Nota
Ccccciorno!
Questa volta la nota la metto all’inizio, perché ho la
leggerissima sensazione che se la mettessi alla fine non se la filerebbe
nessuno, questa volta – Wary, pensi
davvero che qualcuno legga i tuoi sfasi, eh? -. Sì, beh, in
realtà il capitolo non l’ho ancora scritto, ma ho già in
mente tutto, a grandi linee – UDITE, UDITE! Primo capitolo con
descrizioni e tutto il resto! - , e temo che potrebbe traumatizzare i cuoricini
più dolci (mio compreso. :cc).
Perciòquindicui. Non posso lamentarmi di quando sia schifoso/breve/mal
scritto/ecc., dato che il capitolo mi accingo a scriverlo ora, ma posso
comunque ringrasssssiarvi. Grazie. Anche se stan calando le recensioni…
capizco e ringrazio comunque per le due che sono arrivate.
♥♥♥
Vi lascio al capitolo e smetto di rompervi, adieu.
Un’unica cosa: quando arriverete al pezzo in cui John tenta di capire
dov’è Sherlock, fermatevi anche voi a pensare. Cercate. Frugate.
Potete trovarlo anche voi.
WJ
«MERDA».
Calma, John, calma. Prenditi cinque
secondi, sdraiati sul divano, beviti dieci tazze di camomilla… ma
calmati. Calmati.
Inutile. Ormai John si artigliava il braccio da più di dieci minuti,
lasciando profondi solchi nella pelle e camminando scalzo sul parquet del suo
discreto appartamento di periferia. E mordersi il labbro a tal punto di far
gocciolare il sangue sul mento non aiutava un granché, dato che aveva
appena appreso del rapimento del suo migliore-e-unico amico.
«Porca p…». Il telefono giaceva ancora sul terreno, distrutto.
Era caduto dalle mani di John appena due minuti prima – i due minuti
più lunghi della sua vita -, per poi finire inesorabilmente sotto i
piedi d’un John in iperventilazione, che si era aggrappato al tavolo nel
complesso tentativo di non svenire. I pezzi ora giacevano ovunque: i vetri
dello schermo rotto, la plastica della copertura. John si rimproverò per
aver preferito un cellulare così nuovo e fragile a uno di quelli
bellissimi e indistruttibili di dieci anni prima. «Andiamo, per la
miseria, DAI!», piagnucolò il dottore, pigiando i tasti alla
rinfusa su un vecchio telefonino trovato nel cassetto, appena rifornito della
schedina tolta da quello rotto. Il display, quasi ansimando per lo sforzo, si
accese miracolosamente.
«Sì cazzo. Sì!», mormorò, e poi compose il
numero.
“Il numero che ha appena chiamato
è inesistente”.
John si lasciò cadere a peso morto sul divano.
«Adesso ti calmi, John. Prendi un bel respiro profondo e ti calmi. Ti ha
chiesto di aiutarti. Sherlock potrebbe essere perfino morto. Vuoi davvero
negargli di aiutarlo solo perché hai paura?
E poi ti chiedi perché sei senza amici. Complimenti, John,
complimenti!».
John tremolava di paura mentre parlava a sé stesso ma, arrivato
all’insultarsi da solo, l’ultima frase lo scosse e lo risvegliò
come una doccia fredda.
Devo. Trovare. Sherlock.
Su, John, su. Ce la puoi fare.
John scese nel cortile del suo palazzo, munito del suo laptop e senza nemmeno
indossare il giaccone, attraversò la strada e sedette su una panchina.
L’unica cosa che riusciva a bruciare nel suo petto era la paura, e per
porre fine ad essa avrebbe fatto qualsiasi cosa. Qualsiasi.
Ansioso, premette il tasto d’accensione del PC, terrorizzato
all’idea di aspettare anche un altro secondo. Lo sguardo vagava disperato
per l’isolato, cercando disperatamente, ansiosamente, inesorabilmente un
qualcosa a cui agganciarsi, un mezzo per bloccare la paura che gli attanagliava
l’intestino.
I suoi occhi si soffermarono su un piccolo ristorante-bar proprio lì,
vicino a casa sua. Ogni tanto scendeva lì a prendere il caffè,
prima di andare all’ambulatorio per lavorare, e si metteva a
chiacchierare con il proprietario. Tizio simpatico, quello. Ricordò un
giorno in particolare: proprio
giorni prima, stranamente, il proprietario non era venuto al suo tavolo a
servirlo. Di solito lo faceva sempre lui, apposta per avere un pretesto per
parlargli, e John era ben lieto di avere qualcuno con cui scambiare due
chiacchiere. Ma quel giorno, quel giorno… John l’aveva osservato
incredulo, intristito mentre sedeva al tavolo con un uomo che non aveva mai
visto – altissimo, con i capelli scuri e ricci, un cappotto nero e lungo
fino alle ginocchia e una strana sciarpa azzurra - e nessuno era venuto a
servirlo, nemmeno gli altri camerieri. John si era sentito malissimo, in quel
momento, intristito dalla forte verità: lui era solo, era solo nel
mondo. Proprio quel giorno se n’era lamentato con Sherlock, quando questo
gli aveva dato quella rispostaccia su Facebook, in merito al non avere amici.
John era crollato. Era davvero solo, solo nel mondo…
Ma proprio quel giorno aveva scoperto di avere un’eccezione.
L’aveva capito quando Sherlock lo aveva chiamato per la prima volta e lo
aveva rassicurato mentre lui piangeva, quella sera.
Era solo al mondo, ma almeno era solo con Sherlock.
Mentre attendeva che lo schermo del computer s’accendesse, rimpianse di
non averlo chiamato un’ultima volta, quella mattina.
Ecco che il computer decrepito tornava alla vita. John si risvegliò,
scuotendo dalla mente l’immagine di quell’uomo etichettato come
“stronzo che ti ruba uno dei pochi amici che hai”, quello che
parlava con il proprietario del bar. A un certo punto si era voltato, aveva
scosso i suoi riccioli scuri e gli aveva addirittura fatto l’occhiolino.
Bastardo.
John scosse le spalle, avviando internet. Fruga,
John, fruga. Cerca. Gliel’aveva detto Sherlock, proprio una trentina
di minuti prima. E John, senza rendersene nemmeno conto, si ritrovò
proprio a scavare in tutto ciò che avevano condiviso assieme: le e-mail,
i DM su Twitter, i messaggi su Facebook e EFP. Rimpianse di non aver salvato in
qualche modo la conversazione avuta su Omegle. E se fosse lì
l’indizio a cui si riferiva Sherlock? Se fosse morto per una sciocchezza
che John s’era dimenticato di salvare?
John tremò, e, improvvisamente, realizzò una cosa.
Sherlock sapeva.
Se aveva lasciato l’indizio da qualche parte, prima di essere rapito, questo significava che lui sapeva che
sarebbe successo qualcosa di lì a poco.
Non ti ha detto niente, John.
E John fu sul punto di piangere. Perché lui, alla fine, non sapeva
niente. Sherlock sapeva tutto di lui, l’aveva capito praticamente tutto
da solo… ma lui, di Sherlock, non sapeva
proprio nulla.
E nulla continuava a sapere. Per quanto si sforzasse, nei messaggi di Sherlock
non ci trovò nulla. Intere facciate di discussioni amichevoli gli
passavano davanti agli occhi, i messaggi di Sherlock erano tantissimi, ma
dentro per i suoi occhi c’era così poco…
“Sapevo che mi
avresti trovato, John”.
No, Sherlock, io non ti ho trovato. Non ti trovo, non ti trovo…
“L’indizio era semplice, dai! Non credevo che
avresti avuto bisogno del mio aiuto”.
E invece
sì che ne ho bisogno. Quella volta mi avevi messo negli autori preferiti
per aiutarmi, ma ora non mi stai aiutando affatto, e io ho paura…
“Sai, sto iniziando a ricredermi su
di te. Anche tu sei dolcissimo quando non rispondi alle mie domande,
soldato.”
Scusami, Sherlock. Scusami, ma non riesco a rispondere alle tue richieste di
soccorso. Tu mi hai salvato, ma io non riesco a salvare te.
“È così poco
comprensibile desiderare di vedere il viso di qualcuno, senza schermi di vetro
a dividerci?
È così disumano?”.
Vorrei poterti dire quanto ora ti capisco, Sherlock.
E quella chiamata, quella chiamata…
“Prometti che non mi lascerai mai
solo?”
“Lo prometto, John. Lo prometto”.
«Non hai rispettato la promessa», disse John ad alta voce,
ritrovandosi incredulo con le lacrime che gli bagnavano le guance. Tutti i
passanti lo osservavano, una donna al lato della strada sembrava indecisa se
avvicinarsi a porgergli aiuto o no. L’occhiata frustrata di John
sembrò farle cambiare idea, e questa corse via, senza soffermarsi a
fissarlo più del dovuto.
John gemette. Il cellulare sostituto era scarico, e John era impossibilitato a
rileggere qualsiasi altro messaggio.
«Perché tutto è contro di me, PERCHÈ?».
John era distrutto. Si prese la testa fra le mani e fece scorrere le pagine di
conversazione su Facebook cercando disperatamente qualcosa... Ma non leggeva,
non fece nulla di nulla. Invece cliccò sul nome di Sherlock,
soffermandosi a soffiare quelle lettere perfette mentre il suo profilo si
apriva, e cliccò sulla sua immagine.
Era la sua unica immagine, l’unico pezzo di lui a cui aggrapparsi. E
quell’immagine era minuscola, sfuocata, riusciva a distinguere solo i
riccioli neri e il collo lungo coperto dal bavero alzato di un cappotto scuro…
E, improvvisamente, John capì.
Riccioli neri. Un cappotto scuro.
Era lui.
L’uomo che parlava con il proprietario del bar. L’uomo così
interessante da far sì che questo si distraesse ad ascoltare le sue
parole. L’uomo che gli aveva fatto l’occhiolino dall’altro
lato della stanza.
Sherlock.
John si sentiva svenire. Sherlock l’aveva visto. L’aveva guardato.
Sapeva chi era, e lui era stato così tanto stupido da non
riconoscerlo… Se solo l’avesse fatto, Sherlock probabilmente
sarebbe stato salvo. O sarebbero morti tutti e due sotto le mani di quel
Moriarty… poco importava. Sarebbero stati insieme.
Ma Sherlock, Sherlock… Sherlock era lì. E lui l’aveva visto.
E non c’era cosa più forte, più motivante del fatto che
Sherlock fosse a pochi metri di distanza da lui, motivo per il quale
c’erano grandi probabilità che in effetti lui non abitasse molto
lontano da lì.
Tremò. Sherlock, Sherlock.
E, improvvisamente, per un tocco distratto e involontario della sua mano
sul mouse, la scheda si chiuse lasciando vedere quella aperta sotto di
sé. Era la scheda dei DM di Twitter, forse. John si ritrovò ad
osservare il suo nome, “Iperuranio”, notandolo veramente per la prima volta e
sorridendo lievemente a quella scelta.
E, al fianco di esso, balenò qualcosa.
Era l’immagine di Sherlock. Non quella di Facebook, quella sgranata, no.
Quell’immagine era quella strana, quella che aveva anche su EFP e che
l’aveva appunto aiutato a trovarlo sul social network. Non l’aveva mai capita: erano dei
simboli strani, criptici, sembravano fatti con Paint.
La girò un po’, invertì i colori, la capovolse
verticalmente e orizzontalmente, ma l’immagine continuava a non avere un
senso. Una volta, dopo diversi tentativi, gli era parso di leggere un numero.
Sembrava un “2218”, ma lo aveva scartato subito. Probabilmente non
era altro che la camera del manicomio che lo avrebbe ospitato da lì a
poco, se fosse andato avanti così.
Forse se gli fosse balenata in testa l’idea di chiedergli qualcosa di lui
sarebbe riuscito a decifrare quell’immagine. Ma, a quanto pare,
l’unica cosa di cui era conoscenza era il suo passato da panettiere a
Londra.
Panettiere. Ecco. Forse poteva
partire da lì. Girare tutti i panettieri di Londra e chiedergli delle
informazioni su Sherlock…
“Scusate, conoscete Sherlock
Holmes? Sì? Ottimo! Una domanda: se vi balenasse in testa l’idea
di rapire Sherlock, dove lo portereste?”.
Geniale, John, geniale.
Si lasciò andare e cadde in posizione fetale sulla panchina. Il laptop
era piombato sul prato, ma non
sembrava aver subito grossi danni. Forse era spento. Forse era andato in
stand-by. Forse si era rotto. In quel momento non avrebbe potuto importargliene
di più.
Lo sguardo vagò per la strada, vitreo, fino a fissarsi sul cartello che
indicava il nome della strada. John faticava a trattenere le lacrime.
“Northumberland st.”
St.
Street.
Strada.
Non era “dal panettiere”, era in “Baker Street”.
Non era un “2218”, era un “221B”
Baker Street, 221B.
Sto arrivando, Sherlock.
Quando Sherlock Holmes si svegliò faceva freddo.
«Buongiorno».
Spalancò gli occhi. Era legato, ovviamente, con le gambe assicurate a
quelle della sedia e le braccia strette dietro la schiena.
«Mi hai fatto cacciare nei guai, caro mio».
Sherlock sputò sul terreno. «Divertente, Moriarty. Io sono quello
legato alla sedia e adesso tu pensi d’essere quello messo peggio».
«Sei tu stesso la causa dei tuoi problemi, Sherlock. E ora anche di quelli di John… che
peccato!».
Sherlock rabbrividì. John. Come
diavolo aveva potuto fare una cosa del genere? Come aveva potuto cacciare John
in un simile casino?
«Sono un coglione».
«Abbastanza. Ma, se hai bisogno di alzare un po’ la tua autostima,
sappi che ti avevo drogato».
«Tu…».
«Avevo bisogno di informazioni, Sherlock, e credo di non sbagliare quando
dico che probabilmente non avresti bevuto con me un po’ di
liquore». Rise.
Jim aveva un taglio profondo sulla fronte: Sherlock gongolò
d’orgoglio, accertandosene, e prese appunti mentalmente di appendere una
foto di Moriarty in camera per lanciargli addosso i coltelli, se mai fosse
uscito di lì. Fargli del male era estremamente gratificante, per essere
una nemesi appena acquisita.
«Sebastian è sulle sue
tracce. Prima di sera sarà morto, se ti diverte pensarci. Lo
porterò qui davanti a te, prima di ucciderlo. Sarà più
carino, no?».
Sherlock ribollì di rabbia. Moriarty scoppiò a ridere.
… E crollò sul pavimento mentre un proiettile gli attraversava la
schiena.
Sherlock quasi urlò di gioia: John era davanti a lui, con il braccio
teso che ancora stringeva la pistola.
E poi, proprio prima che il corpo di John si riversasse su quello di Jim,
Sherlock notò la ferita profonda che gli squarciava il petto.
Nota 2
Non è vero, sono ancora qua. lol
Non uccideeeetemi. *fugge a
prendere l’armatura*
Andrà tutto bene, ragazzi.
Cioè, credo.
Il capitolo prossimo sarà l’ultimo, ma forse allungherò la
cosa e ne farò uno o due in più.
Ma questo capitolo è lunghissimo! Sono stata brava? :c C’ho messo
l’anima, vi giuro, spero che sia venuta fuori una cosa decente.
Sherl e Jawn usano un sacco di parolacce, I know, serviva per enfatizzare la
cosa.
E so che ci sono taaanti punti di domanda lasciati
lì anche in questo capitolo… ma nei
prossimi si spiegherà tutto, giuro.
Voi c’eravate arrivati a trovare Sherlock? Vabbé, Jim lo tiene
rinchiuso nel suo stesso appartamento, non era difficile, ma per John era mooolto complesso.
Vi abbandono e torno nel mio angolino polveroso.
Grazie grazie grazie,
WJ