Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: fiddle    27/11/2012    0 recensioni
L'Impero di Sunonzenit, un impero fondato sul terrore e sulla bramosia di potere. Ma "Due dal Tramonto, due dall'Alba e uno dall'alto del Cielo" distruggeranno la capitale Zenit e salveranno gli innocenti. Si incontreranno a Destroya.
Ma chi sono questi cinque eroi?
Un vecchio scienziato rimbambito, un ragazzo esaltato e dal grilletto facile, un drago alcolizzato, un fanciulla dai modi un po' grezzi e con una grossa lama fedelmente al fianco, un giovane spadaccino misterioso e silenzioso.
Possiamo credere in loro?
Ma, soprattutto, dov'è Destroya?
Sperando di avervi incuriositi, vi auguro una buona lettura.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
DESTROYA
Capitolo 2: The Kids From Yesterday

 
Adalbert Keinstein camminava svelto sulla via di casa. Ancora due isolati e sarebbe arrivato. Non capiva come mai doveva per forza andare a quegli incontri di società, avrebbe preferito di gran lunga restare a casa propria, nel suo laboratorio, che dalla piccola stanzetta che era il giorno del matrimonio si era espanso fino a lasciare a malapena un angolo per cucinare. Aveva alle mani quel familiare formicolio che se ne andava solo quando entrava in casa e indossava il camice e gli occhiali. Da quando la moglie era morta dieci anni prima, la sua vita era diventata così. Tutti i giorni in casa, tranne rari momenti in cui usciva o per cercare un’ispirazione, o per lasciare che il fumo causato da una non rara esplosione se ne andasse, e il sabato sera al circolo. Era stato uno degli ultimi desideri della moglie: che mantenesse una parvenza di normalità. Keinstein si era sentito leggermente offeso, ma non ci aveva dato troppo peso: sapeva di non essere come le persone comuni. Lui era sempre stato diverso, aveva interessi diversi e certamente i rapporti con altre persone non erano fra quelli. Mentre camminava svelto ripensava a come il barista lo avesse guardato quasi con compassione. Ma forse era tristezza o noia o magari rabbia. Chissà, non aveva molta dimestichezza con le espressioni dei volti umani. Molto meglio i micro-organismi, loro erano prevedibili e comprensibili.
Tutto questo pensava, e non si era accorto delle due figure che aspettavano di fronte al cancello della casa prima della sua. Questi due erano silenziosi, finché Adalbert non li oltrepassò. Allora, la figura più piccola pestò il piede a quella più grande e gli diede un pugno nelle costole, esclamando: “Te l’avevo detto che non era questa la casa giusta!”, con la voce stridula di una bambina.
Adalbert rallentò appena.
“Ahio!” si lamentò la figura più alta, con il tono tenorile di chi ha appena cambiato voce. “Sì, ma tu dicevi che era tre case prima e dall’altra parte! Avresti sbagliato di più tu!”
 “Hai comunque sbagliato”, gli rispose secca la vocetta. “Ehi signore!” strillò.
Keinstein, che aveva quasi raggiunto il cancello di casa propria, rallentò ancora un poco. La bambina – altro non poteva essere, così piccola e dalla voce così infantile – certamente si era rivolta a lui: non c’era anima viva per la strada a quell’ora di notte. Ma ugualmente, non voleva fermarsi. Aveva paura, sì, ma non la paura che chiunque potrebbe immaginare, e cioè di avere incontrato due ladri o qualcosa del genere. Aveva paura di loro semplicemente perché erano persone. Aveva paura perché fermarsi avrebbe significato dover parlare con loro, e non aveva voglia, soprattutto dopo l’agonia del circolo.
“Dottor Adalbert Keinstein, per favore”, lo pregò il ragazzo.
Gli occhi del vecchio si inumidirono. Dottore lo aveva chiamato. Si girò subito. E il suo sguardò si scontrò con un baluginio d’argento: il ragazzo, dai capelli grigi lunghi, raccolti in una coda, alla quale sfuggivano alcuni ciuffi troppo corti, che cadevano sulla sua fronte alta, sotto la quale le sopracciglia formavano una curva che dava al suo viso un’evidente espressione divertita, teneva in mano una pistola.
Keinstein sgranò gli occhi, improvvisamente asciutti. Non se l’era aspettato. Stava per morire, ucciso da un ragazzino, senza aver mai combinato niente nella vita. Tutto era andato a rotoli. Il suo rapporto con i genitori, il suo matrimonio, la sua scienza. Mai vinto un riconoscimento, arrivava sempre quel secondo dopo gli altri che gli faceva perdere il concorso. Sempre evitato dalle persone “normali”, sempre deriso dagli altri “come lui”, non faceva parte né di un mondo né dell’altro. Non faceva parte di nulla e ora che moriva non avrebbe fatto parte di nulla. Chiuse gli occhi e attese delle lacrime, ma non ne aveva. Mai avute.
La piccola parlò. “Keinstein”. Il vecchio aprì gli occhi. “Vuole venire con noi?” sorrise. Adalbert non vide bene quel sorriso, al buio. Non vide la serie di denti affilatissimi e bianchissimi, non vide i luminosi occhi gialli dalle pupille a fessura dilatate per la poca luce. Ciò che vide a malapena era una bambina di circa otto anni, con capelli molto scuri e lisci, tagliati a caschetto. E ciò che pensò di quell’invito fu che prima di morire avrebbe dovuto anche soffrire e questo non era giusto. Aveva già sofferto abbastanza, perché ancora!
“Signor Keinstein…”, disse il giovane senza abbassare la pistola. “Non vogliamo farle del male” Sorrise pure lui.
Il vecchio deglutì, poi disse con voce roca: “E allora abbassa quell’arnese, ragazzino”
Non si stupì della propria audacia: con le persone ci aveva poco a che fare e di malavoglia, ma quando accadeva sapeva tenere un dialogo intenso, dimostrando di saper mantenere con forza la propria posizione, emanando autorevolezza da tutti i pori. Era così che aveva conquistato – a sua completa insaputa – sua moglie. Che poi rimase profondamente delusa nello scoprire chi era l’uomo che aveva sposato.
Il ragazzo sorrise un po’ di più. Gli piacevano le sfide. Tuttavia, dopo un veloce sguardo d’intesa con la piccola compare, sistemò la pistola nella fondina sotto l’ascella sinistra.
“Andiamo”, disse la bambina, e si girò, diretta verso il centro della città, da cui Keinstein era scappato. Il ragazzo lo aspettò qualche secondo, con le mani nelle tasche posteriori dei jeans. Quando Keinstein fece un sospirò rassegnato e cominciò a seguire la ragazzina, anche lui si incamminò.
“Voi sapete il mio, posso conoscere il vostro di nome?”
“Io sono Joyce Kill, e lei”, rispose il ragazzo indicando prima se stesso e poi la bambina. “è Paprika”
“Joyce e Paprika…” mormorò il vecchio, pensando che conoscere il nome dei propri assassini fosse una conquista.
 
Hokin Akatsuki si svegliò all’improvviso, i lunghi capelli neri appiccicati al collo dal sudore. Subito si voltò da una parte e poi dall’altra e si tranquillizzò solo quando vide la zazzera viola di Hane-kun, la quale sonnecchiava tranquilla nel futon accanto al suo.
La stanza era immersa in una luce grigia e, in un certo modo, scura. Hokin si alzò e si stiracchiò. Hane-kun si mosse appena sotto la coperta, Hokin non si accorse che si era svegliata anche lei.
Il ragazzo andò alla finestra e guardò fuori: un giardino curato nei dettagli per sembrare disordinato e selvaggio, con finte rovine di fontane e panchine di marmo semidistrutte ad arte, il tutto illuminato da un cielo plumbeo carico non di promesse, ma di pioggia e di avventura.
Hane-kun gli si avvicinò piano e osservò anche lei il paesaggio. Aprì la finestra ed ispirò a fondo l’aria prima della tempesta. Hokin la conosceva e sapeva quanto adorava quel momento. Era per lei come l’attimo prima dell’avverarsi di un desiderio.
“Guarda”, disse la ragazza dai capelli viola. “L’alba di oggi sembra chiamarti per nome.”
 Hokin sorrise appena e disse: “E’ tempo di partire.”
 
Paprika non vedeva l’ora di arrivare al bar e sedersi al bancone e ordinare una birra per sé e per il vecchio. Joyce naturalmente non poteva bere, ma sarebbe riuscito comunque a eludere le regole, come sempre. L’alcol era l’unica cosa interessante che gli esseri umani erano riusciti a produrre, secondo lei, e non vedeva il motivo di tutte quelle restrizioni: tutti avrebbero dovuto goderne! Ma in verità mentiva a se stessa, conoscendo benissimo l’effetto dell’alcol sui sensi, ma continuava a negare l’evidenza, poiché lei aveva una resistenza maggiore agli altri.
Quando il vecchio la raggiunse, si rese conto di essere ancora una bambina e che, dunque, non avrebbe potuto entrare nel bar conciata in quel modo. Senza rallentare il passo, socchiuse gli occhi giallo ambra e si concentrò. Immediatamente, sentì i muscoli fittizi tendersi ed espandersi sotto quella pelle finta, le ossa insulse allungarsi insieme a tendini inutili, i falsi capelli crescere lunghi e fluenti. Quando sentì il vecchio sussultare di spavento, capì che la trasformazione era riuscita: dall’aspetto di una bambina aveva assunto quello di una giovane donna di circa vent’anni.
Aveva scelto apposta quell’aspetto avvenente, perché sembrava emanare un’influenza particolare su ogni essere umano, di entrambi i sessi. In particolare, i maschi tendevano a farle favori. A contribuire a ciò, i vestiti un po’ troppo stretti, che dovevano andare bene sia a una bambina che a una donna.
Già, perché Paprika non si accontentava: se sembrare una donna le faceva ottenere ogni cosa dagli uomini, sembrare una bambina le faceva ottenere ogni cosa dalle femmine, le quali sembravano provare una sorta di pietà nei confronti di una piccola della loro specie.
Lei, in tutta la sua lunga vita, non aveva mai conosciuto nulla del genere. Le madri stesse abbandonavano i propri figli a se stessi, per poter proseguire la propria vita egoistica. Paprika non l’aveva accettato e si era avvicinata agli umani, ed in particolare alla parte più proibita per la sua razza: l’alcol. In esso vedeva tutto ciò che lei non poteva avere: la trasgressione.
 
Hane Murasaki sedeva sulla terra fredda e umida della prima mattina, nel giardino su cui dava la stanza dove avevano dormito quella notte. Aveva lasciato Hokin-san a sbrigarsela con l’affitta-camere e si era dileguata per starsene un po’ sola a respirare l’aria prima della pioggia. Accanto a lei, chiunque avrebbe visto una spada conficcata nel terreno. Una splendida spada, dalla lama piuttosto larga, l’elsa lunga avvolta in cuoio sbiatito e un tocco di classe alla fine dell’impugnatura: dei fili di cuoio rosa tenue.
Quello che nessuno se non Hane poteva vedere era il vero aspetto della spada, una donna sui trent’anni, avvolta in un chimono floreale, dai capelli stravaganti quanto quelli di Hane: la ragazza aveva capelli corti e arruffati di un intenso viola, con qualche piuma infilata fra i ciuffi, la spada portava capelli lisci e ordinati, lunghi nemmeno fino alle spalle, dello stesso rosa dei fili di cuoio dell’elsa.
La donna sedeva affianco ad Hane, osservando in lontananza un punto inesistente, sognando, forse, di ritornare un giorno a casa, ma non senza aver prima compiuto il suo dovere: difendere Hane, con la quale aveva fatto un patto.
Hane non sapeva cosa passava per la mente della sua fedele spada, ma lo immaginava. Conosceva bene quella nostalgia di casa. “Sta per piovere, eh, Pluvia?”, le disse.
Pluvia le rispose con tono elegante e voce raffinata. “Non pioverà pesantemente, ma a lungo.”
“Già… Fra non molto partiremo.”, affermò la ragazza.
“Sì, ho sentito. Sei contenta di ciò?”, le chiese Pluvia.
“Nah, non molto.”, rispose lei, con quel suo tono sgarbato. “Hokin ha questa fretta perenne di scappare, neanche fossimo fuorilegge! Mi piacerebbe fermarmi in un posto e mettere fuori un cartello, no?, con su scritto ‘casa’. Sarebbe casa mia, capisci? Sarebbe un posto dove stare tranquilli.” Hane sapeva di trovare comprensione in Pluvia e sapeva che qualunque cosa avesse detto non l’avrebbe ferita, perché la spada la amava, proprio come lei voleva bene alla propria spada.
“Vuoi tornare dove sei nata?” chiese gentilmente la donna.
“No, quello no.”, rispose pronta Hane, scuotendo la testa con vigore. “In quel paesino sono nata, ma in quel paesino sono anche morta, quando mi hanno mandata ad imparare la fantomatica ‘arte della guerra’. Dico, almeno mi avessero mandata ad un’accademia militare, qualcosa di normale. E invece no, ad imparare la guerra dei piccioni, mi hanno mandata!”
 “Non insultare gli eleganti fenicotteri del Sud, Hane” la rimproverò Pluvia.
“No, certo, gli sono estremamente grata eccetera. Non ti avrei incontrata se non avessi intrapreso quella strada” sorrise la ragazza
“E non avresti incontrato Akatsuki-san”, aggiunse la spada.
“No… Non l’avrei incontrato” confermò Hane, arrossendo appena e distogliendo lo sguardo.
Pluvia sorrise e, comprensiva, cambiò discorso. “Avrà finito adesso, non pensi anche tu?”
Hane si riscosse. “Hai ragione, Pluvia.” Si alzò in piedi e afferrò l’impugnatura. “Andiamo”
La donna scomparve e, dopo poco, anche la sola figura rimasta, una fanciulla con al fianco una spada troppo grande per le sue esili braccia.
 
Joyce Kill entrò per ultimo e accompagnò la porta chiudendola. Non seguì Paprika e il vecchio che erano già corsi al bancone ad ordinare da bere. L’alcol favoriva la conversazione, o almeno così diceva Paprika. Ma a lui sembrava che rendesse le persone più stupide.
In ogni caso, andò nell’angolo più nascosto del bar, piuttosto affollato per quell’ora della notte, e prese posto. Attese i due tamburellando sul tavolino lurido.
Paprika arrivò con sorriso smagliante sul bel volto e tre boccali di birra rossa fra le braccia, seguita dal vecchio che, con aria sconsolata, sistemava il portafoglio nella tasca interna della giacca.
Dopo che tutti furono seduti ed ebbero bevuto almeno un sorso (che per Paprika voleva dire metà boccale), fu il momento di parlare di affari.
“Dunque”, esordì lei. “Signor Keinstein…”
Il vecchio sussultò e deglutì. Lei sorrise. Joyce conosceva quel sorriso: era quello che non ammetteva regole, che voleva tutto, lo voleva subito e lo otteneva.
“Cosa ne dice di diventare nostro complice in un’azione che resterà per sempre nelle pagine della storia?”



Ciao a tutti :) Ebbene sì, dopo due lunghi anni di quella che potrei chiamare, mentendo, meditazione e che in realtà si tratta di pura e semplice pigrizia, sono tornata a scrivere. Sono tornata a scrivere nel momento meno oppurtuno, nel pieno vortice della quinta superiore, però quando la voglia c'è e chiama...!
Il secondo capitolo, eccovelo qua e eccovi in breve le spiegazioni sui nomi che ho scelto:
Adalbert Keinstein_ beh, non vi fa venire in mente niente? :) Massì, è proprio lui, il mito Albert Einstein il modello (al positivo) di questo vecchio scienziato fallito. In pratica il nome del personaggio "nega" quello del famoso fisico: a privativo + Albert= Adalbert, e da ein Stein (una pietra) a kein Stein (nessuna pietra). Potrebbe esservi venuto in mente anche il famoso dottor Frankenstein, ma non ci avevo pensato in origine :)
Joyce Kill_ invertite nome e cognome: non suona terribilmente familiare a Killjoys? :)
Hokin Akatsuki_ cosa fatta con goggle (sì, goggle) traduttore, per cui non garantisco niente: sarebbe la traduzione giapponese di "alba grigio piombo" (alba è effettivamente akatsuki, questo lo so). Ecco spiegato quello che dice Hane :)
Hane Murasaki_ anche questa fatta con goggle traduttore: "piuma viola" (murasaki è veramente il colore viola, hane non so ^^')
Paprika e Pluvia_ vedrete leggendo i prossimi capitoli :)
Ogni spiegazione ulteriore verrà data più avanti, non posso svelarvi già la storia! :)
Ah, ultimissima cosa: ho cambiato i simboli del discorso diretto: da « e » a “ e ” Fine :) Al prossimo capitolo! Ciaoooo :3
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: fiddle