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Autore: Luna_R    12/11/2012    0 recensioni
“Andrà tutto bene.” Mia gli strinse le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel trono.”
“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna. “Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento qualcosa!”
“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli accarezzò la guancia. “Tu sei un Re oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate; il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le parole di chi aveva creduto sempre in lui.
Si commosse ma girò il capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.
*seguito della fanfiction "La leggenda di Ippodamia" ispirata al mito di Pelope e Ippodamia.
La mia fantasia, a volte, non si pone limiti.
Spero vi piaccia.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il destino dei Re.

 

Se è vero che il destino è scritto, chi perirà per mano di chi?!

 

“Olimpia non è la mia casa”. Capitolo primo.

 

Olimpia affacciò al giorno il suo sole migliore.

Le Olimpiadi si erano concluse da una notte eppure le strade erano ancora piene di gente al bivacco.

 

Melibea di Tebe aveva sancito la vittoria.

Una donna.

E nipote di Pelope futuro Re di Pisa.

 

E vittima delle persecuzioni degli Dei in quanto figlia di Niobe, appartenente alla stirpe di Tantalo il truce, il maledetto dagli Dei; la povera madre della giovane in un impeto di superbia aveva poi rincarato la dose di sfortuna vantandosi durante i festeggiamenti in nome della Dea Latona dei setti bellissimi figli procreati, proclamandosi superiore alla Dea, sulla base dei soli due figli da lei generati.

Due figli sì, di nome Apollo e Artemide.

E che Latona istigò contro la donna sciocca che aveva osato offenderla pubblicamente e ai quali ordinò di ucciderle senza pietà i figli.

I sette bellissimi figli.

Di questi si salvò solo Melibea appunto, che ebbe l’arguzia di recitare una preghiera di clemenza alla Dea in punto di morte e motivo per il quale le fu invece risparmiata la vita.

 

Di tutte le vittorie questa parse la più mesta. Donna e persino dannata.

 

*

Ippodamia dal talamo nuziale, non riusciva a prender sonno. I pensieri e le risate sguaiate dei vecchi ubriachi la tormentavano.

Pensava ossessivamente a Melibea. Che fosse l’ennesimo scacco che il Grande Zeus tirava contro ella e il suo sposo?!

La notte aveva sfilato sulla sua tenda ombre oscure, grandi mani nere a volerla stringere in una morsa mortale.

Si era svegliata imperlata di sudore in viso e con il respiro affannato si era portata fuori all’aria aperta.

Grandi passi sullo sterrato che divideva la zona sacra –dove era stato eretto un piccolo palazzo dove potesse alloggiare con il suo sposo in vece di madrina delle Olimpiadi- da quella delle gare, la condussero all’altare del padre di tutti gli dei.

Era tesa e irata da tanta malasorte ed anche se sapeva che questo era solo un assaggio della malevolenza che Zeus poteva porgergli addosso, non riusciva a pensare ad altro che non fossero catastrofi e rovine.

 

“Sapevo di trovarti qui.” Pelope l’aveva raggiunta sentendola sgusciare fuori dalle coperte. ”Ti prego alzati, ti affaticherai stando così.”

“Mi chiedo quando finirà.” Mia si sfiorò il ventre, gonfio della seconda gravidanza.

“Quando non avrà più pace se non quella di vederci morti.” Aiutò la moglie ad issarsi, accogliendola fra le sue braccia.

“Non capisco Pelope. Prego la sua misericordia tutti i giorni. Con un alito di vento ci ha spediti all’altro capo della penisola ma con tenacia siamo arrivati sin qui a rendergli il perdono senza remore. Olimpia è diventata grande da quando siamo arrivati e i Giochi stanno prendendo sempre più spazio nella vita politica e sociale della Grecia. Il suo nome è legato ad essi e ogni quattro anni e anche meno, accoliti di persone vengono qui a rendergli onore.” Inspirò, oltre la spalla del suo sposo. “Credo questo sia abbastanza.”

“Non sarà mai abbastanza fin che non vedrà scorrere il mio sangue o il tuo.” Le baciò i capelli prima di allontanarla dal petto per fissarla nei grandi zaffiri che aveva per occhi. Era stanca, il bel volto segnato dalla sofferenza dello spirito e del corpo. Le parole uscirono autoritarie. “Perciò mia signora ti ricondurrò a Pisa, nella tua antica casa, dove partorirai il mio secondo figlio e dove cominceremo la nostra nuova vita.” La baciò guardando lontano, oltre i campi verdi e le colline degradanti. “Il nostro compito qui è terminato. E’ tempo di tornare.”

Mia lo abbracciò forte, in silenzio. Le lacrime che ricadevano dagli occhi come rugiada del mattino; ne avevano passate tante e per tanto tempo erano stati figli della terra di nessuno. Olimpia non era mai stata ostile al loro arrivo, i rozzi abitanti che accampavano le sue terre erano da sempre stati ospitali e di buona lena si erano subito prodigati ad allestire i Giochi insieme a Pelope ed alcuni ingegneri accorsi da città vicine non appena i loro progetti erano divenuti comuni.

La fama e la popolarità di Zeus avevano fatto il resto, benedicendo le gare che vi erano state compiute ad oggi; sciami di persone avevano deciso persino di metter radici trasformando quello che era un accampamento in una vera e propria città favorendo i commerci e l’espansione sempre più vasta nel territorio, una volta simile a una macchia in un foglio bianco.

Erano passati quattro anni e due Olimpiadi. Era stata bene, era stata felice, qui aveva partorito il suo primo figlio, Atreo.

 

Ma Olimpia, la generosa Olimpia, non era la sua casa.

 

*

Pelope nominò fra i saggi custodi dei templi un attendente della città. Questi aveva il compito di mantenere i rapporti con il futuro Re e la sua regina sulle condizioni della città stessa, per via politica e sociale. Si congedarono dai sudditi in un tripudio di grida e inni di felicità; aveva promesso ricchezze e prosperità una volta divenuto Re della città fulcro dell’Elide. La grande Pisa. Il popolo gli credeva, vedeva in lui la forza di un leone e l’arguzia di un Dio. Avevano imparato ad amarlo e venerarlo, con timore e rispetto, attendendo il giorno in cui la corona regale gli avrebbe cinto il capo e le promesse sarebbero divenute fatti.

Soltanto i più diffidenti li seguirono. E un seguito di ancelle, schiavi e armigeri che furono messi a loro servizio; un contingente dell’attendente della corona di Pisa poi non appena ricevuto una pergamena con il sigillo reale in cui si dichiarava il loro immane ritorno, li raggiunse per scortarli sulla via del ritorno.

 

E quello che trovarono lungo il cammino non seppero spiegarlo, da tanto stupore.

Le strade erano state assestate, i solchi delle battaglie di Enomao a cavallo cancellati per sempre dalla memoria triste della città; al loro posto, una effigie impetuosa di lucido marmo bianco, sull’imbocco per la via principale per Pisa, inneggiava con incisioni d’oro sulla lastra, parole in onore e memoria del grande Re di tutti i tempi.

Il Re Enomao.

Mia sussultò alla sua vista; in allineamento alle sue spalle, si stagliava in lontananza l’enorme mole del castello.

Un castello con fattezze diverse, mutato da quando lo avevano lasciato.

Arrestò la lunga fila di persone e fece cenno loro di prestare attenzione a ciò che avevano davanti.

Scese da cavallo per portarsi vicino l’effige; era alta almeno il doppio di lei e di forma rettangolare, imponente come un monito; le sue dita graziose scivolarono nelle lettere grandi delle incisioni e lungo gli intarsi che raccontavano le gesta del padre. Rubini della casa reale ornavano i vessilli del casato, le pietre che da sempre avevano amato e sfoggiato insieme.

Si rabbuiò. Non aveva mai pensato tanto intensamente a suo padre come da allora.

La distanza da Pisa aveva fatto sì che nel suo cuore non si albergasse l’insidiosa e alquanto tediosa mano della colpa.

Non avrebbe mai voluto suo padre morto e la malaugurata sorte lo aveva portato via da questo mondo nel modo più tragico che potesse esistere.

Il grande Enomao, primo del suo nome, Re di Pisa e dell’Elide intera meritava una fine in battaglia e in guerra come gli avi prima di lui erano periti, ma quale diversa morte poteva prospettarsi l’uomo se non quella sul campo della sua “personale” battaglia, al trotto impazzito dei suoi bai e all’eco delle sue urla sanguinarie?!

Mia scosse il capo. Era un uomo testardo ed era morto per la sua testardaggine e ostinazione; in questo doveva ammetterlo, gli somigliava molto.

Aveva voluto a tutti i costi una Olimpiade per riscattarsi dei suoi peccati e l’aveva avuta.

Aveva voluto far sbocciare una città e ci era riuscita.

Aveva voluto l’amore di Pelope e l’aveva avuto.

L’unica cosa che non riusciva ad ottenere era la benevolenza degli Dei. E questa nemmeno la sua testardaggine era riuscita ad agguantarla.

Mi serva come monito, pensò. Mio padre è perito per ostinazione, non morirò della stessa causa. Da oggi in avanti il mio compito sarà quello di governare la mia casa e il mio regno nel migliore dei modi, senza attendere consensi da nessuno. Una regina non attende nessun perdono. Una regina esegue i suoi compiti. Governa, solo questo.

 

Si scostò i capelli dalle spalle e con viso sereno si rivolse al seguito. “Qui si fa la nostra storia. Pisa è il futuro e chi non ha abbastanza fegato per guadagnarselo volti pure le spalle e torni indietro.”

 

Ci fu un boato di urla e fischi, poi la fila così come era apparsa rientrò precisa nei ranghi, sfilando in silenzio lungo la strada che conduceva a Pisa.

 

Fine primo capitolo.

  
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