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Autore: Natalja_Aljona    14/12/2012    2 recensioni
Novosibirsk, 2013.
Aljona Sergeevna Dostoevskaja e Lev Fëdorovič Puškin, l’aspirante pattinatrice e l’ex terrorista.
Lei quindici anni di sogni, lui ventidue anni di illusioni.
Lei scandalosamente bionda, coraggiosa e incosciente come poche.
Lui troppo impulsivo e troppo innamorato.
Lei frequenta il penultimo anno del Ginnasio, lui ha passato sei anni in carcere per un attentato a Putin.
Perché lui davvero non ci riusciva, a non idealizzare quel Paese, quella Siberia feroce e opprimente, il cuore bianco e grigio della sua Russia sanguinaria e corrotta, a non cullare l'illusione di una Patria gloriosa sotto le macerie della violenza fine a se stessa e le sue stesse cicatrici di ragazzino che credeva ciecamente nel suo mondo immaginario, nei suoi miti bellissimi e impossibili, perché non c'era davvero quella gloria, non c'era davvero quella Patria.
Non c'era davvero quella luce, c'erano solo loro.
Lev con la pelle mangiata dalla prigione e il cuore rubato da Aljona e Aljona fatta di ghiaccio, musica, libri e capelli.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Due

Due

Sarà che giorno dopo giorno avrò sognato troppo a lungo

 

Ho sognato una strada
Che si ferma su un ponte
E che di là da un muro alto
Corre l'orizzonte
Mi ci vorrebbe una scala
Mi ci vorrebbe una luce
Mi ci vorrebbe il coraggio
Di dare una voce

(Ho sognato una strada, Ivano Fossati)

 

Anastasija, prima di essere arrestata, vendeva castagne.

Aveva una bancarella proprio davanti al Ginnasio Emel'jan Pugačëv, e vendeva cartocci al volo agli studenti di fretta per evitare la bufera di neve.

Era buffa, Anastasija, con quei lunghissimi capelli biondi che per il vento le andavano dappertutto e cercava sempre di tenere a posto con mille forcine che si teneva perfino strette tra i denti, nei momenti di più acuta disperazione.

Lei non cercava di evitare la bufera di neve.

La aspettava, semmai, seppur sapesse bene che quella furia di vento e neve le avrebbe spettinato i capelli ancora di più.

Fëdor a volte smetteva di scrivere le memorie di suo padre e si affacciava alla finestra con una sigaretta tra le labbra e gli occhi in cerca di lei.

Gli strappava sempre un sorriso, la sua Anastasija, con quegli occhi azzurri vivaci e luminosi da ragazzina innamorata, limpidi di sogni e promesse, i cartocci di castagne stretti al petto, i lunghi capelli d'oro al vento e le forcine tra i denti.

Poi, durante quella manifestazione aveva perso la testa.

Non l'avrebbero ascoltata, il governo russo non sarebbe mai cambiato, volevano zittirla a prescindere, quei bastardi, e per la grande rabbia che le era bruciata nel cuore in quel momento aveva preso la pistola di Fëdor e aveva sparato al poliziotto che dirigeva la repressione dei manifestanti.

Fëdor aveva sgranato gli occhi, Fëdor non ci credeva.

-Nasten'ka...- aveva mormorato, flebile, con una voce strozzata che per Anastasija era stata una fitta al cuore, la prima presa di coscienza del terribile errore che aveva fatto.

Fëdor non l'aveva superata facilmente, la condanna a trent'anni di carcere di sua moglie.

Si era ritrovato a sedici anni con la fede al dito e un bambino di pochi mesi, e sebbene ne fosse sempre andato assolutamente fiero, quel giorno gli era crollato addosso anche il cielo.

Era stato arrestato anche lui, ma la prigione non era bastata.

I suoi erano autentici deliri, crisi di pianto e scoppi di violenza inaudita.

Aveva pestato a sangue e tentato di strangolare il suo compagno di cella, e la notte gridava il nome di Anastasija tra le lacrime e batteva la testa contro il muro fino a perdere i sensi.

Aveva avuto i primi attacchi epilettici, violentissimi.

Problemi mentali Fëdor ne aveva avuti sempre, fin dall'infanzia, ma mai così gravi.

Gli avevano mandato tanti di quegli psichiatri, e alla fine la soluzione era stata una sola.

Sebbene fosse così giovane, il Manicomio Criminale.

Ma Lev non erano riusciti a strapparlo ai Rostov, i servizi sociali.

I genitori di Anastasija e Aleksandr Puškin, il padre di Fëdor, che all'epoca aveva quarantanove anni, l'avevano impedito.

Adesso aveva trentasette anni e stava molto meglio.

Ad Anastasija mancavano solo nove anni -e non erano pochi, affatto, ma ne erano già passati ventuno-, e Lev, quel figlio che aveva intrapreso la loro stessa strada con fin troppo ardore, stava per essere scarcerato.

A patto che si trovasse un lavoro, un lavoro onesto, e che non smettesse di vedere lo psichiatra del carcere, Dmitrij Nikolaevič Zakharov, un tale che Lev avrebbe volentieri messo sotto col motorino di sua madre, ma così sarebbe tornato al punto di prima.

Lev, per carità, era convinto che gli psichiatri fossero delle bravissime persone, ma quelli che aveva incontrato lui erano tutti delle singolari eccezioni.

Ma, d'altra parte, cos'avrebbe dovuto aspettarsi?

Quelli veramente bravi e competenti non li mandavano mica a visitare i delinquenti, non li mandavano mica in carcere da quelli come lui.

Uno psichiatra che cercasse di ragionare con lui e non solo di farlo ragionare, Lev non l'aveva ancora conosciuto.

Così aveva pensato di far ragionare Zakharov investendolo con la moto di Anastasija.

Discutibile per discutibile, era l'unica soluzione alternativa efficace che gli era venuta in mente.
Lui non era esattamente pazzo.

Non quanto suo padre.

Lui non era malato.

Chiedeva solo la giustizia proletaria che Putin, come a loro tempo i Romanov, aveva sempre negato.

 

Nikolaj Igorevič Gončarov era ucraino, di Kiev, e aveva quasi ventitré anni.

Per pagarsi la retta dell'Accademia Militare alle quattro di ogni mattina lavava i vetri della Banca.

Quando i suoi genitori avevano dovuto decidere se usare i miseri risparmi di suo padre, che aveva aperto una modesta galleria d'arte con i suoi dipinti a San Pietroburgo, per lui o per gli studi di filosofia di Sof'ja, la sua sorellina, non aveva avuto dubbi.

L'Accademia Militare se la sarebbe pagato da solo, in qualche modo.

E anche se il modo che aveva trovato faceva proprio schifo, perché lavare i vetri della Banca tutti i giorni alle quattro di mattina faceva schifo, se ne fregava.

Sof'ja doveva studiare filosofia all'Università.

Nella sua famiglia non l'aveva mai fatta nessuno, l'Università, ma Sonjetshka ce la poteva fare, se lo sentiva.

E sentiva anche che sarebbe stato un bel giorno, quel 4 Settembre 2012.

Il suo amico Lev sarebbe stato scarcerato, finalmente, e lui sarebbe andato ad aspettarlo fuori dal carcere con Sof'ja.

Era stato a trovarlo in cella solo pochi giorni prima, ma vederlo libero era un'altra cosa.

Era passato così tanto tempo da quando facevano il Ginnasio insieme... 

Il Ginnasio Emel'jan Pugačëv, il Ginnasio di Nostal'hiya.

Lev aveva undici anni e lui tredici -era appena arrivato dall'Ucraina-, ma erano diventati amici lo stesso, perché Lev era sempre stato guardato male dai suoi compagni di classe.

Quella solidarietà che si creava di solito tra i figli di proletari, ragazzi della stessa estrazione sociale e disastrosa situazione economica, tra di loro non c'era mai stata, perché Lev era pur sempre il figlio di un'assassina e di un malato mentale, e con uno del genere avevano ben poco in comune.

Lui non veniva da una famiglia semplicemente povera, ma da una famiglia di delinquenti, ed era meglio averci a che fare il meno possibile.

E dire che Lev era un bravissimo studente, che s'impegnava sempre e non faceva mai disperare i professori.

Ma fumava da quando aveva undici anni e aveva i genitori che aveva, pertanto nessuno osava definirlo davvero “bravo”.

Era schivo e riservato e stava quasi sempre sulle sue, non tanto per timidezza quanto per una muta e orgogliosa resistenza ai pregiudizi dei suoi compagni.

Aveva un viso così bello che talvolta qualche ragazzina se ne innamorava, ma guai a dirlo ad alta voce, guai a guardarlo apertamente.

Lev Fëdorovič Puškin era il figlio dell'assassina e del malato mentale e aveva il futuro già scritto, un futuro troppo pericoloso.

E a quindici anni Lev se l'era bruciato davvero, il futuro.

Nikolaj era figlio di un pittore squattrinato e di una casalinga, aveva un angelo di sorella tredicenne e altri due fratelli minori di undici e dodici anni, Sokrat e Ksenofont, che se lui ch'era il primogenito non si fosse dato da fare avrebbero avuto un futuro molto poco all'altezza dei loro illustri nomi, quindi non si sentiva assolutamente in diritto di giudicare Lev, che, seppur figlio unico, aveva una vita molto più dura della sua.

E poi gli era stato simpatico da subito, quel ragazzino biondo quasi quanto lui che nell'intervallo mangiava castagne e leggeva Dostoevskij appollaiato sul termosifone fuori dalla sua classe e quando parlava incantava, qualsiasi cosa dicesse.

Aveva una personalità straordinaria, Lev, e l'amicizia di Kolja se l'era proprio meritata.

Nikolaj, infatti, era povero, indubbiamente uno dei ragazzi più poveri di Nostal'hiya, ma era anche estremamente orgoglioso, e non era affatto gentile e angelico con tutti.

Solo con chi se lo meritava.

-Scusate!- gridò dalla sua impalcatura a un passante particolarmente mattiniero, smettendo per un attimo di lavare la finestra più alta della Banca.

Quello alzò lo sguardo, confuso.

-Prego?-

-Quanti gradi ci sono oggi?-

-Quasi quattordici-

Kolja si guardò le dita mezze congelate e sorrise, annuendo.

-Lo immaginavo. Grazie, e buona giornata!-

-A te...-

Lev sarebbe stato contento.

Lui adorava il freddo della sua Siberia, esattamente come sua madre.

E anche a Kolja, d'altronde, non dispiaceva.

Dita congelate a parte.

Ma a quelle, a lungo andare, si faceva l'abitudine.

Alla galera no, mai.

Lev ormai era a un passo dalla libertà.

Kolja non si svegliava sempre di buonumore, ma quel mattino sì, più del solito.

Prima di riprendere a lavorare, dedicò uno sguardo dall'alto alla sua città d'adozione.

Era bella, Novosibirsk, con i tetti e i marciapiedi innevati, le macchine con i finestrini e gli specchietti ghiacciati e il cielo azzurrissimo.

Era bella, Novosibirsk, con i suoi tredici gradi e mezzo a fine estate.

Con i vetri della Banca da lavare e i passanti mattinieri che ti guardano come se fossi un matto o un deficiente, o forse entrambe le cose, perché urli dalla tua impalcatura di lavavetri dal quarto piano quanti gradi ci sono, e quando te lo dicono sorridi e ringrazi con aria sognante.

Era bella, Novosibirsk, era bella e basta.

Anche se era tanto diversa dalla sua Kiev, anche se ne doveva ancora lavare, di vetri, per avere un futuro decente e prima di poter magari tornare in Ucraina.

Erano le quattro e venti del mattino del 4 Settembre 2012, c'erano tredici gradi e mezzo, ormai quasi quattordici, e Nikolaj Igorevič Gončarov era più allegro di quanto avrebbe potuto permettersi.

Del resto, era davvero una bella giornata.

Era quasi autunno e Lev era quasi libero.

Quel pomeriggio avrebbero preso insieme cioccolata calda e пончики (pončiki, frittelle) al bar del Ginnasio, poi avrebbe riaccompagnato Sonja a casa e sarebbe andato con Lev davanti all’Accademia Militare, come tutte le sere.

Un giorno sarebbe entrato anche lui.

Un giorno come quello.


Se i grandi ottusi della Terra
Ci trascinano a fondo
Sarà che giorno dopo giorno
Avrò sognato troppo a lungo
Ah, se passasse questo buio
Come si ammaina una bandiera
Come si ammaina l'orgoglio
Alla stessa maniera

(Ho sognato una strada, Ivano Fossati)

 

 

 

Note

 

Sarà che giorno dopo giorno avrò sognato troppo a lungo: Ho sognato una strada, Ivano Fossati.

 

Ed ecco il secondo capitolo, un po’ sul passato di Anastasija e Fëdor e un po’ su Nikolaj, il migliore amico di Lev.

Per quanto riguarda i nomi nuovi di questo capitolo, ci sono Natal’ja e Aleksandr, i genitori di Fëdor e i nonni paterni di Lev: su Aleksandr Puškin non credo ci siano dubbi, Puškin si chiamava proprio Aleksandr, e sua moglie Natal’ja, la bellissima Natal’ja Nikolaevna Gončarova, causa del duello in cui Puškin (lo scrittore) è stato ucciso.

Queste coincidenze tenetele presente, perché saranno abbastanza importanti per capire la morte del mio Aleksandr Puškin, il nonno di Lev.

Per quanto riguarda Nikolaj di citazione c’è solo il cognome: Ivan Aleksandrovič Gončarov, l’autore di Oblomov, e Nikolaj Gončarov il padre di Natal’ja, la moglie di Puškin, appunto.

Però il mio Kolja non c’entra niente con nessuno dei due ;)

Nikolaj è il mio nome maschile russo preferito, così come Natal’ja è quello femminile, anche se in questo momento c’entra poco o niente ;)

Parlando invece di Sof’ja, la sorella di Kolja, a volte la chiamo Sonja o Sonjetshka perché sono i vezzeggiativi russi del nome Sof’ja.

Lo specifico perché con Kolja o Nasten’ka si capisce, ma Sonja sembra proprio un altro nome, mentre invece in Russia si usa così.

Passando ai personaggi nuovi, Kolja un po’ ve l’ho presentato, e spero davvero che vi abbia fatto una buona impressione, perché a me lui piace tanto...

Non è sempre il bravo ragazzo che sembra, però ha un gran cuore.

Sof’ja, invece, la conosceremo meglio nel prossimo.

Per quanto riguarda il Sistema Scolastico Russo, in Russia i ragazzi che vogliono studiare frequentano il Ginnasio, che va dai 6 ai 17 anni e comprende la Scuola Primaria (dai 6 ai 10 anni), la Scuola Secondaria Inferiore (dai 10 ai 15, scuola dell’obbligo) e per chi intende continuare per poi andare all’Università la Scuola Secondaria Superiore (dai 15 ai 17 anni).

Altrimenti si può frequentare la Scuola Tecnica o Professionale (dai 15 ai 20 anni).

Lev e Nikolaj hanno fatto solo la scuola dell’obbligo, fino a quindici anni.

Poi Lev è stato arrestato e Kolja ha iniziato a lavorare.

Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto! ;)

 

A presto,

Marty

 

 

  
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