Il
destino dei Re.
“Odore
di perdizione”. Capitolo secondo
Le alte mura torreggiavano
verso il cielo terso; due alfieri dal costone di merli li scrutarono ansiosi,
sporgendosi dai parapetti.
Da lassù il corteo che
i due sposi si portavano dietro doveva fare una certa impressione.
Tutto intorno al
castello era stato scavato un fossato nel quale ristagnava una putrida acqua
dal colore malsano; Ippodamia sussultò alla vista delle
piccole finestrelle a pelo d’acqua dalla quale scarne mani aggrappate alle inferiate
fuoriuscivano.
“Non
abbiamo mai avuto bisogno di segrete.”
Si giustificò arrossendo nel notare che Pelope la stava fissando sorridendo.
“E
quale pazzo avrebbe sperato di rivedere la luce del giorno dopo aver sfidato
l’ira tuo padre?!”
“Tu
hai vinto mio signore.” Ippodamia riacquistò il suo accento superbo.
“Noi
abbiamo vinto, Ippodamia.”
“Andiamo
a prenderci il nostro premio, allora.”
“Come
sua Maestà la MIA regina comanda.”
Mia rise comandando al
suo baio di procedere a passo più svelto; Pelope le tenne il passo, mantenendo
il trotto alla medesima velocità, senza indietreggiare o mai distanziare. Erano
perfetti, fianco a fianco, in quell’andatura così familiare per loro e per il
loro amore; non esistevano rivalità, ripicche, oltraggi d’animo e di parola,
Pelope si era rivelato un grande uomo e dal suo canto ella aveva adempiuto ai
suoi doveri come una buona moglie doveva fare. Si erano sostenuti nei momenti
di sconforto, nelle traversate per mare alla volta di Olimpia e nei momenti di
gloria come la nascita dei giochi. Avevano condiviso tutto; gli stenti, la
fame, gli onori e la ricchezza ritrovata.
Il ponte levatoio fu
calato in un assordante cigolio e poi un tonfo finale nel momento in cui aveva
toccato terra; sul fianco del castello appena sopra il grande portale fra i
solidi mattoni, vi era una fenditura dalla quale si ergevano minacciose picche.
Stavolta fu lo stesso Pelope a inorridire dello spettacolo che si stagliava
proprio sopra di loro; le teste di donne e uomini senza distinzione erano
infilzate nei bastoni, con le punte delle lance a fuoriuscire in alto, nere di
catrame per evitare una putrefazione violenta che avrebbe oltraggiato la sete
di vendetta di chi aveva compiuto lo scempio e che a quanto pare aveva tutta
l’intenzione di veder marcire i cadaveri nel modo più lento possibile.
“Che
ne hai fatto della tua anima fratello…” Pelope
sospirò.
“La
guerra rende uomini.” Questo le diceva
Agrippina, la cara balia, quando suo padre e Apyos
suo comandante, ritornavano dalla guerra e sembravano vegetali vestiti di
bronzo tanto la morte era capace di strappar loro l’anima e lei spaventata
andava a nascondersi sotto il letto sentendo il rimbombo delle loro voci cupe
nelle sale del trono.
Ma quel tempo era
passato e si era portato via tutto ciò che era stato.
Si sentiva pronta,
qualsiasi cosa si fosse palesato dinnanzi ai suoi occhi non aveva più nulla da
temere; lo aveva giurato a suo padre, il suo regno non avrebbe avuto mai fine
ed era disposta a tutto pur di mantenere
la parola data.
*
Oltre il portone, sullo
sfondo della piazza principale riconobbe i volti a lei cari; il popolo di Pisa.
Non poteva ricordare le
loro facce, non più, ma ogni essere che respirava, che costituiva la rinascita
della sua amata casa, rappresentava un bene prezioso ai suoi occhi; e a
giudicare dall’affollamento delle strade, dei sorrisi e dei canti anche lei
doveva rappresentare un qualcosa di molto importante per la città.
La sua mano volteggiava
nell’aria così come aveva fatto tante volte da ragazza prima delle gare, quando
sfilava in corteo sulla biga del pretendente in direzione del via; nel suo
cuore non vi era più il tumulto e la foga di una giovane piena della
consapevolezza della sua beltà, ma la fiamma e il coraggio di una donna fatta e
formata.
Da lontano, oltre i templi
e i porticati dove i mercanti avevano imbandito i loro tavoli con la merce
preziosa, sotto i gradoni che conducevano all’entrata principale del palazzo e
delle sue stanze regali, intravide un palco nel mezzo del quale si reggeva un
trono; un ragazzo dalla folta chioma vi era impiantato con lo scettro serrato
nel pugno sinistro e la spada tenuta per l’elsa in orizzontale sulle ginocchia.
Era sicura di averlo
visto sorridere.
“Maestà
la prego di accettare questi doni”. Una
donna si prostrò dinnanzi le zampe del suo baio innalzando una cesta di succose
mele dorate.
“Mele
dal mare stretto, le più buone che possiate assaggiare.” La penetrò con occhi color ambra dal taglio esotico.
Rabbrividì.
“Quale
è il tuo nome donna?!”
“Alaya maestà.”
“Alaya per quale motivo tu vuoi cedere a me i frutti più
buoni che possiedi?!”
“Per
omaggiare la vostra grandezza.”
“La
omaggeresti di più se li tenessi per te e la tua famiglia.”
“Non
possiedo nessuna famiglia maestà.”
La guardò attentamente;
il volto era pieno e dello stesso colore degli occhi, le vesti erano modeste ma
non sciatte e tralasciavano intravedere una figura florida. “E dimmi come può una donna sola
permettersi i frutti pregiati del mare stretto?!”
Non le lasciò il tempo
di replicare, annuendo con il capo. “Nikandrios dì alle schiave di prendere la cesta e porta la
ragazza con loro.” Alaya protestò e quando i suoi occhi incontrarono i
zaffiri di Mia si morse il labbro sconfitta.
“Tienila d’occhio e di
alle donne di non toccare nulla di quello che c’è in quella cesta. E’ un
ordine.” L’ultima frase la
sussurrò nell’orecchio del generale.
“Veleno?!”
“I
miei occhi hanno visto troppo fino ad ora Pelope.”
“Questa
città odora di perdizione difatti.” Mia
annuì, se dapprima sorridente la sua sfilata terminò con labbra serrate e
l’espressione del volto scura.
*
Quando furono al di
sotto della piattaforma eretta, il popolo si acquietò.
“Sei
ancora più bella di quando te ne andasti, sorella.”
Sotto gli occhi della
corte che sul palco lo circondava Atreo andò loro incontro, con passo svelto e
incerto. Prese la mano di Mia fra le sue e vi posò le labbra umide; la ragazza
fece reverenza attenta a non sporgersi troppo in avanti, una guardia le sfilò
accanto aiutandola a ridiscendere dal suo destriero.
Un
Re non deve mai correre incontro a nessuno, pensò
notando subito il chitone troppo stretto intorno alla vita lievitata.
“E
tu molto più regale di quanto ricordassi, fratello.” Si voltò verso Pelope in cerca di un suo assenso;
quello li avvicinò cauto, raggiungendo la mano di Mia e serrandola forte.
“Cosa
possono fare le stoffe pregiate mia signora.” Allungò il braccio verso le loro mani strette e vi
posò lo scettro nel mezzo. “Siete voi i veri signori della
città.”
Il popolo esultò alla
parola signori. “Le stoffe pregiate.. Sua maestà.” Pelope riprese Atreo, poi con voce autoritaria
continuò, “ fratello
saremmo lieti se tu volessi condurci alle nostre stanze. La nostra regina ha
attraversato la Lidia in stato interessante ed ha bisogno di riposare.”
“Come
le vostre maestà comandano.” Fece
cenno agli attendenti di ritirarsi; quelli li circondarono scortandoli
all’interno del palazzo.
Camminarono a grappolo,
molto lentamente, ed a ogni passo il cuore di Mia tamburellava contento.
Le sale erano come le
ricordava, solo più areate, più luminose; l’androne conservava ancora i
ciottoli rossi del pavimento e i mosaici alle pareti raffiguranti le gesta dei
padri dell’Olimpo. Le colonne erano state levigate e ricostruite da capo con i
capitelli sontuosi che tanto amava suo padre. Passarono per il centro verso il cortile
con il soffitto a volta dal foro per il quale la luce filtrava timida.
I giardini erano ricchi
e curati, il profumo di fiori inondava l’aria; degli uomini sentinella e alcuni
giardinieri fecero reverenza al loro passaggio.
“Ci
sono state molte perdite?!” Mia
ruppe il silenzio carezzando il petalo turgido di un giglio. Il fiore dei
fiori.
“Più
di quante avrei voluto Maestà.” Lo
sguardo di Atreo si fece mesto e basso.
“E
dove sono finiti tutti?!” Mia tornò
rigida, artigliando lo sguardo sul suo volto. “Apyos per esempio. Dov’è l’attendente di mio padre?”
“Disperso.”
“E
della mia balia, che ne è stato?!”
“Dispersa
anche lei.”
Mia serrò i pugni tanto
forte da graffiare la carne, un leggero tremore le attraversò il corpo
costringendola ad asserragliarsi nelle spalle; Pelope le passò la mano lungo la
schiena a palmo aperto, guardò il fratello e senza bisogno di dire null’altro
quello cominciò a parlare.
“Quando
feci breccia nel castello la maggior parte di esso non esisteva più. Il fuoco
aveva divorato tutto; fiori, animali, persone. Tutto. Un pavimento disseminato
di cenere. Resti ecco cosa c’era qui. Non mi è stato difficile trovare la tua
balia; quale donna avrebbe fatto da scudo con il proprio corpo una porta
all’apparenza insignificante, se non una donna che aveva servito fedelmente la
corona e che continuava a servirla proteggendo qualcosa oltre quella porta
anche a costo della sua vita?! Ladri d’occasione. Fu una fortuna per me che di
spade ne avevo maneggiate assai poco. E quella donna, non appena mi vide una
furia diventò. L’ho vista uccidere un uomo con la sola forza delle mani. Poi
non ricordo più nulla. E’ caracollata per la strada assieme a un predone e sono
spariti nella polvere.” Atreo riprese fiato, gli occhi
lucidi guardavano lontano. “Ho forzato quella porta e mi sono nascosto con il
tuo tesoro. I miei occhi hanno rivisto la luce dopo giorni infiniti, quando le
fiamme non vorticarono più e più nessuna voce si udì. I tuoi occhi non
avrebbero sopportato lo strazio che io vidi dopo, perché se bene io non sia
nato qui so cosa vuol dire vedere morire la grandezza maestà e mi creda io
morii quel giorno insieme alla tua città. Ma rinsavii dal buio delle tenebre
pregando e ricordando le parole di fiducia che tu spendesti per me. Trovai il
coraggio là dove c’era solo morte e distruzione.” Trattenne
il respiro, gli occhi chiusi. “Ho adempiuto ai
miei compiti come mia Sorella mi dettò. Ho trovato il tuo tesoro, la gente per ricostruire,
ho combattuto il crimine a la corruzione. Ho fatto tutto questo perché TU me lo
chiedesti.” Atreo sganciò il medaglione dalla
clamide e inginocchiandosi lo allungò ad Ippodamia.
Quella balzò alla vista del gioiello; il medaglione del Re Enomao
scintillava in tutta la sua eterna bellezza. “Ti rendo ciò che con tanto amore e
fiducia tu hai riposto nelle mie mani. Non sono un Re mia Regina ma sono figlio
di Tantalo il Truce e so cosa significa essere vili e infami. Io non sono
questo. Ho protetto il tuo castello come meglio ho potuto e con saggezza mi
ritiro dal mio compito se tu accetti.”
Ippodamia
non riuscì a trattenersi; si inginocchiò anche ella e lo abbracciò senza timore
e vergogna. Piansero a lungo bagnando la terra delle lacrime che negli anni
addietro avevano mandato giù per non perire.
“Non
appena la corona solcherà il mio capo farò di te il nostro primo attendente
reale.” Poi si rivolse a tutti,
guardie, schiavi, sguattere, attendenti. “Domani
al levar del sole la piazza benedirà i nuovi Re e Regina di Pisa.”
*
Fu una notte piena di
parole.
Pelope, Ippodamia e Atreo aprirono le loro menti nelle sale delle
udienze per discutere sul da farsi, nominare un nuovo corpo di guardia, creare
un concilio ristretto e soprattutto aggiornarsi sull’attuale salute del regno.
“Servono
nuove tasse, questo dico. “
“Nuove
tasse per nuovi tumulti.”
“Fratello
il tesoro regale è ridotto all’osso da quanto si legge su questi conti. I tuoi
conti!”
“Non
è un castello fatto di cera, Pelope.”
“E’
di soldi che abbiamo bisogno non di velluti e sete. Per quanto mi riguarda
questo castello potrebbe esser fatto anche di merda.”
Ippodamia battè le mani sul tavolo. “Silenzio!
E’ di idee che abbiamo bisogno, non di infantili battibecchi.”
“Hai
qualcosa da proporre?!”
“La
città è cresciuta. Il numero di persone è triplicato.” Sembrava stesse pensando più che parlando e i due
uomini la fissarono perplessi.
“La
ricostruzione ha portato un certo numero di manovali, mercanti, contadini.” Atreo sogghignò.
“Dove vuoi arrivare?!”
“Dovremmo
trarre da loro quanti più benefici possiamo. Ma allo stesso tempo accontentarli.”
“Non
ti seguo Mia.”
“Le
mura sono ben fatte ma comunque circoscritte, giusto?!” I due annuirono.
“Senza contare che
siamo alla merce di qualsiasi losco individuo. Ho visto facce poco rassicuranti
e baraccamenti troppo disordinati.”
“Gli
asiatici non sono facili da trattare Mia. Le teste sulle picche non spaventano
tutti.”
“Gli
costruiremo un mercato esterno e le nostre porte torneranno ad essere chiuse
Atreo. D’ora in poi chi abiterà nelle case dentro le mura ci dovrà versare una
tassa, chi vorrà costruirle seguirà i parametri che Pelope ha importato da Olimpia.
La precedenza verrà data coloro i quali hanno contribuito anche solo a
sistemare un masso di questo castello.” Si
girò verso il cognato. “Confido che tu ti sia annotato
tutti i nomi dei manovali che hai pagato. I signori di alto lignaggio verranno
ospitati nelle sale del castello per il tempo necessario ci vorrà alla nomina e
sistemazione nelle loro terre. Dobbiamo intrecciare rapporti con loro se vogliamo
mantenere la pace e la calma nel Regno.” Si
alzò con fare perentorio afferrando le carte dal tavolo per portarsele al
petto. “E
fa sparire quelle picche. Portano male.”
“Ma
Mia la compassione non fa sì che i ladri si ammansiscano.”
“Spostale
allora. Sul tuo caminetto. Nei boschi. Non importa dove! Non voglio morte sulle
mura del mio castello.”
“Ti
conviene starla a sentire o ci sarà un picca in più per te, fratello!” Pelope rise piegandosi in avanti sul tavolo; Atreo
cercò di mantenere una facciata seria ma non riuscì a trattenersi e si lasciò
andare anche egli. Mia li guardava soddisfatta.
Ce l’avrebbero fatta.
Insieme.
Fine
secondo capitolo.