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Autore: HarryJo    01/11/2012    5 recensioni
Le ragazze non possono fare a meno di pensare a quanto sarebbe bello dimagrire un po’. Anche chi è in forma, ha un fisico perfetto e non dovrebbe godere di certi problemi, si ritrova a dire spesso: “Devo mettermi a dieta, maledizione!”, ignorando quale sia, la vera maledizione.
Perché avere qualche chilo in più può sembrare una disgrazia, qualche volta. È una tortura mangiare quel poco che serve e vedersi ingrassare sempre di più.
Ma nessuno pensa che può esserci un altro male, molto ben più grave.

Ci sono poche cose di cui Arianna è realmente fiera nella sua vita; una di queste è l'avere un fisico perfetto nonostante si abbuffi a tutte le ore.
È motivo di vanto fino a quando un giorno, con orrore, verrà a sapere che, anche se mangiasse senza sosta, continuerà a dimagrire.
Fino a sparire, inesorabilmente.
Che ne dite di ritornare sul vostro mondo? Qualche chilo in più non sembra così male ora, non è vero?
Oppure continuate a leggere. Perché questa è la storia di una diagnosi riservata. Il verme solitario ha paura di questo romanzo, e ne avrà anche la vostra bilancia.
Siete ancora in tempo per tornarvene nel vostro mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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∞ Capitolo secondo ∞
 
TELL ME WHEN THE KISS
OF LOVE BECOMES A LIE.
“In a darkened room”, Skid Row, Slave to the grind, 1991.

 
 
 

U

na cosa di cui di certo non potevo lamentarmi era la mia famiglia. Mentre sentivo parlare di persone che si separavano, divorziavano, tradivano, picchiavano o quant’altro, io avevo trovato un ambiente familiare di cui certamente non potevo risultare insoddisfatta. Certo, non eravamo le persone più felici del mondo, ma riuscivamo a risolvere i nostri problemi senza la necessità di urlarci dietro o chiamare un avvocato. Insomma, eravamo a tutti gli effetti una famiglia. Non dico come quella del Mulino Bianco, ma probabilmente più vera.
Al contrario, Chiara aveva i genitori separati sin da quando aveva quattro anni e Francesco aveva dovuto passare gli ultimi mesi andando dentro e fuori dal tribunale. Non era stato semplice per nessuno dei due vivere in quel modo, tra i litigi e le gare a chi tiene i figli durante le feste natalizie o pasquali. Credo che se avessi dovuto sopportare certi disagi non avrei avuto molta forza, legata com’ero ai miei genitori e a mio fratello.
Mio fratello, Mattia, aveva solo dieci anni eppure era uno dei miei migliori amici. Con lui potevo parlare di ogni cosa: gli raccontavo tutto ciò che succedeva nella mia vita, da Francesco ai compiti di storia non completamente sufficienti. Mi ascoltava e cercava di consigliarmi, a modo suo, come rimediare ai problemi giornalieri e, anche se litigavamo, sapevamo sempre esserci l’uno per l’altra. O almeno credo.
“Arianna,” mi chiamò non appena arrivai a casa quel giorno. La sua voce proveniva dalla cucina, insieme ad un buonissimo profumo. “Vieni, la mamma ha fatto le lasagne.”
Il mio stomaco fece un rumore d’approvazione, mentre inspiravo l’odore appoggiando la cartella accanto alla porta d’ingresso.
“Oh, arrivo subito!” esclamai, correndo verso la cucina. Mattia mi guardava, contento, mangiando con soddisfazione una porzione di lasagne. Gli andai incontro e lo strinsi forte contro di me, cosa che lo fece ridere.
“Allora, come stai, Mat?” gli chiesi quando ci staccammo. I suoi occhi azzurri brillavano di gioia. Era così bello ammirarlo, vedere come la sua innocenza di bambino irradiasse da tutti i pori: era davvero raro vederlo giù di morale.
“Bene,” rispose, continuando a mangiare. Io versai sul piatto accanto al suo la mia porzione di lasagne, molto più abbondante della sua. “Oggi la maestra ci ha divisi in gruppi e vuole che scriviamo una storia.”
“Uh, sembra interessante,” commentai. “Avete già iniziato? Con chi sei capitato?”
“Con Ale,” mi comunicò, allegro. “E quella matta di Agnese,” aggiunse poi sottovoce, scuotendo la testa e sospirando.
Risi, per schernirlo. Agnese era l’unica sua compagna di classe che non sopportava. Credo che avrebbe preferito buttarsi nudo in mezzo ad un oceano piuttosto che trascorrere del tempo insieme a lei.
“Hai proprio fortuna, eh?”
“Non me ne parlare,” borbottò, ingoiando un boccone enorme. “Afrei foluto ucciferla.”
“Bocconi più piccoli, Mat,” dissi, sorridendo, e cominciai a mangiare. Il mio stomaco iniziò a cantare l’Alleluia silenziosamente, mentre le lasagne lo raggiungevano, calde.
“Comunque stiamo scrivendo la storia di un pirata che parla in versi.”
“Davvero? Che idea originale!”
“Sì, l’abbiamo soprannominato il pira-poeta. Ovviamente l’ho scelto io, Ale è troppo pigro per farsi venire un’idea, e la Stramba non è affidabile.”
“Meglio così, le tue idee sono sempre le migliori,” lo incoraggiai. Era vero: aveva una fantasia e una creatività da fare invidia a tutti, per la sua età. Probabilmente grazie alla grande quantità di libri che divorava come se fossero stati l’aria. Mattia respirava leggendo.
“E tu? Visto Francesco?” mi domandò.
Sorrisi, scrollando le spalle. “Solito copione, chiede ad un’altra di uscire.”
“A chi, questa volta? Se è ancora Cecilia vado lì e lo uccido.”
“No, Ilaria.”
“Ilaria? La figlia di quelli che vendono i nostri biscotti?”
Annuii, mesta. Non avevo molta voglia di parlarne, al momento, occupata com’ero a placare il morso della fame. Per mia fortuna, prima che Mattia potesse aggiungere qualsiasi altro commento alla questione, mia madre comparve in cucina, tutta di fretta.
“Ciao, mamma,” la salutai.
“Eh? Sì, ciao, Ari,” ricambiò, distrattamente.
“Le chiavi sono vicino al forno,” la informai. Ultimamente era sempre un po’ distratta e le lasciava ovunque, con il risultato di scordarsene sempre quando le servivano per andare al lavoro.
“Grazie,” sospirò, acciuffandole. Era già in ritardo di una decina di minuti, non riusciva mai a essere puntuale quando le toccava il turno di pomeriggio.
“Ciao,” la risalutai, mentre si dirigeva verso l’uscita.
Se mi rispose, non la sentii nemmeno, ma non mi preoccupai. Era sempre di corsa quando doveva partire, ci saremmo parlate meglio alla sera, come ogni giorno.
“Dov’è papà?” chiesi invece a Mat, dato che ancora non si era fatto vivo. Mi rialzai e mi versai un’altra porzione di lasagne, perché non ero rimasta soddisfatta – come sempre.
Appena lo dissi, comparve la sua figura dalla porta della cucina.
“Ciao, Ari, scusa se non ti ho servito, ero al telefono con un cliente importante.” Alzai le spalle, facendogli capire che non c’era alcun problema.
Lui continuò a squadrarmi un po’. “Mangia, mi raccomando.”
Lo guardai, dura. “È già la seconda volta che mi servo, non ti preoccupare.”
Lui fissò per un momento mio fratello, che annuì piano con la testa, a confermare quello che avevo detto. Alzai lo sguardo al soffitto, incapace di accettare la sua diffidenza.
Da quando avevamo scoperto che ero dimagrita e non di poco, mio padre aveva cominciato a diventare assillante. Continuava a ripetermi che dovevo mangiare, come se fosse certo che in realtà tutto il cibo che ingoiavo andasse a finire in una barriera spazio-temporale lontana chilometri dal mio stomaco. Mi dava fastidio, enormemente, perché non si fidava di me.
Eppure nemmeno io sapevo spiegarmi quel calo improvviso: non avevo mai smesso di mangiare, com’era possibile che fossi dimagrita?
“Va bene,” sospirò. “Com’è andata oggi?”
Non risposi nemmeno, seccata. Semplicemente mossi la testa come per dire “così e così”, e lui non mi chiese altro. Era a dir poco frustrante vedere che non mi credeva.
“Ok, io guardo un po’ il telegiornale,” mormorò, un po’ imbarazzato. “Metti a posto, quando hai finito,” aggiunse, e scomparve di nuovo oltre la porta. Dopo qualche secondo il brusio della tivù arrivò a cullare il mio pranzo in un sottofondo di catastrofi.
“Sorridi,” mi incoraggio Mattia. Lui credo che non capisse molto bene quale fosse la situazione, ma aveva intuito che il rapporto tra me e mio padre non stava andando troppo bene dopo quell’ultima pesata. “Se lo fai, poi ti faccio mangiare una delle mie merendine.”
Lo guardai, grata, e gli scompigliai tutti i capelli con una mano.
“Tu sì che sai conquistarmi,” commentai, mostrandogli un sorriso. In tutta risposta mi fece una linguaccia, prima di alzarsi e dirigersi verso la sua camera a fare i compiti.
Io finii il mio pranzo molto lentamente, resettando la cucina e azionando la lavastoviglie, poi afferrai il mio zaino e mi rinchiusi dentro la mia stanza, preoccupata.
Lo stomaco aveva cominciato di nuovo a farmi male.
 
 
 
La mia stanza non era molto grande: ci stava a malapena il letto e un piccolo armadio bianco. Appeso al muro c’erano dei poster che mia madre in tutti i modi aveva cercato di farmi togliere, perché secondo lei avere una gigantografia di Nikki Sixx non era esattamente tra le cose che potevano conciliare il sonno. Per un periodo avevo anche appeso fuori dalla porta un poster di Ozzy Osbourne nel pieno del suo fascino per cercare di tenerla fuori dalla mia stanza, e mi aveva urlato dietro in almeno sessantadue lingue – compreso il greco antico – di toglierla. Alla fine avevo ceduto solo perché minacciava di fargli prendere fuoco, e l’avevo spostato all’interno dell’anta del mio armadio.
Avevo preparato una serie di vestiti abbastanza eleganti sopra al letto, quella mattina, sperando di riuscire a trovare qualcosa di giusto da mettermi per l’incontro con il medico, quel pomeriggio. Mio padre infatti lo aveva chiamato subito e gli aveva chiesto un appuntamento urgente, quasi come se stessi per morire.
In quel momento, però, guardando tutte le mie camicette migliori, non avevo voglia di indossare niente di tutto ciò. Così, con un gesto brusco, rimisi tutto dentro all’armadio, senza nemmeno curarmi di piegarle o sistemarle nel modo corretto. Aprii un cassetto e tirai fuori una felpa leggera, ma grande: indossai quella.
Fu la prima volta in cui preferii indossare qualcosa di grande, anziché di attillato. Io, che del mio fisico ero sempre stata orgogliosa, avevo cominciato a nascondermi. Allora non me ne ero preoccupata molto, convinta che sarebbe stata una cosa sporadica; non avevo capito che quello sarebbe stato solo l’inizio di una vita completamente diversa da quella che avevo vissuto finora. L’inizio del mio nascondiglio al mondo.
Presi anche dei pantaloni larghi e, afferrando la mia borsa, cominciai a giocherellare con il portachiavi a forma di orsacchiotto. Non ricordavo nemmeno quale fosse la sua storia, dove l’avessi comprato o da quanto l’avessi con me, eppure ogni volta che ero nervosa lo afferravo e lo torturavo. Come se servisse veramente a qualcosa.
Mancava ancora mezz’ora per l’appuntamento, però non avevo voglia di fare nulla. Né di studiare né di leggere né di ascoltare musica, quindi, già preparata, uscii dalla stanza e mi diressi verso il divano, dove mio padre faceva zapping alla ricerca di qualcosa da guardare.
Si era preso mezza giornata libera, quel giorno, per me. Non succedeva spesso di guardarlo vestito da casa: solitamente era sempre ben composto ed elegante, come il suo lavoro – direttore di un’importante azienda immobiliare – gli imponeva di vestirsi. Ora aveva addosso una casuale felpa nera, con la scritta “Lonsdale” ricalcata in bianco e dei pantaloni di una tuta tutta frugata. Mi guardò un momento, quando mi sedetti accanto a lui.
“È già ora?” chiese, un po’ svogliato, stropicciandosi gli occhi castani con fare stanco e appoggiando il telecomando sul tavolino. Si era fermato su un canale che stava dando un documentario sulle usanze Maya e sulle loro profezie.
“No, hai ancora un po’ di tempo,” dissi, cercando di ascoltare il cataclisma previsto per il dicembre del 2012.
“Allora vado a cambiarmi,” mormorò, alzandosi e andandosene dalla stanza.
Io spensi la televisione, rimanendo a osservare uno schermo nero e cullandomi nel silenzio della stanza. Avrei tanto voluto parlare un po’ con mio padre di quello che stava succedendo, prima di andare alla visita, ma evidentemente era impossibile.
Avevo già avuto dei problemi per cui andare dal medico con lui per accertamenti: una brutta irritazione cutanea, delle reazioni allergiche e due attacchi di gastroenterite acuta che mi avevano messo a dir poco KO: in tutti quei momenti, però, c’eravamo entrambi messi a fare supposizioni su ciò che potevo aver contratto, prima di andare alle visite. Quel giorno era diverso: quel giorno credo che lui nemmeno volesse ascoltare il parere di un medico. O forse era solo una mia impressione, forse era solo stanco.
“Eccomi,” disse dopo pochi minuti, tornando vestito molto più elegantemente. “Dici che dovrei radermi la barba, anche?”
“Va benissimo così,” mi limitai a rispondere, alzandomi dalla posizione comoda che avevo assunto e afferrando il giubbotto, appeso all’attaccapanni lì vicino. “Andiamo?”
Prima di rispondermi mi squadrò ancora una volta, come se volesse scavarmi. Quello sguardo mi mise i brividi, consapevole che non c’era niente di buono.
“Mangi, vero?” domandò, esitando. “Cioè… mangi quello che ti diamo?”
Per un momento non capii cosa intendesse dirmi e lo osservai confusa. Come poteva porsi un problema simile? Mi vedeva sempre, a pranzo e a cena, mentre ingoiavo bocconi infiniti di cibo e mi lamentavo perché non ne avevo abbastanza.
Poi, quasi come avessi ricevuto uno schiaffo in pieno viso, mi resi conto che quello che voleva sapere era se il cibo mi rimaneva dentro. Temeva che rigurgitassi tutto, gli era scritto in pieno viso. Per poco non venni travolta da un senso di disgusto nei suoi confronti.
“Certo,” dissi, a denti stretti. Sentii la rabbia avvolgermi in ogni centimetro quadrato del corpo.
Se ne accorse perché, prima che me ne potessi rendere conto, si avvicinò a me e mi stampò un bacio sulla fronte, come faceva sempre. Lo sentii tremare leggermente, e questo mi spezzò il cuore: era evidente che non mi credeva. Perché? Perché non poteva semplicemente fidarsi di me?
Prima che potesse dirmi qualsiasi cosa, aprii la porta e mi fiondai dentro la macchina, accendendo l’autoradio a tutto volume non appena mi raggiunse.
E, mentre le note di Africa cominciarono ad avvolgermi, partimmo, diretti verso il luogo della verità.





{ Spazio HarryJo.
Buon primo novembre a tutti! Come state? Contenti di stare a casa? Io sicuramente sì, avevo proprio bisogno di un po' di pausa in questo periodo...
Come vedete, ecco qui un altro capitolo in un giovedì! Non siete anche voi del tutto sorpresi dalla mia incredibile puntualità? Non succedeva da secoli che mantenessi i tempi promessi per la pubblicazione dei miei capitoli... meriterei un premio, giàggià.
A parte questo, spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto. Ho introdotto un personaggio tenerissimo (almeno per me), Mat, e il padre, un'altra figura molto importante ai fini della storia, anche se non completamente positiva, come avrete potuto intuire.
Nel prossimo capitolo si finisce all'interno della vera storia, del vero problema che sconvolgerà la protagonista: scommetto che tutti voi non vedrete l'ora di leggerlo! *passano palle di fieno*
Ooookay, che altro vi posso dire. Allora, Africa è una canzone dei Toto, che spero TUTTI voi conosciate, sennò andate IMMEDIATAMENTE ad ascoltarla sul Tubo *minaccia*
Per il resto, spero solo che vi sia piaciuto.
Un bacio enorme a tutti voi, al prossimo giovedì! Come sapete per qualsiasi cosa trovate dove contattarmi nelle note alla fine del prologo.
Grazie anche a chi mi recensisce, a chi ha inserito la storia tra i preferiti e a chi l'ha inserita tra le seguite.
A presto,

Erica

   
 
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