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Autore: Black Feather    01/11/2012    1 recensioni
Ci troviamo in un universo governato da una logica da cartone animato. La storia si svolge in periodo Natalizio e ruota intorno alla figura di Babbo Natale e alla cosiddetta "letterina": Nico, il protagonista, la manda al Polo Nord con la speranza che quest'anno, per la prima volta dopo molto tempo, il suo desiderio venga finalmente esaudito. È raccontata in prima persona attraverso gli occhi del protagonista, che non ha atteggiamenti tipici di un bambino di sette anni... o di qualunque essere umano normale, dopotutto.
Prego tutti i potenziali lettori di non prendere troppo sul serio la storia, scritta principalmente per divertimento; devo inoltre avvertire che in alcuni passaggi essa sconvolge i canoni del buonsenso nella scrittura, ma confido che la troverete lo stesso coinvolgente.
Genere: Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

 

 
   Saliamo in macchina e presto ci lasciamo il paese alle spalle. Impieghiamo un quarto d’ora per arrivare a casa. Mio padre rischia più volte di farci sfondare la recinzione che borda la strada intorno alla collina, e frena spesso lungo il percorso che attraverso i campi conduce a casa nostra. Ma questo almeno è comprensibile: le ruote sdrucciolano pericolosamente sull’asfalto ghiacciato, minacciando di spedirci fuori controllo e farci scivolare sulla strada come un dischetto da hockey. Alla fine giungiamo sani e salvi.
   Per tutto il viaggio mio padre non ha spiccicato una parola; in compenso, però, indossa un sorriso talmente ampio che sta per smagliargli le guance. Evidentemente il pensiero che suo figlio abbia spedito la letterina a Babbo Natale lo rende contento. Ciò rende molto più contento me che lui, in realtà, anche se io, per principio, non lo do a vedere. A dirla tutta, è dall’inizio del viaggio che mi sono trincerato sotto la mia solita espressione stizzita, che si è acutizzata sempre di più a ogni brusca frenata di mio padre e a ogni conseguente colluttazione del mio naso col sedile davanti me; posso vantarmi di aver sperimentato una trentina di infarti nel giro di quindici minuti, e di esserne uscito incolume ma parecchio incazzato.
   Ora ci troviamo davanti casa. Papà spegne l’auto e scendiamo. Quel sorriso languido indugia ancora sul suo viso. Sono invaso dalla voglia di mollargli un pugno e mandarglielo in frantumi, quel sorriso, insieme a tutti i denti retrostanti.
  «Ciaoooo!» Poco più avanti, la porta di casa si apre e mia madre si precipita fuori – deve aver udito il rombo del motore. Ci raggiunge balzando come una scema, e per poco non perde l’equilibrio; quando ormai è vicina a me spicca un salto un po’ troppo azzardato. Atterra con le gambe strombate e si aggrappa al mio giubbotto per evitare di scivolare sul ghiaccio, e per poco non mi trascina giù. Poi si raddrizza, esala un sospiro, sorride: le mancano tre denti, e i restanti sono uno verde e l’altro giallo. Uno spettacolo davvero indecoroso.
  Mi guardo intorno per accertarmi che nessuno abbia assistito alla scena di mia madre che è quasi caduta.
   Poi guardo di nuovo mia madre e vedo che lei sorride ancora, lanciando occhiate carezzevoli a mio padre, forse aspettandosi da lui un bacio sulla guancia. Il suo sorriso è così fastidioso che potrebbe uguagliare solo quello di mio padre. To’! Che sorpresa che siano sposati!
  No, sul serio, la vera sorpresa è che abbiano un figlio come me. Non avete idea di quanto sia frustrante essere un genio malefico nato da due sottosviluppati del genere.
   Mio padre si protende verso mia madre e le sfiora uno zigomo con le labbra. Lei sorride e arrossisce da vera sciocca, manco fosse una scolaretta. Poi il papà le cinge la vita con il braccio e prende a guidarla verso la porta di casa, che lei prima ha lasciato socchiusa nella sua tempestività. Mio padre sbircia al di sopra della sua spalla a guardarmi, facendomi cenno di seguirlo. Non appena si volta, alzo il dito medio contro la sua schiena, e poi per buona misura sbatto la mano al centro del braccio sollevando l’avambraccio. In realtà non so perché l’ho fatto. Mi andava e basta. Per un attimo sperimento una strana sensazione, come se qualcuno avesse osservato i mie movimento finora, ma svanisce subito.
   Alla fine varco la soglia di casa e mi sbatto dietro la porta. Il calore della casa ha subito un effetto corroborante sulla mia pelle congelata. Nonostante i miei innumerevoli strati di vestiti, ho sofferto il freddo là fuori. Mi tolgo i guanti e il giubbotto e lo lancio sull’attacca-abiti, sul quale si appende da solo. Sono un grande.
   Mentre i miei genitori si eclissano in cucina per preparare la cena, suppongo, io vado a sedermi in salotto accanto al focolare, attirato dalla fonte di calore come una falena verso la luce. Mi sistemo su una poltrona imbottita, con i braccioli le cui estremità si arrotolano su se stesse, e nel frattempo penso a quanto mi piaccia ascoltare il crepitare del fuoco. Stimola i miei istinti violenti. Mi ricorda i rumori dei videogiochi di guerra.
   D’un tratto mia madre irrompe nella stanza. Sono stato troppo ottimista a pensare che entrambi i miei genitori avrebbero cucinato. Afferra un’altra poltrona e si siede accanto a me.
  «Allora…» esordisce. Oh no! Per Dio, no! “Allora” annuncia una conversazione senza fine se a pronunciarlo è mia madre. Prima ancora che continui so già che mi torchierà su come sia andata la gita in paese. Stringo le mani intorno ai braccioli della mia poltrona e mi ci accomodo meglio, preparato all’imminente ondata di domande.
   Ma mia madre si blocca e le domande non vengono. Nel giro di un secondo, proprio davanti ai miei occhi, diventa rigida come una statua di gesso, le dita improvvisamente artigliate intorno ai braccioli della sua poltrona. Un istante più tardi, scivola giù e stramazza sul pavimento priva di sensi.
   Salto in piedi bruscamente; la mia poltrona gratta sulle mattonelle dietro di me e si schianta a terra. Osservo il corpo di mia madre, immobile sotto il mio sguardo. Lo stomaco mi si gela ed è come se le mie budella stessero precipitando nel vuoto. Mi guardo intorno, come a cercare un aiuto. Tento di urlare, ma non riesco ad articolare alcun suono. Le pareti della testa pulsano dolorosamente; mi scopro incapace di pensare.
  Ah-ah! Ci siete cascati, idioti! Vi ho preso per il culo! Tutta una bufala, mia madre non è morta, ma purtroppo è ancora qui davanti a me, seduta nella poltrona, viva e vegeta.
  Ritorno serio … a proposito, dov’ero rimasto? Ah, sì, certo, stavo per parlare del terzo grado sulla gita in paese cui mia madre era sul punto di sottopormi. Già.
   «Consegnata la letterina?» domanda nel più zuccheroso dei toni, stringendo gli occhi in due irritanti fessure.
    «Donna, parli come se ti stessi rivolgendo a un ritardato, ma mi occorre illuminarti: sta avvenendo l’esatto contrario!» Ma pare che quella scema non mi abbia capito davvero. Ciò dimostra la veridicità dell’ultima frase che ho pronunciato. Ché, io mica parlo a vanvera.
   «Sì, è andata bene», sospiro, la rassegnazione che trapela dalla voce.
  La mamma mi risponde con un sorriso carico di contentezza. Poveraccia, dopotutto è così scema che mi fa una gran pena.
  Vedo la prossima domanda formularsi nei movimenti delle sue labbra, ma per fortuna la porta della stanza si apre cigolando e papà entra. Ci raggiunge e si accomoda su un bracciolo della poltrona di mia madre. «Ho appena chiesto a Nicuccio come fosse andata la gita su in paese», spiega lei.
   “Nicuccio”? “Nicuccio”? Qualcuno mi trattenga, o giuro che le sputo in un occhio.
   Mio padre annuisce in direzione di mia madre e poi mi scruta con aria comprensiva. «Quest’anno non c’è ragione di credere che non avrai il tuo regalo, caro.»
   Sbuffo. Poi esplodo. «Porco cane, me l’hai già detto in macchina questo. Ma dico, con chi credi di parlare? Ho afferrato il concetto, cazzo! È inutile che continui a ribadirlo, anche perché so di per certo che stavolta il regalo me lo porterà, Babbo Natale! Non c’è bisogno che mi rassicuri ogni mezz’ora! E finiscila ‘na buona volta!»
  Entrambi i miei annuiscono con aria imbecille, e appaiono addirittura leggermente intimoriti. Proseguo, questa volta con tono più pacato: «Spero di averlo chiarito: non sono affatto preoccupato. Quest’anno avrò il mio regalo di sicuro, come tutti gli altri bambini! Non sono preoccupato, oh!» La fronte di mio padre si arriccia mente mi sorride in risposta. Mia madre dice: «Non devi essere preoccupato, sono certa che Babbo Natale ti porterà il regalo che hai chiesto. Non devi essere preoccupato», e sorride pure lei.
   Ting! Cos’è stato? Probabilmente il rumore di un mio nervo che salta. Inspiro ed espiro, inspiro ed espiro, e mi calmo.
   Mi alzo della sedia. «Be’» dico, mentre un’idea mi si affaccia alla mente. «Vado a trovare un po’ Cicco.»
   «Perché no!» approvano i miei all’unisono, e dopodiché si guardano scioccamente, scambiandosi sguardi svenevoli.
   Corro fuori dalla stanza, deciso a sfuggire all’ondata di sdolcineria che attraversa il posto.
    Riprendo il mio giubbotto pesante dall’appendi-abiti e me lo getto addosso. Mi rinfilo i guanti. Apro la porta di casa ed esco, stanco della presenza di mia madre e mio padre. Sì, lo so, è da cinque minuti che ci siamo riuniti, ma questo è un lasso di tempo che mi basterebbe per tutta la vita.
   Una raffica di vento gelido mi investe, scagliandomi un ventaglio di neve in piena faccia. Non serve che mi pulisca il viso: una rabbia cieca eleva la mia temperatura corporea ben oltre il normale, facendo evaporare la neve all’istante. La giornata sta assumendo una brutta piega.
   Un’altra raffica mi frusta, ma quest'ultima non reca neve con sé. Mi stringo nel giubbotto e mi avvio verso casa di Cicco, il mio migliore amico. Confido che lui mi servirà per risollevare il mio umore.

  
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