attimo, poi scappò. Shaileen era velocissima, un razzo, imprendibile.
Sara non era così veloce, però. Fortunatamente sembrava che la terra scorresse lenta.
Raggiunsero la scalinata per il piano inferiore, prendendola senza ripensamenti, iniziarono a correre giù, sempre più velocemente.
Nessuna delle due prestò però attenzione a Carol. Tutte e tre erano scappate verso l’altra sponda della piscina, per non essere travolte.
Il tributo del ’10 si ritrovò così separato da Bryan, chiuso ancora nel negozio dell’altro lato della “collina terrosa”.
Quando la valanga fu arrestata, si voltò di scatto nella direzione delle intruse.
Erano due ragazze armate contro lei sola. Se si fosse passato al combattimento le sue chance non sarebbero state poi così buone.
Ma Carol non era tipo da farsi prendere dalla paura: la sua arma migliore stava sempre con lei.
— Ehi, state bene?— chiese, con la voce più preoccupata che le uscì.
Lentamente la polvere si diradò e riconobbe nelle due ragazze il tributo del 12 e la chioma multicolore di Shaileen.
Si avvicinò a lei, mettendole una mano sulla spalla ed aiutandola ad alzarsi, mentre questa tossiva.
— Niente di rotto?— chiese ancora, convincente. Shaileen si voltò, fissando il suo sguardo nelle iridi di Carol. Vi lesse dentro una sincera preoccupazione, un sincero desiderio che lei stesse bene. E in quella stretta, così sicura, la voglia di dare una mano.
Lesse in quello sguardo quel che era lei: una ragazza che non avrebbe mai fatto del male a nessuno. Perché Shaileen aveva imparato da suo padre che la sua vita valeva tanto quanto quella degli altri. Che nell’Arena avrebbe dovuto fare di tutto, fuorché uccidere.
Sara, una volta ripresasi, sfoderò il coltello puntandolo subito contro Carol. Aveva percepito il pericolo in un lampo e, con uno scatto, le andò addosso. Tentò un affondo che Carol riuscì a evitare facilmente, quando al secondo venne fermata dall’alleata.
— Fermati!— la riprese Shaileen. — Che stai facendo? — Elimino un nemico! — Nemico? Ma non lo vedi che ci stava aiutando?— Carol annuì rapidamente.
— Non voglio farvi del male.
Sara si ritrovò coinvolta dal tono sincero di lei. La ragazza era però ancora molto diffidente, non le piaceva Carol, non le piaceva quest’improvviso aiuto del nemico. Anche Shaileen era sospettosa, ma riconoscente. Di solito era un’attentissima osservatrice, riusciva a cogliere la realtà dove altri fallivano, ma quella volta la sua attenzione venne messa in secondo piano di fronte al desiderio di trovare, in quell’Arena di crudeli assassini, un’anima buona. Quello sguardo era lo stesso che aveva sempre lei negli occhi. Uno sguardo difficile da trovare. Uno sguardo unico.
— Allontanati— disse Sara alla ragazza.
Carol si mosse indietro, tenendo le mani alzate.
— Carol!— sentì gridare qualcuno dall’altro lato della valanga. — Carol, dove sei?
— Cercano me— disse lei. — È stato un piacere, davvero. A presto Shaileen. Ciao Sara.
Si voltò lentamente, fintamente disinteressata alle altre due. In realtà stava prestando attenzione ai loro movimenti, nel timore che l’attaccassero.
Ma né Shaileen né Sara fecero niente, videro semplicemente la ragazza allontanarsi, entrambe indecise su cosa fosse meglio fare.
Ma Shaileen era rimasta incantata da quella luce negli occhi.
Sara, invece, dalle sue sincere parole.



Theia aveva quasi interamente esplorato ogni singolo piano, fino al quinto. Cercava la terra adatta a lei. Il suo preferito era senz’altro il secondo livello, ma aveva quasi rischiato di essere mutilata da una pianta assassina, quindi niente.
Il primo livello sembrava abbastanza sicuro, ma era troppo buio, troppo sporco.
Il terzo, poi, dopo l’entusiasmante esperienza con la mandria di tori, aveva lasciato perdere.
Il quarto semplicemente l’aveva superato, appena compreso che fosse un labirinto.
Il quinto l’aveva controllato tutto, interamente, ma ogni passo poteva essere l’ultimo, ogni tappeto calpestato, ogni stoffa sfiorata.
Così aveva ripreso la scalata. Ormai il trucco dei dodici livelli l’aveva capito anche lei.
Teoricamente quello doveva essere il livello 7, con i piani che scorrevano all’inverso. Teoricamente il piano del suo Distretto era di due livelli più alto, ma non voleva rinunciare alla possibilità di valutare bene il settimo piano.
Così, armata di coraggio e buona volontà, terminò la scalinata. E si bloccò stupita.
Era fatto tutto di legno. Il pavimento, il soffitto, le porte, le vetrine, perfino, per quanto impossibile fosse da immaginare.
I lampadari sul soffitto erano di legno, le sculture per i corridoi erano di legno, l’aria sapeva di legname.
La ragazza entrò nel regno, incredula e meravigliata.
Su dei tavolini di legno c’erano dei vasi di legno contenenti fiori di legno. Senza colore, così, al naturale.
Camminò per i corridoi facendo scricchiolare il pavimento sotto i suoi piedi.
S’avvicinò ad una porta, una qualsiasi, e l’aprì: non conteneva altro giocattoli intagliati, un bancone per la vendita, degli scaffali. Theia accarezzò la parete del negozio, felicemente meravigliata.
Nel momento in cui sfiorò il legno, però, una scheggia le si conficcò nella mano. Ritrasse di scatto il braccio, fissando la punta legnosa conficcarsi sempre più nella pelle, come se avesse vita propria. Ora sentiva un dolore lancinante al dito indice, là dove la scheggia s’era conficcata.
Non bisognava mai toccare niente, nel regno legnoso. Ecco la legge del sesto livello.
Theia guardò fissò un punto qualsiasi del negozio, nella speranza di essere inquadrata.
— Mi serve qualcosa per togliere questa scheggia, fa malissimo e non riesco più a muovere bene il dito. Per favore Fides987! Per favore, sponsor!
E lo disse nella speranza di esserci riuscita, a conquistare qualche sponsor. Lo disse perché ci credeva davvero.
Si tolse le scarpe e le calze, facendo attenzione però a non sfiorare coi piedi nudi il pavimento. Poi si mise i calzini alle mani. Se il pericolo del sesto livello era l’impossibilità di toccare alcunché con la pelle nuda, allora questo poteva fare per lei. Non era una ragazza distratta, sarebbe riuscita a non commettere falli.
Però Theia sapeva anche che non sarebbe mai stato davvero così semplice, che gli strateghi avevano certamente ideato qualche altro malvagio trabocchetto. Ora non restava altro che scoprire cosa.


Eleuthera Libs sapeva di essere comparsa poco, sugli schermi. Certo, era solo il secondo giorno, però questo non avrebbe aiutato nella caccia agli sponsor.
Una dodicenne come lei aveva comunque pochissime chance di piacere al pubblico.
Si era trovata un piccolo cantuccio sicuro al secondo livello, dietro una pila si scatoloni, ma sapeva che non sarebbe potuta rimanere lì in eterno. Presto o tardi gli Strateghi avrebbero ideato qualcosa che per farla venire allo scoperto.
D’altra parte i bambini piacevano, negli Hunger Games. Rendevano tutto più interessante: un dodicenne morto suscitava tristezza a prescindere. La tristezza portava ascolti. Gli Strateghi vivevano d’ascolti.
Quindi, Eleuthera stava pensando a cosa fare per piacere al pubblico, per trovarsi qualche sponsor, per non essere presa di mira dagli Strateghi. E pensando, pensando e pensando, non le venne in mente nulla.
Avrebbe potuto creare un cortocircuito, ma a che scopo? Nessuno.
L’altra alternativa era tentare la salita, o quantomeno la discesa. Il giorno dopo ci avrebbe pensato meglio. Il giorno dopo avrebbe fatto qualcosa, per il pubblico.
Improvvisamente iniziò a risuonare l’inno e i monitor per il centro commerciale si accesero. Quel giorno mostrarono due sole foto: Kylar Tarsh ed Emma Wilkinson. Qualcuno li stava piangendo, a Panem, qualcuno forse rimpiangeva quei due giovani andati a morire per il divertimento di alcuni potenti.
Forse Alwyn non si sentiva in colpa per la morte di Kylar, forse Bryan non era dispiaciuto per il decesso di Emma, forse gli Strateghi anche se la ridevano, travolti dal lusso di un mondo colorato. Ma a Eleuthera dispiaceva. Perché poteva esserci lei, in quello schermo.
Socchiuse gli occhi, determinata. Se era suo destino che qualcuno vedesse la sua foto tra i monitor dell’Arena, ben venga: ma non avrebbe ceduto senza combattere. Vero, all’inizio, appena estratta, aveva soppesato l’idea di lasciarsi morire. Per poi cambiare idea.
Era rimasta viva per due giorni, due giorni in cui erano caduti nove tributi su ventiquattro.
Magari poteva farcela davvero. Magari poteva provarci.
E ci avrebbe provato. D’altra parte, che aveva da perdere? Niente.
Ed Eleuthera sorrise.
 
 
 
 
 
My space:
 
Woooooh.
Il capitolo più lungo nella storia dell’umanità.
Scommetto che non è mai esistito niente del genere, nei millenni trascorsi dalla fondazione di ef....
Ok, la smetto.
Come vi dicevo, abbiamo deciso di ri-pubblicare tutti i capitoli, in modo che ognuno possa rileggere la propria “parte preferita” e che i nuovi lettori riescano ad orientarsi, dando un’occhiata ai capitoli precedenti.
Poi! La storia è stata rimossa perchè il primo capitolo con le istruzioni non era regolamentare, ovvero non era un prologo ma bensì una lista di punti da seguire per partecipare alla storia. Mah.
Vi invitiamo caldamente a lasciarci un commento, per farci sapere se avete ritrovato la storia e se avete bisogno di eventuali chiarimenti.
Inoltre... sapete che vi dico? Potete sponsorizzare il vostro preferito e noi terremo conto del vostro voto, anche se magari avevate già recensito prima della rimozione e noi lo avevamo già contato.
Vedetelo come un bonus per il vostro preferito (?) hahahaha vabbeh, è una specie di incentivo, lol.
Grazie per aver letto, e scusate il disagio creatosi per la nostra ignoranza riguardo alcune norme del regolamento di efp cwc
Il prossimo capitolo (che ho finito di scrivere ieri) verrà pubblicato non appena riusciremo a ritrovare almeno parte dei nostri lettori, speriamo presto :’)
E la drabble di Emma appena ho un attimo,  lol.
A presto e scusateci ancora!
 
 
-NiallsUnicorn 

   
 
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