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Autore: Zomi    07/10/2012    6 recensioni
Alzo gli occhi sulla porta principale, accanto alla guardiola, notandone lo spessore rilevante e le rifiniture marcate, più simili ad ex sbarre di prigioni, che ad abbellimenti di una semplice porta ospedaliera. Sopra al bastione elevato dalla cornice della porta, intravedo una scritta bluastra e non molto nitida dalla mia posizione sdraiata.
Strizzo gli occhi per identificarla.
Is… Ist… Istitu… Istituto Ps… Psi… Psichat…
Mi alzo di scatto, mettendomi a sedere nuovamente, le mani che trafiggono il lenzuolo, la schiena intirizzita dallo stupore.
Istituto Psichiatrico Manari.
Il sudore m’imperla la fronte, colando veloce e gelido sui lati del viso, scivolando giù per il collo e scomparendo freddo sotto il colletto della maglia.
-Oddio…- mi sento mormorare lontana, come se non fossi io a parlare -… è un manicomio… sono ricoverata in un manicomio… Dio mio… credono che io sia pazza…-
[Non è una AU]
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mugiwara, Nami, Roronoa Zoro | Coppie: Nami/Zoro
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Profondi come i ricordi


La stanza è povera di colori e arredamento.
Appena un letto, un piccolo comodino con due cassetti, un lavandino scheggiato, un lampadario sgangherato e una finestra con le inferiate che da su un muro di cinta dellistituto, negandomi ogni visuale.
-Bel panorama- ironizzo, alzando gli occhi al soffitto grigio della mia camera, evitando il sorriso stucchevole dellinfermiera, che mi ha accompagnato fin qui.
Guardo di sfuggita il misero letto da una piazza, coperto da un triste lenzuolo verdognolo ammuffito, per niente invogliata nellinfilarmi sotto ad esso per riposare.
Sospiro, girando su me stessa, fino a ritrovarmi davanti agli occhi linfermiera sorriso di miele, elegantemente sullattenti sulla soglia della porta.
-Quindi, questa sarà la mia stanza- indico con un moto circolare dellindice le quattro mura grigie che mi circondano.
-Si. Qui tu dormirai e mangerai- spiega stucchevolmente informata.
-Niente mensa comune?- alzo un ciglio sorpresa.
-Tutti gli ospiti condividono gran parte della giornata, ma non i pasti, le ore notturne e le visite mediche-
-Ah- annuisco al quanto stupita.
Mi sembra di stare in un penitenziario, in cui tutti i detenuti si riuniscono solo nellora daria, invece che in un ospedale.
-E dove è che gli ospiti- domando assottigliando lo sguardo - trascorrono le ore in comune?-
-Nella sala comune- sorride celestiale.
Che risposta ironicamente ovvia.
Alzo nuovamente gli occhi al cielo, avanzando verso la mia zolletta di zucchero con le gambe, incrociando le braccia al petto.
-Scommetto che è la mia prossima destinazione, vero?-
Un semplice sorriso di miele mi risponde, e con un cenno del capo della piccola donna, sono costerna a seguirla lungo il corridoio bianco e luminoso oltre la porta della mia camera. Con passo lento e per niente invogliato, la seguo lungo le pareti alte e dritte del corridoio, allontanandomi dal piano riservato alle stanze dei degenti.
Le ampie e lucenti finestre della corsia danno sul lugubre porticato dellistituto, sovrastando dal secondo piano in cui mi trovo, la grigia aia che separa ledificio dal portone principale delle mura di cinta.
Scendiamo per una ripida scala a chiocciola, stretta e di marmo freddo e duro, raggiungendo il piano terra, costituito da due grandi sale ampie e spaziose. La prima, a sinistra delle scale, è chiusa ai pazienti, come indica un piccolo cartello appeso al di fuori della porta daccesso alle camere, informando che i locali sono riservati alluso esclusivo dei medici e degli infermieri.
Lì vi sono linfermeria e lo studio del Dottor Zenit, e molto probabilmente anche altri ambulatori.
- larchivio del Dottore- rimugino tra me e me, mentre la combinazione del lucchetto della cassaforte segreta del primario mi riecheggia nella testa con cadenza musicale.
Scuoto il capo e seguo Miss Honey Smile, verso la sala nella parte opposta a quella medica.
Con un delicato movimento della mano, linfermiera minvita ad oltrepassare un enorme portone formato da sbarre in ferro borchiate, con una serratura a doppia mandata.
Quellingresso così fortificato, e costruito quasi ad evitare ogni sorta devasione da parte dei malati, minnervosisce parecchio, urtandomi nella mia degenza: siamo malati, ma non pericolosi malviventi.
Fulminando le spranghe dacciaio, entro nella sala comune, pietrificandomi dopo pochi passi di fronte alla sua grandezza: è gigantesca.
Un infinito stanzone, dallalto soffitto e dalle mura immacolate, si apre davanti a me, allungandosi a vista docchio per oltre un centinaio di metri. Le pareti ai lati sono spezzate nella loro continuità da vetrate inferiate alte fino alla volta, che irradiando luce solare allinterno delledificio, illuminandolo in ogni suo anfratto.
Migliaia di tavoli e sedie, occupate da decine e decine di ospiti, spaziano per tutta la grandezza della sala, offrendo libri e attimi di respiro ai malati.
Intontita da questo sprazzo di quasi normalità, scendo dai due scalini sovrastati dalla porta dingresso, inoltrandomi tra i miei colleghi pazzi-smemorati. Alcuni, uomini e donne, chiacchierano tranquillamente tra loro ad un tavolo, altri leggono in pace in altri ripiani protetti da pile di libri, altri ancora sonnecchiano sui poggioli delle finestre, addossandosi ai muri e perdendo lo sguardo verso il cortile di ghiaino.
Tutti indossano come me delle tute bianche, adattate a loro e alle loro personali regole. Avanzo timorosa di qualche passo, guardandomi attorno stordita.
Credevo che sarei stata circondata da pazzi urlanti e deliranti, infermieri isterici di rabbia e pianti continui, e invece sembra di essere in una Hall povera di arredamento di un Hotel stracolmo di clienti spensierati e felici, come se fossero in vacanza.
Avanzo ancora di qualche passo, allontanandomi dalla mia infermiera, che esce dalla sala raggiungendo con piccoli zuccherosi passetti alcuni suoi colleghi a lato del porta inferriata, unendosi a loro nel conversare.
Sono totalmente ammutolita dalla tranquillità di tutti i malati che mi circondano.
Sembra che la perdita di memoria non li disorienti o innervosisca, a mio contrario, ma anzi, che la cancellazione totale della loro vita gli abbia donato nuova serenità e gioia.
Alcuni loschi uomini, dallo sguardo scuro e torvo, al mio passaggio mi sorridono cortesi, annullando totalmente la loro aria da persone tenebrose, rivelandosi gentili e educati. Annuisco confusa al saluto, continuando a camminare tra la gente rilassata.
Forse, la cura del Dottor Zenit non è poi così crudele come pensavo. Sembra davvero che sia in grado di donare una vita felice e spensierata a persone, come, me, che a causa della loro malattia non hanno mai potuto godersi unesistenza tranquilla. Forse mi sbagliavo, nel non volermi fidare del dottore, e questa visione di pace e calma assoluta che mi circonda mi fa vacillare nei miei dubbi appena accennati.
Scombussolata, mi siedo su una panca addossata ad una parete, guardando stupita la serenità dei folli che mi passa davanti agli occhi.
Quanti, di questi uomini e donne, fino ad ieri urlavano e piangevano di un dolore che esisteva solo nelle loro menti, mentre ora chiacchierano e ridono calmi e gioiosi di non ricordarsi affatto di quel male?
Mi aggrappo a palmi aperti sul bordo della panca, scuotendo il capo, non riuscendo ad accettare la serenità che la perdita della memoria può concedere ad un malato come me.
Davvero, potrei essere felice, accettando senza lottare, la perdita totale del mio passato?
Il Dottor Zenit ha detto che, con il suo aiuto, recupererò i ricordi, riuscendo a gestire il fantomatico evento che mi ha reso pazza, evitando una ricaduta, riuscendo così a farmi una vita normale.
Ma fino ad allora, dovrei accettare di vivere in un limbo come questo, senza passato e aggrappandomi ad una promessa di un futuro instabile e lontano, trascorrendo i miei giorni a fingere una felicità apparente, accettandola come mio unico e solo ricordo?
No, non voglio.
Io voglio sapere chi sono, anche a costo di perdere nuovamente il senno.
Deglutisco incerta però, guardando di striscio un uomo passarmi davanti agli occhi mentre ride, intoccato dal male che fino allarrivo allIstituto Manari lo affliggeva.
E se stessi prendendo la decisione sbagliata?
E se davvero il dottor Zenit Memoria e la sua cura, fossero lunica mia occasione per una vita serena e felice?
-È tutto così assurdo- sussurro, abbassando lo sguardo ai miei piedi.
-Si, è vero-
Alzo di colpo gli occhi, notando solo ora la presenza, silenziosa e improvvisa, di una donna accanto a me, seduta sulla mia stessa panchina.
Avrà su e giù una decina di anni più di me, un viso ovale dalla pelle bronzea, una nasino allinsù e il corpo formoso.
Sta leggendo un libro, dalle cui pagine non stacca lo sguardo nemmeno per battere gli occhi, mantenendolo fiero e affamato su di esso, assaporando ogni parola letta.
-Come hai detto, scusa?- mi sporgo verso di lei, incerta che abbia veramente parlato con me.
-Ho detto che è davvero tutto assurdo- alza gli occhi dal libro, sorridendomi bonaria.
Due enormi occhi color azzurro cielo mi fissano aperti e studiosi, e un caldo sorriso sincero, dolce e accogliente, mi saluta.
È una donna bellissima, che con il suo solo sguardo maturo e sincero, mi fa sorridere.
-Anche tu trovi tutto questo, alquanto inquietante?- indico i malati allietarsi della loro perdita di memoria.
-Alquanto si- mormora inclinando il capo - reputo difficile condividere la calma con cui tutti gli altri degenti hanno accettato la perdita del loro passato-
Le sorrido, fissandola in quei meravigliosi occhi color zaffiro.
-Bhè, allora siamo in due- le sorrido, facendole brillare gli occhi.
-Io sono Ebano- si presenta, offrendomi la mano.
Oh Kami, che fantasia che hanno qui per i nomi!!! Io Arancione, per il colore intenso e chiaro dei miei capelli, e questa morettina Ebano. Mi domando se si riuniscano in consiglio per effettuare certe meravigliose scelte
-Arancione- le stringo la mano sorridendo - e voglio uscire al più presto da questo ricovero dinfermiere dal sorriso diabetico-
Riesco a stapparle una mezza risata.
-Buona fortuna allora per quanto ne so, la cura del dottor Zenit richiede al meno un anno di permanenza allIstituto per il recupero e il controllo della memoria memoria che solo lui può ridonare prima di allora, a nessuno è permesso di oltrepassare le mura-
Sgrano gli occhi: un anno?
-E poi?- domando curiosa.
-Poi non so sono qui solo da questa mattina prima ero in un altro ospedale -
-Anchio o almeno così ha detto il dottore-
Ebano mi fissa silenziosa, reggendo a mani aperte il suo libro.
-Non gli credi- commenta seria.
-Affatto- scuoto il capo - cè qualcosa che non mi torna un qualcosa che è da quando mi sono risvegliata qui, nellinfermeria, che mi impone di tenere al massimo i riflessi, e di non fidarmi di nessuno no, qui cè qualcosa che non va-
Ebano mi fissa silenziosa, studiandomi con quel cielo che è riuscita a catturare nella sua iride.
Mi sento scandagliata dal suo sguardo, come se riuscisse a leggermi dentro, ritrovando i miei pensieri più intimi nascondersi in me, analizzando i miei occhi nocciola tremare imbarazzati.
Non riesco a sopportare oltre il suo sguardo, e abbasso il mio ai piedi, che faccio dondolare infantile.
-Anchio ho avuto questa impressione, quando il Dottor Zenit mi ha spiegato la sua cura- volge gli occhi di fronte a se, perdendo lo sguardo tra la gente che vaga per la sala - una cura che cancella ogni ricordo, e ogni follia-
Fisso le mani di Ebano stringere il libro che regge con forza tremante.
-Non ricordo se ho letto questo libro- sussurra, tornando a guardarmi in viso - o se, prima di oggi, ti abbai conosciuto- sobbalzo a quel pensiero.
E se ci conoscessimo?
Se ci fossimo già incontrate prima?
- quello che so, è che sono qui per essere guarita da un male che non ho più e che senso può avere, curare una persona sana?-
Le sorrido, certa di aver appena trovato unalleata dentro questo manicomio.
-Ebano, vuoi recuperare i tuoi ricordi?-
Annuisce sorridendo felina, arricciando le labbra in un sorriso sornione e socchiudendo gli occhi.
-Bene, perché lo voglio anchio, e insieme sono certa che ci riusciremo senza dover aspettare il Dottor Zenit e il suo anno di cure-
La bella mora sorride trattenendosi nella sua eleganza, ma scorgo nei suoi occhi una profonda speranza nella mia promessa, e una scintilla di fiducia accendersi.
Le prendo le mani tra le mie, bisognosa, ora più che mai, di un contatto fisico con qualcuno che è dalla mia stessa parte, e che non sorride e gironzola per una sala piena di ex pazzi fingendo di essere normale.
-Io comunque mi chiamo Nami- sussurro piano, ben attenta che nessuno mi senta.
- e hai una profonda idiosincrasia per le regole- mormora lei.
-Le regole sono fatte per essere violate- le faccio locchiolino ridacchiando.
Lei si avvicina ancor di più a me. Ora posso sentire il suo profumo di carta antica e inchiostro secco, mischiati a un intenso odor di fragole.
-Nico Robin- soffia a fior di labbra sul mio orecchio, distanziandosi poi veloce da me.
Sorrido apprezzando la sua sincerità.
Mi distanzio anchio da lei, per non far sospettare a nessuno i nostri intenti. Ebano riprende a leggere, con un leggero sorriso sul viso, mentre io mi guardo attorno.
Secondo il dottore, venire a conoscenza del nome reale di un altro paziente, avrebbe potuto causarmi una ricaduta, ma così non è stato. Forse, perchè io e Robin non ci siamo mai conosciute prima, o forse perchè è tutto una immensa balla
Non riesco ad accettare il fatto di aver perso i miei ricordi. Come posso daltronde? Senza un passato non cè futuro, se non conosciamo la nostra storia, non possiamo vivere, e non posso permettermi di sprecare un anno della mia vita a recuperare qualcosa che un Dottore, senza il mio permesso, mi ha rubato.
Se è vero che mi ha curata, eliminando la mia memoria, non posso non domandarmi perché non abbia semplicemente cancellato il fattore scatenante della mia pazzia.
Che vi sia dellaltro sotto?
Che il Dottor Zenit Memoria, volesse in realtà cancellare anche qualcosa di più dalla mia mente?
Di sorpresa una campanella, posta al disopra del portone metallico, trilla impaziente e acuta, vibrando contro lintonaco della parete che la regge.
-Che succede?- mi alzo dalla panca imitando Ebano.
-È ora di cena torniamo tutti nelle nostre stanze- chiude il suo libro, dirigendosi verso un infermiere alto e robusto dagli enormi baffoni, che le sorride a mo di bambolotto istruito a dovere.
Lo guardo di striscio, avviandomi verso la mia dinfermiera dal sorriso caramellato, camminando in fretta tra la folla che si aggrega sul portone. Nessuno spinge, ma avanza ordinatamente verso il proprio baby sitter-infermiere, pronti per essere rinchiusi ognuno nella propria cella.
Mi porto dietro lorecchio una ciocca di capelli, osservando Ebano uscire dalla sala comune e salire le scale a chiocciola, verso la sua stanza.
Ruoto appena gli occhi alla mia sinistra, guardando di sfuggita i malati che mi accerchiano.
Ed eccoli.
Si, lì, in mezzo a una mare di occhi puntati in ogni dove, tra mille iridi di colori diversi, eccoli lì, a fissarmi.
Le gambe mi si bloccano distante, interrompendo ogni movimento.
Il respiro mi si mozza in gola.
La mente, che vorticosa già escogitando un qualche piano per recuperare la memoria mia e di Ebano, si ammutolisce, riempiendosi solo di quello sguardo.
Nero.
Nero come la pece, ma profondo come loceano.
Un nero che risucchia tutta la luce della stanza, e rapisce anche me, incatenandomi nel fondo di quellocchio che mi fissa.
Non riesco a staccare lo sguardo da quelliride buia, incantata dalla sua oscura bellezza.
Il cuore mi batte a mille, scalpitando e dibattendosi indemoniato, mentre gli occhi mi pizzicano di lacrime leggere e calde, non salate di amarezza come nello studio del Dottor Zenit, ma dolci di felicità.
Piango di gioia per uno sguardo nero e profondo che mi fissa?
Perché?
Perché?
-Arancione, su vieni- una mano mi afferra per il gomito destro, strattonandomi verso la porta, ma io resto immobile nella sala, incatenata a quello sguardo che non mi libera dal magnetismo che ci ha legato.
Non sono in grado di distogliere lo sguardo da loro, e mi è impossibile osservare a pieno il volto a cui appartengono per lincredibile e piacevole stretta in cu mi avvolgono semplicemente fissandomi.
È come se mi stessero abbracciando, accarezzandomi dolcemente, scuotendomi in tutto il mio essere.
Vorrei che il tempo si fermasse, che quello sguardo profondo e tenace mi tenesse ferma e immobile qui, incatenata a lui, prigioniera del suo colore, della sua profondità.
Spalanco la bocca senza parole, mentre sento il cuore aumentare i battiti, impazzito di gioia. Una scarica elettrice mi scivola sulla pelle, facendomi rabbrividire piacevolmente, mentre il respiro inizia a mancarmi, a singhiozzare nel petto che si alza emozionato.
-Tu- mormoro appena, provando a muovere un passo verso quegli occhi, ma linfermiera Sorriso di Miele, mi blocca con la sua esile forza, trattenendomi sul posto e strattonandomi nella direzione opposta.
-Vieni cara la cena se no si raffredda-
Indietreggio priva di volontà, ancora ansimante per quellocchio nero e profondo che non mi libera dalla sua presa. Cerco di divincolarmi dalla morsa al braccio dellinfermiera, ma non ci riesco, e sono costretta a seguirla sugli scalini della porta.
Non riesco e non voglio spezzare il legame che mincatena a quegli occhi neri, e mantengo ancora fisso lo sguardo su di loro, ma anchessi sono costretti ad indietreggiare nella massa di persone, trascinati da un qualche infermiere burbero e sorridente.
-No- gemo povera di voce, alzando un braccio verso di loro - no tu resta no-
Locchio nero scompare immerso nella folla, e un vuoto assoluto mi assale, facendomi quasi annegare. Li cerco tra la calca, alzandomi sulle punte dei piedi, ansimando presa dallo sconforto di non ritrovarli. Una fitta di dolore frena i battiti del mio cuore, che ora si zittisce sofferente e doloroso, piangendo di disperazione.
Vengo trascinata su per le scale a chiocciola, mentre le lacrime, silenti e calde, scivolando sulle mie guance, bagnandomi il viso.
Uno strattone, e mi ritrovo chiusa a chiave nella mia stanza.
Sul letto un vassoio con la cena.
Tremante, mi porto una mano alla bocca, bagnata e salata di lacrime, scossa da esili singhiozzi, deboli e infranti di dolore.
-No- mormoro senza senso, rivedendomi davanti quello sguardo nero e profondo -No lui lui-
Mi accascio davanti alla porta, addossandomi su di essa con la schiena. Brividi e singhiozzi mi fanno tremare il torace, ma ora, la cosa che mi da più dolore, è la straziante sensazione dentro di me di aver perduto la cosa più preziosa al mondo. Come se qualcuno mi avesse appena rubato il cuore dal petto, strappandomelo con cattiveria e violenza dalle carni.
La testa mi duole, vorticando veloce attorno allimmagine fissa in essa di quelliride buia e profonda. Riviverla mi scalda il petto, consolandolo e scaldandolo, ma le lacrime non smettono di scendere dagli occhi.
È un dolore così grande questo, così straziante e inconsolabile.
Sento un qualcosa muoversi dentro di me, dentro la mia mente, un qualcosa dimprigionato da catene pesanti e indistruttibili, che lo incarcerano nella parte più remota di me, non permettendogli di riemergere e farsi riconoscere, e tutto questo fa ancora più male.
È un qualcosa dintenso, dolce e amaro allo stesso tempo, un che dindistruttibile e incancellabile, che rende felici e tristi, che dona vita e uccide.
Un qualcosa di profondo e buio come quegli occhi.
Profondi e bui come i ricordi

   
 
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