Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Luna_R    14/11/2012    0 recensioni
“Andrà tutto bene.” Mia gli strinse le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel trono.”
“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna. “Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento qualcosa!”
“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli accarezzò la guancia. “Tu sei un Re oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate; il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le parole di chi aveva creduto sempre in lui.
Si commosse ma girò il capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.
*seguito della fanfiction "La leggenda di Ippodamia" ispirata al mito di Pelope e Ippodamia.
La mia fantasia, a volte, non si pone limiti.
Spero vi piaccia.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il destino dei Re.

 

“Odore di perdizione”. Capitolo secondo

 

Le alte mura torreggiavano verso il cielo terso; due alfieri dal costone di merli li scrutarono ansiosi, sporgendosi dai parapetti.

Da lassù il corteo che i due sposi si portavano dietro doveva fare una certa impressione.

Tutto intorno al castello era stato scavato un fossato nel quale ristagnava una putrida acqua dal colore malsano; Ippodamia sussultò alla vista delle piccole finestrelle a pelo d’acqua dalla quale scarne mani aggrappate alle inferiate fuoriuscivano.

 

“Non abbiamo mai avuto bisogno di segrete.” Si giustificò arrossendo nel notare che Pelope la stava fissando sorridendo.

“E quale pazzo avrebbe sperato di rivedere la luce del giorno dopo aver sfidato l’ira tuo padre?!”

“Tu hai vinto mio signore.” Ippodamia riacquistò il suo accento superbo.

“Noi abbiamo vinto, Ippodamia.”

“Andiamo a prenderci il nostro premio, allora.”

“Come sua Maestà la MIA regina comanda.”

 

Mia rise comandando al suo baio di procedere a passo più svelto; Pelope le tenne il passo, mantenendo il trotto alla medesima velocità, senza indietreggiare o mai distanziare. Erano perfetti, fianco a fianco, in quell’andatura così familiare per loro e per il loro amore; non esistevano rivalità, ripicche, oltraggi d’animo e di parola, Pelope si era rivelato un grande uomo e dal suo canto ella aveva adempiuto ai suoi doveri come una buona moglie doveva fare. Si erano sostenuti nei momenti di sconforto, nelle traversate per mare alla volta di Olimpia e nei momenti di gloria come la nascita dei giochi. Avevano condiviso tutto; gli stenti, la fame, gli onori e la ricchezza ritrovata.

 

Il ponte levatoio fu calato in un assordante cigolio e poi un tonfo finale nel momento in cui aveva toccato terra; sul fianco del castello appena sopra il grande portale fra i solidi mattoni, vi era una fenditura dalla quale si ergevano minacciose picche. Stavolta fu lo stesso Pelope a inorridire dello spettacolo che si stagliava proprio sopra di loro; le teste di donne e uomini senza distinzione erano infilzate nei bastoni, con le punte delle lance a fuoriuscire in alto, nere di catrame per evitare una putrefazione violenta che avrebbe oltraggiato la sete di vendetta di chi aveva compiuto lo scempio e che a quanto pare aveva tutta l’intenzione di veder marcire i cadaveri nel modo più lento possibile.

 

“Che ne hai fatto della tua anima fratello…” Pelope sospirò.

“La guerra rende uomini.” Questo le diceva Agrippina, la cara balia, quando suo padre e Apyos suo comandante, ritornavano dalla guerra e sembravano vegetali vestiti di bronzo tanto la morte era capace di strappar loro l’anima e lei spaventata andava a nascondersi sotto il letto sentendo il rimbombo delle loro voci cupe nelle sale del trono.

Ma quel tempo era passato e si era portato via tutto ciò che era stato.

Si sentiva pronta, qualsiasi cosa si fosse palesato dinnanzi ai suoi occhi non aveva più nulla da temere; lo aveva giurato a suo padre, il suo regno non avrebbe avuto mai fine ed era disposta a tutto pur di mantenere la parola data.

 

*

Oltre il portone, sullo sfondo della piazza principale riconobbe i volti a lei cari; il popolo di Pisa.

Non poteva ricordare le loro facce, non più, ma ogni essere che respirava, che costituiva la rinascita della sua amata casa, rappresentava un bene prezioso ai suoi occhi; e a giudicare dall’affollamento delle strade, dei sorrisi e dei canti anche lei doveva rappresentare un qualcosa di molto importante per la città.

La sua mano volteggiava nell’aria così come aveva fatto tante volte da ragazza prima delle gare, quando sfilava in corteo sulla biga del pretendente in direzione del via; nel suo cuore non vi era più il tumulto e la foga di una giovane piena della consapevolezza della sua beltà, ma la fiamma e il coraggio di una donna fatta e formata.

 

Da lontano, oltre i templi e i porticati dove i mercanti avevano imbandito i loro tavoli con la merce preziosa, sotto i gradoni che conducevano all’entrata principale del palazzo e delle sue stanze regali, intravide un palco nel mezzo del quale si reggeva un trono; un ragazzo dalla folta chioma vi era impiantato con lo scettro serrato nel pugno sinistro e la spada tenuta per l’elsa in orizzontale sulle ginocchia.

 

Era sicura di averlo visto sorridere.

 

“Maestà la prego di accettare questi doni”. Una donna si prostrò dinnanzi le zampe del suo baio innalzando una cesta di succose mele dorate.

“Mele dal mare stretto, le più buone che possiate assaggiare.” La penetrò con occhi color ambra dal taglio esotico. Rabbrividì.

“Quale è il tuo nome donna?!”

Alaya maestà.”

Alaya per quale motivo tu vuoi cedere a me i frutti più buoni che possiedi?!”

“Per omaggiare la vostra grandezza.”

“La omaggeresti di più se li tenessi per te e la tua famiglia.”

“Non possiedo nessuna famiglia maestà.”

La guardò attentamente; il volto era pieno e dello stesso colore degli occhi, le vesti erano modeste ma non sciatte e tralasciavano intravedere una figura florida. “E dimmi come può una donna sola permettersi i frutti pregiati del mare stretto?!”

 

Non le lasciò il tempo di replicare, annuendo con il capo. Nikandrios dì alle schiave di prendere la cesta e porta la ragazza con loro.” Alaya protestò e quando i suoi occhi incontrarono i zaffiri di Mia si morse il labbro sconfitta. “Tienila d’occhio e di alle donne di non toccare nulla di quello che c’è in quella cesta. E’ un ordine.” L’ultima frase la sussurrò nell’orecchio del generale.

 

“Veleno?!”

“I miei occhi hanno visto troppo fino ad ora Pelope.”

“Questa città odora di perdizione difatti.” Mia annuì, se dapprima sorridente la sua sfilata terminò con labbra serrate e l’espressione del volto scura.

 

*

Quando furono al di sotto della piattaforma eretta, il popolo si acquietò.

 

“Sei ancora più bella di quando te ne andasti, sorella.”

Sotto gli occhi della corte che sul palco lo circondava Atreo andò loro incontro, con passo svelto e incerto. Prese la mano di Mia fra le sue e vi posò le labbra umide; la ragazza fece reverenza attenta a non sporgersi troppo in avanti, una guardia le sfilò accanto aiutandola a ridiscendere dal suo destriero.

 

Un Re non deve mai correre incontro a nessuno, pensò notando subito il chitone troppo stretto intorno alla vita lievitata.

 

“E tu molto più regale di quanto ricordassi, fratello.” Si voltò verso Pelope in cerca di un suo assenso; quello li avvicinò cauto, raggiungendo la mano di Mia e serrandola forte.

“Cosa possono fare le stoffe pregiate mia signora.” Allungò il braccio verso le loro mani strette e vi posò lo scettro nel mezzo. “Siete voi i veri signori della città.”

 

Il popolo esultò alla parola signori. “Le stoffe pregiate.. Sua maestà.” Pelope riprese Atreo, poi con voce autoritaria continuò, “ fratello saremmo lieti se tu volessi condurci alle nostre stanze. La nostra regina ha attraversato la Lidia in stato interessante ed ha bisogno di riposare.”

“Come le vostre maestà comandano.” Fece cenno agli attendenti di ritirarsi; quelli li circondarono scortandoli all’interno del palazzo.

 

Camminarono a grappolo, molto lentamente, ed a ogni passo il cuore di Mia tamburellava contento.

Le sale erano come le ricordava, solo più areate, più luminose; l’androne conservava ancora i ciottoli rossi del pavimento e i mosaici alle pareti raffiguranti le gesta dei padri dell’Olimpo. Le colonne erano state levigate e ricostruite da capo con i capitelli sontuosi che tanto amava suo padre. Passarono per il centro verso il cortile con il soffitto a volta dal foro per il quale la luce filtrava timida.

I giardini erano ricchi e curati, il profumo di fiori inondava l’aria; degli uomini sentinella e alcuni giardinieri fecero reverenza al loro passaggio.

 

“Ci sono state molte perdite?!” Mia ruppe il silenzio carezzando il petalo turgido di un giglio. Il fiore dei fiori.

“Più di quante avrei voluto Maestà.” Lo sguardo di Atreo si fece mesto e basso.

“E dove sono finiti tutti?!” Mia tornò rigida, artigliando lo sguardo sul suo volto. Apyos per esempio. Dov’è l’attendente di mio padre?”

“Disperso.”

“E della mia balia, che ne è stato?!”

“Dispersa anche lei.”

 

Mia serrò i pugni tanto forte da graffiare la carne, un leggero tremore le attraversò il corpo costringendola ad asserragliarsi nelle spalle; Pelope le passò la mano lungo la schiena a palmo aperto, guardò il fratello e senza bisogno di dire null’altro quello cominciò a parlare.

 

“Quando feci breccia nel castello la maggior parte di esso non esisteva più. Il fuoco aveva divorato tutto; fiori, animali, persone. Tutto. Un pavimento disseminato di cenere. Resti ecco cosa c’era qui. Non mi è stato difficile trovare la tua balia; quale donna avrebbe fatto da scudo con il proprio corpo una porta all’apparenza insignificante, se non una donna che aveva servito fedelmente la corona e che continuava a servirla proteggendo qualcosa oltre quella porta anche a costo della sua vita?! Ladri d’occasione. Fu una fortuna per me che di spade ne avevo maneggiate assai poco. E quella donna, non appena mi vide una furia diventò. L’ho vista uccidere un uomo con la sola forza delle mani. Poi non ricordo più nulla. E’ caracollata per la strada assieme a un predone e sono spariti nella polvere.” Atreo riprese fiato, gli occhi lucidi guardavano lontano. “Ho forzato quella porta e mi sono nascosto con il tuo tesoro. I miei occhi hanno rivisto la luce dopo giorni infiniti, quando le fiamme non vorticarono più e più nessuna voce si udì. I tuoi occhi non avrebbero sopportato lo strazio che io vidi dopo, perché se bene io non sia nato qui so cosa vuol dire vedere morire la grandezza maestà e mi creda io morii quel giorno insieme alla tua città. Ma rinsavii dal buio delle tenebre pregando e ricordando le parole di fiducia che tu spendesti per me. Trovai il coraggio là dove c’era solo morte e distruzione.” Trattenne il respiro, gli occhi chiusi. “Ho adempiuto ai miei compiti come mia Sorella mi dettò. Ho trovato il tuo tesoro, la gente per ricostruire, ho combattuto il crimine a la corruzione. Ho fatto tutto questo perché TU me lo chiedesti.” Atreo sganciò il medaglione dalla clamide e inginocchiandosi lo allungò ad Ippodamia. Quella balzò alla vista del gioiello; il medaglione del Re Enomao scintillava in tutta la sua eterna bellezza. “Ti rendo ciò che con tanto amore e fiducia tu hai riposto nelle mie mani. Non sono un Re mia Regina ma sono figlio di Tantalo il Truce e so cosa significa essere vili e infami. Io non sono questo. Ho protetto il tuo castello come meglio ho potuto e con saggezza mi ritiro dal mio compito se tu accetti.”

 

Ippodamia non riuscì a trattenersi; si inginocchiò anche ella e lo abbracciò senza timore e vergogna. Piansero a lungo bagnando la terra delle lacrime che negli anni addietro avevano mandato giù per non perire.

 

“Non appena la corona solcherà il mio capo farò di te il nostro primo attendente reale.” Poi si rivolse a tutti, guardie, schiavi, sguattere, attendenti. “Domani al levar del sole la piazza benedirà i nuovi Re e Regina di Pisa.”

 

*

Fu una notte piena di parole.

Pelope, Ippodamia e Atreo aprirono le loro menti nelle sale delle udienze per discutere sul da farsi, nominare un nuovo corpo di guardia, creare un concilio ristretto e soprattutto aggiornarsi sull’attuale salute del regno.

 

“Servono nuove tasse, questo dico. “

“Nuove tasse per nuovi tumulti.”

“Fratello il tesoro regale è ridotto all’osso da quanto si legge su questi conti. I tuoi conti!”

“Non è un castello fatto di cera, Pelope.”

“E’ di soldi che abbiamo bisogno non di velluti e sete. Per quanto mi riguarda questo castello potrebbe esser fatto anche di merda.”

 

Ippodamia battè le mani sul tavolo. “Silenzio! E’ di idee che abbiamo bisogno, non di infantili battibecchi.”

“Hai qualcosa da proporre?!”

“La città è cresciuta. Il numero di persone è triplicato.” Sembrava stesse pensando più che parlando e i due uomini la fissarono perplessi.

“La ricostruzione ha portato un certo numero di manovali, mercanti, contadini.” Atreo sogghignò. “Dove vuoi arrivare?!”

“Dovremmo trarre da loro quanti più benefici possiamo. Ma allo stesso tempo accontentarli.”

“Non ti seguo Mia.”

“Le mura sono ben fatte ma comunque circoscritte, giusto?!” I due annuirono. “Senza contare che siamo alla merce di qualsiasi losco individuo. Ho visto facce poco rassicuranti e baraccamenti troppo disordinati.”

“Gli asiatici non sono facili da trattare Mia. Le teste sulle picche non spaventano tutti.”

“Gli costruiremo un mercato esterno e le nostre porte torneranno ad essere chiuse Atreo. D’ora in poi chi abiterà nelle case dentro le mura ci dovrà versare una tassa, chi vorrà costruirle seguirà i parametri che Pelope ha importato da Olimpia. La precedenza verrà data coloro i quali hanno contribuito anche solo a sistemare un masso di questo castello.” Si girò verso il cognato. “Confido che tu ti sia annotato tutti i nomi dei manovali che hai pagato. I signori di alto lignaggio verranno ospitati nelle sale del castello per il tempo necessario ci vorrà alla nomina e sistemazione nelle loro terre. Dobbiamo intrecciare rapporti con loro se vogliamo mantenere la pace e la calma nel Regno.” Si alzò con fare perentorio afferrando le carte dal tavolo per portarsele al petto. “E fa sparire quelle picche. Portano male.”

“Ma Mia la compassione non fa sì che i ladri si ammansiscano.”

“Spostale allora. Sul tuo caminetto. Nei boschi. Non importa dove! Non voglio morte sulle mura del mio castello.”

“Ti conviene starla a sentire o ci sarà un picca in più per te, fratello!” Pelope rise piegandosi in avanti sul tavolo; Atreo cercò di mantenere una facciata seria ma non riuscì a trattenersi e si lasciò andare anche egli. Mia li guardava soddisfatta.

 

Ce l’avrebbero fatta. Insieme.

Fine secondo capitolo.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Luna_R