Il
destino dei Re.
Se
è vero che il destino è scritto, chi perirà per mano di chi?!
“Olimpia
non è la mia casa”. Capitolo primo.
Olimpia affacciò al giorno il suo sole migliore.
Le Olimpiadi si erano concluse da una notte eppure
le strade erano ancora piene di gente al bivacco.
Melibea
di Tebe aveva sancito la vittoria.
Una donna.
E nipote di Pelope futuro Re di Pisa.
E vittima delle persecuzioni degli Dei in quanto
figlia di Niobe, appartenente alla stirpe di Tantalo il truce, il maledetto
dagli Dei; la povera madre della giovane in un impeto di superbia aveva poi
rincarato la dose di sfortuna vantandosi durante i festeggiamenti in nome della
Dea Latona dei setti bellissimi figli procreati,
proclamandosi superiore alla Dea, sulla base dei soli due figli da lei
generati.
Due figli sì, di nome Apollo e Artemide.
E che Latona istigò contro
la donna sciocca che aveva osato offenderla pubblicamente e ai quali ordinò di
ucciderle senza pietà i figli.
I sette bellissimi figli.
Di questi si salvò solo Melibea
appunto, che ebbe l’arguzia di recitare una preghiera di clemenza alla Dea in
punto di morte e motivo per il quale le fu invece risparmiata la vita.
Di tutte le vittorie questa parse la più mesta.
Donna e persino dannata.
*
Ippodamia
dal talamo nuziale, non riusciva a prender sonno. I pensieri e le risate
sguaiate dei vecchi ubriachi la tormentavano.
Pensava ossessivamente a Melibea.
Che fosse l’ennesimo scacco che il Grande Zeus tirava contro ella e il suo
sposo?!
La notte aveva sfilato sulla sua tenda ombre oscure,
grandi mani nere a volerla stringere in una morsa mortale.
Si era svegliata imperlata di sudore in viso e con
il respiro affannato si era portata fuori all’aria aperta.
Grandi passi sullo sterrato che divideva la zona
sacra –dove era stato eretto un piccolo palazzo dove potesse alloggiare con il
suo sposo in vece di madrina delle Olimpiadi- da quella delle gare, la
condussero all’altare del padre di tutti gli dei.
Era tesa e irata da tanta malasorte ed anche se sapeva
che questo era solo un assaggio della malevolenza che Zeus poteva porgergli
addosso, non riusciva a pensare ad altro che non fossero catastrofi e rovine.
“Sapevo
di trovarti qui.”
Pelope
l’aveva raggiunta sentendola sgusciare fuori dalle coperte. ”Ti
prego alzati, ti affaticherai stando così.”
“Mi
chiedo quando finirà.”
Mia
si sfiorò il ventre, gonfio della seconda gravidanza.
“Quando
non avrà più pace se non quella di vederci morti.” Aiutò la moglie
ad issarsi, accogliendola fra le sue braccia.
“Non capisco Pelope. Prego la sua misericordia tutti
i giorni. Con un alito di vento ci ha spediti all’altro capo della penisola ma
con tenacia siamo arrivati sin qui a rendergli il perdono senza remore. Olimpia
è diventata grande da quando siamo arrivati e i Giochi stanno prendendo sempre
più spazio nella vita politica e sociale della Grecia. Il suo nome è legato ad
essi e ogni quattro anni e anche meno, accoliti di persone vengono qui a
rendergli onore.” Inspirò, oltre la spalla del suo sposo. “Credo questo sia abbastanza.”
“Non sarà mai
abbastanza fin che non vedrà scorrere il mio sangue o il tuo.” Le
baciò i capelli prima di allontanarla dal petto per fissarla nei grandi zaffiri
che aveva per occhi. Era stanca, il bel volto segnato dalla sofferenza dello
spirito e del corpo. Le parole uscirono autoritarie. “Perciò mia signora ti ricondurrò a Pisa, nella tua
antica casa, dove partorirai il mio secondo figlio e dove cominceremo la nostra
nuova vita.” La baciò guardando lontano, oltre i
campi verdi e le colline degradanti. “Il nostro
compito qui è terminato. E’ tempo di tornare.”
Mia lo abbracciò forte, in silenzio. Le lacrime che
ricadevano dagli occhi come rugiada del mattino; ne avevano passate tante e per
tanto tempo erano stati figli della terra di nessuno. Olimpia non era mai stata
ostile al loro arrivo, i rozzi abitanti che accampavano le sue terre erano da
sempre stati ospitali e di buona lena si erano subito prodigati ad allestire i
Giochi insieme a Pelope ed alcuni ingegneri accorsi da città vicine non appena
i loro progetti erano divenuti comuni.
La fama e la popolarità di Zeus avevano fatto il
resto, benedicendo le gare che vi erano state compiute ad oggi; sciami di
persone avevano deciso persino di metter radici trasformando quello che era un
accampamento in una vera e propria città favorendo i commerci e l’espansione
sempre più vasta nel territorio, una volta simile a una macchia in un foglio
bianco.
Erano passati quattro anni e due Olimpiadi. Era
stata bene, era stata felice, qui aveva partorito il suo primo figlio, Atreo.
Ma Olimpia, la generosa Olimpia, non era la sua
casa.
*
Pelope nominò fra i saggi custodi dei templi un
attendente della città. Questi aveva il compito di mantenere i rapporti con il
futuro Re e la sua regina sulle condizioni della città stessa, per via politica
e sociale. Si congedarono dai sudditi in un tripudio di grida e inni di
felicità; aveva promesso ricchezze e prosperità una volta divenuto Re della
città fulcro dell’Elide. La grande Pisa. Il popolo gli credeva, vedeva in lui
la forza di un leone e l’arguzia di un Dio. Avevano imparato ad amarlo e
venerarlo, con timore e rispetto, attendendo il giorno in cui la corona regale
gli avrebbe cinto il capo e le promesse sarebbero divenute fatti.
Soltanto i più diffidenti li seguirono. E un seguito
di ancelle, schiavi e armigeri che furono messi a loro servizio; un contingente
dell’attendente della corona di Pisa poi non appena ricevuto una pergamena con
il sigillo reale in cui si dichiarava il loro immane ritorno, li raggiunse per
scortarli sulla via del ritorno.
E quello che trovarono lungo il cammino non seppero
spiegarlo, da tanto stupore.
Le strade erano state assestate, i solchi delle
battaglie di Enomao a cavallo cancellati per sempre
dalla memoria triste della città; al loro posto, una effigie impetuosa di
lucido marmo bianco, sull’imbocco per la via principale per Pisa, inneggiava
con incisioni d’oro sulla lastra, parole in onore e memoria del grande Re di
tutti i tempi.
Il Re Enomao.
Mia sussultò alla sua vista; in allineamento alle
sue spalle, si stagliava in lontananza l’enorme mole del castello.
Un castello con fattezze diverse, mutato da quando
lo avevano lasciato.
Arrestò la lunga fila di persone e fece cenno loro
di prestare attenzione a ciò che avevano davanti.
Scese da cavallo per portarsi vicino l’effige; era
alta almeno il doppio di lei e di forma rettangolare, imponente come un monito;
le sue dita graziose scivolarono nelle lettere grandi delle incisioni e lungo
gli intarsi che raccontavano le gesta del padre. Rubini della casa reale
ornavano i vessilli del casato, le pietre che da sempre avevano amato e
sfoggiato insieme.
Si rabbuiò. Non aveva mai pensato tanto intensamente
a suo padre come da allora.
La distanza da Pisa aveva fatto sì che nel suo cuore
non si albergasse l’insidiosa e alquanto tediosa mano della colpa.
Non avrebbe mai voluto suo padre morto e la
malaugurata sorte lo aveva portato via da questo mondo nel modo più tragico che
potesse esistere.
Il grande Enomao, primo
del suo nome, Re di Pisa e dell’Elide intera meritava una fine in battaglia e
in guerra come gli avi prima di lui erano periti, ma quale diversa morte poteva
prospettarsi l’uomo se non quella sul campo della sua “personale” battaglia, al
trotto impazzito dei suoi bai e all’eco delle sue urla sanguinarie?!
Mia scosse il capo. Era un uomo testardo ed era
morto per la sua testardaggine e ostinazione; in questo doveva ammetterlo, gli
somigliava molto.
Aveva voluto a tutti i costi una Olimpiade per
riscattarsi dei suoi peccati e l’aveva avuta.
Aveva voluto far sbocciare una città e ci era riuscita.
Aveva voluto l’amore di Pelope e l’aveva avuto.
L’unica cosa che non riusciva ad ottenere era la
benevolenza degli Dei. E questa nemmeno la sua testardaggine era riuscita ad
agguantarla.
Mi serva come monito, pensò. Mio padre è
perito per ostinazione, non morirò della stessa causa. Da oggi in avanti il mio
compito sarà quello di governare la mia casa e il mio regno nel migliore dei
modi, senza attendere consensi da nessuno. Una regina non attende nessun
perdono. Una regina esegue i suoi compiti. Governa, solo questo.
Si scostò i capelli dalle spalle e con viso sereno
si rivolse al seguito. “Qui si fa la
nostra storia. Pisa è il futuro e chi non ha abbastanza fegato per
guadagnarselo volti pure le spalle e torni indietro.”
Ci fu un boato di urla e fischi, poi la fila così
come era apparsa rientrò precisa nei ranghi, sfilando in silenzio lungo la
strada che conduceva a Pisa.
Fine primo capitolo.