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Autore: Melian    30/04/2007    1 recensioni
“È necessario che tu ricordi, è necessario che non dimentichi.”, gli rispose Mnemosine “Senza passato, il futuro non ha senso. Domani si deciderà il Destino di molti e tu, Alessandro, figlio di Zeus che è Amon, devi essere pronto, devi soppesare ogni cosa che ti ha portato qui, a questa notte.”
“Il Destino, il Fato.”, ribatté prontamente Alessandro, in un muto dialogo fatto di pensieri fugaci. “La Moira. Ineluttabile, sconosciuta, una forza alla quale non possiamo sottrarci, qualcosa che abbiamo in noi da sempre, che richiede il sacrificio di noi stessi e di quanti abbiamo intorno.” Alessandro gettò uno sguardo all’entrata della sua tenda. “Il Destino ha condotto tutti fino a questa vigilia? Il Destino e non Alessandro stesso?”
[Vincitrice del premio "Storico" al contest "Lo specchio dell'anima" di peetassmile indetto sul forum di EFP]
Genere: Guerra, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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- Questa storia fa parte della serie 'Alexandros'
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CAPITOLO IV

Il racconto di Alessandro era appena terminato e, adesso, lui ed Efestione sedevano in silenzio, l’uno immerso in profonda meditazione, l’altro intento a cogliere le diverse emozioni che si alternavano sul volto del Re.
«Sai cosa mi disse una volta Aristotele?», Alessandro d'un tratto spezzò il greve silenzio.
Efestione rimase in ascolto, spostando lo sguardo sulla superficie di un bacile di rame lì accanto. Il suo riflesso e quello dell'amico erano appena distorti dal metallo lucente.
«“L’ira non sempre è la giusta risposta.” Aveva ragione, ma io mi sono abbandonato all’ira molto più spesso di quanto volessi.», proseguì Alessandro, colto da una fitta di malinconia al pensiero del filosofo di Stagira.
«Non fartene più una colpa. Ciò che accadde a Tebe non si ripeterà più. Ricordi? Lo hai giurato.», ribatté prontamente Efesione, dandogli una pacca sulla coscia.
Alessandro annuì gravemente. «Sì, l’ho giurato. Ma la guerra, Efestione, non potrà far altro che spingermi a spargere sangue. Forse la guerra non avrà mai fine, forse sarò destinato a combattere ogni giorno della mia vita, fino a quando non arriverò ai confini del mondo, e là, magari, avrò pace.»
«Non sarai contento fino a quando non avrai visto ciò che fa solo parte di vecchie leggende e avrai aggiunto l'Asia alla Macedonia e poi ancora oltre?»
Alessandro sorrise appena e si strinse nelle spalle, come a volersi giustificare scherzosamente: «Perchè no? Infondo, anche Dionisio attraversò gli immensi territori asiatici, portandosi dietro le sue Menadi e i suoi Satiri, la sua musica, le sue orge, i suoi misteri…»
Stavolta la sua voce parve diversa: era più bassa e profonda, musicale, aveva lo stesso ton di quuella di Olimpiade mentre era intenta ad officiare i misteriosi riti dionisiaci, nelle stanze più intime del palazzo reale a Pella, o nei santuari arborei nascosti tra i boschi della sua terra natia, l’Epiro.
«Anch’io voglio percorrere la stessa strada, anch’io voglio vedere il profondo Oriente, scoprire il punto in cui si trova l’unica fonte da cui si dipanano i fiumi più grandi del mondo: il Nilo, l’Indo, il Tigri e l’Eufrate. Anch’io voglio spingermi in quei mitici territori, assieme ai miei uomini.», concluse Alessandro con una nota misteriosa e appassionata nella voce, mentre i suoi occhi scintillavano. «Ma il primo passo per far questo è quello di mettere fine al domino di Dario.», concluse: era tornato il Condottiero pragmatico e determinato.
Stava per aggiungere altro, qualcosa sui piani di guerra, quando sentì le voci dei suoi generali all'esterno che chiedevano alla guardia di picchetto di lasciarli passare. Il lembo di stoffa si sollevò e tutti i suoi amici sfilarono all'interno, vestiti di tutto punto per la battaglia.
Parmenione, anche se piuttosto vecchio, era armato di tutto punto, teneva ancora la spada ai fianchi e reggeva l’elmo sotto al braccio; fu lui a prendere la parola.
«Sire, abbiamo visto splendere nella notte migliaia e migliaia di fuochi, lì, nella piana tra il Ninfate e i monti di Gordio. E voci, innumerevoli voci, di centinaia di uomini; voci indistinte, ma pur sempre in numero incredibile. Rumori, rumori come quelli delle onde del mare sugli scogli. Sembra proprio che un mare di guerrieri si estende dinanzi a noi, in numero tale quanti non ne abbiamo mai visti, né al Granico, né a Isso.» Parmenione non aveva certo paura: un veterano come lui aveva imparato a domare da tempo un sentimento come quello; piuttosto, era incredibilmente preoccupato.
Alessandro ascoltò attentamente e, nel frattempo, leggeva lo stesso sentimento di ansia sul volto di tutti i suoi amici e volle tranquillizzarli. «So bene che il nemico ci è superiore per numero. Però, io confido nel valore dei miei uomini: nessuno potrà fermarci.»
«Alessandro, ragazzo, quella che chiedi ai tuoi soldati è un’impresa immane.», brontolò Parmenione. «Non potremo sperare di vincere contro un esercito del genere in pieno giorno. Forse l’unica soluzione che ci resta, se vogliamo limitare i danni e salvare la vita dei nostri soldati, è quella di attaccare ora, col favore delle tenebre: un’azione a sorpresa. Non potranno resistere! Non avranno il tempo per rendersi conto di quello che succede, né di organizzarsi: potremmo riportare una vittoria in tempi relativamente brevi.»
Alessandro serrò con forza le mani attorno ai braccioli del suo seggio, le nocche sbiancarono. Il re s’alzo con relativa calma e propose una risposta estremamente pacata e risoluta accompagnata da un sorriso enigmatico: «Io non rubo la vittoria.»
Quella frase sembrò riecheggiare più e più volte nelle orecchie dei suoi amici e, probabilmente, sarebbe rimasta scolpita nelle loro menti per sempre.
Parmenione restò a bocca aperta. «Tu scherzi, sire. Metti a repentaglio la vita del tuo intero esercito. Perché vuoi mandarlo al massacro?»
«Perché tu non vuoi credere nella nostra vittoria?», replicò allora Alessandro con uno slancio inaspettato, ma privo di risentimento. «Io ti stimo, Parmenione.», gli disse con sincerità e poi la sua voce assunse una nuova intensità, come se i pensieri si agitassero turbinosi nella sua mente e le parole non riuscissero a tenerne il passo. «Ma non pretendere da me azioni che vadano contro la mia stessa natura. Giurai a me stesso che avrei affrontato Dario faccia a faccia, in campo aperto, senza sotterfugi. Se attacco adesso, allora fornirei a Dario una nuova scusa per continuare a battersi, farei in modo che lui creda di aver perso solo perché è notte, come ha fatto a Isso, quando ha incolpato i monti e il mare per essersi dovuto ritirare. Io, invece, voglio che la sua sia una disfatta totale e definitiva. Voglio affrontarlo in duello e vincerlo sotto gli occhi dei suoi uomini. Voglio che comprenda che il suo regno è finito per mano mia. Niente mi impedirà di vincere come voglio. Nessuno deve frapporsi tra me e il mio obbiettivo, nemmeno la notte! Comprendi, Parmenione? »

Alessandro rimase solo. Seduto sul suo seggio rifletteva e, di tanto in tanto, tracciava con la punta della spada dei segni sul terreno: rivedeva le strategie di guerra e le posizioni che aveva assegnato ai reparti dell’esercito. Voleva che tutto fosse perfetto, che nulla sfuggisse alla sua attenzione e minacciasse la sua vittoria.
La notte fuori dalla sua tende invecchiava e infine Alessandro si sdraiò sul suo letto: ora che tutto gli era perfettamente chiaro, aveva intenzione di riposare, finalmente. Mancava poco all’alba e lui voleva giusto dormire per qualche ora, prima di vestirsi per la battaglia. Si accertò che sotto al suo cuscino ci fosse la sua Iliade e il pugnale macedone, e posò la testa sul guanciale.
Fissò un punto indistinto della tenda, la sua mente si svuotò gradatamente e ad Alessandro parve di essere più leggero, quasi di fluttuare.
Una mano delicata si immerse nei suoi biondi capelli, carezzandoglieli dolcemente, con tenero affetto.
Alessandro, le palpebre socchiuse, si rilassò completamente e gli parve d’essere tornato bambino e che Olimpiade lo tenesse stretto tra le sue braccia e lo cullasse piano.
Riposi, infine, Alessandro?”
Malgrado stesse scivolando nel sonno, comprese perfettamene le parole sussurrate al suo orecchio da una voce divenuta ormai familiare.
“Cosa vuoi da me?”, pensò con la mente obnubilata.
Mnemosine, china su di lui, sorrise appena, un sorriso enigmatico di Dea.“Voglio sapere cosa hai compreso fino ad ora ripercorrendo tutti quei ricordi, voglio capire se sei davvero pronto per ciò che ti attende. Perché sei così certo di ottenere la vittoria?”
Alessandro si abbandonò alla dolce sensazione che lo invadeva: andava alla deriva, il sonno gli baciava le palpebre.
“Io so già che vincerò. Domani non dovrò far altro che mostrarlo agli altri. Ciò che ho compreso è che io sono il Molteplice e l’Uno assieme, sono il Figlio di Zeus-Amon, sono il Re dei Macedoni, sono il Faraone d’Egitto, sono il Condottiero dell’Ellade. Ma sono sopratutto un uomo, un uomo che prova dolore, rabbia, odio, stanchezza, ma anche amore, affetto, felicità vera. Un uomo che ha grandi ambizioni, che desidera appagare la propria sete di conoscenza e di conquista, che vuole andare incontro al suo Destino, afferrarlo e forgiarlo a proprio piacimento. Sono un uomo che ha accettato e capito che una parte di sé è divina esattamente come tutti gli altri uomini animati da una profonda passione. Io non sono un secondo Achille, malgrado Achille sia per me fonte di ispirazione. Non sono semplicemente il successore di Filippo. Non sono solo un Re, né solo un guerriero, né solo un sapiente, né solo un servitore degli Dèi. Io sono Alessandro. Innanzitutto, Alessandro.”
Sei pronto.” , gli sussurrò Mnemosine e gli accarezzò ancora i capelli con una dolcezza squisita. “Hai trovato la risposta a una delle tue domande più importanti. Ricordi quando a Mieza, prima di scivolare nel sonno, ti chiedevi chi fossi in realtà? Adesso conosci la risposta.”
Alessandro rimase comodamente disteso, il braccio piegato sulla fronte e un sorriso appena accennato sulle labbra. “Il sonno…” , si disse mentre cercava di tenere il filo dei propri pensieri così incalzanti.“Temevo il sonno, da bambino. Avevo paura che qualcosa, nella mia mente, si muovesse e che mi avviluppasse completamente e che, il giorno dopo, mi sarei svegliato diverso, cosciente di non essere più me stesso. Temevo che il vuoto che avvertivo dentro mi catturasse.”
Mnemosine posò un bacio sulle labbra del giovane Re. “Avevi paura di te stesso. Temevi una parte di te che non conoscevi, poiché laddove splende una possente luce, più fonda è l'oscurità che ne deriva. Non dimenticare una cosa importante, Alessandro!”
“Cosa?”
Ricorda che gli uomini, nonostante la loro grandezza, rischiano costantemente di cadere preda degli eccessi: anche tu, Re dei Macedoni, devi tenerlo a mente, poiché ti basterebbe poco per trasformare tutto ciò che hai conquistato e che conquisterai in polvere. Ti occorrerebbe un nulla per spezzare ogni legame d’amicizia e affetto ed essere preda dell’egoismo e dell’odio. Basterebbe un nulla perché il mondo che tu hai creato si infranga come un vaso di terracotta. Non farti abbagliare dal miraggio di essere indenne dalle pene e dalle sofferenze umane, nonostante tutto. Guardati innanzitutto da te stesso.”, lo ammonì Mnemosine e sembrò che stesse profetizzando il suo futuro.
Alessandro non rispose a quelle parole, demoni e dèi si agitavano ancora nella sua anima.
“Dormi, amato dagli dèi. Hypnos sia benevolo con te e ti offra il ristoro che ti occorre..”, gli augurò la Dea e si pose sul capo il velo bianco, divenendo una presenza sempre più intangibile, fino a che sparì del tutto.
Quella notte Alessandro era stato visitato da una Dea e dai suoi ricordi, dai più gloriosi ai più tenebrosi, ma dormì profondamente e serenamente per la prima volta dopo molto tempo.
Sognò di essere tornato a Pella e che le stanze del palazzo risuonassero delle note d’arpa suonata da sua sorella Cleopatra. Uscendo dalle sue stanze gli parve di scorgere Olimpiade avvolta dalle spire del fumo dell’incenso bruciato dinanzi a un simulacro di Dioniso. Alessandro vide Filippo nella sala del trono intento a discutere coi suoi generali e bere del vino greco da una coppa d’argento.
Sognò di attraversare i cortili del palazzo e di giungere nelle scuderie, quindi di condurre fuori Bucefalo e di saltargli in groppa, lanciandolo infine al galoppo nel sole del meriggio. Gli parve di avvertire il vento tra i capelli e sul viso, e un senso di libertà assoluta invaderlo. Alessandro spronava Bucefalo a correre sempre più veloce, ancora più veloce, fin quasi a spiccare il volo…

All'alba le trombe suonarono la sveglia per l’intero accampamento.
Alessandro, che di solito era il primo a svegliarsi, ancora non si faceva vedere.
I Compagni del Re, allora, decisero di dare ordine ai comandanti di reparto di passare in rassegna gli uomini e di distribuire una colazione frugale che i soldati mangiarono in piedi e armati e muti, tesi.
Parmenione gettò un’occhiata tutt’attorno: l’intero accampamento era in gran fermento e gli uomini avevano bisogno di vedere il loro Re, della loro guida, del loro Condottiero.
«Vado a chiamare il Re.», decise.
Quando lo vide dormire così beatamente, però, Parmenione non ebbe cuore di svegliarlo immediatamente. Parmenione, i modi di un padre affettuoso, chiamò il Re per ben due volte.
Alla terza, Alessandro aprì gli occhi lentamente, riconobbe la voce che lo chiamava con urgenza e si sollevò, scrutando il generale quasi incuriosito dalla sua presenza. «Parmenione? Che ci fai qui?», chiese con voce impastata.
Parmenione tradì una certa sorpresa: possibile che Alessandro non si rendesse conto di quello che li aspettava? Non sembrava lui: era troppo tranquillo, quasi incurante della battaglia che avrebbe dovuto combattere. «Cosa ci faccio qui?! Ragazzo, hai forse dimenticato cosa ci aspetta oggi? Che gli dèi mi stra fulminino! Dormi come se avessi già vinto, come se la Persia fosse già interamente tua! In più, resti comodamente a letto mentre il tuo esercito è pronto da un pezzo e ti aspetta. Non sembri nemmeno Alessandro: dove l'hai nascosto?»
Alessandro sogghignò e si passò una mano tra i capelli biondi, rilassato. «Sono così tranquillo perché… beh, non ti pare che è come se avessimo già vinto? Sì, è così. Ora non siamo più costretti ad inseguire Dario in una terra sconfinata e desolata: questo è il primo passo verso la vittoria. Riferisci pure la nostra conversazione agli altri, di’ loro di tenersi pronti assieme ai soldati: io arriverò tra poco e passerò in rassegna l’esercito.»

Bucefalo nitrì e sbuffò non appena Alessandro gli salì in groppa: il cavallo fremeva e sembrava ansioso di lanciarsi in battaglia.
Alessandro gli diede un buffetto sul collo poderoso e gli sussurrò all’orecchio: «Oggi tu ed io saremo più veloci di Ermes in persona: mi condurrai dinanzi Dario e alla vittoria, amico mio!»
Il sole splendeva sull’immensa piana di Gaugamela. Un vento secco sollevava ondate di polvere finissima e fastidiosa che si attaccava alla gola di chi la respirava. In lontananza si poteva scorgere l’immenso esercito agli ordini di Dario III schierato in perfetto ordine: per i Macedoni e gli alleati Greci fu come ritrovarsi dinanzi a un mare abbagliante di uomini e armi, forti del fatto di trovarsi in un luogo favorevole.
Tuttavia, quando l’esercito macedone vide avanzare Alessandro sentì rinascere la speranza e la volontà di combattere.
Alessandro rifulgeva nella sua armatura: una sottoveste di Sicilia legata alla vita e una corazza doppia di lino presa ad Isso fatta di placche di ferro leggero e lucente come l’argento; sul capo portava un elmo dello stesso metallo a forma di testa di leone con le fauci spalancate e ornato da pennacchi rossi e bianchi; al fianco teneva la spada e nella mano destra una lunga lancia. Infine, dalle sue spalle scendeva un manto di tessuto rosso intrecciato con fili d’oro, dono della città di Rodi.
Alessandro, così vestito, sembrava, allo stesso tempo, Ercole e Achille, e la sua vista fece rifluire in ogni soldato una forza indicibile.
In groppa al suo instancabile Bucefalo, il Re sfilò davanti ai suoi uomini. Li guardò prima senza dir nulla, poi si tolse l’elmo e prese a parlare nel silenzio immobile e pesante della piana di Gaugamela con voce appassionata, con un tono tale che Demostene ne sarebbe stato invidioso.
«Uomini! Macedoni! Alleati Tessali e Greci!», e i soldati fecero sentire la loro voce in un urlo selvaggio e nel cozzare delle lance contro gli scudi. «Dinanzi a noi si estende l’intera potenza persiana. Dario si è finalmente degnato di scendere in battaglia e crede di poter aver ragione di noi. Ma Dario dimentica che per due volte è stato già sconfitto: al Granico e ad Isso. E siamo stati noi a batterlo! Ognuno di voi, miei uomini, vale più di dieci Persiani. Nessuno ha coraggio e forza quanti ne avete voi. Voi siete un esercito imbattuto: dimostrare di essere invincibili anche oggi, dimostratelo a Dario e ai suoi mercenari!Quegli uomini non hanno né famiglia a cui tornare, né patria da difendere, non hanno nulla all’infuori della loro vita, combattono spinti solo dal desiderio di guadagno e di sopravvivenza. Voi, invece, siete uomini che combattono per una giusta causa! Ricordate i vostri padri, le madri, le mogli e i figli che vi aspettano. Ricordatevi della vostra patria che vi attende per tributarvi grandi onori. Ricordatevi del solenne giuramento che faceste quando iniziammo il nostro viaggio!», Alessandro fece una pausa e, con furore, cercò gli occhi dei suoi soldati «Noi siamo i vendicatori di Maratona e delle Termopili, noi siamo i liberatori dell’Oriente dal gioco persiano, oggi anche Filippo II di Macedonia verrà vendicato, poiché fu il Gran Re a volerlo morto! Noi siamo i conquistatori di questa terra, noi le daremo un nuovo ordine e leggi giuste. Troppo a lungo la Persia ha creduto di potersi beffare di noi, troppo a lungo Dario ci è sfuggito. Oggi invece assaporerà la sconfitta per la terza ed ultima volta, e sarete voi che gliela infliggerete!», allora Alessandro sollevò la lancia con la mano destra in un cenno di incoraggiamento. «Non abbiate paura! Perché chi ha paura è destinato alla sconfitta e alla morte. La morte non deve essere temuta, non se si vive con coraggio e onore. Volete essere ricordati, uomini? Volete che su ogni bocca corra il vostro nome?»
I soldati, in tutta risposta, lanciarono il loro grido di battaglia e batterono le lance e le spade contro gli scudi ancora più forte.
Alessandro sorrise, fece voltare Bucefalo in modo da poter contemplare l’esercito persiano e lo indicò con la punta della lancia. «Allora, quello è il vostro nemico, il vostro bersaglio! Combattete come non avete mai fatto, combattete e vincete! Che gli Dèi ci guidino! Che Zeus, se veramente sono suo figlio, conduca tutti noi alla vittoria!»
«Non dubitare di questo, mio signore», interloquì ad un tratto Aristandro, indicando al Re la sagoma scura e netta di un grande rapace che volava in cerchi concentrici sul campo di battaglia e che poi si diresse verso i Persiani velocemente, come se stesse per piombare su una preda «L'aquila di Zeus cavalca i venti: Egli è con te.»
Alessandro ammirò l’aquila e, nel barbaglio del sole, gli parve che gli occhi, il becco e le zampe del volatile brillassero come fossero fatti di metallo; ascoltò il richiamo penetrate dell'aquila e gli sembrò di spiccare a propria volta il volo.

Nel tremendo fragore della battaglia, la polvere si alzava a grandi ondate, sudore e sangue si mescolavano sui corpi degli uomini sfiniti.
Alessandro spronava Bucefalo al galoppo, puntando il carro su cui Dario assisteva alla battaglia.
Alessandro si faceva strada tra i nemici a colpi di spada, sembrava che le Erinni lo accompagnassero tanta era la velocità e la foga con cui avanzava.
Dario, circondato dalla sua guardia personale, lo fissava in apparenza senza alcuna preoccupazione. Il sovrano Persiano era sicuro che il Condottiero Macedone non sarebbe arrivato dinanzi a lui e sarebbe stato fermato prima.
Dovette ben presto ricredersi: Alessandro mulinava la spada mietendo vittime ad ogni passo del suo cavallo e, a folle velocità, si dirigeva verso il cuore dell’esercito persiano, verso il suo nemico.
Dario sgranò gli occhi per la sorpresa, tradendo l’agitazione e l’angoscia: in quel momento ebbe paura.
Vedeva cadere i suoi uomini sotto la foga irresistibile di Alessandro e sentì il cuore accelerare: quell'uomo lo avrebbe ucciso.
Quando Alessandro fu a pochi passi dal carro di Dario frenò improvvisamente la corsa del suo destriero e Bucefalo si impennò e nitrì.
Molti soldati ne furono spaventati e fuggirono, lasciando sguarnita la difesa del Gran Re.
«Dario!», urlò Alessandro con tutto il fiato che aveva in gola.
Lì, nella piana di Gaugamela come ad Isso, gli occhi di Alessandro incontrarono quelli di Dario.
Negli occhi di Alessandro ardeva una forza inimmaginabile, una volontà ferrea e Dario s’accorse ben presto che Alessandro non si sarebbe fermato. Capì che non avrebbe potuto sostenere uno scontro contro il Re di Macedonia e sperare di uscirne vivo. Il Re di Persia si guardò intorno in cerca di un’ultima difesa, ma la sua guardia era caduta, tutto attorno a lui era morte e disfatta.
Dario sentì la paura soverchiarlo. Balzò giù dal carro reale, lasciò le sue armi, il manto e le insegne; volse le spalle al suo avversario. Afferrò le briglie di una cavalla, le saltò in groppa e si diede alla fuga. Scappò senza guardarsi indietro, colto dal terrore, dalla consapevolezza di aver perso quella battaglia e, forse, anche il proprio regno.
Alessandro si ritrovò ad assistette alla fuga del Gran Re e fu preso da un’ira profonda. «Codardo! Torna indietro! Lasci i tuoi uomini a morire e scappi come una donnicciola?!»
Stava per lanciarsi all’inseguimento del Persiano quando fu raggiunto da alcuni messi inviati da Parmenione, chiedendo rinforzi.
Alessandro apparve incerto: poteva ancora vedere Dario mentre si allontanava e poteva ancora raggiungerlo. Eppure, se lo avesse fatto, avrebbe abbandonato i suoi amici e li avrebbe destinati a morte certa. Non poteva permetterlo. «Di’ a Parmenione che sto arrivando!»

Al termine di quella grandiosa e sanguinosa battaglia, la Persia fu messa in ginocchio.
Il millenario nemico della Grecia si era dissolto, l’avversario più spietato di Alessandro era stato vinto.
L’esercito macedone e gli alleati Greci e Tessali si erano dimostrati invincibili ancora una volta e adesso la fatica, il sangue, il dolore, tutto spariva nella gioia della vittoria insperata.
Sembrava che veramente gli Dèi avessero voluto concedere ad Alessandro tutto ciò che egli desiderava e i soldati si sentivano a loro volta invincibili.
Dopo la vittoria di Gaugamela, dinanzi ad Alessandro le porte di Babilonia si spalancarono.
   
 
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