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Autore: Ekerot    17/10/2012    0 recensioni
La Magia ha perduto la sua antica forza, nell'isola di Venàlius. O almeno questo credono gli Elfi. Eppure quando scoppia una devastante pestilenza nel Nord, non trovano altra soluzione che domandare aiuto all'Oracolo, che della Magia è la voce immortale.
Una storia al centro dell'Universo, tra Tolkien ed Ende. Dove si trovano tutti gli elementi classici della fiaba, dall'eroe alla missione per salvare il mondo, ma deformati attraverso lenti particolari...
Che le muse mi sostengano sino alla fine.
Genere: Avventura, Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Canto I

 

Il prefetto di Irasmil si alzò quella mattina con un fastidioso torcicollo. Questo avrebbe compromesso l'intera giornata: non c'era tempo per farsi visitare dai cerusici, eccetto forse un breve massaggio. Ma non sarebbe servito a molto.

Oltretutto, davanti a sé aveva l'odiata incombenza dell'udienza; significava restarsene seduti sullo scranno per parecchie ore ad ascoltare le noiose rimostranze dei cittadini. In cuor suo avrebbe preferito farsi una cavalcata di dieci ore piuttosto che scaldar la sedia, nonostante il tormento alla cervicale. Comunque, con un certo sforzo, si apprestò ad organizzare il suo sorriso migliore prima di entrare nella sala delle udienze. E lì ebbe la prima grande sorpresa della giornata: la sala era completamente vuota. Mai successo da quando lo avevano eletto prefetto.

Qualcosa andava accadendo dentro Irasmil: al primissimo commento favorevole, subentrò una repentina preoccupazione. Si voltò per chiamare il guardiano. Lo vide appoggiato alla parete opposta della sala, curvo sulla finestra, completamente intento a guardare fuori.

«Cosa succede, Gaedrel?» gli urlò da venti metri.

Gaedrel continuò a dargli la schiena. «Non vi preoccupate, è solo il circo». A conferma di ciò si sentirono alcuni squilli di tromba che ebbero un effetto tranquillizzante sul prefetto. Questa notizia era talmente buona da meritare un festeggiamento speciale: abbondante colazione alla mensa.

«Ottimo, Gaedrel, ottimo. Ne approfitto per riempirmi lo stomaco. Se qualcuno mi cercasse-»

«Vi faccio chiamare subito» concluse il guardiano.

«Ecco, appunto, mi hai tolto le parole di bocca». Massaggiandosi il collo, il prefetto uscì dalla sala. O meglio, ci provò. Senza accorgersene, infatti, sbatté contro un ostacolo, prendendo una discreta botta poco sotto lo sterno che gli bloccò per alcuni istanti il respiro.

Quando si riprese, abbassò gli occhi ed ebbe la seconda, certo meno piacevole della precedente, sorpresa della giornata.

 

Davanti a lui, intento ad ispezionarsi la mandibola appena colpita, stava il nostro formidabile Dottore. Aveva il mantello sporco di fango, come gli stivali. E sembrava impaziente di parlare.

«Vi chiedo umilmente scusa, Signor Prefetto» ammise infine con un piccolo inchino. L'altro non parve ancora pronto per replicare. «Sono appena giunto in città; avrei voluto farmi annunciare, ma il palazzo è praticamente...vuoto».

«Chi diamine sie-» provò a domandare il prefetto.

«Sono il medico di Atlas, Signor Prefetto Almidarte, al vostro servizio».

Almidarte ('altagamba' nella nostra lingua) ebbe finalmente un lampo di intuizione – accompagnato da un riacutizzarsi del dolore al collo. Non aveva mai visto in precedenza questa persona, ma ricordava bene il villaggio di Atlas, ultimo avamposto shva a Nord della Culla degli Abissi.

«Cosa sie-» ma neanche stavolta riuscì a finire.

«Porto terribili notizie, Signor Prefetto. Ho urgenza assoluta di rendervene edotto, col vostro permesso».

 

Il prefetto recuperò in un istante il suo ruolo. Non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua colazione, ma non voleva neanche essere scortese col Dottore. Optò dunque per un invito alla mensa. Invito che il nostro shva accolse con entusiasmo. I due attraversarono un lungo corridoio e salirono una rampa di scale prima di giungere nella sala mensa.

Il Dottore ebbe modo di ammirare tutta la squadrata geometria dell'architettura elfica. La stessa rinvenuta in città, nelle basse abitazioni sostanzialmente cubiche in cui vivevano gli abitanti di Irasmil. Pochi fronzoli, e totale assenza di linee curve. Ma non aveva poi perso chissà quanto tempo appresso a certi dettagli. Già arrivando alla porta orientale, era stato vittima di quella che potremmo definire un vero e proprio shock. Da alcune illustrazioni, ovviamente, possedeva un'idea abbastanza dettagliata dell'anatomia elfica. Eppure, quando i suoi occhi incontrarono per la prima volta un elfo in carne ed ossa, pensò che davanti a lui si ergesse un Dio, in tutta la sua bellezza. Solo in parte questa sensazione venne mitigata, scorgendo un secondo elfo di altrettanta magnificenza. La somiglianza con gli shva era palese, ma il Dottore – già soltanto confrontando la propria stazza – pensò che Alma con loro avesse utilizzato un altro peso e un'altra misura. A malapena riuscì a notare le splendide vesti dei guardiani, marchiate dalla 'K' rovesciata simbolo di Irasmil. Come se tutti i sensi fossero stati ottusi dalla vista, procedette quasi rimbambito per le strade della città, curandosi appena di seguire le indicazioni che lo portassero al palazzo del prefetto. Gli sfuggì incredibilmente l'eccezionale folla riversatasi nelle strade per l'arrivo del circo, o forse – abituato ai mercati di pesce di Atlas – l'aveva scambiato per normale traffico cittadino.

«Sedetevi, prego. E servitevi come più vi aggrada». La voce melodiosa di Almidarte riportò il Dottore nel qui e ora. Prese contatto con la lunga tavolata di legno, apparecchiata per una sessantina di convitati, ma evidentemente vuota. Vari vassoi colmi di verdura e frutta si intervallavano a bottiglie piene di un liquido mai visto prima.

«Grazie, signor prefetto, mi unisco a voi volentieri».

«Mi dicevate qualche minuto fa di voler parlare urgentemente con me. Qualcosa di grave è accaduto ad Atlas?». Era la prima volta che dava udienza agli shva.

«Grave non direi, direi piuttosto tremendo».

«Davvero? Spiegatevi meglio!». Almidarte conosceva benissimo l’istinto melodrammatico degli umani.

«Grazie – il dottore assaggiò un boccone dal piatto di verdure, assolutamente insipido – io credo, nella mia piccola esperienza, che la nostra città sia preda di una terribile epidemia. Gli abitanti non sono più tremila: da una settimana sono duecento in meno perché tante si contano le vittime di questo morbo».

A questa notizia, Almidarte perse tutta la sua baldanza. E il Dottore capì di aver acquistato la dignità di messaggero.

«Mi sono documentato su tutti i miei libri, e la cosa più simile che abbia trovato si chiama...peste».

«Peste? Non ho mai sentito di questa malattia». A questo punto il dottore si sentì incaricato di sciorinare la propria cultura.

«I contagiati presentano tutti un'escrescenza rossastra in prossimità dell'ombelico, la quale assume la tipica forma della pustola della peste, solo di forma maggiorata e più fetida, orribile a vedersi; a questa si sommano dolori lancinanti alla bocca dello stomaco, che non si acquietano nemmeno con alcune bevande soporifere – il dottore aprì una borsetta dal fianco prelevando un flacone contenente parecchi granelli di una sostanza cristallina, l’aprì e versò parte del contenuto nel piatto, quindi riprese la dissertazione – e provando ad asportare il bubbone gonfio di sostanza densa, una notevole quantità di sangue dal colore nerastro fuoriesce assieme a pezzi di intestino, e la morte sopraggiunge nel giro di pochi minuti. Nelle persone di corporazione e salute migliori, cioè quasi sempre ricchi, col passare del tempo le fitte si placano, ma insorgono altre e più orribili degenerazioni agli organi riproduttivi, che subiscono delle metamorfosi abominevoli…».

«Vi prego, dottore: rimandate i dettagli peggiori a dopo la colazione».

Almidarte guardava con curiosità i gesti del dottore perdendo un po’ il filo.

«Scusatemi, prefetto – assaggiò il primo boccone e sorrise soddisfatto – non volevo crearvi disturbo. Il problema, vede, è che non riesco a trovare un rimedio. Questa 'peste', diciamo così, colpisce indiscriminatamente bambini, vecchi, uomini, e donne. Non ho ben chiare le possibilità del contagio, ormai sono morte centinaia di persone, alcune delle quali anche fuori dalle mura; ed io ad esempio sono rimasto illeso, apparentemente per pura fortuna. Potrebbe presto arrivare anche qui da voi, ecco il motivo della mia venuta».

Ciò detto s'asciugò la fronte e attese. Vide che gli occhi del prefetto erano rimasti fissi sul flaconcino ed interpretò la cosa in maniera sbagliata.

«È sale, signore. So che voi elfi non ne fate uso e così ne ho portato un po’ con me. È molto buono, volete assaggiare?».

Il prefetto impiegò qualche istante a capire che il medico gli stava versando alcuni di quei cristalli piccoli sulla verdura. La sua testa era altrove, completamente assorta all’idea di questo morbo che si propagava in una città shva.

«Assaggi, la prego!».

«Eh?».

Almidarte ritornò cosciente. Per istinto prese la forchetta e mangiò. Un sapore nuovo mai sentito prima invase il suo palato, e la prima reazione fu quella di sputare; ma il contegno lo costrinse a continuare a masticare e si accorse che questa sostanza non era per niente malvagia.

«Avete fatto molto bene a venire, dottore. Dobbiamo continuare al più presto questa chiacchierata, ma non davanti al cibo. Voglio assolutamente approfondire la faccenda, perché, se non vado errando, nasconde qualcosa di terribile…».

Si alzò da tavola. E il dottore vide i suoi quasi due metri d’altezza muoversi in un gesto atletico e sinuoso. Anche lui scansò la sedia e riprese con sé il flaconcino, seguendo il prefetto che scompariva a larghe falcate dietro la porta d’uscita. Si vide per un attimo riflesso in una brocca d’argento. E notò un sorriso propagarsi da un orecchio all’altro.

Senza dubbio era diventato importante. Importante per uno dei più alti elfi di Venàlius. 'Benedetta pestilenza!'.

 

Almidarte si portò appresso il Dottore attraversando alcune stanze, tutte quadrate e pressoché vuote di mobilia, finché non raggiunsero le scale che conducevano al piano superiore, ed ultimo, del palazzo. Qui si trovava quello che il medico riconobbe come lo studio del prefetto.

Finalmente – si disse – un po’ di vivacità. E difatti questo studio aveva una caratteristica unica negli ambienti visti fin lì: era pieno di oggetti, e neanche troppo in ordine. La stanza pareva piuttosto ampia, leggermente oscurata da una tendina che copriva tutta la finestra. Una scrivania enorme occupava la parete sinistra, ingombrata da papiri, cartacce, manoscritti e tavolette lignee. Al centro un tavolino circolare con quattro poltrone attorno, tutto in ebano lucido, rivelava la manifattura shva – il medico sorrise a questo dettaglio. I due si sedettero.

La poltrona era un po’ grande per il Dottore, ma senz’altro comoda. Sulle pareti erano appese cartine, mappe, disegni di paesaggi trai più svariati, e sopra la scrivania svettava un ritratto dell’Imperatore. A prima vista, però, il visitatore non lo riconobbe perché gli parve del tutto identico al prefetto; soltanto facendovi attenzione, si accorse che il colore delle iridi era diverso e così pure alcuni lievissimi tratti del viso.

Una credenza ad angolo, piena di utensili, ultimava la serie di particolari interessanti di questo studio.

«Credo che il tempo a nostra disposizione – Almidarte interruppe il silenzio – sia inferiore a quanto possiamo ipotizzare…Ad ogni modo, voi ritenete quest’epidemia del tutto casuale?».

«In che senso 'casuale'?».

«Scusate: volevo dire 'naturale'. Da dove arriva, secondo la vostra opinione?».

«Beh – il dottore tossicchiò – purtroppo non ho molti mezzi per stabilirlo. Nei manuali, la peste è causata da un avvelenamento dell’aria che respiriamo, come se si ammalasse…».

«Ma in tal caso, non dovrebbe colpire anche animali e piante?».

Il medico si convinse che l’interlocutore aveva un acume almeno suo pari.

«Non sempre. Che io sappia, nessun altro essere vivente oltre a noi è stato contagiato. Vedete, la peste è un morbo e, come per tutti i morbi, esistono individui o specie immuni. Un albero non può avere la peste, perché…».

«Perché?».

«Non ha sangue, ad esempio».

Il lampo negli occhi del prefetto equivalse all'applauso di un folto uditorio. Ma durò poco.

«È un’osservazione buona, eppure non del tutto convincente. Per noi è obbligatorio comprendere la ragione di questo morbo, sapere come mai stia nascendo adesso, perché ad Atlas e non qui. Scoprire se in altre zone, in altre città oltre la vostra, stiano morendo gli shva. Ma a me preme qualcos’altro, in realtà...».

«Ditemi, signor Prefetto…Si tratta della salute della vostra comunità?».

«No».

Fece una lunga pausa, un’ombra passò sui suoi occhi, che il Dottore non colse. Si alzò.

«Io credo, purtroppo, che questa 'peste' non sia naturale».

«Permettetemi di interrompervi, signore – un sorrisetto nacque su quella faccia un po' di bronzo – questo tipo di morbo è necessariamente naturale, non esiste niente in grado di crearlo».

Almidarte si avvicinò alla finestra. Guardando verso sud. Tramontava il primo sole della giornata, inondando il cielo di un colorito violaceo. Stavolta non si lasciò impressionare, divagò fissandosi sui sandali che indossava.

«Caro dottore, su questo vi sbagliate – fece una lunga pausa – qui è diverso, molto diverso, dal luogo da cui provenite. E soprattutto differisce il rapporto che la mia razza ha con Venàlius: noi siamo stati creati direttamente da questa terra, voi no».

«Ne siete sicuro?». Il dottore iniziava a sentirsi a disagio.

«Questo hanno narrato i miei padri, caro dottore. Dobbiamo aver fiducia nei loro racconti. Abbiamo dovuto pagare con la morte la permanenza in questo luogo, e gli antichi fasti non saranno più raggiungibili. Ma non tutto è andato perduto completamente».

«Cosa intendete dire?».

«Non lo so neanch’io. È una storia molto complessa e lunga, chissà che non abbia modo di raccontarvela un giorno di questi, quando il pericolo, spero, sarà passato. Vi chiedo soltanto di lasciare aperta la possibilità che quest’epidemia non sia frutto solo del caso. Perché in tal caso, temo…».

«Temete?» l’ansia aveva colto anche lui.

«Temo che quella storia la udrete fra…».

Un possente squillo di tromba, proveniente da fuori, interruppe la frase e suonò un arpeggio maggiore.

«…Avete mai visto il circo, Dottore?».

 

 

Almidarte condusse il medico nella piazza centrale di Irasmil.

Fu un’esperienza indimenticabile. Non tanto per il circo (che ogni anno terminava il suo giro proprio ad Atlas – e tralasciava sempre di vederlo) bensì per la visione di tanti elfi tutti assieme, stavolta con maggiore consapevolezza. Se non fosse stato per i vestiti, sgargianti e diversi tra loro per forme e colori, non avrebbe potuto identificarli. Gli parvero tutti bellissimi, gemelli nel viso, slanciati. Riconosceva soltanto i piccoli per via della statura. Si chiese come potessero distinguersi l’un l’altro.

La folla, neanche eccessiva, aveva circondato l’arena dove stavano per esibirsi gli artisti circensi; c’era grande attesa per quest’ennesima rappresentazione di giochi e abilità spettacolari, che trovava sempre fervida partecipazione nei villaggi elfici. Il loro entusiasmo era manifesto: non riuscivano a restare in silenzio. E qui il Dottore ricevette la seconda conferma del differente tocco di Alma. Quando gli elfi discutevano nel loro idioma, i suoni emessi risultavano vere e proprie note musicali: in sostanza non parlavano: cantavano.

Al momento non ebbe modo di analizzare attentamente il fenomeno, venne solo circondato da quest’incredibile polifonia, spesso dissonante, ma mai fastidiosa. Scoprì di non poterla respingere, e le cedette senza riserve, chiudendo gli occhi.

La melodia – generatasi spontaneamente – lo trasportò lontano avvolgendolo in un liquido amniotico. Era un coro di mille voci, tutte intrecciate tra loro, nel pieno caos: non poteva cogliere le parole né il loro senso, ma ne percepiva l’entusiasmo. Toni scuri e chiari si sommavano, talvolta stridevano senza mai lottare. Le sue gambe iniziarono ad ondeggiare, seguendo il ritmo del respiro: in qualche modo anche il Dottore cercava di partecipare a quella sinfonia. L’effetto durò alcuni minuti.

«Non vi capiterà spesso, caro Dottore. Succede solo le prime volte», interloquì Almidarte. E sorrise. Aveva soltanto un vaghissimo ricordo di quelle sensazioni, anzi poteva ben dire di averle scordate perché risalivano ai primi anni di vita. A volte, quando si trovava in compagnia di uno shva, provava ad immaginare cosa stesse sentendo in quei frangenti e, nell’intimo profondo, lo invidiava.

Scrutò il viso del dottore. Sapeva per esperienza cosa avrebbe voluto domandargli: “perché siete così simili?”. Imparerà anche lui, si disse.

 

Nel frattempo il circo aveva cominciato lo spettacolo. Almeno una quindicina di carrozzoni occupava il fondo della piazza. Era stato allestito il palco durante la mattina, ed uscì il banditore a comunicare l’inizio della rappresentazione. Parlava l’idioma shva, ormai conosciuto da quasi l’intera comunità elfica. L’intera città lì a guardare, tutta in piedi, fece silenzio.

Almidarte si accorse che dalla loro postazione il tarchiato Dottore non poteva vedere nulla. Quindi, senza minimamente mettere in risalto la cosa, avanzò verso la folla.

Il Dottore arrossì di fronte a quelle meravigliose creature, completamente assorte nella visione – difatti nessuno lo notò – e capì perché il prefetto avesse avuto quel nome: superava d’una mano tutti gli altri. Poté poi osservare da vicino l’infinita varietà degli abiti, ognuno diverso dall’altro (ma comodi, almeno all’apparenza), le pettinature al limite del ridicolo di alcuni di loro – evidentemente gli elfi avevano particolare cura dei loro capelli. Quando, sempre seguendo le ampie falcate del prefetto – che a fatica avanzava, accennando dei saluti ogni tanto – riuscì a raggiungere l’arena, si accorse dei piccoli.

Alcuni erano già alti quanto lui, avevano i capelli corti, tagliati a caschetto, e indossavano una sorta di tunica bianca – uguale per tutti, tranne un disegno centrale che fungeva da stemma. Avevano gli occhi grandissimi, pieni di meraviglia, del medesimo colore acqueo. La loro pelle era candida, al limite del pallore. Ridevano contenti (quando in seguito seppe che avevano già quasi vent’anni restò basito). Prestò attenzione alle figure sull’abito: rappresentavano oggetti, esseri naturali, autoritratti stilizzati; quasi nessuno, comunque, aveva cercato un effetto di realismo.

Mentre si andavano esibendo gli acrobati, notò con la coda dell’occhio avvicinarsi ad Almidarte un giovane elfo. Sorrideva e gettò al Dottore uno sguardo interrogativo, poi accostandosi all’orecchio del prefetto gli disse qualcosa. Osservandolo meglio, il medico ebbe un’illuminazione folgorante, che gli fece chinare il capo per l’imbarazzo: non era un giovane elfo, ma un’elfa!

Costei mettendo un braccio attorno al collo del prefetto lo trasse a sé, ma questi si scansò con una smorfia di dolore: il tormento del giorno non era ancora passato. Il Dottore distolse lo sguardo, pudicamente, curandosi dello spettacolo.

 

Il primo gruppo di acrobate era uscito, tra gli applausi. Il banditore chiamò un numero speciale, pregando il pubblico di restare in silenzio. Subito venne obbedito. Un duo di strumentisti cominciò a suonare una musica di accompagnamento, ostinata, inquietante. Da dietro la quinta uscì un uomo in maschera, alto ed avvolto in un mantello – nero su un risvolto e violetto sull’altro. La maschera bianca, totalmente neutra, copriva l’intero viso. Doveva essere un nuovo acquisto della compagnia, perché tutti rimasero col fiato sospeso, in attesa della novità.

Il Dottore non sapeva spiegarsi come mai avvertisse una sensazione poco piacevole alla vista di quella figura: gli trasmetteva ansia e tensione, evocate anche dai liuti che continuavano ad eseguire scale enarmoniche.

Il mago trasse da un’invisibile tasca un coltello. Lo scagliò contro un bersaglio di legno, ma prima di impattarvi, l’arma sparì. Per spuntare nelle mani guantate del prestigiatore che mai s’era mosso. Dopo qualche secondo, arrivarono gli applausi del pubblico. Ma questo era soltanto l’inizio. Per stupire gli elfi con quest’arte occorreva qualcosa di molto più sorprendente.

«Scusate la scortesia Dottore», disse Almidarte riapparendo a fianco del medico. Questi sorrise, immaginando le motivazioni del prefetto.

«Spettacolo di magia?» domandò l’elfo.

«Prestidigitazione» corresse l’altro. «E mi pare assai dotato».

«Senz’altro lo scopriremo subito, arriva una scatola carica di sorprese».

Di fatto sul palco era comparsa, portata a mano da due facchini, una cassa di legno dipinta in nero e violetto. Misurava all’incirca un metro per due, per cui anche un elfo – o lo stesso mago – poteva entrarci comodamente.

Iniziò a parlare, e sorprendendo tutti, lo fece in elfico, quindi cantando. A detta del prefetto, nonostante qualche sbavatura, era una buona pronuncia. Chiedeva un volontario. Quasi tutti i più piccoli alzarono la mano, ma il prestigiatore indugiò, finché non indicò col guanto il buon Dottore. Questi si imbarazzò moltissimo, arrossì, fece diniego col capo. Almidarte con un paio di colpi sulla spalla e un bell’ammicco lo convinse a salire.

Goffamente, raggiunse il palco. L'altro, senza farsi capire dal dottore, fece un po’ di battute sulla stazza dell’uomo, suggerendo al pubblico ch’era meglio rigirare la scatola per farlo stare più comodo. Risero tutti, ma il medico lo prese per un incoraggiamento. La musica divenne un ballabile in tre tempi, sorretto da una melodia molto allegra. Il Dottore fu invitato ad ispezionare la scatola: apparentemente era vuota. Poi dovette entrarci. Non si fidava granché di questo prestigiatore, ma non voleva deludere le aspettative di divertimento del prefetto.

Sentì un lucchetto da fuori bloccare la serratura. Nessuna via d’uscita. Di colpo, si tornò ad un brano di grande tensione. Il prigioniero cominciò a sudare freddo.

Non poté vedere la corta spada che il mago aveva estratto dal mantello e che con gran rapidità infilò nella scatola, trapassandola da parte a parte. Ma si accorse del bottone che saltò con un rumore secco. Il suo grido si perse negli applausi del pubblico. Decise, per la propria salvezza, di chiudere gli occhi. Altre dieci spade trafissero il legno. Gli spettatori avevano finito di battere le mani e guardavano adesso in attesa. Il mago aprì il mantello e si pose, spalle al pubblico, davanti alla scatola. La musica cessò su un accordo dissonante, e nel medesimo istante il mantello cadde a terra. Il mago era sparito, restava sul palco soltanto quella cassa di legno, che iniziò a ruotare su se stessa, facendo vedere che effettivamente tutte le dieci lame avevano intaccato la superficie. Quindi si fermò.

Il Dottore aprì gli occhi. Tutto era integro, e ogni muscolo rispondeva ai comandi. Buttò fuori aria. Vide che non c’era niente nella scatola. Provò a spingere la porticina da cui era entrato e questa si aprì. Si ritrovò sul proscenio, pallido ma felice per il successo. Venne accolto da un’autentica ovazione, e cercò tra gli altri l’applauso di Almidarte che lo stava incoraggiando con sincero entusiasmo.

Passati i primi istanti, il pubblico cominciò ad invocare il prestigiatore, a gran voce: neanche stavolta rispose. Salirono i primi commenti, che ovviamente il dottore non capì. Ma riuscì a cogliere il suggerimento del prefetto. Aggirò la scatola e provò ad aprire l’entrata posteriore. Era socchiusa. Bussò e chiamò il mago. Non udì risposta, in compenso vide che la mano si era macchiata di sangue. Senza dubbio.

Aprì la porticina: era vuota ma un'ulteriore traccia fece svanire qualsiasi accenno di sorriso sul volto del dottore.

Per terra, incastrato tra due assi di legno, c'era un dito. Un mignolo, con l'anello del mago ancora infilato.

 

Il buio era calato sulla città. Almidarte aveva fatto sgomberare la piazza. Una scusa qualsiasi, lo spettacolo rimandato all'indomani. Erano rimasti soltanto alcuni elfi del consiglio, con cui stava discutendo animatamente. Anche in questo caso, il Dottore fu sorpreso dal canto sgorgante, ma ne avvertiva tutta l'inquietudine nel tono. Pensò che sarebbe stato il caso di dare una mano nelle indagini sulla ricerca del prestigiatore. Il prefetto venne presto a cercarlo.

«Abbiamo capito da che parte è fuggito il mago. C'è una botola precisamente sotto la cassa. E sulla scaletta che conduce sotto il palco compaiono altre tracce di sangue».

«Bene, allora non ci resta che trovare il mago».

«E chi lo ha forse ucciso, caro Dottore».

«Che significa?».

«Pensate che il nostro prestigiatore si sia affettato da solo il ...?» indicò il mignolo.

«Sennò chi?» il dottore si corrucciò parecchio.

«Colui che è salito dalla botola ferendolo, e poi trascinandolo giù con sé».

Ci fu un silenzio necessario alla fine di questa frase. Un attendente del prefetto si avvicinò.

«Andremo a perlustrare il sottopalco per capirci qualcosa di più. Volete venire con noi, Dottore?». Il dottore rimase in sovrappensiero.

«Forse è meglio che resti qui. Non è raccomandabile per chi ha subito emozioni violente permanere in ambienti chiusi ed umi-» non riuscì a terminare la frase.

«Allora vi prego di attenderci, potremmo avere bisogno della vostra consulenza». Il Dottore rimase un po' interdetto dal brusco mutamento di tono. Ma si congratulò tra sé di aver abilmente scampato un inutile pericolo. D'altronde come potevano sperare di trovare il corpo del mago? Chi l'aveva preso ne aveva bisogno, altrimenti l'avrebbe lasciato di sotto. O forse, necessitava di tempo per fuggire senza attirare l'attenzione...

Troppi pensieri tutti assieme. Il dottore si massaggiava le tempie in cerca di conforto.

 

Almidarte scese a fatica gli scalini. Ancora il terribile torcicollo, mentre la giornata volgeva ineluttabilmente al peggio. Non si aspettava nulla di buono da queste indagini. E continuava a sentire quella sensazione di tragedia annunciata che la peste gli aveva insinuato da qualche ora.

Oramai era quasi certo di partire per Vàndratal, ed avvertire personalmente l'Imperatore. I segni stavano assumendo una forma sempre più caotica, ma conducevano alla stessa drammatica conclusione. Ma forse esagerava. Venne distolto dai suoi pensieri dall'attendente.

Il sottopalco era ingombro di bauli, cassapanche, cordami, gabbie per uccelli, costumi. La costruzione aveva circa un centinaio d'anni, da quando il circo aveva posto come tappa fissa la sua presenza ad Irasmil. Per evitare agli artisti di rimontare il palco ad ogni visita, si era pensato di lasciarlo lì stabilmente. Almidarte era rimasto assai affascinato da quella scenografia, per lui così inusuale. Incombeva però l'attendente.

Gli fece notare delle tracce di sangue sul pavimento che conducevano in fondo alla stanzone. Tracce piuttosto fresche. Si fece porgere la torcia. E il suo sguardo si fece ancora più perplesso.

«Di che colore vi pare questo sangue, attendente?».

«Non rosso, nero o violaceo, prefetto!», disse l'altro con stupore quasi eccessivo.

«Già» Almidarte iniziava a sbuffare «cerchiamo di sbrigarci. Aprite quella porta!». Usò un tono di comando, cui non era abituato. La porta era di legno massiccio, ma si aprì con una piccola spinta: era solo accostata. Scesi alcuni gradini, davanti al gruppetto si mostrò un lungo corridoio, apparentemente senza fine. L'attendente anticipò il prefetto.

«Arriva sin fuori alla piazza. Sulla destra a pochi metri c'è un'uscita che riconduce dietro il palco». Almidarte aveva aumentato il passo.

«Seguitemi!», e cominciò a correre, agitando continuamente la torcia nella mano nervosa.

Passarono velocemente la porta. Dopo cinquanta metri, tutti s'arrestarono dietro al prefetto. L'attendente vide il suo volto contrito e gli occhi chiusi, quasi non s'azzardava a guardare. Sotto la fioca luce era apparso un corpo inanimato. Gli occhi spalancati e la profonda ferita sul petto non lasciavano dubbi.

«Ecco di chi era il sangue...», aggiunse il prefetto senza voce, senza riuscire ad intonare. L'elfico mal si adattava a comunicare questo genere di notizie. Si inginocchiò verso il cadavere. Macchie bluastre coprivano tutto il corpetto, il mantello e il viso. La ferita all'altezza del cuore era stata letale. Il prefetto, facendosi forza, gli prese le mani. Erano integre, benché insanguinate e sporche.

Si girò verso le guardie, tenendo il polso della mano destra del cadavere.

«Non solo non è il nostro mago...» accennò all'anulare «...questo elfo viene direttamente dalla capitale». L'anello difatti mostrava l'inconfutabile simbolo di Vàndratal, le due 'vu' elfiche incrociate. Almidarte si alzò in piedi. «Chiamate il cerusico shva».

 

'Non c'è verso di evitare i guai, anche a starne lontani'.

Questa la morale tratta dal Dottore, riguardo all'infelice idea di venire ad informare il prefetto di Irasmil, mentre constatava il rigor mortis dell'elfo. Ma non era certo il tipo da abbattersi facilmente. Oltretutto sapeva che i guai hanno due nature: quelli irrisolvibili – quando non resta che rassegnarsi – e tutti gli altri – i più noiosi, eppure nutriti dalla tenue speranza di essere prima o poi risolti. Questo, fortunatamente, apparteneva al primo genere.

«Mai visto cadavere più morto di questo», sospirò ad alta voce. Il prefetto non rispose, allora cercò di aggiustare il tiro. «...Purtroppo non c'è niente da fare, mi dispiace. La ferita letale è stata procurata da un coltello, credo. Posso escludere altre cause. Se volete, credo possa essere sepolto...». Capì che era il caso di tacere. Almidarte gli fece cenno di risalire.

«Non siamo molto abituati a questo genere di eventi, Dottore. Nessuno di noi conosceva quest'elfo, ciò nonostante ho visto le guardie piangere...» colse un'occhiata sorpresa nell'interlocutore, proseguì «portava al dito l'anello degli agenti imperiali, ma quale missione conducesse è al momento un mistero. Comunque dubito fortemente che il nostro prestigiatore fosse soltanto un artista del circo...». Il Dottore ebbe un'improvvisa illuminazione sul caso.

«C'è qualcosa che non torna. Avete trovato solo tracce di sangue elfico, giusto? Ora, constatato che il dito recuperato era senza dubbio della mia specie, dov'è finito il sangue suo? Tagli del genere, per quanto precisi, ne fanno fuoriuscire in abbondanza, sono certo».

«Non ho risposte da darvi...ma penso che la pestilenza scoppiata ad Atlas abbia qualche oscuro legame con questo omicidio. Purtroppo mi sfugge qualsiasi trama o senso definito...». Il Dottore continuò.

«Magari dai circensi spunterà un indizio utile...».

 

Venne fuori che il mago, presentatosi come Loq, si era aggregato al circo soltanto pochi mesi prima, a sud delle Selve Arcaiche. Non c'erano stati dubbi sul fatto di assumerlo: la sua arte aveva dell'incredibile. Riusciva a liberarsi da qualsiasi catena o fune, anche in condizioni di estremo rischio per la vita. Oltre ai vari numeri di prestidigitazione. Secondo qualcuno più informato stava preparando un numero speciale, la cui natura era sconosciuta. «Probabilmente come ferirsi senza perdere sangue» aveva pensato il dottore non osando riferirlo.

Non si vedeva mai in pubblico. Sempre chiuso nel suo carro a studiare i suoi spettacoli in maniera minuziosa (e difatti nessuno ricordava un suo errore). Lo accompagnava un giovane, sui tredici anni, anche lui avvolto dal mistero, seguiva come un'ombra il padrone, ed evitava di comparire a volto scoperto. Una volta aveva fatto a pugni con uno dei trapezisti che lo stuzzicava affinché si togliesse il cappuccio. Il trapezista ne era uscito con le ossa rotte, letteralmente. Il Dottore non immaginò che fosse tanto difficile e rischiosa la vita vagabonda.

Ovviamente non fu possibile trovare tracce del giovane umano, né di Loq. Pure il loro carro era sparito. Almidarte mandò alcune guardie a cavallo in cerca dei due, ma non nutriva alcuna speranza di ritrovarli.

Stava sorgendo il secondo sole. E non aveva messo nulla sotto i denti. Pregò il Dottore di seguirlo nel palazzo. Irasmil ancora non sapeva nulla della tragedia, ma presto sarebbero venuti a chiedere notizie del prestigiatore e dello spettacolo rinviato. Il dolore al collo era aumentato, e non riusciva neanche a girarsi. Avrebbe spedito l'indomani un messo nella capitale per conoscere qualche particolare in più sull'agente imperiale.

Niente di grave era mai successo in trent'anni della sua prefettura – ma dopo quella giornata, ve n'era a sufficienza per restare negli annali. (Si domandò in un lampo se questa fama potesse mai valere la vita di un fratello). Aveva notato che il Dottore, forse in virtù della sua professione, non si era scomposto di fronte al cadavere, né all'evidenza di un assassinio brutalmente compiuto. Gli umani dovevano essere abituati a questo genere di violenza.

Altrimenti non sarebbero stati il più efficiente esercito di Venàlius, ideatori di mirabolanti quanto letali macchine da guerra.

 

«Qual è il piano, adesso, signor Prefetto?» chiese il dottore mentre gettava annoiato sale sul secondo piatto di verdure servito in tavola.

«Ottima domanda. Dovremo organizzare delle ricerche più fruttuose per il nostro Loq, ed attendere risposte dalla capitale. In sostanza, al momento, siamo bloccati...Avete urgenza di rientrare ad Atlas?».

«Assolutamente no! Si figuri! Ho lasciato a disposizione il mio apprendista, una persona molto valida. Piuttosto avrei urgenza di trovare un rimedio per l'epidemia...», il dottore non voleva sembrare disinteressato ai propri doveri.

Il prefetto si alzò in piedi. «Avevo dimenticato la pestilenza. È di gran lunga il più grave dei nostri problemi». Rimise a posto le posate. «Non c'è che dire Dottore, oggi sarà posto alla prova il mio valore. Riuscissi a risolvere anche uno soltanto dei guai, mi terrei fortunato».

 

Il cerusico, ugualmente splendido a vedersi – seppur qualcosa nel suo contegno mostrasse un'età più matura del prefetto – vestito di una tunica nera, aveva iniziato il suo canto nella sala consiliare. Ma Almidarte lo fermò subito, segnalando la presenza del dottore shva.

«Scusatemi, parlo a nome della gilda dei Medici...» qui il Dottore trattenne a stento una risata e dal modo con cui venne pronunciata la frase avrebbe voluto rispondere con una pernacchia «...trascorse abbiamo alcune ore documentandoci nella biblioteca e consultandoci. Mai abbiamo sentito di tale epidemia ribattezzata 'peste'. Eppure non crediamo sia frutto di un artificio. Trattare devesi di una malattia come le altre, causata da un bacillo letale».

«Quindi possiamo concludere che sia un evento del tutto casuale?».

«Pensiamo di sì. Ma non esclude questo la possibilità che verificarsi possa in talune circostanze piuttosto che in altre. Pensiamo inoltre sia bene andare a controllare cosa successe nel villaggio Atlas. Trattasi forse di un morbo contagioso e potrebbe essere un'ottima soluzione isolare le persone malate e i focolai».

Il Dottore stava rivalutando le capacità di quest'elfo. Perché non aveva pensato per primo a rinchiudere i malati? Comunque l'aveva vinta sul prefetto per quanto concerneva l'origine naturale del morbo. S'accorse che Almidarte lo guardava con aria interrogativa.

«Mi pa...Paremi un'ottima idea» quindi aggiunse con estrema umiltà «Duolemi non averla praticata io istesso...forse si sarebbero salvati dei miei concittadini...». Il prefetto corse ai ripari.

«Avete fatto fin troppo, caro Dottore». Quindi, in elfico, parlò al cerusico. Dette l'ordine di partire immediatamente per Atlas ai migliori medici della gilda. E di fare estrema attenzione alle possibili cause del morbo.

«La notte lunga è agli sgoccioli, dottore. So che voi umani siete abituati ad un terzo pasto nella giornata. So anche la vostra sofferenza nell'ingerire soltanto frutti e verdura. Pertanto ho richiesto che venisse cucinato del pesce, alla maniera tipica dei pescatori». Il Dottore parve subito entusiasta.

«Pesce di mare?».

«Ovviamente no. È di lago». Almidarte uscì dalla salone per la terza volta in quella giornata.

«Ma mi farà compagnia, spero?».

«Certo, lo assaggerò con voi. Anche se va contro le nostre usanze». Sorrise girandosi. Il torcicollo lo fece quasi urlare di dolore.

Il Dottore si avvicinò. Salì su una sedia, per essere alla sua altezza.

«È tutto il giorno che vi osservo, signor Prefetto. Se permettete, posso darvi una mano». E senza perdere tempo né attendere una risposta, dette uno strattone laterale al collo del prefetto, che lanciò un grido.

Riavutosi dal colpo, stava per aggredire l'altro, ma si fermò: il male era sparito.

 

 

Cinque giorni dopo, l'intero Nord di Venàlius era martoriato dalla peste. I medici elfici avevano assistito impotenti alla morte di altre centinaia di persone. Diversi altri villaggi di pescatori furono isolati e venne impedito alla popolazione di abbandonarli. I presunti sani ed immuni si rifugiarono in abitazioni di temporanea permanenza. Né si riusciva a capire l'origine del morbo.

Per la prima volta, gli shva si trovarono alle prese con un nemico invisibile ed al contempo invincibile. Le strade si riempirono di fumi, fuochi, incensi, urla strazianti di dolore. Qualcuno impratichito nell'arte medica si prodigava in consigli, strizzava lembi di lenzuola nell'acqua, appoggiava la mano sulle fronti brucianti. Intere comunità di poche decine d'abitanti erano costrette a spostarsi, con metà popolazione decimata. Di fatto, nessuno aveva un rimedio valido.

Non destarono stupore le alte figure degli elfi che si aggiravano per quelle contrade, né la loro voce musicale. Gli stessi medici finirono per parlare solamente l'idioma locale, perché sentivano che la loro lingua mal si adattava a quella tragedia.

Senza trovare indizi utili per debellare il morbo, il capo dei cerusici dette l'ordine di rientrare. Lasciando i pescatori in balia del caso. «Bisogna attendere che passi. Non abbiamo alternative». E si apprestarono sul cammino del ritorno. Alcuni degli shva ebbero dure parole per gli elfi. Li avevano aiutati, a prezzo di numerose vite, in tempo di guerra, e adesso in cambio non ottenevano niente, se non lo scherno di vederli andar via sani come erano arrivati. Qualcuno, trai più lungimiranti, sostenne che prima o poi si sarebbero fatti nuovamente vedere, quando il morbo avrebbe colto anche loro.

 

Nei successivi tre giorni ci fu un'impennata di vittime che mise sotto scacco le autorità. Si bloccò qualsiasi attività. Mancavano cibo e cure. Ad Irasmil iniziarono a temere che la stirpe shva potesse estinguersi.

E invece, improvvisamente, la sciagura cessò; se non del tutto, quantomeno drasticamente. Il bilancio era di miglia di morti e perdite inestimabili, ma si fermò. Qualcuno trai saggi dei villaggi nutriva ancora dei dubbi, che vennero però dissolti col trascorrere delle ore e dei giorni.

I cerusici, dopo aver raccolto dati e ad archiviato con disegni e precise descrizioni anatomiche il sorgere e il decorso della malattia, assicurarono il prefetto che la situazione era tornata sotto controllo. Bisognava mandare aiuti in tutte le zone costiere, particolarmente flagellate. Almidarte dette loro l'ordine di dare fondo ai magazzini di stoccaggio di alimenti e materie prime, affinché gli shva non dovessero lamentarsi della generosità elfica e potessero invece sentirsi ben protetti e circondati dalla massima disponibilità.

Per conto suo fece sellare due cavalli, e lasciò temporaneamente il controllo al consiglio cittadino. Sua massima preoccupazione fu tenere alto il senso d'allerta perché non si fidava per niente della rapida quanto inattesa fine dell'epidemia. Il Dottore si apprestò a partire per il viaggio più importante della sua vita. Raggiungere Vàndratal non era certo missione di tutti i giorni, e ben pochi ad Atlas vi avrebbero creduto al suo ritorno. L'arrivo era previsto entro una settimana, vista l'efficienza del sistema postale che gli shva avevano allestito lungo le strade dell'Impero. Si augurò che il suo sostituto riuscisse a gestire lo studio medico senza causare troppi danni.

 

Dopo la loro partenza, alcune guardie speciali continuarono senza successo la ricerca di Loq e dell'aiutante. Qualcuno disse di aver visto una coppia di raminghi procedere a nord verso la grande Desolazione. Ma nessun elfo aveva voglia di avventurarsi tra quelle terre inospitali e fecero marcia indietro.

Rientrando in città, al quarto giorno dalla dipartita del prefetto, una delle guardie si accorse di avere sulla pancia una strana verruca, piuttosto brutta a vedersi.

Nel giro di poche ore, morì.

  
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